Title: Storia della città di Roma nel medio evo, vol. 3/8
dal secolo V al XVI
Author: Ferdinand Gregorovius
Translator: Renato Manzato
Release date: November 21, 2025 [eBook #77283]
Language: Italian
Original publication: Venezia: Antonelli, 1872
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This transcription was produced from images generously made available by Bayerische Staatsbibliothek / Bavarian State Library.)
STORIA
DELLA
CITTÀ DI ROMA
NEL MEDIO EVO
DAL SECOLO V AL XVI
DI
FERDINANDO GREGOROVIUS.
PRIMA TRADUZIONE ITALIANA SULLA SECONDA EDIZIONE TEDESCA
DELL’AVV. RENATO MANZATO.
VOLUME III.
VENEZIA,
GIUSEPPE ANTONELLI
1873.
PROPRIETÀ LETTERARIA.
STORIA
DELLA CITTÀ DI ROMA
NEL MEDIO EVO.
[1]
[3]
Carlo conseguiva da Roma il titolo giuridico del suo Impero, ma, veramente, la materia che si gettava nella forma antica, era metallo di lega germanica, ed il nome di germanico-romano, quale si attribuisce al novello Stato, non esprime che l’associazione di quei contrapposti elementi su cui riposa lo svolgimento della vita nuova di Europa. L’una delle due nazioni continuava la storia della gente umana, raccogliendone il retaggio in una successione non interrotta mai, e tramandava ai posteri i beneficî della vecchia cultura insieme colle idee del Cristianesimo; l’altra nazione faceva suoi, e ringiovaniva e fecondava quei beneficî e quelle idee. Roma aveva trascinato fra le sue braccia il mondo germanico; la Chiesa romana aveva vinto la barbarie, aveva ridotto i popoli ad un ordinamento sociale, e finalmente gli [4] aveva associati in un comune sistema ecclesiastico e politico, che teneva suo seggio nella eterna Città. Ei pareva che adesso incombesse a Bisanzio il mandato di esercitare un’influenza pari sul mondo slavo; quella missione peraltro non ebbe compimento, sia perchè nell’Impero bizantino non alitasse un principio sociale di creazione simile a quello che era operoso nella Chiesa romana, sia perchè le stirpi slave non fossero capaci di accogliere idee elevate nell’ordine dello Stato e della civiltà, e di sollevarsi all’altezza di eredi del mondo greco. Il disegno di costituire un Impero slavo-greco continua oggidì tuttavia ad agitarsi nella Russia, ma non lo ispira il concetto di raggiungere una meta nazionale che compia uno svolgimento imperfetto, sì piuttosto deriva dalla consapevolezza della incuria per cui la sua storia fallì allo scopo che le era imposto, ed alla quale omai non puossi più porre riparo.
Mentre dunque Bisanzio fu messa, per così dire, al bando dalla nuova storia, Roma riappiccò invece una seconda volta splendide relazioni col mondo. Dopochè la Roma dei Cesari ebbe distrutto la autonomia politica delle nazioni, le migrazioni dei popoli fecero sorgere novelle congregazioni di Stati, e la Chiesa proclamò il dogma della eguaglianza morale dei popoli, ossia bandì il loro giure civile universale e cristiano. L’idea che la gente umana fosse raccolta ad unità indivisibile, il concetto della Republica cristiana, apparvero adesso pensiero che informava un mondo novello. Innanzi all’altare d’Iddio universale, Romani, Germani, Greci e Slavi, tutti stavano da pari, e non v’era popolo tapino cui non fosse mallevato il completo possedimento [5] dei beni più sublimi della Religione. Era Roma che mostrava in sè accolto questo grande principio il quale trasformava a nuovo il mondo; l’antica città capitale dell’Impero, che or si era restaurato, centro apostolico della Chiesa, sè appellava madre delle nazioni cristiane, e, Civitas Dei, rappresentava nell’ordine morale l’Orbis Terrarum. Si abbozzava la forma prima e imperfetta di una Republica unita per via di una idea morale, ossia di un’associazione di popoli, ma questo «sacro Impero» aveva ancora ad assumere figura, e tutto il medio evo fu, e, perfino, l’età nostra è soltanto una lotta continuata che si combatte per tradurre in vita il sublime concetto cristiano della libertà e dell’amore che abbraccino il mondo.
Anche nella cerchia più ristretta della sua storia la città di Roma consegue adesso nuova e maggiore rilevanza. Una legge storica aveva operato sì, che andasse salva da tutti gli assalimenti dei Barbari e che da ultimo si liberasse dalla signoria dei Longobardi e dei Greci; ed in vero Roma fu suolo santo, non a causa delle sue catacombe, ma del suo concetto cosmopolitico. Dopochè dunque Pipino e Carlo ebbero posto fine all’ultima lotta che i Germani avevano combattuto per Roma, eglino cinsero di un vallo la liberata città, e signore ne fecero il Pontefice. Il Re dei Franchi, imperatore novello, prometteva, come sire supremo, di difendere questo Stato ecclesiastico consecrato a san Pietro, e di proteggerlo dai nemici di dentro e di fuori, avvegnaddio nessun principe o popolo, esclusi gli altri, potesse possedere Roma, bene comune della gente umana; la metropoli della Cristianità, pari alla Roma antica, rappresentava [6] nel concetto più eccelso un principio universale; essa pertanto doveva aver libertà; a tutti i popoli parimenti doveva esserne sgombro l’accesso, ed il sommo Sacerdote che in essa sedeva non dovea essere suddito a nessun Re, fuori che al capo supremo dell’Impero e della Chiesa, ossia all’Imperatore. Questo concetto della neutralità di Roma, qual si conveniva al centro ecclesiastico del mondo, fino a cui non dovevano rovesciarsi i flutti del genere umano agitati senza posa dagli uragani politici e sociali, questo concetto fu che serbò al Pontefice fino ai dì nostri il piccolo Stato della Chiesa, laddove la grande monarchia di Carlo e cento reami crollarono ad esso tutt’all’intorno, e si ridussero in polve. Chi può negare che grande fosse e mirabile l’idea di una città santa del mondo, di un tempio della pace eterna nel mezzo della umanità battagliera, di un asilo universale dell’amore, della cultura, del diritto e della riconciliazione? Se l’istituto del Papato, fondato sulla ragione di libertà e di amore, non avesse conosciuto desiderî di dominio e ambizioni mondane, nè avesse intorpidito il mondo coi suoi dogmatismi, ma fosse proceduto di conserva collo svolgimento della vita civile che si andava allargando, colle tendenze sociali del mondo, coll’opera industre d’invenzioni e colla cultura, ei vi sarebbe stato a mala pena una forma cosmica più sublime, in cui il genere umano avesse avuto durevole intendimento del principio della sua unità e della sua armonia. Per lo contrario, dopo che fu trascorsa la sua prima e splendida età, il Papato ebbe ad essere veramente il principio inceppante e repulsivo nel dramma della storia: la massima idea che riposava nella Chiesa [7] non ottenne adempimento, ma questo solo che un’idea siffatta visse un tempo nel Pontificato, basta a renderlo il più venerabile di tutti gli istituti che si foggiarono nella storia, e il fatto solo che la città di Roma fu nido classico di quella idea universale, è bastevole ad assicurarle per sempre l’affetto fervente degli uomini.
Roma, capo gerarchico della Chiesa nell’Occidente, diventò altresì di bel nuovo origine legittima dell’Impero. In essa si custodivano le grandi tradizioni dello Stato romano, dell’organamento politico del mondo, laonde Carlo sè appellava imperatore dei Romani, perocchè non esistesse alcun altro Impero pari a questo, la cui derivazione e il cui concetto fossero associati con Roma: perciò era che eziandio i Principi di Bisanzio continuavano a chiamarsi imperatori romani. In verità, Roma nell’ordine politico non era altro che una morta mina, ma il suo possedimento nelle mani di Carlo corrispondeva al possesso del solo diploma giuridico, che fosse autentico e per antichità venerando. Nondimeno, il diritto per cui la Città pretendeva ad essere pur sempre radice dell’Impero, null’altro sarebbe stato che una ricordanza antiquata, se la Chiesa non le avesse restituita l’idea della universalità. Gli era in grazia di questo concetto, che Roma dominava le antiche province dei Cesari ancor prima che Carlo conseguisse la corona, per la quale anche nell’ordine politico egli riuniva di nuovo quelle province in un Impero. Era stato essenzialmente il giure romano che allo Stato romano antico aveva dato l’unità; il codice delle leggi ecclesiastiche di Roma ve la costituiva nel novello Impero romano. I Pontefici con loro titoli ecclesiastici avevano restaurato i diritti [8] politici che Roma aveva perduto, ma tosto dopo si affaticavano a cancellare quelle sembianze di sovranità che i Romani avevano esercitato al tempo della elezione di Carlo all’Impero, perocchè proclamassero essere l’Imperatore germanico un feudatario della Chiesa, l’Impero essere una emanazione del volere di Dio, il quale otteneva compimento colla consecrazione che gli Imperatori ricevevano dalla mano del Papa. Se dunque i Romani di quell’età si facevano a considerare qual fosse l’indole della dominazione che la loro Città esercitava sulle più remote contrade per via del sistema della Chiesa, della diffusione universale dei canoni romani, della lingua latina introdotta dappertutto nelle scuole, nelle chiese, nei sinodi e nelle trattazioni dei negozî temporali, per via finalmente delle reliquie della sapienza classica e dell’arte, i Romani d’allora dovevano pur confessare a sè stessi che, sebbene fosse di forma diversa, quella dominazione era poco meno potente della signoria che Roma aveva posseduto al tempo di Trajano.
Tuttavolta, Roma non altro era che il centro morale dell’Impero; la storia per buona ventura non consentì alla Città di ridivenire altresì suo centro politico. Se ciò fosse accaduto, l’Impero e il Papato si sarebbero associati in una podestà immensurata; e un despotismo gerarchico, più terribile e più violento di quello dell’antica dominazione dei Cesari, avrebbe divorato Europa. Carlo non si curò di costituire Roma a capitale dell’Impero suo, e quella incuria fu uno dei fatti più gravi di conseguenze nella storia. Poichè di tal guisa fu tolto che si rinnovasse ciò che l’antico Impero romano era stato, ne fu reso per ciò solo possibile [9] che si compiessero lo svolgimento e l’autonomia delle nazioni germaniche ed eziandio della Chiesa. La favoleggiata donazione di Costantino, che pure abdicò Roma a favore del Papa, per verità previde gli effetti che avrebbero dovuto conseguirne al Papato, se il capo dell’Impero avesse riposto sua sede in Roma. Il più tremendo pericolo minacciava l’ambizioso Episcopato romano al momento della rinnovazione dell’Impero, ma per sua buona sorte ne fu rimosso il danno. I contrasti del Germanesimo e del Romanismo separarono per sempre la podestà imperiale da quella del Pontefice, e le due autorità, la temporale e la religiosa, s’incepparono e si limitarono a vicenda. Dacchè il novello Imperatore discendeva dalla potenza del popolo conquistatore germanico, dacchè il Papa era creazione di Roma e dei Latini, ne veniva che quei due elementi nazionali dovessero altresì svolgere entro a sè ognor più largamente le forme e la possanza di quelle due autorità del mondo; l’elemento nordico doveva elaborare e compiere le istituzioni politiche, l’elemento meridionale gli istituti ecclesiastici; Germania provvedeva allo Impero, Roma alla Chiesa. Il mondo occidentale, quest’era il pensiero di Carlo, doveva pertanto posare sovra due centri, intorno ai quali si librasse il grande sistema dell’Impero cristiano: la città pontificia e la città imperiale, Roma e Aquisgrana, nel tempo stesso in cui egli, Imperatore, solo capo della Republica cristiana, stava da reggitore della Chiesa universale[1].
Peraltro, i contrasti che di dentro si combattevano, [10] e le tendenze dell’individualità germanica, che al principio romano, ossequente all’autorità e al sistema, contrapponevano il sentimento di libertà e l’independenza dell’indole propria, sconnessero abbastanza presto l’organamento creato da Carlo, e lo stesso Papato decadde ben tosto da quel fastigio cui lo aveva innalzato il monarca potente e pio. I Germani si opposero al principio romano ed alla latinità che lor volevasi far accogliere; perfino dentro della città di Roma si accese la più acre battaglia fra le aspirazioni cittadine e i privilegî ecclesiastici; e la storia di due secoli meravigliosi (chè tanta ne abbraccia questo volume terzo) ci mostrerà le più gagliarde contrarietà combattersi nella vita di Roma, fino a che quel periodo di tempo si chiude colla età in cui i Sassoni rialzano il Pontificato dalla più desolata ruina, e restaurano il sistema crollato di Carlo, mercè un’imitazione in cui tuttavia le idee teocratiche ognor più s’eclissano innanzi al concetto imperatorio di Roma antica.
Carlo soggiornò a Roma tutto l’inverno che susseguì alla sua incoronazione. Non tenne dimora nell’antico Palatium, che lasciò in balìa del decadimento; pose piuttosto sue case in uno degli episcopî che erano accosto al san Pietro. Fu quello la residenza di tutti [11] i Carolingi ogni qual volta vennero a Roma, ed ivi ebbe stanza anche il Missus imperiale. La lontananza da Germania, e l’intendimento giudizioso di non costituire in Roma il centro dell’Impero, distolsero Carlo dall’edificazione di un novello palazzo imperiale: se egli si avesse costruito case di residenza in Roma, i Cronisti non avrebbero mancato di parlarne e di darne la descrizione, sì com’ebbero fatto dei palazzi di Aquisgrana e di Ingelheim[2].
Durante il verno, Carlo diè assetto alle cose d’Italia e della Città, che egli compose a pace in quello che le sottomise alla maestà del suo Impero[3]. I Romani gli avevano prestato giuramento di fedeltà e gli tributavano reverenza come a loro signor supremo; gli aristocratici del clero e della milizia, che egli aveva costretto ad obbedire al Pontefice come a loro principe territoriale, erano pur tenuti in conto di vassalli imperiali (homines imperiales), perocchè eglino fossero soggetti al banno giuridico supremo dell’Imperatore. [12] Tuttavolta, la podestà imperiale si teneva in Roma soltanto come una norma di principio. In un’età di ordinamenti semplici e rozzi, ma remota ancora dal sistema di monarchia assoluta, dinanzi alla duplice indole ben singolare di un organamento politico-ecclesiastico, la rinnovata autorità imperatoria non si stabiliva con gravezze d’imposte, nè con obligo di milizia, ma, se si eccettuino poche regalie, aveva fondamento soltanto nell’amministrazione del diritto, concetto sublime della vita civile. Il Papa, da signore territoriale, eleggeva i suoi Judices nelle varie giurisdizioni del reggimento, ma l’Imperatore esercitava la suprema podestà giuridica anche in Roma. In nome di lui ne tenea rappresentanza il suo Missus o legato, che ivi sedeva costantemente e dimorava in vicinanza del san Pietro a spese della Camera pontificia: colà, oppure nella sala del Laterano detta «della Lupa», raccoglieva le tornate del suo tribunale (placita). Quanto tempo il suo ufficio durasse, non possiamo determinare. Era in Roma pari ad un conte palatino dell’Impero senza che ei si fregiasse di questo titolo, e teneva la autorità di giudice che aveva spettato al Patrizio. Difendeva il Papa e la Chiesa dalle insidie della nobiltà, ma in pari tempo custodiva nella Città i diritti dell’Impero. In nome dell’Imperatore presiedeva ai giudizî, apprendeva la metà della moneta che derivava da pene pecuniarie e la devolveva al fisco, sopravvegliava ai Giudici pontificî della Città e del Ducato, accoglieva le appellazioni che movevansi contro loro sentenze, e ne riferiva all’Imperatore. In parecchi casi, allorquando si sporgeva appello direttamente all’Imperatore, questi spediva a Roma un [13] suo Missus straordinario; e i rei di maestà che appartenevano al ceto più ragguardevole, gli ottimati romani od i Vescovi erano giudicati da un siffatto legato; di consueto eranlo dal Duca di Spoleto, e, come si scorge da casi parecchi, i condannati mandavansi in esilio al di là delle Alpi, sì come nei tempi anteriori, quando durava il reggimento bizantino, quella pena si espiava in qualche terra di Grecia. Il legato permanente dell’Imperatore era altresì suo plenipotenziario nella elezione e nell’ordinazione del Papa, alle quali doveva assistere; laonde, fino a tanto che si mantenne fermo l’Imperio dei Carolingi, egli vegliava continuamente a difesa dei diritti essenziali dell’Imperatore, della podestà giuridica suprema, e della prerogativa di dar conferma all’elezione pontificia[4].
Se si spiega con chiarezza la condizione di signoria suprema del novello Imperatore, restano invece in alcuna parte all’oscuro le relazioni in cui il Papa, nella sua signoria territoriale, trovavasi di contro alla Città. Nulla sappiamo di quel che riguarda la costituzione cittadina a quella epoca, nulla delle franchigie di libertà onde, probabilmente per ragione di patto, fosse fornita l’aristocrazia, nè dei suoi diritti a partecipazione nel reggimento di indole temporale; ignoriamo come fosse composto l’ordinamento giudiziario che a [14] preferenza era posto in mano degli ottimati, perocchè di questo tempo i prelati non si fossero ancora impadroniti di tutti i negozî civili. Alla restaurazione dell’Impero doveva pur susseguire, come conseguenza, anche un riordinamento delle faccende interne della Città, e doveva ben comprendere in sè eziandio una novella partizione dei circondarî della milizia e delle regioni. Ma il silenzio dei Cronisti e dei documenti seppellisce tutte queste condizioni di cose in tenebra fittissima.
Il grande intelletto di Carlo lo premunì da vaghezza di imprendere conquiste verso il mezzogiorno. La potenza formidabile delle sue armi avrebbe potuto schiacciare Benevento ed allargare i confini dell’Impero occidentale fino al mare Jonio; e se lo avesse agitato quel genio avventuroso di imprese in Oriente, che più tardi gli attribuirono i romanzi, le armate dei Bizantini lo avrebbero a mala pena tenuto lontano di Grecia. Ma la missione di lui era rivolta all’Occidente e ai paesi nordici, dove gli era necessario di trovare il centro di gravità del suo Stato: pertanto al figliuolo Pipino, come a luogotenente suo, cedeva il reame d’Italia, gli affidava la cura della guerra di Benevento, e, trascorsa la Pasqua, addì 25 dell’Aprile 801, partiva di Roma per tornarsene in patria. A Spoleto, nell’ultima notte del mese di Aprile, era messo a spavento da un terremoto. La scossa era avvertita fino nelle terre bagnate dal Reno; Italia ne deplorava la caduta di alcune città, e può darsi che in Roma ne crollasse più di un monumento. Ma i Cronisti di quel tempo non degnano pur di rivolgere uno sguardo ai monumenti [15] dell’antichità, laddove quasi tutti, Tedeschi e Italiani, registrano come avvenimento rilevante la caduta del tetto del san Paolo che era in vicinanza di Roma[5].
L’Imperatore andava a Ravenna, indi a Pavia, città capitale del reame d’Italia, e di qui promulgava alcuni Capitolari, che egli aggiungeva al codice delle leggi longobardiche. In essi ei s’intitola: «Carlo, per grazia di Dio, signore dell’Impero dei Romani, serenissimo Augusto,» ed appone ai suoi editti la data del consolato[6]. Nel corso dell’inverno la corte bizantina aveva avuto contezza dell’usurpazione dei suoi dritti legittimi, e ne traeva motivo di terrore e di odio contro i Franchi e contro i Romani. Quei dritti suoi vedeva essa distrutti dall’ardimento di un Re barbarico, che si arrogava nome di imperatore dei Romani sebbene spettasse soltanto ai Cesari greci, eredi di Costantino. Ma temuta era la potenza dei Franchi, grande la debolezza di Bisanzio, e sul trono vacillante sedeva pur sempre una femmina. Irene, circondata di uomini ribelli che si dimenavano per istrappare a sè la corona, non poteva osare di cimentarsi a lotta contro di Carlo; ella anzi brigava con civetterie per acquistarsene l’amicizia, [16] dacchè trovavasi quasi nelle identiche condizioni che un tempo avevano costretto Amalasunta, regina dei Goti, a cercar ajuto presso il nemico del reame suo. Era impossibile cosa che si compiesse lo strano progetto di un matrimonio fra Carlo e Irene, per cui si sarebbero riuniti sotto la dinastia dei Franchi gli Imperi d’Oriente e d’Occidente; e Carlo stesso non si toglieva grande affanno che gli fosse dato riconoscimento dei suoi titoli di Augustus e di Basileus, ma più gli premeva di definire con un trattato le vicendevoli pretese, e di determinare i confini dei possedimenti rispettivi in Italia. Egli accoglieva i legati di Irene, e suoi ambasciadori mandava a Bisanzio, ma questi ultimi giungevano a quella corte soltanto per essere spettatori della caduta della Imperatrice. Niceforo, un miserabile ipocrita che tempo addietro era stato tesoriere di palazzo, nel dì 31 dell’Ottobre 802 si impadroniva della porpora in un rivolgimento che avveniva senza spargimento di sangue, ed esiliava Irene nell’isola di Lesbo ad attendere al fuso e alla conocchia. Peraltro il nuovo despota non era meno di lei desideroso di amicizia cogli odiati Franchi; di buon grado prestava ascolto all’ambasceria, e, quand’essa ripartiva, le dava compagni suoi ministri che spediva a Carlo: dopochè questi ebbero conchiuso un trattato, se ne tornarono a Costantinopoli, passando per Roma. Anche papa Leone bramava di vedere aggiustati quei rapporti, affine di rimuovere da Roma il pericolo di una guerra; e poichè egli aveva spedito suoi legati a Bisanzio, è possibile cosa che egli non soltanto si facesse interpositore di pace, ma altresì che cercasse di giustificarsi [17] della avvenuta incoronazione di Carlo. Ad ogni modo nulla sappiamo dei negoziati che corsero fra Roma e Bisanzio; furono i più difficili e scabrosi che si possano mai imaginare, e lo Storico deplora che una oscurità sempre più densa ricopra questa età sì meravigliosa di Roma.
Nell’anno 804 Leone III imprendeva un nuovo viaggio per andarne a Carlo: può ben darsi che ve lo inducessero dei motivi più urgenti di quello che fosse una spugna stillante di sangue, che si faceva vedere a Mantova. Invero il Papa aveva sofferto ostilità parecchie da parte del Re d’Italia nei possedimenti della Chiesa, era stato offeso dai comportamenti di padronanza onde i legati imperiali avevano usato verso i Duci pontificî nella Pentapoli, e gravi cure destava in lui l’atteggiamento dei Romani[7]. Allorchè, in sulla metà del mese di Novembre, l’Imperatore aveva novella che il Papa moveva a lui, spediva a San Maurizio il figliuol suo Carlo perchè gli facesse accompagnatura; egli stesso poi andava a Reims ad incontrarlo.
A Carisiaco celebravano le feste natalizie, indi Carlo adduceva l’ospite suo ad Aquisgrana. Di qui lo lasciava partire con ricchi donativi, e comandava ad alcuni degli ottimati suoi che gli fossero comitiva fino [18] a Ravenna, per la via di Baviera. Nel mese di Gennajo Leone era reduce a Roma. Non pare che tornasse pago di tutti i suoi desiderî, avvegnachè le contese sui confini dei possedimenti pontificî e le discordanze sui limiti dell’autorità suprema dell’Imperatore e della podestà territoriale del Papa dessero occasione a continui dissapori, chè il giovane Pipino fornito di grande energia mirava di mal animo le intemperate pretensioni di san Pietro. Queste erano infatti, che mettevano impedimento ai suoi disegni rivolti a costituire un poderoso reame d’Italia, così che egli omai doveva deplorare in silenzio la donazione dell’avo suo, se anche lo sguardo di lui non poteva peranco discernere i germi fatali dell’eterna divisione d’Italia, che in quella donazione si stavano accolti.
Nell’anno 806 Pipino riceveva nuova confermazione del suo reame d’Italia. Carlo, il quale omai volgeva a vecchiezza, seguiva la consuetudine dei Franchi provvedendo alla partizione del suo retaggio; ei comprendeva che era impossibile di conservare l’immenso Impero sotto di un solo reggimento, prevedeva le contese che sarebbero sorte fra’ suoi eredi, e deliberava perciò di distribuire la monarchia in parti fra’ suoi tre figliuoli: tributava poi onoranza al Papa, perocchè mandasse a Roma Eginardo col documento che statuiva quelle divisioni, affinchè il Pontefice vi si sottoscrivesse e vi desse sanzione coll’autorità della Chiesa[8]. [19] In conseguenza di questo atto, Pipino annunciò che sarebbe ito a Roma per far visita al Papa, ma non v’andò. Invece di lui venne a Roma un altro Re. Ardulfo di Northumberland nell’anno 808 era stato cacciato del suo trono e della sua terra per opera di un partito potente; fuggitivo egli andava a Nimwegen alla corte di Carlo e lo supplicava che lo restituisse nel suo regno, indi col beneplacito dell’Imperatore moveva in gran fretta a Roma per raccomandarsi all’ajuto del Papa, e Leone gli dava a compagno il sassone Adolfo, suo diacono e nunzio, acciocchè lo scortasse in patria, dove il discacciato fu indi nuovamente riposto in signoria per opera di due legati imperiali[9]. Fino a questo tempo Roma aveva veduto dei Re, massimamente dell’isola britannica, venuti per coprirsi del saio di monaci, ma Ardulfo era il primo Principe che capitasse in Laterano in figura di supplicante per ottenere la restituzione di una corona regale rapita. Questo fatto ammaestrava quanto fosse grande la reverenza che nell’Occidente cominciava a tributarsi alla podestà imperiale ed a quella pontificia. Da Pipino in poi, furono i Re che per motivi di profitto mondano si fecero a sollevare l’idea dell’Episcopato romano ben altamente e ad additarlo alla fede dei popoli e dei Principi, nè pertanto può destar meraviglia se i Vescovi di Roma, abbandonando il concetto delle intromissioni religiose, presto si attribuirono autorità divina di poter dare corone e di poterle togliere.
[20]
La casa di Carlo, le cui sorti ebbero strettissima associazione colla storia della città di Roma, fu poco meno sventurata della famiglia di Augusto. Il fondatore di una dinastia imperiale vide cadersi dinanzi ad uno ad uno i suoi figli prediletti. Pipino toccava appena i trentadue anni di età, quando morte il rapiva a Milano nel giorno 8 del Luglio 810. Aveva egli coltivato il disegno di ridurre ad unità il bel reame d’Italia colla conquista delle Venezie e di Benevento, ma non poteva ridurlo a compimento, e dal suo letto di morte mirava con grave angustia alla tenera giovinezza dell’unico figliuolo ch’ei lasciava, nato di connubio illegittimo. Carlo designò il giovinetto Bernardo a re d’Italia, ma la formale elevazione di lui al trono avvenne soltanto nell’anno 813, sebbene di già l’anno prima ei fosse mandato a Pavia coll’accompagnatura di Wala, nipote di Carlo Martello, e di Adelardo abate di Corveia, fratello di lui: avvegnaddio questi due uomini insigni dovessero stare ai fianchi del giovinetto, da consigliatori suoi[10]. Nel frattempo, l’Imperatore aveva nuova [21] e profonda ragione di amarezze, chè gli moriva anche il figlio Carlo. Ridotto in solitudine desolata e impensierito di sua prossima fine, egli deliberava di farsi socio nell’Impero dei Romani l’unico erede della sua monarchia, Lodovico di Aquitania; e in Aquisgrana, nel Settembre dell’anno 813, coll’adesione dei maggiorenti del suo Stato, gli conferiva la dignità imperatoria. Dei Cronisti franchi altri narra che Carlo stesso porgesse in mano al figliuolo la corona, altri che egli gliene cingesse il capo, altri infine che gli ordinasse di torla di sue man proprie dall’altare sopra cui era, e di porsela in testa[11]. Il parlamento era composto degli ottimati della nobiltà e del clero dei Franchi, che erano accorsi da tutte le parti dell’Impero. Pertanto, anche Lodovico fu fatto imperatore con un atto di elezione universale, ma le forme furono diverse da quelle della elezione romana che erano state adempiute pel padre suo. La elezione di questo era avvenuta in Roma, e quantunque il «Senato de’ Franchi» avesse avuto parte al voto, tuttavolta l’opera massima ne aveva appartenuto ai Romani ed al Papa, per mano del quale s’era compiuta la incoronazione; ed anzi l’esaltamento di Carlo ad Imperator Romanorum apparve essenzialmente essere opera della volontà dei Romani e della consecrazione data dal Pontefice: in tal conto più tardi fu tenuto decisamente[12]. Per lo contrario, la elezione [22] cesarea di Aquisgrana procedette dalla adesione del parlamento della monarchia ch’era stata omai fondata; e non il Papa, nè Vescovo alcuno che ne tenesse le veci, ungeva dell’olio santo l’eletto e lo coronava, ma colle proprie mani il figliuolo s’imponeva in capo il diadema paterno. In nessuna scrittura si fa cenno che fra i congregati all’elezione intervenissero Romani; e se per il fatto sarannovi stati presenti dei legati del Papa, e duci e vescovi delle terre romane, eglino, parimenti come i conti e i prelati del reame d’Italia, andarono confusi cogli altri nella assemblea universale dell’Impero: Carlo considerava Roma, radice dell’Imperium, da città compresa nello Stato di lui, alla paro di quello che accadeva per le città di Pavia, di Milano o di Aquileja. Pertanto, il possente Imperatore opponeva manifestamente un argine alle pretensioni eccessive di Roma; e quella splendida ora che si segnava nella adunanza di Aquisgrana, era addirittura un avvertimento che ei dava a’ suoi succeditori. Se i fiacchi eredi di Carlo avessero saputo comprenderne l’insegnamento, la storia del Pontificato e quella dell’Impero, di leggieri avrebbero potuto mutarsi da quelle che furono; ma noi vedremo invece che l’atto elettivo di Aquisgrana si perdette senza conseguenze di sorta in mezzo al torrente delle credenze [23] dommatiche che in quella età si accoglievano. La stessa assemblea dell’Impero dava altresì a Bernardo, figliuolo di Pipino, la confermazione del suo regno d’Italia.
Di lì a pochi mesi, addì 28 di Gennaio dell’anno 814, Carlo moriva in Aquisgrana, a settantun anno di età: spegnevasi quella vita di eroe e di savio. La storia della Città registra nei suoi annali la morte del fondatore del nuovo Impero, ma poichè essa deve tenersi chiusa soltanto dentro la cerchia sua propria, le è forza trarre innanzi con rapido cammino, sebbene sia a contraggenio che la mente si diparte dall’affisare uno fra gli uomini maggiori che torreggino nella storia. Se si paragonino fra essi i tre periodi della vita di Roma, che, quai pinnacoli sublimi di un edifizio, rimarranno sempre segnalati alla vista, se cioè si raffronti il periodo di Cesare e di Augusto in cui si fondò la monarchia universale romana, con quello di Costantino in cui il Cristianesimo incominciò a tenere dominio, e finalmente coll’età di Carlo, nella quale dalla ruina di Roma si elevò il sistema della civiltà germanico-romana, egli è certo che l’epoca di Carlo non è in veruna guisa da meno delle altre due, per altissima rilevanza nella storia dell’Occidente. Questa età nulla distrusse, perocchè il periodo delle ruine la avesse già preceduta; bensì fu feconda di novelle edificazioni, fornita essendo massimamente di grandi forze creatrici. Essa impose termine alla grande migrazione dei popoli, rappacificò i Germani con Roma, e raccolse nelle sue braccia la immensurata sostanza del mondo per infonderle genio e per ispirarle forme di civiltà: impedì che la immiserita gente umana perdesse il patrimonio dell’antichità, tesoro sepolto di [24] sapienza e di splendida cultura; fu anzi essa per la prima che, gagliarda e spoglia di pregiudizî, incominciò ad evocarlo ad esistenza nuova e ad accoglierlo come nerbo di forza necessaria e immortale nello svolgimento della vita morale. Il tempo di Carlo fe’ risorgere la grande tradizione dell’Orbis terrarum, ossia della unità del mondo, che anticamente nell’ordine politico aveva creato con grave lavorìo l’Impero romano dei Cesari, sorto contemporaneo al Cristianesimo; l’età di Carlo trasformò l’Impero antico nella monarchia occidentale, che aver doveva la sua più intima compagine nel principio della religione cristiana. Carlo, Mosè del medio evo, guidò la gente umana con avventurato cammino attraverso i deserti della barbarie, e le impartì un codice novello di costituzioni politiche, ecclesiastiche e civili: nello Stato teocratico di lui, il medio evo manifestò il tentativo primo di fondare nella storia un patto di alleanza nuova. L’occhio dell’Imperatore moribondo scorse l’albeggiare delle venture età, e nell’orizzonte di remoti giorni discerse forme di civiltà infinite sollevarsi in mezzo a quella triplice congregazione di popoli ch’era composta dei Germani, dei Romani e degli Slavi. Di rimpetto alla grandezza di Carlo si oscurano le glorie di Alessandro, di Cesare e di Trajano, e il suo genio edificatore, provvido a raccogliere svariati elementi ad unità ed a seminare germi fecondi, sarà sempre un fenomeno unico nella storia, perocchè egli non sia stato condannato ad espiare la fortuna della sua opera creatrice con quella corona di martirio, che, retaggio fatale, fu di consueto serbata agli uomini grandi.
Carlo legò una parte dei suoi tesori alle ventuna [25] Chiese metropolitane del suo Impero: di esse, cinque ve n’aveva in Italia, ed erano quelle di Roma, di Ravenna, di Milano, di Aquileja e di Grado. Fra le cose preziose del suo palazzo erano due mense d’argento, una di forma quadrangolare, adorna di un rilievo che rappresentava Costantinopoli, l’altra di forma rotonda e coperta dell’effigie di Roma; la prima l’Imperatore donava al san Pietro, la seconda alla Chiesa di Ravenna. Quei due monumenti dell’arte dei primi tempi di mezzo andarono perduti. La Biografia di Leone III non memora la mensa spedita in dono a Roma, sebbene nel Libro Pontificale spesse volte si faccia menzione di una grande croce d’oro che era pure un presente votivo di Carlo; ma il Cronista di Ravenna vide la mensa decorata dell’imagine di Roma, chè, adempiendo a ciò che statuiva il testamento di Carlo, l’imperatore Lodovico la mandava all’arcivescovo Martino, e quell’egregia opera d’arte vi giungeva nel tempo in cui Agnello era ancor fanciullo[13].
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Roma ricevette altresì un ricchissimo legato di vasellami sontuosi, per guisa che Carlo, il quale aveva largito alla Chiesa tanta ricchezza di privilegî e di possedimenti e sì grande copia d’oro e d’argento, le fu liberale di doni anche in morte, più liberale massimamente di tutti i Principi che lo precedettero e che vennero dopo di lui: così si conveniva a chi fu vero fondatore dello Stato della Chiesa e della potenza pontificia, la cui sconfinata estensione dei tempi posteriori egli peraltro non aveva mai presagito. Ed invero, quantunque Carlo fosse il figliuolo più fervido e pio della Chiesa, e la giudicasse istituto massimo e divino della umana gente, e vincolo essenziale che annodava il reame suo all’elemento più vitale della civiltà, pure egli non si rassegnò in guisa alcuna a servirla con balìa cieca. Onorò la immunità che egli ebbe fondato a favore del Vescovo ossia Metropolita di Roma, ma non dimenticò mai di essere egli il sovrano di tutta la monarchia; ei tenne sè, ed i suoi popoli tennero lui in conto di reggitore supremo eziandio di tutti i negozî ecclesiastici; fondò vescovati e conventi, promulgò editti in materia di giure ecclesiastico, ordinò le scuole popolari, sancì le costituzioni della Chiesa colla sua confermazione sovrana, e nel tempo stesso le accolse nel suo codice, attribuendovi forza di leggi, e l’Episcopato e i Sinodi mantenne sotto la sua influenza dominatrice.
La Chiesa con animo grato tributò a Carlo l’aureola della santità, che egli non aveva mai vagheggiato[14]. [27] Le lotte di Roma contro agli Hohenstaufen per il possedimento dei beni della contessa Matilde, di cui questi ultimi movevano pretesa, ebbero richiamato alla ricordanza degli uomini che Carlo era stato il fondatore pio dello Stato ecclesiastico; in lui le Crociate fecero rammemorare l’eroe della Cristianità. Parimenti come Ottaviano e come Cesare, anch’egli diventò subbietto di leggenda; e nell’anno 1122 un Papa della Francia meridionale, Calisto II, proclamò essere genuina e veritiera la celebre Storia di Turpino che celebrava le geste di Carlo e di Rolando, e che forse fu opera di quel Pontefice. Anche in Roma la persona di Carlo incominciò prestamente a ornarsi di favoloso; ce ne fa testimonianza il frate che, sullo scorcio del secolo decimo, dal monastero di Monte Soratte scriveva la sua barbarica Cronica: di già egli narrava della spedizione di Carlo al santo sepolcro; e poichè è difficile cosa che quel monaco inventasse siffatta fola ed è probabile che a quell’ora omai se ne fosse diffusa la tradizione, ne avviene che la sua origine devasi riferire ad un qualche mezzo secolo prima[15]. Tuttavolta, il Carlo della leggenda non ottenne in Roma rinomanza e favor di nazione, perocchè non si convenisse col Carlo della storia. Sebbene imperatore romano, ei vi rimase uomo straniero al paro di Teodorico il grande, e la sua persona non si compose [28] una nicchia in mezzo ai Romani, dacchè la sua fama non si raccomandò a luogo o a monumento alcuno nella Città; ed è cosa notevole che i Mirabilia di Roma non ispendano pure una parola che ricordi Carlo magno.
La novella della morte di Carlo si sparse come scroscio di tuono per la Città che egli aveva amato con amore tanto devoto, e dov’egli era venerato e temuto. Il Papa vide spalancarsi un abisso sotto i suoi piedi, avvegnachè, non sì tosto i Romani seppero morto il gran Principe, smessa ogni temenza, sbrigliassero la foga del loro odio contro la podestà del loro Vescovo. Se si raccogliesse un computo di tutte le rivoluzioni onde fu agitato lo Stato della Chiesa dal giorno della sua fondazione in poi, nel corso dei più che mille anni di sua esistenza, il loro numero ci turberebbe la mente; la metà sola di quei moti avrebbe bastato ad infrangere e a sperdere le tracce dei maggiori reami: invece lo Stato della Chiesa durò fino ai tempi nostri, quantunque la ribellione contro il potere temporale del Vescovo, il cui regno non doveva essere di questo mondo, abbia principiato nell’ora stessa in cui quel potere ebbe incominciamento; duplice dimostrazione che in questa miscela del sacerdozio e del principato si accoglieva [29] una contraddizione intollerabile, e che in pari tempo l’essere dello Stato ecclesiastico conteneva in sè un principio che era riuscito ad altezza tale da infrenare le sollevazioni. Gli aderenti di Campulo e di Pasquale (questi Romani erano scomparsi in un esilio che durava omai da quattordici anni) si collegavano in cospirazione contro il Papa, ma i loro disegni erano discoperti. Fieramente e senza indugi Leone punì i «rei di maestà» dandoli in mano al carnefice, e di tal guisa il Padre Santo fu costretto più e più sempre a immergere le mani nel sangue de’ suoi Romani, da principe feroce e pauroso. La novella di quei supplizî costernò perfino l’animo del pio succeditore di Carlo. L’imperatore Lodovico trovò biasimevole cosa che il Vescovo di Roma avesse proceduto con tanta precipitazione e con rigore sì grave, e soprattutto gli parve che la sentenza pronunciata dal Papa sopra dei maggiorenti romani, senza intervento dei legati imperiali, ledesse i diritti di sè Imperatore[16]. Gli era pur debito suo di proteggere i Romani in tatti i loro diritti, ogni qual volta questi da qualsiasi parte ricevessero offesa, laonde egli mandava a Roma il Re d’Italia affinchè istituisse un’inquisizione [30] sui fatti avvenuti. Venuto a Roma, Bernardo ammalava, ma il conte Geroldo annunciava all’Imperatore ciò che veduto aveva. Or si affrettava anche il Papa di produrre sue giustificazioni al signore supremo di Roma, e i suoi legati s’adoperavano a purgarlo di tutte quelle querele che, forse, Bernardo stesso, e, senza dubbio, i Romani avevano sporto al trono di Lodovico. Grande era in Roma il fermento degli animi inaspriti, e in quello stesso anno 815 gli inimici di Leone si sollevavano, mentre egli, affranto il corpo e l’animo dagli avvenimenti, era infermato gravemente. I ribelli si raccoglievano nella Campagna, incendiavano le tenute pontificie, così le antiche come le nuove, che Leone aveva fondato[17]. I torbidi accadevano massimamente nelle terre fuori di Roma; gli ottimati romani armavano i coloni e i servi dei loro possedimenti, movevano a rivolta le città del territorio, e minacciavano di entrare in Roma per costringere il Papa a restituire le proprietà che egli aveva confiscato a danno di loro o dei loro amici decapitati, e devolute alla Camera apostolica. Questa sollevazione faceva prova della crescente potenza della nobiltà romana, che più tardi diventar doveva formidabile tanto. Bernardo provvedeva a sedare la ribellione e mandava Vinigi duca di Spoleto a Roma, [31] dove questi entrava con soldatesche. Il Papa, oppresso di profondo cordoglio, moriva nel giorno 11 di Giugno dell’anno 816.
Leone III aveva tenuto da più che vent’anni la cattedra di san Pietro in un’età feconda di grandissimi avvenimenti; sacerdote della gente umana, fu egli che ne consecrò un’era nuova. Odiato dai Romani poichè s’era impadronito del dominio temporale della Città, maltrattato a morte, costretto a fuggire, riposto novellamente in potenza, atterrito da ripetuti tumulti di popolo, ei tuttavia non soggiacque innanzi ai suoi avversarî. Fu uomo temprato a gagliarda energia, astuto calcolatore, capace di mire arditissime; il breve istante in cui egli coronò in san Pietro il novello Imperatore bastò a fare di lui lo strumento della storia universale del mondo, e gli assicurò nominanza incancellabile[18].
Leone III ornò la città di Roma con copia siffatta di edificazioni, che quasi superò ciò che Adriano aveva fatto. Roma ecclesiastica rinnovellò sè stessa durante l’età dei Carolingi, che fu il suo secondo periodo monumentale, se per primo si consideri l’età di Costantino. Dacchè i Pontefici di quel tempo attesero con [32] tanta alacrità a edificare, eglino devono per certo essere annoverati fra i più fervidi distruggitori di Roma antica. L’architettura si manteneva continuamente operosa; però, quantunque seguisse le tradizioni della Chiesa, i cui massimi edificî di già appartenevano al secolo quarto, al quinto ed al sesto, essa non poteva giungere ad eguagliare la grandezza di quelli, ma doveva imitarli in dimensioni minori. Continuava a far suo pro di colonne e di ornati tolti a vecchi monumenti romani; il nuovo componeva soltanto coi materiali dell’antico. Quindi avvenne che l’illustre periodo di Roma sotto i Carolingi operò molte e splendide restaurazioni di chiese, ma non lasciò di sè alcun monumento nuovo e grandioso. Poichè aveva sott’occhio gli antichi esemplari di basiliche, l’architettura di Roma si teneva ancora ad una certa altezza, ma il numero senza fine di chiese e di conventi rendeva impossibile cosa che si costruisse in grande, ond’è che nell’arte edificatoria di Roma all’età dei Carolingi, si discopre una tal quale pochezza minuta. La decorazione delle cornici che si disponevano ad ammattonato sotto i tetti, la fattura delle torri che erano nella maggior parte di esigue proporzioni con finestre (camerae) arcuate e divise a colonne, l’ornato dei prospetti delle torri a dischi rotondi con marmi di vario colore, le spesse gallerie con loro brevi colonnati e con cornici di musaico, tratto tratto fregiate di medaglioni pure a musaico, tutto questo dimostra che s’era rimpicciolito il concetto delle dimensioni[19].
[33]
Allorchè Leone III restaurò la basilica di santo Apollinare in Ravenna, egli spedì colà degli architetti romani; può essere ch’ei lo facesse per un senso di orgoglio nazionale o per iscopo di dare lavoro ai suoi concittadini, di guisa che da questo fatto non è consentito di concludere esattamente che i maestri d’arte romani avessero conseguito una speciale rinomanza, siccome l’avevano ottenuta ancor tempo innanzi gli artefici comaschi[20]. Tuttavolta, la continua operosità doveva allevare all’arte gli ingegni, in Roma più che in qualunque altra città d’Italia. Il Biografo di Leone III enumera con cura scrupolosa tutte le edificazioni di chiese onde Roma andò debitrice a questo Papa. Sappiamo già del triclinio che fu suo massimo monumento nel Laterano; il Pontefice ampliò poi ed abbellì anche il palazzo pontificio e vi costruì un oratorio in onore dell’Arcangelo. Nel san Pietro rinnovò la celebre cappella battesimale di papa Damaso, e le conservò o le diede forma rotonda[21]. Edificò a nuovo ed ornò di [34] musaici l’oratorio della Croce che era stato costruzione di Simmaco, aggiunse splendidezza di ornati alla Confessione, vi fece allogare statue d’oro e d’argento di Apostoli e di Cherubini erigendole sopra colonne d’argento, e ne lastricò il pavimento con una copia di lamine d’oro ancor maggiore di quella che prima v’era. Merita notarsi che dai due lati della tomba dell’Apostolo, così nel san Pietro che nel san Paolo, si rizzarono due scudi d’argento, sui quali s’inscrisse il simbolo apostolico in latino ed in greco, laonde si pare che a quel tempo non destava peranco repugnanza la professione greca di fede. Leone fece edificazioni altresì negli Episcopî che erano vicini al san Pietro, e vi costruì un triclinio di egregia fattura, il cui pavimento fu tutto mattonato di marmi a varî colori[22]. Restaurò la torre del san Pietro; eresse pei pellegrini uno splendido bagno di forma rotonda in vicinanza dell’obelisco, che, tutt’a un tratto dopo lungo silenzio, riappare col nome di Columna major, ossia di grande colonna[23]. Torna adesso a galla un altro nome antico, dacchè vien detto precisamente [35] che Leone fondò un ospitale nel luogo che era appellato «Naumachia». Quell’ospizio stava nel suolo Vaticano ed era consecrato a santo Peregrino, prete romano il quale nel secolo secondo ebbe sofferto martirio nelle Gallie: il nome di lui dava ragione di farne il patrono dei pellegrini (Peregrini), che principalmente venivano in grandissimo numero dalla terra delle antiche Gallie. La piccola chiesa odierna di san Pellegrino, che è presso porta Angelica, offre ricordanza della fondazione di Leone nel luogo stesso dove questa sorgeva, e poichè quel sito era detto «Naumachia», se ne trae la conseguenza che ivi un tempo esistesse la Naumachia di Domiziano[24].
In vicinanza al san Pietro Leone rinnovava il convento dedicato a Stefano protomartire, e restaurava altresì il vicino monastero consecrato a san Martino. Una delle più antiche chiese titolari di Roma, quella dei santi Nereo ed Achilleo (Fasciola) nella via Appia, era stata ridotta in ruina per causa di inondazioni; adesso Leone la rialzava sopra un terreno che era posto a maggior livello d’altezza. Salve alcune modificazioni, [36] quella chiesa tuttora si conserva nella sua forma antica di piccola basilica a tre navate; ha dimensioni che talentano l’occhio; però dei suoi musaici non restano che pochi frammenti[25]. Nel catalogo delle edificazioni di Leone si trova appena una sola chiesa di Roma che non ne ricevesse riparazioni, e gli innumerevoli donativi di splendidi vasellami e di drapperie magnifiche fanno testimonianza della dovizia del tesoro Lateranense. L’amore dei Romani antichi al lusso sontuoso, riviveva nei Pontefici, e l’arte era tuttavia valente nei lavori di arazzi e di vasi preziosissimi, dei cui disegni prendevasi a modello lo stile d’Oriente. Se si tolgano alcune pitture condotte sul vetro e miniature di codici, sembra che all’età di Leone in principalità si coltivasse l’arte dei musaici, così che sotto il concetto di Pictura, che è adoperato di sovente, devonsi senza peritanza intendere le fatture di musaico. Davasi cura diligente all’arte di gettare in metallo, nel bronzo, nell’argento e nell’oro, perocchè si producessero statue in grandissimo numero di quella foggia: erano pure in bel fiore i lavori a battuto e le cesellature in argento. [37] Statue di quell’età fino a noi non giunsero, ma non si può dubitare che fin d’allora si costumasse di collocare nelle chiese simulacri di Santi scolpiti in legno, che si dipingevano a colori e si vestivano d’abiti[26].
Non è fatica senza pregio che dal catalogo delle fondazioni di Leone si ricavino le denominazioni delle chiese titolari, delle diaconie e dei conventi che a quella età erano in Roma; chè ci converrà correre alcuni secoli prima che ci si offra un documento di enumerazione parimenti completa. Risulta che v’avessero ventiquattro Titoli presbiteriali, appellati con questi nomi: Emiliana, Anastasia, Aquila e Prisca, Balbina, Calisto ossia Maria in Transtevere, Cecilia, Crisogono, Clemente, Ciriaco, Eusebio, Lorenzo in Lucina, Lorenzo in Damaso, Marcello, Marco, Nereo ed Achilleo, Pammachio, Prassede, Pudente, Quattro Coronati, Sabina, Silvestro e Martino, Sisto, Susanna, Vitale[27].
Delle Diaconie se ne enumerano venti, e sono appellate: [38] Adriano, Agata, Arcangelo[28], Bonifacio sull’Aventino, Cosma e Damiano, Eustachio, Giorgio, Lucia in septem viis o in septizonio od anche più tardi ad septem solia, Lucia juxta Orphea[29], Maria Antica oggidì detta Francesca Romana, ed inoltre le chiese dedicate alla Vergine in Adrianio, in Cosmedin, in Cyro od Aquiro, in Domnica, in via Lata, fuor di porta san Pietro; Sergio e Bacco, Silvestro e Martino presso il san Pietro, Teodoro, Vito in Macello[30].
Di monasteri omai se ne cita più di una quarantina, ma di essi v’era in Roma un numero assai maggiore.
In vicinanza del san Pietro s’ergevano cinque conventi, ed erano quelli di Stefano Maggiore o Protomartire detto anche di Catagalla Patrizia, di Stefano Minore, di Giovanni e Paolo, di Martino e il chiostro di Gerusalemme[31].
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In prossimità del Laterano si menzionano: Pancrazio, Andrea e Bartolomeo col nome di Honori che è già cognito all’Anonimo di Einsiedeln, Stefano, e un convento di monache dal nome di Sergio e Bacco[32].
Presso a santa Maria Maggiore erano questi conventi: Andrea, detto anche di Catabarbara Patrizia che forse è identico di quello di Andrea in Massa Juliana; Cosma e Damiano, Adriano, detto anche di san Lorenzo. Tutti avevano l’addiettivo ad Praesepe.
Vicino al san Paolo fuor delle porte, stava il convento di Cesario e Stefano col soprannome ad quatuor angulos[33]; prossimo al san Lorenzo fuor delle porte, era quello di Stefano e Cassiano.
Altri monasteri romani erano i seguenti: Agata super Suburram, Agnese fuor di porta Nomentana, Agapito presso il Titolo di Eudossia, Anastasio ad Aquas Salvias, Andrea nel Clivus Scauri, Andrea presso i santi Apostoli, Bibiana, Crisogono nel Transtevere, un convento presso il Caput Africae, il chiostro de Corsas o Caesarii nella via Appia, il convento de Sardas probabilmente situato presso al san Vito[34], Donato in vicinanza [40] alla santa Prisca sul monte Aventino, Erasmo sul Celio, Eugenia fuor di porta Latina, Eufemia e Arcangelo in prossimità alla santa Pudenziana, il convento duo Furna probabilmente in Agone nell’odierna piazza Navona, Isidoro che era forse sul monte Pincio, Giovanni sull’Aventino, il convento de Lutara[35], quello detto Laurentius Pallacini in vicinanza al san Marco, il convento appellato Lucia Renati, in Renatis o de Serenatis[36], Maria Ambrosii che è probabilmente lo stesso di quello chiamato Ambrosii de Maxima nel Forum Piscarium, Maria Juliae nell’isola Tiberina. Vi erano inoltre: un convento di monache dedicato a Maria in Campo Marzo e l’altro di Maria in Capitolio, i quali due, sebbene non menzionati nel catalogo delle fondazioni di Leone III, erano a quel tempo per certo di già fondati: Michele, ignoto; il chiostro Tempuli[37], [41] Silvestro (de Capite), santo Saba o Cella Nova, il convento Semitrii, ignoto; quello di Vittore presso san Pancrazio nella via Aurelia.
In quell’età non s’erano ancora costituite le venti abazie, che più tardi sorsero dai conventi venuti a numero sì grande da renderne difficile il conto. La loro copia crebbe ognor più, e sulla fine del secolo decimo affermavasi che in Roma v’aveva venti conventi di monache, quaranta di frati e sessanta di canonici ossiano preti viventi sotto regola claustrale[38].
Dopo una vacanza di dieci soli giorni, fu eletto papa un uomo romano di nascita illustre, Stefano diacono, figlio di Marino. S’affrettava egli a significare i sensi della sua soggezione al Principe supremo di Roma; faceva che il popolo romano giurasse fedeltà all’Imperatore, e gli spediva suoi legati che scusassero lui e [42] i Romani per ciò che senz’altro era stato consecrato[39]. Questo primo avvenimento di una mutazione nel pontificato che accadesse dopo la restaurazione dell’Impero romano, sollevava parecchie questioni sui rapporti che intercedevano fra il Papa e l’Imperatore: pertanto Stefano IV in persona andava a Francia. I torbidi prima avvenuti in Roma, la contrarietà dei nobili, il bisogno di conseguire guarentigie con un nuovo patto di confermazione, e, vale altresì aggiugnervi, il desiderio di ungere imperatore Lodovico che era stato già coronato, e di far tenere quella cerimonia in conto di un diritto pontificio per guisa che non potesse più preterirsi, erano tutti motivi che inducevano il Papa a intraprendere tostamente il suo viaggio. Le relazioni che passavano fra Stefano e Lodovico erano differenti da quelle che s’erano strette fra Leone III e Carlo. Nella mente degli uomini, Leone s’era quasi levato al di sopra di Carlo benefattore suo, e s’era sdebitato di tutti i suoi oblighi poichè gli aveva cinto il capo della corona dei Romani, laddove Lodovico or si trovava verso il Pontefice in condizioni di independenza assoluta. Il novello Papa vedeva di contra a sè un Imperatore possente, che per diritto di eredità teneva omai possedimento legittimo della podestà imperiale, mentre [43] egli non aveva con lui rapporti personali di sorta. Lo impensierivano perciò le condizioni in cui il Papato trovavasi verso l’Impero, sebbene dalla bontà o piuttosto dalla debolezza d’animo del pio Lodovico non avesse ragioni di temenza.
Accompagnato da Bernardo, il Papa arrivava nel Settembre dell’anno 816 a Reims, dove l’Imperatore lo accoglieva con officî di venerazione profonda. Il prete avventurato lo ungeva del sacro crisma, e, insieme colla moglie Irmengarda, lo coronava nella cattedrale di quella città; indi tornavasi a casa sua regalato riccamente, e sopra tutto provvisto della confermazione dei possedimenti, dei privilegî e delle immunità, di cui la Chiesa romana era investita[40]. A conforto dei Romani, fra i quali correva un mormorìo di mal contento, ei recava in dono la liberazione di tutti coloro, che, esiliati nelle terre di Francia, vi espiavano la loro ribellione contro Leone III, e dei quali con sue suppliche Stefano aveva ottenuto grazia dall’Imperatore. Egli li conduceva con sè a Roma, e fra loro pertanto saranno stati anche Pasquale e Campulo, se a quel momento avranno ancora [44] vivuto[41]. Poco tempo dopo il Papa moriva, addì 24 del Gennajo 817, tre soli mesi dacchè avea fatto ritorno in patria.
Tosto, i Romani con voto concorde eleggevano a pontefice Pasquale, figlio di Bonoso, e senza indugio egli era anche consecrato. Pasquale I fu uomo pio, prudente, d’animo fermo: prima di esser papa, era stato abate di quel convento di santo Stefano che si ergeva in prossimità del san Pietro, laonde, a differenza dei suoi predecessori, tutti diaconi o preti, egli passava dalla cella monastica alla cattedra pontificia. La celerità fuor del consueto, con cui avveniva la sua ordinazione, dimostra che il clero romano con opera pronta bramava di scongiurare il pericolo ognor più minaccioso delle pretensioni onde l’Imperatore intendeva al diritto di dar conferma all’elezione; ed è prova che non peranco s’era promulgata la statuizione, attribuita erroneamente a Stefano IV, per cui s’imponeva che il Papa non potesse più ottenere la consecrazione, se non ne avesse avuto consentimento dall’Imperatore[42]. Però, parimenti come avea fatto il predecessore suo, anche Pasquale reputava necessario di far nota all’Imperatore la rapida sua esaltazione al soglio, e di tranquillarne l’animo colla certezza che egli avea conseguito la dignità [45] pontificia con elezione conforme ai canoni[43]: il suo legato Teodoro tornava di Francia con un diploma imperiale in cui si confermavano i privilegî di san Pietro.
Di questo tempo in poi, ad ogni mutazione della corona imperiale, ad ogni novella elezione pontificia, si rinnovavano le scritture dei privilegî antichi. I vescovati e le abazie imitavano l’esempio di Roma, e si coglieva ogni opportunità per far convalidare con autorità di documenti i titoli antichi d’immunità, o per farvi aggiungere franchigie nuove. Negli archivî delle chiese si conservavano con cura diligente le filze dei diplomi imperiali, che poco a poco vi si erano accumulati. Nell’archivio Lateranense erano già custoditi con cura i classici diplomi di Pipino, di Carlo e di Lodovico, e scritte di donazioni, di conferme d’immunità antiche e nuove, ed altri trattati che s’erano conchiusi fra l’Imperatore e la Chiesa di Roma: se quelle pergamene esistessero al dì d’oggi, e se l’occhio dello studioso potesse prenderne conoscimento, esse sarebbero di inestimabile soccorso a scriver la storia. Or nell’anno 817, si aggiungeva a quei documenti il diploma di Lodovico il Pio, il quale fuor d’ogni dubbio non era altro che la rinnovazione di quello che il suo cancelliere, un anno prima, aveva dato a papa Stefano[44]. Questa [46] scrittura ottenne in tempi assai posteriori celebrità d’importanza grandissima: la si falsò nel suo tenore; accosto alla donazione di Pipino, la si elevò al grado di una donazione ampia oltre ogni limite, e con audacia se ne trasse il fondamento di nuovi e larghissimi possedimenti della cattedra pontificia e di privilegî rilevanti.
Per non dire che delle cose più sorprendenti, Lodovico il Pio, oltre alla signoria su di Roma e del Ducato, oltre alla conferma delle donazioni di Pipino e di Carlo, avrebbe con quel diploma fatto dono al Papa dei patrimonî delle Calabrie e di Napoli, e perfino del pieno possedimento delle isole di Corsica, di Sardegna e di Sicilia: finalmente ei vi avrebbe proclamato che ai Romani si spettava libertà completa di eleggere e di ordinare il Papa, senza che occorresse qualsiasi preventiva approvazione dell’Imperatore. Ma la storia ripudia queste favole, perocchè a luce di sole essa dimostri cogli avvenimenti suoi, che l’Imperatore continuò a esercitare la sovranità sopra di Roma: ed offre prova che in quel tempo i Greci possedevano le Calabrie e Napoli, Sicilia e Sardegna, mentre Bisanzio, riposando sul patto mercè cui erasi stabilito il riconoscimento dei territorî che spettavano alle due parti, mantenevasi in pace coll’Imperatore occidentale; e questi difficilmente avrebbe rotto l’amicizia per donare a san Pietro estensione di province che non erano sue, nè per titolo giuridico, nè per possesso[45].
[47]
Alla perfine, anche la libertà di ordinazione del Papa, è contraddetta da un celebre documento de’ tempi di Eugenio II.
Il Libro Pontificale non fa pur motto del documento di Lodovico. I diplomi di Ottone I e di Enrico I, che la Chiesa annovera fra i più ragguardevoli atti di donazione e di conferma dei diritti suoi e che essa ordina in serie con la scritta di Lodovico, dimostrano di ignorare financo che quest’ultima esista, sebbene quei diplomi si riferiscano con espresso discorso alle scritture di Pipino e di Carlo. Si trova menzione di essa soltanto ai giorni di Gregorio VII, al momento delle controversie sulla eredità della contessa Matilde, chè allora si ebbe falsificato con addizioni il diploma di Lodovico, affine di [48] dare un fondamento antico e largo alle pretensioni di Roma[46].
[49]
Secondo l’esempio del padre suo, Lodovico il Pio deliberava di associarsi all’Impero il suo figliuolo maggiore, che era ancora in giovine età. Questa consuetudine, derivata dal costume dell’antico Impero romano e di quello bizantino, fu accolta anche nel nuovo, per ciò che di tal guisa sembrava assicurarsene l’unità e il sistema ereditario. Non appena però Lotario era insignito della dignità imperiale nella dieta di Aquisgrana, che se ne destava gelosia in tutti gli altri Principi: Pipino e Lodovico, fratelli, fremendo di malcontento se ne andavano alle sedi dei loro reami di Aquitania e di Baviera, e l’ambizioso bastardo Bernardo levava le armi con aperta ribellione. Carlo aveva messo lui, come primamente Pipino, da suo luogotenente nel reame d’Italia, ma secondo natura delle cose, il desiderio d’independenza [50] doveva ben presto svegliarsi in questi Re italici. La bramosia degli Italiani a conseguire autonomia di nazione, facevasi viva in adesso per la prima volta, e propriamente manifestavasi nell’Italia settentrionale: ivi i Longobardi, quantunque avessero omai accolto costumanze di vita latina, conservavano tuttavia con fervore i sentimenti germanici di libertà e custodivano la ricordanza di loro signoria antica; ivi Milano aveva di già incominciato a superare di splendore Pavia che era stata un tempo la dominatrice. La caduta del reame dei Longobardi non avea sepolto con sè la vita di questo popolo fornito d’intelligenza e operoso; dalle Alpi esso si distendeva fin giù nelle Puglie. Fatta eccezione per Roma, dove nullameno vivevano famiglie longobarde in gran numero e dove parecchi uomini di quella stirpe ascesero alla cattedra di san Pietro, quella nazione germanica teneva del continuo in mani sue la somma maggiore delle cose d’Italia, così al settentrione che al mezzogiorno. Duranti i tempi più oscuri della storia, furono veramente i Longobardi che diedero a Italia eroi, principi, vescovi, istoriografi, poeti e per ultimo libertà di republiche. Nelle forze di loro, massimamente, riposa pertanto la parte più grande della vita storica e della civiltà d’Italia: è questo un fatto incontestabile, che al dì d’oggi parecchi Italiani si studiano invano di negare, quando, ad onta della ragione storica, eglino parlano della nazione italiana in secoli nei quali non ne esisteva una siffatta, o quando dimenticano che essenzialmente questa nazione italica si formò dalla miscela della razza goto-longobarda colla razza latina: e se noi pure parliamo di una nazione italiana [51] a quest’età, vale considerare, per quanto dicemmo in precedenza, che ne abbiamo ristretto il concetto a sua giusta misura storica. Gli ottimati lombardi non pensavano più alla restaurazione della spenta dinastia di Desiderio, ma anelavano di affrancarsi dall’odiato reggimento dei Franchi. I Vescovi, giunti a signoria di principi per privilegî ottenuti da Carlo e da Lodovico, e già avvezzi ad aver prima voce nelle faccende politiche come signori territoriali, sospingevano il giovane Bernardo nella via delle sue aspirazioni. V’aveva fra loro anche Teodolfo, il quale, sebbene vescovo di Orleans, era longobardo di nascita, v’era Wolfoldo di Cremona, e, più ragguardevole di tutti, Anselmo di Milano. Il Re malprudente si vedeva peraltro deluso nei suoi intendimenti. I fratelli Pipino e Lodovico non si levavano a rivolta, e tosto che le soldatesche imperiali rattamente s’avvicinavano ai confini d’Italia, le schiere di lui lo disertavano. Lo sconsigliato giovane correva a Cavillon per gettarsi ai piedi del suo zio, sia che lo affidasse una promessa ricevuta, sia che ve lo decidesse la sorte sua disperata: più probabile è la prima supposizione, chè altrimenti non ve l’avrebbero accompagnato i soci suoi di cospirazione. Lui e i suoi compagni l’Imperatore faceva gettare in carcere. Bernardo, come reo di maestà, era condannato nel capo, e quantunque Lodovico per compassione il graziasse, permetteva che all’infelice si svellessero gli occhi. Questa sentenza, vien detto per comando della imperatrice Irmengarda rabida di vendetta, si eseguiva così barbaramente, che Bernardo ne moriva tre giorni dopo: ciò accadeva in Aquisgrana dopo la Pasqua dell’anno 818. [52] Pari sorte subiva l’amico del Principe, Reginaro, figlio di Meginaro conte, ch’era stato conte palatino dell’Impero, laddove i Vescovi incarcerati, per giudizio del clero franco, erano deposti del loro officio e chiusi in varii conventi. L’Imperatore avea ceduto per debolezza alle sollecitazioni della sua donna e dei consiglieri suoi; peraltro, allorchè gli fu annunciato che il suo nipote era morto, lo pianse acerbamente, ed ancora quattr’anni dopo si sottopose a publica penitenza in espiazione di questa e di altre sue colpe: l’autorità imperiale per lo smacco si scemava, e il potere morale dei Vescovi si accresceva; eglino confortavano l’Imperatore rammentandogli l’esempio di Teodosio penitente, e sè stessi rallegravano ripensando al tribunale da cui lo aveva punito Ambrogio vescovo[47]. Non vien detto se Pasquale si adoperasse presso di Lodovico, affine di alleviare le sorti di Bernardo: noi però accogliamo per vero che ciò avvenisse, perocchè s’acconciasse all’indole di quell’età che in un caso così fuor dei soliti eventi, l’Imperatore udisse il monito paterno del Pontefice. Morto Bernardo, il suo trono restò due anni senza successore, e bene stava che la Chiesa romana tollerasse in pace quella vacanza, dappoichè omai il reame d’Italia incominciava a darle noja.
Per mala ventura, una tenebra fitta seppellisce nel suo bujo le condizioni di Roma a questo tempo, per [53] guisa che la storia della Città fa mostra di sè ad intervalli, soltanto in quegli avvenimenti che si associano alla storia dell’Impero. Lotario, figliuolo maggiore di Lodovico, già nominato imperatore, era fatto altresì re d’Italia; in tal modo, per la prima volta dopo di Carlo magno, le due dignità si riunivano in una sola persona. Quantunque il padre suo fin dall’anno 820 gli avesse concesso la corona d’Italia, egli lo mandava a Pavia soltanto due anni più tardi. Lo aveva sposato ad Irmengarda, figlia del possente Ugo conte, ed a questa occasione aveva fatto grazia ai Vescovi prigionieri; indi, nell’Agosto 822, congregava in Attigny una dieta e in quella comandava a Lotario che andasse adesso al regno suo. Gli poneva ai fianchi, da consiglieri, il monaco Wala, quel desso che era stato ministro di Bernardo, e Gerungo, che era un officiale della sua corte; tuttavolta non intendeva di prefiggere al Re d’Italia che tenesse residenza costante a Pavia. Piuttosto, Lotario ivi era spedito soltanto affinchè desse sesto alle cose del paese e vi facesse giustizia; il Re doveva tornarsene a Francia non appena che avesse adempiuto a questi officî, perlocchè si rivela che il padre di lui, travagliato da sospetti, non bramava che il figliuolo ponesse stanza in Italia. Come Pasquale udiva della partenza di Lotario (la quale avveniva poco tempo prima della Pasqua dell’anno 823), lo invitava affinchè andasse a Roma per ricevervi di mano del Papa la incoronazione e l’unzione: è ben facile capire i motivi dell’invito.
Lotario, consapevole il padre, aderiva alla richiesta. Accolto con onoranza degna d’imperatore, nel dì di [54] Pasqua era coronato dal Pontefice in san Pietro, e il popolo romano lo acclamava Augusto: egli era primo degli Imperatori, dopo di Carlo, che ricevesse in Roma la corona, perocchè Lodovico padre suo fosse stato coronato in Reims[48]. Così l’arte politica romana sapeva con accorta fermezza sostenere il principio che Roma era fonte dell’Imperio, e che la unzione pontificia era necessaria agli Imperatori, sebbene fossero stati eletti per deliberazione della dieta dello Stato, ed anche coronati. Pasquale consecrava col crisma il giovane Imperatore, indi proclamava che questi, pari ai predecessori suoi, aveva podestà imperatoria sul popolo romano[49]: Lotario immantinente ne esercitò l’officio, poichè nel breve tempo di suo soggiorno in Roma vi pronunciò sentenze da giudice.
Innanzi al suo tribunale imperiale ed in presenza del Papa e della nobiltà romana e franca, comparvero le parti [55] che litigavano: ed è meritevole di nota una causa che il Papa allora promosse contro il potente Abate di Farfa e che il Papa perdette. Quel bello e celebre convento di Benedettini che s’ergeva nel territorio Sabinate nelle pertinenze di Spoleto, stava anticamente sotto la protezione dei Re longobardi, e, dopo la fine di loro signoria, godeva di pari privilegî sotto il patronato dei Carolingi. Oltre ad antichi diplomi longobardi, il monastero poteva allegare un documento dell’anno 803, con cui Carlo magno gli aveva data conferma di sua immunità. Nell’anno 815, il convento aveva conseguito una pergamena di simile tenore dall’imperatore Lodovico, il quale vi promulgava che l’abazia stava sotto il suo «privilegio, mundiburdio e patronato imperiale, affinchè i monaci in buona pace orassero per lui e per la durata dell’Impero[50].» Nessun Vescovo poteva imporre tributo o censo su Farfa: i doviziosi monaci godevano completa franchigia, eleggevano liberamente dal loro gremio l’Abate, e il Papa stesso non aveva altro diritto che quello di consecrarlo. Oltre ai diplomi dei Re e degli Imperatori, che stavano conservati negli scaffali del loro archivio, i monaci possedevano altresì bolle di conferma concesse dai Papi. Stefano IV, pochi dì prima della sua morte, aveva dato il placito a tutti i privilegî ed ai possedimenti di Farfa, per lo che aveva imposto al convento soltanto un tributo annuo di dieci solidi d’oro. Ma ei sembra che per intromissione dell’Imperatore, Farfa si fosse affrancata anche di questo onere, perocchè nella bolla di confermazione data da [56] Pasquale I in quello stesso anno, non si facesse più menzione di quell’obligo[51]. Eppure, di tempo in tempo, i Papi cercavano di diminuire le libertà dell’abazia, le quali loro riuscivano moleste. Già Adriano e Leone III s’avevano usurpato parecchi possedimenti del convento, e mentre Lotario era in Roma, l’avvocato pontificio sostenne innanzi al tribunale imperiale che Farfa «era sottoposta al giure e al dominio della Chiesa romana.» Ma il valente abate Ingoaldo allegava i preziosi diplomi del suo archivio, e dimostrava splendidamente le franchigie che gli eran concesse dalle lettere patenti scritte, e la sentenza del tribunale imperiale costringeva la Camera pontificia a restituire tutti i fondi che contro diritto erano stati tolti al convento[52].
[57]
Gli è probabile che il contegno energico di Lotario destasse il malcontento del clero di Roma, laddove invece i nemici della signoria temporale del Papa si stringevano speranzosi intorno al giovane Principe. Insieme col nuovo Impero incominciava la divisione della Città in una fazione pontificia e in una parte imperiale, e doveva durare per un corso di secoli sotto quel nome di Guelfi e di Ghibellini, che sorse in tempi posteriori. Subito dopo la partenza di Lotario, un avvenimento faceva sì che la scissura di repente si manifestasse. Il giovane Imperatore era tornato in Lombardia, e già nel Giugno era arrivato presso il padre suo, quando Roma era messa sossopra da un tumulto, il quale senza dubbio derivava dalle ragioni stesse che avevano cagionato la ribellione contro di Leone III. Oscuri ne sono i casi particolareggiati; fatto è che giungevano messaggi alla residenza imperiale, e riferivano che in Roma due ministri del Palazzo pontificio, Teodoro primicerio e il genero suo Leone nomenclatore, erano stati prima acciecati, indi decapitati nel palazzo Lateranense; dicevano che questo era accaduto perchè quegli uomini aderivano con fede vivissima alla casa imperiale, e che papa Pasquale stesso aveva comandato o consigliato l’assassinio[53]. Il supplizio [58] di que’ due maggiorenti non era stato conseguenza di una sentenza di giustizia, ma opera violenta dei famigliari del palazzo pontificio. Quei Romani (Teodoro ancor nell’anno 821 era stato nunzio in Francia) appartenevano alla più eletta aristocrazia, parteggiavano decisamente per l’Impero, e occupavano la dignità più potente, che, ancor tempo prima, aveva favoreggiato disegni di ribellione: può essere che s’adoperassero alla distruzione del reggimento pontificio. Eglino furono presi, acciecati e decapitati in Laterano dai servitori del Papa[54]. L’imperatore Lodovico ascoltò le doglianze dei Romani e spedì suoi Missi affinchè istituissero in Roma una inquisizione. Però, prima che questi partissero, capitavano legati del Pontefice per giustificarlo, e per dichiarare che Pasquale si assogettava ad un procedimento[55]. Allora i giudici imperiali viaggiavano a Roma nel Luglio od altrimenti nell’Agosto dell’anno 823, ma giunti colà, avevano di che stupire in udendo protestarsi che il Papa rifiutava qualsiasi inquisizione giuridica. Fosse o no che ei ne temesse le risultanze, egli scansava di sottomettersi ai giudici dell’Impero, e ricorreva ad una scappatoja il cui valido effetto era omai alla prova di esperienza vecchia. Infatti, [59] il Papa prestava giuramento di purgazione nelle case patriarcali del Laterano in presenza dei legati imperiali e del popolo romano, circondato da vescovi, da preti e da diaconi. In pari tempo ei si faceva difensore degli assassini perocchè appartenessero alla famiglia di san Pietro, malediceva agli uccisi vituperandoli come rei di tradimento, e protestava che colla morte di loro s’era adempiuto ad un atto di giustizia[56]. I legati imperiali, cui la temenza dei privilegî della Chiesa suggellava la bocca, tornavano in Francia cogli ambasciatori pontificî per riferire di questa piega inaspettata che avevano preso le cose. Se ne indignava l’Imperatore conscio del suo dovere di proteggitore e di giusto giudice de’ suoi sudditi romani; gli stessi diritti di lui richiedevano che si facesse severissima ragione degli assassini, ma poichè il comportamento del Pontefice ne lo aveva impedito, era costretto a porre una pietra su quanto era accaduto. Non sappiamo quel ch’ei rispondesse ai Romani ed al Papa[57].
Pasquale passava di vita in mezzo a tempeste non [60] dissimili da quelle che avevano funestato Leone III nei suoi ultimi giorni: anch’egli naufragò fra le contraddizioni del potere temporale e dell’autorità religiosa che si riunivano nella persona del Vescovo. Affranto da quegli avvenimenti e dalle loro conseguenze, odiato da una gran parte dei Romani, morte il colpiva sul principio dell’anno successivo. I Romani, inaspriti contro di lui, non permisero che il suo cadavere venisse sepolto nel san Pietro, e il suo succeditore fu costretto a deporlo in un’altra basilica, che era stata edificata da Pasquale istesso: è probabile che fosse la chiesa di santa Prassede[58].
Al dì oggi tuttavia, Roma conserva alcuni ragguardevoli monumenti, edificazione di Pasquale I. Perfino il ritratto di lui, cosa rarissima fra i Papi di quell’età, dura ancora in tre musaici che rappresentano l’istesso capo tonsurato e le stesse fattezze lunghe e secche. L’arte di quel tempo non poteva cogliere somiglianze di volto fuorchè nei semplici contorni, dacchè non aveva l’uso di lumeggiarne i tratti a chiari e ad ombre. Quelle [61] imagini si mirano in tre chiese rinnovate da Pasquale, che sono santa Cecilia in Transtevere, santa Prassede sul monte Esquilino e santa Maria in Domnica sul Celio.
Nel cielo de’ Santi romani, Cecilia è la musa della musica: a lei la leggenda di tempi posteriori ha attribuito l’invenzione dell’organo, e il genio di Raffaello la ha riposta sopra un trono di gloria, dipingendola con siffatto atteggiamento di musa in uno dei suoi quadri più belli[59]. La fantasia dell’arte cristiana creò appena un’altra figura più ispirata e più gentile di quella di Cecilia. Santa nazionale al paro di Agnese, fu ella la prediletta di tutte le nobili matrone di Roma, le quali credevano di venerare in lei la illustre nepote della famiglia Metella. In tempi di spaventosa barbarie, queste persone verginali di Cecilia e di Agnese furono candide idealità della virtù, e soavi e belle si alzarono a volo raggiante in mezzo al tenebroso aere di Roma. Narra la leggenda che Cecilia si disposava al giovine Valeriano: nella prima notte di nozze ella gli diceva che un angelo del cielo stava a guardia di sua casta santità; se ne atterrì il giovinetto, e fu bramoso di vedere quel molesto cherubino, e lo vide, poichè, tocco dalla virtù sovrumana della sua sposa, ebbe battesimo dal vescovo Urbano. Cecilia sofferse il martirio ai 22 del Novembre 232; [62] morì di tre colpi di spada che la ferirono nel collo[60]. E morendo avea richiesto il Vescovo di fondare una chiesa nelle sue case e nel suo bagno, che erano situati nel Transtevere, dove l’aveano martoriata. Urbano ravvolse il corpo bellissimo della fanciulla in panni trapunti in oro, indi lo chiuse in una cassa di legno di cipresso, e lo depose in un sarcofago di marmo: la Santa ebbe sepoltura nelle catacombe di Calisto presso la via Appia[61]. La chiesa di lei, una delle antichissime di Roma, era, fin dal secolo quinto, Titolo di un Cardinale. Pasquale la trovava in grande decadimento e la riedificava: bramava di collocarvi la salma della Santa, ma non la rinveniva nelle catacombe, perlocchè credette che se l’avessero portata via i Longobardi di Astolfo. Ma una visione celeste discese a soccorrerlo: in sull’alba di un giorno di domenica, mentre stava innanzi alla Confessione del san Pietro, i suoi occhi stanchi si chiudevano un tratto, e nel sonno gli appariva davanti un’angelica persona di giovinetta; dicevagli essere ella Cecilia, lo accertava che i Longobardi non avevano trovato le sue ceneri, e, rincorato il Pontefice a proseguire nella sua ricerca, la Santa celeste spariva. Pasquale si destò, cercò, rinvenne Cecilia [63] nel cimitero di Pretestato, dove, tuttora involta nei panni d’oro, riposava in pace accanto del giovane Valeriano, che presto le era morto dietro[62].
La riedificazione del tempio di santa Cecilia non fu opera dappoco dell’arte di quell’età. Questa grande basilica comprendeva nel suo interno una chiesa elevata, con duplice ordine di colonne, secondo il modello di quella di santa Agnese. In tempi più tardi se n’ebbe rimutata la forma, ma nell’essenza non ne fu distrutto il concetto antico. Un ampio atrio, come ancora al dì d’oggi, stava innanzi alla chiesa, ed in quel tempo era circondato di loggiati a colonne: nella chiesa adduceva il vestibolo che tuttora si conserva. Quattro colonne antiche di stile jonio e due pilastri a capitelli corinzî, da ciascun lato sopportano il tetto; la cornice è adorna di musaici di rozza fattura chiusi entro a medaglioni che stanno sopra ad ogni colonna e ad ogni capitello, e rappresentano i Santi, dei quali Pasquale depose le reliquie nella Confessione della Chiesa. Sulle pareti dell’atrio fu istoriata la vita di Cecilia con pitture che probabilmente appartengono al secolo decimoterzo; di esse si conserva ancora un resto che or si mira nell’interno della chiesa, infisso nel muro. Vi sono dipinti Urbano che dà sepoltura alla vergine, e questa che appare a Pasquale: il Papa sonnecchia, mentre gli sta innanzi in atto soave la persona della fanciulla; è un quadro mirabile, il cui disegno pesante, le tinte grevi e vigorose, e i toni oscuri e carichi ne significano la considerevole antichità; all’età di Pasquale non può appartenere, bensì all’epoca [64] di Onorio III. Vagamente bello ne è il soggetto, ed ha tutta la dolcezza di un carme lirico.
L’interno della chiesa, che oggidì è mutato assai dall’antico, si componeva di tre navate. Dodici colonne nello spazio di mezzo sostenevano la chiesa superiore; quattro di esse erano collocate a capo del coro; in una chiesa sottoposta si accoglieva la cripta dei Santi. Durano tuttavia i musaici della tribuna; nel mezzo è il Cristo avvolto in un manto di colore dell’oro, benedice, e tiene nella mano sinistra un rotolo di pergamena; dai suoi fianchi stanno san Pietro e san Paolo, dipinti con tratti affatto barbarici. A destra di chi guarda, presso san Pietro, stanno Cecilia e Valeriano che sporgono loro corone di martiri; a manca, d’accanto a san Paolo, è una Santa, che forse è Agata, e Pasquale, figura allampanata, con grandi occhi; dietro al capo ha un quadrato di tinta azzurra, nelle mani reca il modello della sua basilica[63]. Il musaico è chiuso da un contorno di palme, e una fenice, colore di fuoco, posa sopra un ramo. Sotto del quadro stanno disposti il Cristo e i discepoli nella solita figura di agnelli; indi leggonsi dei distici che celebrano l’opera di Pasquale[64]. [65] Lo stile di questi musaici (quelli che ornarono l’arco della tribuna caddero) è apertamente bizantino; perfino il Cristo benedice a foggia greca colle tre dita posate sul pollice. Rude ne è la fattura; i corpi secchi e duri non sono che sbozzati; manca distribuzione di luce e di ombre; i panneggiamenti sono significati soltanto con grossi tocchi. Può darsi che sia opera di artisti di Grecia, tanto più che Pasquale fu gran favoreggiatore dei Greci, molti dei quali ospitò in Roma.
Un’altra riedificazione di Pasquale è la chiesa di santa Prassede sul monte Esquilino, di cui egli era stato cardinale. Dopo di aver vissuto un’esistenza di secoli, quest’antichissima basilica era prossima a cadere; il Papa la faceva demolire e costruiva indi una chiesa affatto nuova. Essa si mantiene tuttora dopo di aver subìto, nel corso dei tempi, mutamenti molti all’interno, quantunque non così gravi come gli ebbe la chiesa di santa Cecilia. Simile a questa ha il disegno. Dalla suburra si sale per una scalea di venticinque gradini al suo atrio, il quale oggi più non s’adopera, dacchè fu aperto alla chiesa un ingresso laterale. Svelte colonne antiche [66] di granito a capitelli corinzî scompartiscono l’interno in tre navate, ma non v’ha chiesa superiore. L’elevato presbiterio mette capo alla tribuna, che, parimenti come l’arco di trionfo, è ancora adorna dei musaici antichi. Un aggruppamento ricco di figure copre la parete superiore di quest’ultimo: vi si rappresentano Santi con loro corone, il Cristo col globo terrestre, che circondato da angeli si leva sopra di Gerusalemme, ed uomini che cercano di entrare nella città presidiata da angeli: sulle pareti laterali sono figurate turbe di fedeli, come nell’arco di trionfo del san Paolo. Anche nella tribuna è dipinto il Redentore in manto d’oro, che tiene nella mano il rotolo di scritti papiri; e si nota che l’artefice tolse ad esemplare la figura del Cristo, che è nel musaico della chiesa dei santi Cosma e Damiano. Alla sinistra innanzi a lui è san Paolo che cinge con un braccio la persona di santa Prassede: questa tiene in mano la corona e sta accanto a Pasquale, il quale ha il capo incorniciato nel quadrato azzurro e le sporge in offerta la chiesa. Dalla destra, sono disposti in pari posa san Pietro, santa Pudenziana e santo Zenone con un libro. Non mancano le palme e la fenice; nella parte inferiore del quadro scorre il fiume Giordano; sotto, sono il Cristo e i discepoli in figura di agnelli colle due città dipinte in oro, e finalmente la solita iscrizione in distici[65]. Come in santa [67] Cecilia, l’arco della tribuna comprende nella orlatura interna il monogramma di Pasquale; nell’alto di esso sono rappresentati il Cristo in forma di agnello sedente sul trono, i sette candelabri, i due angeli, i simboli dell’Apocalisse dell’Evangelista, e i Seniori che portano loro corone. L’artista si attenne anche qui al modello della chiesa dei santi Cosma e Damiano, ma fece opera comportevole, e, segnatamente, gli angeli non difettano di grazia nella posa.
In questa chiesa istessa Pasquale edificò una piccola cappella in onore di Zenone, martire romano dei tempi di Diocleziano: è un monumento assai mirabile dell’arte di quell’età, e mantiensi completamente oggidì ancora. Questa cappella, costruita a volta ed oscura, tutta coperta di musaici, era anticamente considerata tanto bella che la si appellava «giardino del paradiso». Eppure, ad onta di ciò, il gusto dei suoi musaici è ancor più barbarico che non sia quello dei musaici della tribuna, i quali contengono almeno qualche buon tratto tradizionale, specialmente nelle figure di donna.
Il grande quadro in santa Prassede è del resto il miglior monumento di quella età, in cui l’arte dei musaici, già padroneggiata dal così detto «bizantinismo», mandava ancora soltanto un fiacco raggio di luce, ultimo guizzo innanzi che la face si spegnesse. Può darsi che vi lavorassero intorno anche degli artefici greci, avvegnachè Pasquale avesse edificato in vicinanza della chiesa un convento di monaci greci dell’ordine di Basilio. E la persecuzione delle imagini che allora ricominciava ad infierire in Oriente, dove Leone l’Armeno aveva fatto rivivere i dogmi di Leone l’Isaurico, [68] cacciava parecchi monaci e pittori greci a Roma, dove educava nuove attinenze coi concetti bizantini[66].
Sul monte Celio è la antichissima chiesa diaconale di santa Maria in Domnica (grecamente Kyriaka), oggidì detta «della navicella», perocchè ivi sia conservata la copia moderna di un’antica nave votiva[67]. Anche a questa chiesa diede Pasquale la forma, che essa conserva tuttora, di basilica a tre navate: nove colonne antiche di granito compongono la navata di mezzo. Per mala sorte i musaici della tribuna furono guasti da restauri; rappresentano la Vergine in trono col putto, ai due lati sono degli angeli, mentre Pasquale, ginocchione, abbraccia con ambe le mani il piede destro di lei; il suolo è screziato di fiori a vario colore.
Passiamo oltre sul grande numero di oratorî e di [69] cappelle che Pasquale edificò in altre chiese; ei merita soltanto notarsi che il Biografo di lui narra come un incendio struggesse in ceneri il quartiere dei Sassoni nel territorio Vaticano (allora omai con voce germanica lo si chiamava burgus), e distruggesse altresì da capo a fondo il portico del san Pietro: e lo Scrittore aggiunge che il Papa vi correva a piè scalzi e con orazioni acchetava il furore delle fiamme; più tardi riedificava il quartiere e restaurava il portico[68].
Succeditore di Pasquale fu Eugenio, prete di santa Sabina, figlio di un Boemondo romano, il cui nome rivela origine nordica. Egli significava il suo esaltamento all’imperatore Lodovico, e questi mandava a Roma Lotario, affinchè, colla promulgazione di uno Statuto imperiale, ordinasse col novello Papa e col popolo romano tutti i rapporti politici e civili[69]. Ne lo richiedevano i torbidi ripetuti di Roma, la scissura palese che s’era messa fra il Pontefice e la Città, e le giuste doglianze che si levavano contro agli arbitrî dei giudici pontificî.
[70]
Lotario s’ebbe nel Settembre dell’anno 824 splendidi accoglimenti da Eugenio. Il giovane Imperatore gli disse d’esser venuto per ristorare l’ordine delle leggi, lagnossi dell’atteggiamento in cui il Papato s’era posto verso dell’Imperatore e di Roma, rammentò essersi trucidati uomini fedeli all’Imperatore, altri perseguitati; censurò l’avidità rapace dei giudici pontificî, le inettezze del reggimento ecclesiastico, la ignoranza in cui addormentavansi i Papi stessi non vedendo gli abusi, o la tolleranza per cui li sofferivano. Le aperte lamentanze dei Romani domandavano che si facesse una rigida inquisizione delle opere di violenza che erano avvenute sotto il predecessore di Eugenio; e lo Stato della Chiesa, omai così tosto turbato da mali intestini e che in fondo non altro era fuor di una grande immunità ecclesiastica sotto il patronato dell’Imperatore, abbisognava di un più sodo ordinamento. Pasquale aveva saputo sottrarsi al tribunale dell’Imperatore, ma poichè adesso egli era morto, Lotario procedeva in Roma senza trovare impedimento alcuno. Adesso si poneva riparo a quel che prima fatto non s’era; la podestà imperatoria adoperava una grande energia, e si acquistava dal popolo gratitudine vera. Si avviò una inquisizione in tutte le regole sotto la presidenza di Lotario, e se n’ebbe a risultamento che la Camera pontificia fu condannata a restituire tutti i beni confiscati a’ Romani; gli ingiusti giudici pontificî furono puniti coll’esilio, e Lotario senz’altro li fe’ tradurre nelle terre di Francia[70].
[71]
L’autorità imperiale ebbe in Roma un momento di splendore e di potenza, quale forse non ottenne mai più nell’avvenire così pacificamente. Il popolo plaudiva al Cesare germanico che proteggeva anche i diritti di esso, e il lieto commovimento degli animi crebbe, allorchè Lotario promulgò un suo Statuto. Questa Costituzione del Novembre dell’anno 824, che usciva fuor degli ordini consueti, intendeva soprattutto a guarentire le cose della giustizia, le quali erano cascate affatto in balìa della violenza. Vi si regolava in nove articoli la materia che concerneva l’amministrazione della giustizia e il sistema delle attinenze di maggiore importanza fra Roma, il Papa e l’Imperatore. Si sanciva quale norma di principio, la comunanza del reggimento temporale fra l’Imperatore e il Papa in Roma e nello Stato della Chiesa, per guisa che al Papa, come a signore territoriale, restava l’iniziativa di podestà immediata; all’Imperatore poi competeva l’autorità suprema, il sommo giudizio di appello nelle cose di giustizia e la sopravveglianza dei negozî civili. In nome dei due imperanti dovevano pertanto essere eletti dei legati, il cui officio era di riferire ogni anno all’Imperatore sul modo onde i Duces e i giudici pontificî [72] rendevano giustizia al popolo e davano eseguimento alla Costituzione imperiale[71]. Ogni querela di doveri negletti da parte dei giudici doveva prima sporgersi al Papa, affinchè o riparasse al male col mezzo di suoi proprî legati, oppure facesse proposta che si spedissero dei Missi imperiali straordinarî. E per rendere più rigoroso il suo decreto, Lotario comandava che tutti i Duces e i giudici pontificî venissero in persona davanti a lui, perchè voleva conoscerne i nomi ed il numero, e ammonire ciascuno di loro del ministero che gli era confidato[72].
A questo ordinamento generale delle cose di giustizia si associava strettamente la determinazione speciale delle leggi individuali. Infatti, un altro articolo dello Statuto prescriveva ai nobili ed a quelli del popolo di significare la legge giusta la quale ognuno di loro voleva nel tempo avvenire essere giudicato. Ogni cittadino libero di Roma e del Ducato, dovette professare la sua soggezione [73] ad un codice di leggi liberamente eletto. Se avessimo documenti che dessero notizia di queste dichiarazioni, che in Roma facilmente saranno state registrate in rapporto alla partizione regionale e nel Ducato in rapporto a ciascuna terra, ne avremmo giovamento come di importanti indici di statistica sul numero degli abitanti e sulle relazioni di famiglia, e noi potremmo renderci persuasi di quanto nella città stessa di Roma si fosse diffusa la stirpe germanica. L’ordinamento imperiale abolì pertanto il principio che il giure romano vigesse da legge territoriale, perciocchè in Roma e nel paese che ne dipendeva, fossero da grandissimo tempo venuti ad usanza anche il giure personale longobardo e il salico; quella Costituzione rese manifesta la contrarietà, fatta ognor più gagliarda, degli elementi germanici, i quali nel periodo di tempo in cui Roma stette sotto la suprema sovranità franca, non s’acconciarono a lasciarsi dominare dal giure romano, come i giudici pontificî, di ragione naturale, tentavano di fare. Il genio tedesco dell’individualità si afforzava sodamente e otteneva trionfo in Roma, e sebbene l’assetto giudiziario germanico qui non s’attuasse in principalità e da solo, tuttavia il suo scabinato incominciò poco alla volta ad operare mutazioni di forma anche nel rito della procedura romana[73].
[74]
La distinzione degli statuti personali dipinge al vivo la fisonomia del medio evo, la cui costituzione sociale riposava sulle differenze delle franchigie individuali, a riparo delle quali l’uomo individuo, al pari delle corporazioni, si schermiva dai soprusi; quella distinzione dimostra fino a che segno il suo organamento separativo dovesse alimentare il genio battagliero e ardito dell’individualità, il quale è uno dei caratteri mirabili del medio evo; e dimostra in pari tempo apertamente quanto fossero mal sicure e rozze le condizioni di quella società barbarica. La continua collisione dei diritti individuali doveva produrre una immensa confusione e difficoltà gravissime nell’organamento delle cose giuridiche. In Roma s’era sempre mantenuto fermamente in vigore il diritto giustinianeo, che i Longobardi avevano espulso da tutte le città cadute sotto la loro conquista; e si conservava legame efficace e durevole dei tempi nuovi coll’antichità, germe della vita civile dei Romani, vera e vivissima fonte dell’indole di nazione romana. Ora l’arbitrio di eleggersi liberamente una legge propria, avrebbe [75] dovuto recar offesa ai Romani se con ciò s’avesse voluto supporre che taluno di loro potesse far professione di giure franco o longobardico. Ma l’editto di Lotario non poneva pur remotamente in dubbio la preponderanza grandissima che il diritto romano si aveva, nè dubitava del sentimento nazionale dei Romani, il quale, se allora non era così decisamente manifesto come fu un secolo dopo, ben viveva sempre fra essi. In Italia la razza germanica, pure, avendo accolto la lingua romanesca, prevaleva intieramente sulla stirpe latina del paese, così che di sè riempiva città e province, e teneva in mano sua tutti gli officî più elevati nello Stato e nella Chiesa; per lo contrario Roma sola a buona ragione poteva rappresentare la nazione latina. Vero è che anche i Romani da lunghissimo tempo si erano meschiati di sangue coi Goti, coi Longobardi, coi Franchi e coi Bizantini, laonde vi aveva difficoltà sempre maggiore di scoprirvi dei pretti discendenti di famiglie antiche del patriziato e del ceto plebeo; nondimeno la razza romana aveva serbato un’impronta essenzialmente latina, e i nomi dei Romani serbavano a preferenza suono romano o greco, laddove nel resto d’Italia tutti i documenti storici sono pieni di nomi che hanno accento germanico con loro desinenze old, bald, pert, rich, mund, brand, e così via. Precisamente dopo di quella Costituzione, il sentimento di nazione prese fra’ Romani un novello impulso di vita, perocchè la distinzione recisa delle leggi desse unità, forza e rilievo alla cittadinanza romana. Con siffatto criterio il Papa e i Romani considerarono questa professione di leggi, mentre l’Imperatore intendeva col suo editto a dare guarentia e fortezza [76] agli elementi germanici che s’accoglievano in Roma. Le Scuole di stranieri che erano nella Città, affermarono così la loro legge di origine; lo stesso fece con grande suo trionfo il monastero imperiale di Farfa, e financo singoli uomini tedeschi poterono far valere i loro statuti personali innanzi a’ tribunali romani. La miscela di nazioni recò del resto dei proseliti alle leggi; donne conjugate professarono la legge dei loro mariti, donne vedove poterono tornare a quella dei loro padri[74]. Rapporti di clientela operarono sì che alcuni uomini franchi o longobardi dichiarassero di sottoporsi al codice giustinianeo, e furono pertanto proclamati con gran solennità cittadini romani, avvegnachè tornasse a vivere il concetto della Civitas romana. Una formula compilata nel secolo decimo (e forse anche risale al secolo nono) determinava le maniere giusta le quali la persona doveva ottenere accoglimento nel numero dei cittadini romani e nella legge di Roma[75].
Gli statuti personali conseguirono dunque publico riconoscimento in Roma, mercè l’editto di Lotario; la legge salica e quella dei Longobardi acquistarono vigore nella loro cerchia rispettiva, ma il diritto romano fu e rimase pressochè universale, finchè più tardi un editto di Corrado II lo confermò a legge territoriale.
La Costituzione di Lotario conobbe la podestà temporale [77] del Papa, avvegnachè espressamente comandasse ai Romani di prestargli obbedienza. A tôrre qualsiasi impedimento che sturbasse la elezione pontificia, si bandì che nessun uomo libero o servo potesse intendere a porre ostacoli all’elezione, ma che soltanto quei Romani, cui l’età conferiva il diritto di elettori, potessero eleggere il Pontefice: ai trasgressori di questa statuizione fu imposta la pena dell’esilio.
La elezione pontificia, che era atto di così grande rilevanza per Roma, ottenne veramente in questa guisa regolamento dalla podestà suprema, ma giova osservare che la Costituzione non determinava il modo con cui doveva comportarsi l’Imperatore in riferimento ad essa. Gli Imperatori pretendevano al diritto di darvi conferma; Odoacre, i Re goti, gli Imperatori bizantini avevano esercitato quel diritto, nè i Carolingi potevano rinunciarvi. Fu spesse volte messo in dubbio se la determinazione di quel rapporto risalisse ad un patto fra l’Imperatore e il Papa, che Lotario avesse conchiuso, ma, quantunque un solo Cronista ne parli, pur tutte le circostanze concorrono ad affermare che ciò avvenisse. Secondo quello Scrittore, il clero e il popolo dei Romani prestavano all’Imperatore questo giuramento:
«Per Iddio onnipossente, e per questi quattro Evangelî, e per questa croce del signor nostro Gesù Cristo, e per il corpo di Pietro santo, principe degli Apostoli, giuro che da questo giorno in poi, per tutto il tempo venturo sarò fedele ai signori e imperatori nostri Lodovico e Lotario, secondo le forze e l’intelletto mio, senza falsità o malizia, salva la fede che ho promesso al Pontefice apostolico: e giuro, che, secondo le forze e [78] l’intelletto mio, io non consentirò che in questa sede romana la elezione pontificia avvenga con modo diverso da quello che impongono i canoni e il dritto, nè con mio consentimento l’eletto sarà consecrato papa se prima egli non abbia pronunciato in presenza del Missus imperiale e del popolo, il giuramento che il signore e papa Eugenio per bene universale ebbe prestato spontaneamente con sua scrittura[76]».
All’energica riforma delle cose giuridiche, e all’ordinamento di tutti i rapporti publici e personali, deve per certo aver susseguito un assestamento conforme del governo civico di Roma. E qui deploriamo il silenzio in cui si chiudono tutti i documenti riguardo ad un subbietto così importante come è questo delle prime relazioni del Papa con Roma, da dopo ch’ebbe fondazione la sua signoria temporale. I Romani mercè di un patto tenevano l’amministrazione cittadina per mezzo di loro magistrati? e questi com’erano eletti? si restaurava l’officio del Prefetto, si instituivano dei Consoli? Sventuratamente su tutto ciò non v’ha altro che buio, e soltanto non abbiamo dubbiezza di credere che qualche cosa di somigliante avvenisse, e che la Costituzione di [79] Lotario concedesse diritti maggiori alle necessità cittadine, che si facevano ogni giorno più imperiose, affine di riconciliarle col Papato. Per lo meno, in favore di questa ipotesi parla il fatto, che per un lungo tratto di tempo dopo che si promulgò la Costituzione, non si rivelano moti di tumulto in Roma[77].
Talmente operò Lotario alla sua seconda venuta in Roma; e ciò che ei fece segna un’epoca storica. Dopo che i Romani ed il Papa ebbero giurato fede alla Costituzione, Lotario potè partirsi della Città con animo contento e, reduce in patria, ottenerne lode dal padre suo, lieto di quanto egli aveva fatto.
Eugenio II morì nell’Agosto dell’anno 827. Benedetto fu il suo breve reggimento; all’animo temperato di questo Papa la Città dovette in particolar modo la pace onde godè l’Occidente al tempo suo, ma sopra tutto ne andò debitrice a quella Costituzione carolingia che per la prima volta diede una specie di autonomia al popolo romano rincontro al Papato[78].
[80]
A succeditore di Eugenio eleggevasi con voce concorde Valentino I, figlio di un romano Pietro che abitava nella via Lata; ma dopo soli quaranta giorni moriva. Allora fu fatto papa Gregorio IV, figlio di un romano Giovanni, cardinale di san Marco. La volontà del popolo costrinse lui, reluttante, ad accettare l’officio cui era eletto; ma egli non ricevette l’ordinazione se non allora che ebbe ottenuto la confermazione dall’Imperatore[79]. Sortiva illustri natali ed era bello di persona; se per genio non appartenne alla schiera dei Papi maggiori, fece ad ogni modo prova di operosità e di intelletto.
I tempi correvano allora fortunosi e minacciavano procelle terribili. A settentrione la giovane monarchia di Carlo vacillava per dissensioni della sua famiglia che presto dovea spegnersi; al mezzogiorno, Saraceni e Mauri, venendo d’Africa, di Candia e delle Spagne, si avanzavano sempre più poderosi nel mar Mediterraneo [81] anelando di impadronirsi della penisola italica, sì come gli Arabi, fino dal principio del secolo ottavo, avevano fatto conquista delle Spagne. Già da lungo tempo i loro corsari incrociavano nelle acque del mar Tirreno, sorprendevano di botto le isole, e mettevano a sacco le marine della terraferma. Fin dall’età di Leone III avevano dato minaccia alle costiere romane, per guisa che questo Papa, d’accordo con Carlo, ivi aveva tenuto dei presidî: rimontano a quel periodo le prime costruzioni di torri erette a guardia delle spiagge del Lazio e dell’Etruria, seminate oggidì ancora di quei torrioni crollati, chè massimamente tutta Italia e tutte le sue isole sono da quel tempo in poi coronate di così fatte torri di vedetta. Omai nell’anno 813 i Saraceni assaltavano Centumcelle (Civitavecchia), saccheggiavano Lampadusa e Ischia, sbarcavano in Corsica e in Sardegna, e corseggiavano nelle acque di Sicilia[80]. La debolezza del Patrizio di colà, che governava l’isola per l’Impero di Bisanzio, ne accordava loro agio favorevole, tanto più dappoichè i Napoletani si rifiutavano [82] di prestare al Patrizio l’ajuto delle loro navi, e le città commerciali di Amalfi e di Gaeta, che crescevano in bel fiore, seguivano soltanto a mala voglia le sue domande di soccorso.
Costretto a saziare i Saraceni a forza di tributi, il Patrizio nell’anno 813 avea comperato una tregua di dieci anni. Ma in sull’incominciamento dell’anno 827 una rivolta militare decideva delle sorti dell’isola. Eufemio generale siciliano, irritato da un’ingiuria fattagli dal patrizio Gregorio, si ribellava, uccideva quel nemico suo, e tentava di sottrarre la terra al dominio dell’Imperatore di Bisanzio. Però le soldatesche dell’armeno Palata, composte di genti che non erano siciliane, lo batterono e lo costrinsero a fuggire in Africa. Il traditore della patria proponeva a Ziâdet-Allah, signore di Kairewan, di conquistare l’isola, poichè ei bramava di acquistarsi titolo d’imperatore. Aséd-ben-Forât, vecchio cadì di quella città, ebbe la capitananza dell’impresa. Una flotta portava alle costiere di Sicilia Arabi (Saraceni), uomini di Barberia (Mauri), Maomettani fuggiti di Spagna, Persiani, tutto il fiore delle genti d’Africa, e nel giorno 17 del Giugno 827 sbarcavano a Mazara. Palata fu trucidato, i vincitori s’avanzarono fin sotto le mura dell’antica Siracusa, e poichè non poterono farne conquista, si gettarono su Palermo. Questa bella città cadde sotto il dominio dei Maomettani addì 11 di Settembre dell’anno 831[81].
[83]
Colla conquista di Sicilia cadde il baluardo che teneva remoto l’Islamismo dalle terre d’Italia. Di quell’ora i Maomettani penetrarono nella penisola, e le province meridionali di essa diventarono il campo sanguinoso su cui si combatterono fra loro gli Imperatori d’Occidente e d’Oriente e i Sultani d’Africa. Atterrivasi il Papa udendo che Sicilia era caduta nelle ugne dei nemici del Cristianesimo, i quali nella vicina Palermo avevano posta la sede di un reame arabo, donde volgevano i loro ceffi biechi e terribili verso il santo Pietro. Dalla parte di mare, Roma era tutto aperta al nemico; le fragili città di Porto e di Ostia, che da’ tempi di Belisario in poi erano cadute più sempre, non potevano opporgli impedimento se gli prendeva il capriccio di entrare nel Tevere. Nelle ruine di quelle castella poteva tenersi ancora un presidio romano, ma poichè gli abitatori, cacciati dalla paura, si diradavano ogni giorno più, era a temersi che quelle terre si facessero deserte. Ostia era allora animata di maggior vita che Porto, dacchè le poche navi che risalivano la corrente del Tevere fino a Roma, prendevano via dal braccio sinistro del fiume, il quale era ancor navigabile. Gli abitatori di quel luogo vivevano di pesca e di poveri traffici, nella malsana aria della maremma, in mezzo a ruderi di monumenti antichi, di terme e di teatri altra volta magnifici: ivi era la cattedrale consecrata alla vergine Aurea, contemporanea di santo Ippolito, e vi risiedeva il Vescovo di Ostia, che per ragguardevole dignità aveva privilegio innanzi agli altri sei Vescovi suburbicarî, perocchè fosse il primo fra tutti a [84] consecrare il Papa[82]. Gregorio determinava di munire fortemente Ostia, ma la completa ruina della vecchia città gli persuadeva che meglio era erigerne una nuova[83]. Egli costruì dunque una città novella coi materiali di Ostia antica, i cui monumenti adesso ne andarono interamente distrutti; e la cinse di alte e solide mura sui cui merli furono collocati petrieri[84]. Come ebbe compiuta l’edificazione della città, il Papa dal nome suo l’appellò Gregoriopoli, ma poichè mal s’acconciava all’orecchio, il nome non si serbò. Ignoto è l’anno in cui Nuova Ostia si fondava; certo è che la sua costruzione avveniva tosto dopo che i Musulmani avevano conquistato Palermo.
Mentre dunque il progredire dei Saraceni incuteva grande spavento alla Cristianità, le sciagurate discordie [85] dei successori di Carlo toglievano speranza che l’Impero ne movesse a difesa. Sembrava che il nuovo Impero romano fosse omai per dissolversi; la corona imperiale del suo gran fondatore si copriva di onta sul capo del figliuolo di lui, e le mani audaci dei suoi nepoti la insozzavano innanzi agli occhi del mondo. Dopo di Carlo tornavano i tristi tempi dei Merovingi; l’ambizione, l’avarizia e la dissolutezza, vizî dell’antica dinastia dei Franchi, corrompevano anche la nuova stirpe di Principi; ribelli al padre i figli, l’alto clero parteggiante fra quei delitti; veniva in aperto il vero stato di quell’età di barbarie. Un risorgimento artistico della cultura, quale si ripetè più tardi in condizioni simili di cose, aveva desto l’intelletto degli uomini, ma la persona umana del gran Carlo doveva ben presto paragonarsi ad un baleno, che squarciando la tenebra aveva illuminato un istante la terra, per indi lasciare dietro a sè nuovamente tenebra. Così fatta, per lo meno nell’aspetto della superficie, appare essere quell’età, sebbene la forza vitale che l’epoca di Carlo aveva infuso profondamente nel mondo, non potesse spegnersi mai più.
La Storia della Città non può rivolgere che un rapidissimo sguardo sulle tragiche lotte che si combatterono fra il padre e i figliuoli, tanto per non perdere di vista le fila che congiungevano Roma al rimanente del mondo[85]. Nell’anno 819, Lodovico, passato a seconde nozze, [86] aveva sposato Giuditta, la bella figlia di Guelfo duca di Baviera, primo di questo nome, fatale anche nella storia d’Italia. Giuditta, nell’anno 823, gli partoriva un figliuolo che fu appellato Carlo; laonde se ne struggevano di dispetto i principi Lotario, Pipino di Aquitania e Lodovico di Baviera, i quali prevedevano gli intendimenti della matrigna maestra di raggiri. Si mutò la primitiva divisione dell’Impero, e il giovane Principe ne ebbe in dono una parte. Quindi s’inacerbirono vieppiù le ire. Fra il padre debole e dominato dal clero, e i figliuoli audaci, si frappose un ministro temerario, Bernardo duca di Settimania, ajo di Carlo, e, come l’odio andava buccinando, drudo della Imperatrice. I figliuoli cospirarono contro il padre. Nell’anno 830 scoppiava aperta rivolta; Lotario levavasi in arme in Italia, Pipino assaliva il padre in Francia, e, fattolo prigioniero, tutti e due lo premevano affinchè si seppellisse sotto un sajo di monaco. Egli resisteva. Il popolo lo riponeva sul trono; la discordia disuniva i fratelli, e l’uno giocava d’inganni contro all’altro. Nell’anno 833 tornavano uniti, e da tutte le parti correvano nuovamente alle armi. Si accampavano contro il padre in Alsazia nel «campo delle menzogne», dove Lotario chiamava o conduceva con sè il Papa perchè s’intromettesse paciero. I Franchi però videro in Gregorio IV un intruso che favoreggiava i disegni ribelli dei figliuoli; il vecchio Imperatore lo accolse innanzi alle fronti del suo esercito senza dargli segno di onoranza, e pien di sospetto; i Vescovi che parteggiavano per l’Imperatore (eglino combattevano ancora risolutamente contro la supremazia della cattedra romana) giunsero a protestare, che se il Papa [87] fosse venuto per iscagliare la scomunica, se ne tornerebbe egli scomunicato. Gregorio, tutto smarrito, riedeva al campo dei fratelli; anche qui nulla conchiudeva, e finalmente facea ritorno a Roma «senza onore, e pentito d’essere andato»[86].
Il capo della Chiesa cristiana avea veduto co’ proprî occhi i figli ribelli trarre in prigionia ignominiosa il padre, dopo che lo avea diserto il suo partito corrotto; avea visto Arcivescovi e Vescovi farsi sostenitori di frivole cause politiche contro la ragione santa di natura; e poco dopo udiva che un concilio raccolto a Compiegne scagliava l’anatema contro l’Imperatore detronato. Del resto, assai equivoco era stato il suo tentativo di intromissione, e l’esito di esso sbassava la sua autorità. Chiamato all’opera più sublime che si comprenda nell’officio vero del sacerdozio, alla missione di ammansare [88] le ribellioni della natura colle voci soavi dell’amore, a comporre la pace fra Principi e popoli, Gregorio IV dimostrò ch’ei non era capace di un còmpito così augusto, e che mirava da egoista soltanto al consiglio del suo tornaconto. Poichè non avea quella grandezza di sacerdote, che in una lotta così tragica avrebbe elevato il Papa al di sopra di tutti i Re, ne guadagnò il disprezzo di tutti i partiti, e dovette allentare le redini ai Vescovi, per guisa che perfino l’istituto del Papato sofferse per colpa di lui una gravissima sconfitta nelle sue relazioni morali col mondo.
Dopochè i fratelli s’ebbero spartito l’Impero, e furono venuti un’altra volta a discordia, dopochè coll’ajuto di Lodovico di Germania, l’Imperatore deposto fu di nuovo salito sul trono, Lotario venne in Italia. Il Papa, che non poteva approvare publicamente ciò che il Principe avea fatto, dovette in nome della Chiesa ammonire quell’empio figliuolo, e Lotario se ne vendicò sui beni della Chiesa, e perfino officiali suoi massacrarono delle genti del Papa. Lo sventurato imperatore Lodovico lo scongiurava di desistere da quelle male opere, e desiderava andarne in persona a Roma, alla tomba dell’Apostolo, per liberarsi del fardello di colpa e di disgrazia che gli pesava sul capo; ma poichè questo suo proposito non poteva condurre a compimento, mandava ambascerie al figliuolo ed al Papa. Gregorio spediva suoi nunzî in Francia, ma Lotario, impaurendoli, li respingeva, per modo che soltanto alla celata le lettere pontificie arrivarono di là delle Alpi. Sono questi i casi che avvenivano nell’anno 836, e la Cronica della città di Roma si chiude in un silenzio così impenetrabile, [89] che lo Storico deve di gran voglia profittare di essi per riempierne il vuoto di questi anni.
L’infelice Lodovico morì addì 20 di Luglio dell’anno 840: sul trono di Carlo, salì allora, unico Imperatore, Lotario, cui, morendo, il padre aveva mandato la corona, lo scettro e la spada imperiale. Ma il fuoco che covava nel profondo dell’Impero, scoppiò tosto in gran fiamme, e un’orribile guerra civile incominciò, riuscendo inutili gli sforzi onde Gregorio cercò con suoi ammonimenti di farla posare. Dopocchè Lotario ebbe sfoderata la spada per difendere contro a’ suoi fratelli l’unità della monarchia, e poichè fu vinto nella omicida battaglia di Auxerre (addì 25 di Giugno dell’anno 841), i fratelli Lodovico il Tedesco e Carlo il Calvo convennero insieme a Strasburgo nell’anno 842, e si promisero amicizia con quel celebre giuramento che fu pronunciato in lingua tedesca e nella lingua neo-romana della giovane Francia[87]. I combattenti conchiusero finalmente a Verdun, nell’anno 843, un trattato che sanciva la partizione dell’Impero: per esso la monarchia di Carlo fu divisa nelle sue congregazioni nazionali di popoli, e Germania, Italia, Francia ne guadagnarono [90] loro esistenza di vita individuale. L’imperatore Lotario toccò in parte tutti i regni italici colla «Città romana,» per guisa che egli nominò il figliuol suo Lodovico II a re d’Italia[88]. Tale fu dunque la forma che, trascorso appena il periodo di una generazione dalla incoronazione di Carlo, assunse l’Impero che il grande uomo aveva fondato a foggia di una teocrazia, ispirata ai principî del Cristianesimo.
Allo Storico di Roma non soccorrono in questo periodo di tempo altre fonti che gli annali dei Cronisti franchi, scarsissimi di notizie, e le Biografie dei Papi, le quali in loro arido tenore registrano poco più che edificazioni e doni votivi. La è dunque disperata impresa quella di dare in qualsiasi modo una descrizione della vita civile di Roma a questa età; ma poichè essa è pur sempre tutto consecrata ai negozî di religione, potremo volgerci un tratto a esaminare di che foggia fossero siffatte condizioni di cose.
[91]
Roma continuava ad essere dispensiera di reliquie in tutto Occidente, come aveva fatto al tempo di Astolfo e di Desiderio. Un nuovo fervore passionato di certa specie di possedimenti che era stata ignota ai bei tempi antichi, la brama cioè di possedere cadaveri santi, s’era impadronita del mondo cristiano, e in quel tempo, che si faceva sempre più scuro di tenebre, era diventata un vero delirio. Chi vive ai nostri giorni non può che sentir compassione di quella età, in cui lo scheletro di un morto si levava sull’altare della gente umana, donde ne accoglieva le doglianze, i voti, le estasi che mettono ribrezzo. I Romani, che in ogni tempo seppero con intelletto pratico far loro pro delle passioni del mondo, esercitavano allora un vero traffico di cadaveri, di reliquie e di imagini di Santi; questo, come forse anche il commercio di vecchi codici, era tutta la loro industria[89]. La copia innumerevole di pellegrini che visitavano Roma, non volevano partire della santa Città senza recarne con sè qualche sacra ricordanza. Comperavano reliquie ed ossa delle catacombe, sì come i visitatori d’oggidì fanno acquisto di gioielli, di quadri e di lavori in marmo antico o moderno. Però non v’erano che Principi o Vescovi, i quali avessero potenza tanta da portarsi via dei cadaveri interi. V’avea in Roma dei preti che ne vendevano sotto mano, ed è [92] facile imaginare di quali inonestà costoro si facessero lecite. I guardiani delle catacombe e delle chiese vigilavano notti affannose, come se avessero dovuto difendersi da assalti di jene, mentre ladri strisciavano di soppiatto tutt’all’intorno, e mille trappole mettevano in moto per giungere ai loro scopi di furto: ma spesso l’inganno vinceva gl’ingannatori, chè i cadaveri erano di Santi posticci e forniti di soprascritte inventate.
Nell’anno 827 alcuni Franchi rubarono gli avanzi dei santi Marcellino e Pietro, che furono trasportati a Soissons; nell’anno 849 un prete di Reims trafugava la salma di santa Elena, o qualche altro cadavere che egli spacciava per il corpo della madre di Costantino[90]: il possedimento di reliquie sante era tenuto per qualche cosa d’inestimabile, così che l’onta del suo ladroneccio andava coperta come se si fosse trattato di un pio inganno. Si procurava che i cadaveri strada facendo improvvisassero qualche bel miracolo, chè in tal guisa i Santi dimostravano di starsi contenti alla violenta mutazione di loro domicilio, e crescevano di prezzo. Sembrava che di questa guisa si rinnovassero le costumanze dei Romani antichi, i quali solevano recare con sè idoli di città straniere per [93] collocarli nei loro templi. Il sentimento morale dell’uomo colto può sentir repugnanza a fissar l’occhio sulla desolante tristizie di questi tempi, ma lo Storico ha debito di considerare anche i lati tenebrosi della società di cui descrive la vita, per rallegrarsi colla gente umana che, procedendo nel suo cammino, si lasciò dietro le spalle cosiffatte miserie[91]. Spesso i Papi acconsentivano che Santi romani migrassero in altre terre, perocchè non mancavano città e chiese e principi, che fervidamente li assediassero di suppliche affinchè loro concedessero di sì segnalati favori. Allorquando si trasportavano fuor della Città di quei morti adagiati su carri splendidamente adorni, i Romani gli accompagnavano per un tratto di via con solenne corteo, tenendo cerei accesi in mano, e cantando inni religiosi. In tutte le terre da cui passavano torme di popolo correvano incontro al carro funebre, implorando miracoli, massimamente guarigioni di morbi; giunti poi al luogo di loro destinazione, fosse questo una città od un convento di Alemagna, di Francia o di Inghilterra, i morti [94] erano festeggiati con grandi funzioni che duravano parecchi giorni. Quei raccapriccevoli corteggi trionfali movevano allora di sovente da Roma per le province dell’Occidente, e, passando dalle città e in mezzo a’ popoli, spandevano un’onda cieca di passioni superstiziose, a capire l’indole delle quali oggidì ci basta appena l’idea[92].
Giusto in questo tempo destarono d’ogni dove gran reverenza le traslazioni dei corpi di due celebri Apostoli, e se ne crebbe in tutti la smania di avere simiglianti tesori. Nell’anno 828 alcuni mercanti veneziani, in mezzo a molte avventure, recarono di Alessandria la salma dell’apostolo Marco, e la portarono alla loro città, di cui il Santo diventò il patrono[93]. Nell’anno 840, veniva a Benevento un altro Apostolo, san Bartolomeo, il quale lungo tempo prima avea avuto la valentia di passare a nuoto i mari, tuttochè chiuso nella sua urna di marmo, e delle Indie era giunto all’isola di Lipari. I Saraceni, amanti del buon vivere e della lieta ciera, non dividevano coi Cristiani la venerazione per le mummie, e, saccheggiando in quell’anno Lipari, avevano gettate le ossa del Santo fuor della sua [95] tomba. Un eremita le raccoglieva, e le portava a Benevento, dove Sicardo, principe della terra, loro compose sepoltura nella cattedrale, in mezzo a giubilo indescrivibile[94]. Gli Italiani del mezzogiorno, già fin d’allora immersi nella più crassa superstizione, usavano a qualche occasione di morti Santi per farne delle proteste politiche. Nell’anno 871, i Capuani, volendo indurre a spiriti di mitezza l’animo di Lodovico II, movevano al suo campo portando sulle spalle il cadavere del loro santo Germano. L’ansiosa brama di possedere ossa di Santi non s’accoglieva in altri luoghi con più gran fanatismo di quello che fosse alla corte degli ultimi Principi longobardi che v’ebbero in Italia. Come nel secolo decimoquinto e nel decimosesto Papi e Principi andavano raccogliendo con fervida gara anticaglie e manoscritti, così Sicardo spediva suoi agenti in tutte le isole e in tutte le marine, perchè gli facessero incetta di ossa e di cranî e di scheletri interi e di altre reliquie, che egli ammassava nella chiesa di Benevento: così ei tramutava questo tempio in un museo di fossili santi, e possiam credere se i suoi uomini lo servissero per bene. Egli profittava delle sue guerre per estorcere cadaveri, sì come altra volta i Re avevano cavato tributi dai vinti; costringeva quelli di Amalfi a dargli la mummia di santa Trifonema, parimenti come il padre di lui, [96] Sicone, animato di egual fanatismo, aveva obligato, nell’anno 832, i Napoletani a cedergli il cadavere di san Gennaro, che egli poi traeva con pompa di trionfo a Benevento in mezzo alla gioia inenarrabile delle genti[95].
A questo culto de’ morti si associava il grande via vai di pellegrinaggi, che allora, come nei secoli che vennero dopo, percorrevano d’un capo all’altro l’Occidente. È una legge di natura che gli uomini si muovano; guerre e negozî, traffici e viaggi hanno sempre uguagliato la vita della società alle correnti di un fiume, ma in quel tempo il moto pacifico dell’umanità consisteva generalmente in andare peregrinando, e più tardi ottenne il suo culmine nelle Crociate, massimo dei pellegrinaggi che abbia visto la storia del mondo. Vi prendevano parte genti di tutti i sessi, di tutte le età, di tutti i ceti; pellegrini andavano l’Imperatore e il Principe, il Vescovo e l’accattone; bambini, giovani, nobili, matrone, vecchi, tutti andavano all’ingiro con in mano il bordone e a piè scalzi. Questo impulso spandeva fra la gente umana un amore al romanzo, un desiderio allo strano e all’avventuroso. Roma, prima d’ogni altro paese, aveva destato vaghezza a questo moto di girovaghi, e lo aveva attirato entro le sue mura; nè cessarono le genti di indirizzarsi a quella volta, anche dopo che tanti e tanti sepolcri santi furono raccolti con cura nelle province dell’Impero, come a provvisione delle necessità più urgenti. Quasi da due secoli s’era raffermata la insana credenza [97] che una pellegrinazione a Roma, alla città dei Martiri e degli Apostoli, recasse al possedimento immancabile di quelle chiavi che schiudevano le porte del paradiso. I Vescovi alimentavano questa fede, dappoichè erano essi che bandivano i pellegrinaggi. La credenza fanciullesca di quell’età, in cui non s’era peranco discoperto che le vie della espiazione siedono nell’intimo cuore degli uomini, ma si cercavano invece nelle pratiche esteriori, con un viaggio rivolto a qualche simbolo di salute corporeo e remoto, bastava a render beato il pellegrino virtuoso che in mezzo all’ira avversa degli elementi, fra i pericoli di strade mal sicure e tribolate di assalti nemici, in mezzo alle privazioni previste di un cammino lungo e faticoso, passava quasi attraverso di un purgatorio, prima che giungesse alla meta dove lo attendevano le misericordie della grazia. Ogni dolore che derivava da peccato o da sventura innocente, ogni forma di male terreno, perfino ogni delitto poteva volgersi a Roma colla speranza di esserne cancellato in quei luoghi santi o a’ piedi del Papa. L’immenso valore che la fede degli uomini attribuiva a quest’una città, a questa Roma, non ebbe mai più ripetizione di esempî, e neppur l’avrà. Ed in vero le genti d’allora dovevano reputare ventura benedetta che, in una età di rotta e feroce barbarie, vi avesse un cosiffatto santuario di pace e di riconciliazione. Turbe innumerevoli di pellegrini movevano a Roma; vere migrazioni di popoli incessantemente valicavano le Alpi o venivano da mare, tutte a Roma, trattevi da un impulso morale. Ma la virtù afflitta o pavida del pellegrino era troppo di sovente costretta a camminare a fianco del vizio sfrontato e del furbo [98] raggiro; e mentre procedeva lungo la via della salute, era condannata dal contatto infetto a seguire essa medesima la empietà. La comunanza depravatrice con uomini che avevano infranto ogni vincolo di famiglia, le avventure e le seduzioni che s’incontravano lungo il viaggio, le arti della corruzione in mezzo alle dissolute città del mezzogiorno, contaminavano l’onestà di un grandissimo numero di giovinette; e molte donne che erano partite dal loro paese pudiche fanciulle, e vedove e monache caste, nell’intendimento di render più forti i loro voti di purezza sulla tomba del san Pietro, tornavano femmine traviate ai loro luoghi natii, seppure non si fermavano nella ridente Italia, cortigiane in titolo alla corte di qualche giocondo cavaliere[96].
Ogni giorno turbe di pellegrini si rovesciavano dentro alle mura di Roma. All’occhio di chi li mirava alcuni di essi offrivano l’aspetto di uomini veramente pii, ma altri mettevano spavento con loro figure miserabili e feroci, e molti di loro erano macchiati dei più orrendi delitti. I principî sui quali ha fondamento la nostra società impongono di sottrarre il delinquente agli occhi [99] degli uomini, di separare gli onesti dal suo contatto, di lasciarlo solo alla sua pena, al suo emendamento; nel medio evo invece avveniva tutto l’opposto. L’uomo colpevole era di proposito mandato in mezzo al mondo, provveduto di un’attestazione del suo Vescovo che apertamente lo proclamava assassino o reo di delitti di sangue, e gli prescriveva il suo viaggio, i modi e la durata di questo, ma in pari tempo lo muniva di diritti. L’uomo viaggiava col suo delitto patentato dalla scritta del Vescovo, come se questa fosse un vero passaporto datogli dal magistrato, ed ei la mostrava lungo il suo cammino a tutti gli Abati ed ai Vescovi dei luoghi pei quali passava. A queste lettere, che teneva a sua condanna e a sua raccomandazione, il peccatore andava debitore di accoglienze ospitali, così ch’ei poteva, senza darsi un pensiero al mondo, peregrinare di stazione in stazione fino al santuario, che gli era statuito a meta del suo cammino[97]. Il codice penale del medio evo è una contraddizione vivissima di barbarie brutale e di mitezza [100] da angeli. Le dottrine eccellenti per cui il Cristianesimo insegna di usar carità a chi falla, e di aprire con amorevolezza la via della riconciliazione al peccatore, cozzavano con grande contrasto contro l’ordinamento della società civile. Quella stessa età, che per decreto di sacri sinodi faceva martoriare o svellere gli occhi ai rei di maestà, o a vitupero li faceva attraversare le città a bisdosso di un asino scabbioso, dava in mano un passaporto di pellegrino a chi aveva ucciso suo padre o sua madre, e impediva alle furie che lo perseguitassero come avevan fatto di Oreste. Roma, grande refugium peccatorum, dava accoglimento a tutti i delitti che mai abbiano avuto un nome e una forma; e nelle chiese o nei loro vestiboli si vedevano entrare ed uscire assassini, avvelenatori, ladri, truffatori d’ogni maniera e d’ogni paese. La storia dei pellegrinaggi di quell’età ben ne potrebbe formare la storia criminale, ma noi di buon grado tralasciamo di leggerne le pagine tristi. Spesso s’incontravano figuri spaventosi: uomini che, a somiglianza dei penitenti dell’India, portavano addosso catene, altri mezzo nudi con un pesante anello di ferro intorno al collo, o con un cerchio di ferro ribattuto intorno al braccio. Erano uccisori di loro genitori, di loro fratelli o di loro figli, cui un Vescovo aveva imposto di peregrinare a Roma in quella foggia. Con gemiti e con grida si prostravano davanti alle tombe, si flagellavano, dicevano orazioni, andavano in estasi, e talvolta riusciva alla loro maestria di far cadere in pezzi i loro anelli di ferro innanzi ad una cripta di Martiri. Chi potrebbe negare che in mezzo a questi uomini vi fossero anche dei peccatori veramente contriti, ma chi può non anco [101] credere che fra essi vi fossero altrettanti, e più ancora, di indegni furfanti? Poichè la penitenza di un delitto offeriva in pari tempo un brevetto di buon trattamento, non di rado avveniva che dei mariuoli, i quali non avevano mai ucciso nè padre, nè madre, nè anima nata, si coprivano colla maschera della scelleratissima opera, soltanto per avere occasione di viaggi avventurosi e di trufferie profittevoli a’ loro guadagni. Nudi, coperti di ceppi di ferro, essi movevano con falsi salvocondotti attraverso i paesi, soltanto per destare la irragionevole compassione degli uomini, e per cibarsi a spalle altrui nelle abbazie o negli alberghi di pellegrini. Molti la facevano da ossessi, passavano per le città trinciando in aria dei gesti stravaganti, si prostravano innanzi le imagini dei Santi nei conventi, e mentre, al vederle o al toccarle, tutt’a un tratto tornavano ai sensi o ricuperavano la favella, ciuffavano non pochi donativi ai frati tutto lieti dell’accaduto, e indi se ne andavano ridendo della burletta, per continuare altrove le loro ciurmerie[98]. Non in Roma soltanto, ma anche in altri paesi vedevansi di questi spettacoli; sennonchè la santità delle tombe dei Martiri, e in pari tempo la lontananza della Città, per cui maggiore era la penitenza del viaggio, dovevano far sì che Roma vedesse capitar il maggior numero di quelle genti dentro delle sue mura. Il culto delle reliquie non ha accusatori più terribili della immoralità e [102] della menzogna che, durante il medio evo, ne furono le conseguenze.
A Gregorio IV si attribuisce la istituzione della festività di tutti i Santi, la cui solennità, che si associa alla storia del Panteon, stabilì celebrarsi in tutto l’Occidente nel dì primo del mese di Novembre. Può darsi che dalla traslazione della salma dell’apostolo Marco a Venezia, il Pontefice traesse occasione di costruire a nuovo quella basilica del Santo che era situata sotto del Campidoglio, massimamente dacchè Gregorio era stato cardinale del san Marco: però questa chiesa nell’origine era stata dedicata a Marco pontefice, e non all’Evangelista. Mutata ne è in oggi la forma da quella che vi diede Gregorio, ma si serbano tuttora i musaici della tribuna. Rappresentano il Cristo in atto di benedire; dalla sinistra di lui stanno Marco papa, sant’Agostino e santa Agnese; dalla sua diritta, santo Felicissimo, Marco evangelista e Gregorio IV che offre in dono la chiesa. Lo stile ne è pari a quello dei musaici di Pasquale, salve alcune modificazioni. Mancano le palme; le figure, assurdo concetto, sono collocate sopra piedistalli, con iscrizioni dei nomi; l’uccello fenice posa sotto il basamento della figura del Cristo[99].
Quello che in Roma acquistò grande benemerenza [103] a Gregorio IV, si fu la restaurazione dell’Aqua Trajana ossia dell’acquedotto Sabbatino, che, già rinnovato per opera di Adriano I, era indi novellamente ito in decadimento[100]. Anche alla cultura della Campagna il Pontefice rivolse sue cure. I rivolgimenti avvenuti al tempo di Leone III, avevano tratto in ruina parecchie tenute, fra le quali benanco quella Galeria, situata sulla via Portuense, ch’era stata fondata da Adriano: Gregorio ne ripristinò la colonia[101]. All’edificatore di Nuova Ostia doveva stare assai a cuore di far rifiorire quel territorio bagnato dal Tevere; laonde in vicinanza di Ostia egli piantò una colonia nuova, detta «del Dragone», dove egli si fece edificare una bella palazzina di campagna adorna di portici. È massimamente a notarsi che a quest’occasione si fa menzione per la prima volta della erezione di una villa pontificia[102].
Gregorio IV morì addì 25 di Gennaio dell’anno 844; quest’è la data accolta dagli Scrittori ecclesiastici.
[105]
Roma fu tosto messa sossopra a causa di una discorde elezione pontificia. Clero e nobili (principi dei Quiriti, come il Libro Pontificale comincia a dire con dignità di stile romano) eleggevano Sergio, cardinale dei santi Martino e Silvestro; ma un ambizioso Diacono di nome Giovanni era condotto in Laterano con violenza di popolo armato. La nobiltà represse il moto sedizioso, e Sergio II fu ordinato papa: egli apparteneva ad una illustre famiglia romana, laonde aveva dalla sua gli ottimati[103]. La consecrazione di lui avvenne senza che l’Imperatore vi avesse espresso il suo consentimento, probabilmente perchè il tumulto avvenuto [106] in Roma sforzava a far presto. Però quella lesione de’ suoi diritti imperiali destò grave ira in Lotario, per guisa ch’ei comandò al Re d’Italia di muover su Roma con un esercito. Lodovico partì, accompagnato da Drogone, figliuolo di Carlo magno, vescovo allora di Metz, e da molti altri prelati e conti. I guasti e le violenze che la soldatesca operava nella sua via attraverso lo Stato della Chiesa, annunciavano fin da lontano la collera del Re. Come ei fu giunto in vicinanza della sgomentata Città, Sergio lo mandava ad incontrare con accoglienze onorifiche; nè più festose in tempo passato erano state fatte, nemmanco a Carlo magno. Presso la nona colonna miliare, il Re d’Italia era ossequiato da tutti i giudici; un miglio fuori di Roma lo attendevano tutte le Scuole della milizia ed il clero. Era la domenica dopo la Pentecoste. Sulla gradinata del san Pietro stava il Pontefice: salutato ed abbracciato da lui, il Re, tenendosi dalla sua mano destra, entrava nell’atrio e veniva fino alla porta d’argento della basilica, ma essa con tutte le altre porte era chiusa. E il Papa accorto e fermo, diceva al Re che se ne meravigliava: «Se tu venisti con animo sincero e benevolo alla salute della Republica, di tutta la Città e di questa Chiesa, ti si apriranno queste porte ad un mio cenno, ma se altrimenti è, nè io, nè un comandamento mio te le schiuderà[104]». Il Re protestò che era venuto con buone [107] intenzioni; si spalancarono allora le porte del duomo, ed eglino entrarono al canto solenne: Benedictus qui venit in nomine Domini. Il Papa, Lodovico e la loro accompagnatura orarono davanti alla tomba dell’Apostolo, perocchè a questa, prima d’ogni altro luogo, si guidassero i Principi, e spesso la loro ira, come lampo inoffensivo, si dissipava innanzi alla sacra urna di bronzo che chiudeva il santo Pietro.
L’esercito di Lodovico s’attendava fuor delle mura, probabilmente nel campo di Nerone; mieteva allegramente l’erba e il grano della Campagna, e finalmente chiedeva accesso nella Città, ma Sergio teneva serrate le porte, a guardia delle quali vegliava la milizia cittadina[105]. La presenza di Lodovico e della sua soldatesca era di peso gravissimo ai Romani che erano obligati di nutrirli; si fe’ dunque a gran fretta per liberarsene. Innanzi a ogni altra cosa l’elezione di Sergio fu sottoposta all’esame di un Sinodo; la fazione franca ne combattè irosamente la validità, ma i Franchi furono ammansati, e prestarono omaggio al Pontefice. Nella domenica successiva, era il giorno 15 di Giugno, Sergio unse e coronò il figliuolo di Lotario a re d’Italia, ponendogli in capo una preziosa corona, e facendogli impugnare una spada regale ch’era deposta sull’altare. [108] La credenza che una mistica virtù si contenesse in quella ceremonia vinse per vero ogni dubbiezza del Re ad accettarla[106]; ma tosto dopo ei levava pretese che oltrepassavano di gran lunga i limiti dei diritti spettanti alla sua corona regia. Drogone di Metz, Giorgio di Ravenna ed altri Vescovi dell’Italia superiore e di Toscana, ed anche i Conti franchi, s’adoperarono con gran fervore in negoziati col Papa e colla nobiltà, peraltro non ottennero alcun risultamento dei loro desiderî: chè Lodovico bramava che al Re d’Italia si concedesse su di Roma podestà pari a quella che aveva l’Imperatore da signore supremo, laonde chiedeva che i maggiorenti romani gli prestassero giuramento di fedeltà. Ma il Papa tenne duro niegando, i Romani gli prestarono man forte, e con grande fermezza protestarono non essere sudditi al Re d’Italia, ma soltanto all’Imperatore, capo dello Stato romano. «Questo solo e non più, vo’ concedere», diceva Sergio, «che i Romani prestino giuramento al signore Lotario grande imperatore, ma nè io, nè la nobiltà dei Romani consentiremo che questo sacramento sia fatto a Lodovico suo figliuolo». Roma non volle discendere al grado di una città regia; perciò fu nuovamente giurata in san Pietro una promessa solenne all’imperatore Lotario, e così fallì quel tentativo degno di nota, per cui il Re italiano avrebbe cercato di assoggettare a sè Roma e [109] il Papato[107]. Sergio però convenne di nominare il vescovo Drogone a vicario apostolico nelle Gallie e in Alemagna; riconobbe solennemente la podestà suprema dei Franchi su Roma, e la influenza di loro si restaurò anche nell’Italia meridionale. Infatti, giusto in questo tempo, veniva a Roma Siconolfo, principe di Benevento e di Salerno, con corteo sì numeroso che pareva un esercito. Premuto dai Saraceni, correva a Roma in gran fretta per conchiudere un trattato con Lodovico e per conservarsi il suo trono; dichiarava di voler esser vassallo del Re d’Italia, e si obligava di pagargli un tributo di diecimila solidi d’oro. Lodovico poco tempo dopo si partì per Pavia; i Romani furono contenti di vedernelo andare, e tributarono lodi alla energia del loro Papa. Fu questo nella storia della Città uno dei pochi momenti in cui la volontà del Pontefice, della nobiltà e del popolo fosse tutta di un pezzo; la resistenza contro agli intendimenti di Lodovico giovò a far crescere in mezzo ai Romani il sentimento di nazione[108].
Anche Siconolfo se ne andò in pari tempo di Roma. Dopo l’uccisione del fratel suo Sicardo, avvenuta nell’anno [110] 840, quel Principe era stato liberato del carcere in cui era sostenuto a Taranto; aveva assediato senza alcun pro Benevento, dove Radelchi si era impadronito del trono di suo fratello, e finalmente s’era dovuto contentare del possedimento di Salerno. Da quell’ora in poi, il bel regno di Arichi e di Grimoaldo si frastagliò in tre brani, Benevento, Salerno e Capua, e questa divisione schiuse, in mezzo a condizioni orribili di cose, la via ai Saraceni perchè penetrassero nel cuore d’Italia. Radelchi stesso aveva chiamato a Bari in suo soccorso quelle orde brigantesche; ivi dapprima posero loro sede, più tardi di colà strapparono a sè anche Taranto, dando il guasto a tutte le Puglie ed alle Calabrie.
Mentre gli Arabi di Sicilia venivano ad annidarsi nel continente meridionale, le flotte di Kairewan, o di Palermo, incrociavano sul mare, minacciavano le isole, alcune ne occupavano, e nell’anno 845 s’impadronivano dell’antico Miseno in vista di Napoli. Il desiderio di quegli audaci pirati era rivolto a Roma; eglino speravano di piantare la mezza-luna sui pinnacoli del san Pietro, e, similmente a quello che avevano fatto i Vandali d’Africa, si struggevano di voglia di saccheggiare la Città santa, piena dei tesori della Chiesa.
Nell’Agosto dell’anno 846 un’armata saracena entrava nella foce del Tevere; schiacciava il presidio pontificio che era in Nuova Ostia, oppure vi passava oltre senza torsene pensiero. Un’orda di loro s’avanzava da Civitavecchia, un’altra risaliva la corrente del fiume, e nel medesimo tempo i Saraceni movevano a gran passi per la via di Ostia e per quella di Porto. Non sappiamo se veramente dessero assalto alle porte di Roma, [111] perocchè nessun Cronista ne parli, ma è assai probabile che i Romani difendessero robustamente le loro mura, laddove il Vaticano indifeso da muro e il san Paolo cadevano in balìa dei nemici. Ben ve li combattevano i Sassoni, i Longobardi, i Frisoni ed i Franchi che risiedevano nel borgo Vaticano, ma soggiacevano alla possa dei Saraceni, i quali allora entravano nel san Pietro e lo spazzavano di quanto v’era dentro[109]. Questo tempio magnifico era fatto santo da cinquecento anni di vita, da grandi e solenni avvenimenti della storia del mondo, da molti concilî che di quel luogo avevano dato ordinamento alla Chiesa in Oriente e in Occidente. Pareva che sul suolo della basilica, non profanato mai, fossero impresse le orme dei secoli, le tracce della vita, dei pellegrinaggi e delle morti della gente umana. Quanti Imperatori, quanti Re, e in che tempi! v’erano entrati ed usciti! e i loro nomi erano cancellati nell’oblio, e i loro reami crollati! quanti Papi ivi dormivano l’ultimo sonno nei loro avelli! A ragione la basilica di san Pietro era divenuta santuario dei popoli, sì come il tempio di Salomone era stato per gli Israeliti, e la venerazione dell’Occidente non conosceva luogo più sacro di esso. Questo tesoro del culto e della storia [112] della Cristianità non avevano mai tocco i Goti, nè i Vandali, nè i Greci o i Longobardi, e adesso (così mutevoli sono le sorti delle cose umane e tanto grande ne è il contrasto) era fatto preda al saccheggio di una sola audace torma di masnadieri d’Africa.
Non giunge l’idea a comprendere la copia dei tesori che ivi erano ammassati. Da Costantino, da Teodosio e da Onorio in poi, gli Imperatori di Roma e di Costantinopoli, i Re dell’Occidente ed i loro ottimati, i Carolingi, la massima parte dei Papi vi avevano tributato loro doni votivi; ivi era custodita una gran quantità di quei vasi d’oro onde udimmo i nomi meravigliosi, e il san Pietro potevasi considerare massimo museo delle opere d’arte di cinque secoli. Fra esse eccellevano alcune per decoro di forma e per rarità di memoranda importanza storica; tali erano l’antica croce d’oro inalberata sulla tomba dell’Apostolo, il grande faro di Adriano, la mensa d’argento di Carlo adorna del disegno di Bisanzio[110]. Si imagini quanti fossero i lavori preziosi di cui i Papi, i Gregorî, i Leoni e gli Adriani avevano ornato la Confessione, l’altare, le cappelle, perfino le porte della basilica: e tutti questi tesori diventavano bottino dei figli d’Ismaele, che vi si scagliavano dentro con alti sghignazzamenti; non avevano [113] mano, nè spalle, nè occhi, nè tempo bastanti a vuotare quel mondo fantastico zeppo d’oro. Così i nepoti romani pagavano tarda pena del sacco e del vitupero che i loro antichi avevano inflitto al tempio di Salomone nell’età di Tito, e può darsi che gli Ebrei, i quali vivevano angustamente stretti nelle loro dimore di Transtevere, gioissero in secreto di quelle opere furibonde dei Mauri, loro parenti d’origine. I predoni avevano appena tempo di fare onta alle imagini dei santi; alla fuggita colpivano per beffa con loro lance l’effigie del Cristo e degli Apostoli, che dalla tribuna miravano in basso l’onta fatta alla loro chiesa[111]. Svellevano le lamine d’argento che guarnivano le porte, strappavano i tegumenti d’oro ond’era selciato il pavimento della Confessione, portavano via perfino il maggior altare ch’era d’oro[112]. Con grida ingiuriose e con scede devastavano la cripta d’oro dell’Apostolo, e poichè non riuscivano a trascinarsi dietro la grande urna di bronzo, l’avranno spezzata per desio di preda e per curiosità di frugarvi, e non ne avranno risparmiato il mistero: senza dubbio ne buttavano fuori e distruggevano tutto ciò che si trovava nell’arca. Pensiamo che quegli infedeli cacciavano le mani [114] dentro al simbolo santissimo del culto cristiano, in quell’urna di Pietro, il cui secreto nessun occhio umano aveva scrutato mai; pensiamo che quest’urna racchiudeva le ossa del Principe dommatico della Cristianità, cui, secondo il detto non cristiano di un Papa, i fedeli veneravano come un Dio in terra, i cui succeditori si credevano i Pontefici, innanzi alle cui ceneri tutti i Principi e tutti i popoli venivano a prostrare le loro fronti nella polvere: dobbiamo pensare a tutto questo per comprendere il gavazzo diabolico dei Saraceni alla distruzione di questa tomba del Maometto dei Cristiani, per farci un’idea della mostruosità della profanazione, del dolore della Cristianità.
Anche san Paolo subì le sorti istesse del suo socio Apostolo. Nella basilica di lui i Saraceni rinvennero un tesoro poco minore di ricchezza, e diedero pari guasto alla tomba[113]. Veramente, i Romani e la gente della campagna opponevano resistenza al nemico in vicinanza al san Paolo, ma impedirne non potevano il sacco. Se si stia al racconto di Benedetto monaco, i Saraceni tentarono di stabilire loro sede nel territorio Vaticano, dove [115] saccheggiarono tutte le chiese, ma le narrazioni del Cronista, riguardo a quel tempo tanto lontano da lui, sono certo confuse e inesatte. Egli fa perfino che l’imperatore Lodovico discenda da Monte Mario a combattere i Saraceni e che ne tocchi una disfatta vergognosa nei prati di Nerone, ma tributa lode a Guido, margravio di Spoleto, il quale, chiamato in soccorso dal Papa, conduce i suoi valorosi Longobardi, e, unito ai Romani, batte i Saraceni in una formidabile battaglia e gli insegue fino a Civitavecchia[114]. Non v’ha ragione di dubitare che Guido movesse in soccorso di Roma, e che una pugna disperata si combattesse nel borgo Vaticano o al ponte di san Pietro, di dove i Maomettani speravano di entrare nella Città. I briganti allora si ritirarono, dopo di aver devastato la Campagna e di aver raso al suolo le Domus cultae ed il vescovato di Silva Candida. Inseguita da Guido, una parte di loro col bottino e coi prigionieri andò a Civitavecchia per gettarsi colle sue navi nelle acque napoletane, nel tempo stesso che un’altra orda, in mezzo a indescrivibili devastazioni, per la via Appia giungeva a Fundi. Però un uragano [116] distruggeva parecchie navi piratesche, e le onde vomitavano sulla spiaggia cadaveri di Saraceni che, fuori dalle tasche, restituivano parecchi splendidi gioielli[115]. Quelli che andavano per la via di terra erano inseguiti dall’esercito longobardo fin sotto le mura di Gaeta; ivi s’appiccava una battaglia, e Guido di Spoleto aveva salvezza soltanto per l’arrivo del valoroso Cesario, figlio di Sergio, ch’era maestro de’ militi di Napoli. Alla fine i Saraceni si tennero contenti di poter far vela per l’Africa, ma, prima che toccassero terra, scendeva su di loro a punirli una seconda procella suscitata dalla collera di Santi celesti.
Alla terribile profanazione della basilica di san Pietro tenne dietro una miseria indicibile, e con essa ebbe termine il reggimento dello sventurato Sergio II, uomo d’animo gagliardo e forse generoso, che aveva dovuto sopravvivere a tanta onta. Ei morì addì 27 di Gennaio dell’anno 847, ed ebbe sepoltura in quella stessa chiesa del Santo, di cui il saccheggio e la devastazione gli avevano spezzato il cuor di dolore[116].
[117]
Morto Sergio, la elezione cadeva sul Cardinale dei «Quattro Coronati»: era un romano di origine longobardica, figliuolo di Radoaldo, e si appellava Leone. Roma era tuttavia sotto il terrore dei Saraceni; temevasi un nuovo assalimento. Pertanto la presta ordinazione dell’eletto era chiesta dal popolo con grida violente, e Leone IV ricevette la consecrazione, non immantinenti, ma senza pur che si attendesse l’approvazione dell’Imperatore, che forse tardava. L’urgente necessità poteva giustificare appo lui i Romani, massimamente dacchè con loro lettere lo accertavano, che rispetterebbero in buona coscienza i suoi dritti[117].
Mentre tutti gli animi erano sgomentati dalla tema dei Saraceni, un terremoto e un incendio accrescevano l’angustia; minacciavano tornare i tempi orribili di Gregorio magno. Il quartiere dei Sassoni era divorato dalle fiamme; l’incendio secondato dal vento s’appiccava alle case dei Longobardi, distruggeva il portico di san Pietro e, ravvolgendosi intorno alla basilica, minacciava di recare [118] l’ultima ruina al tempio devastato. Il fuoco trovava alimento nelle case degli stranieri, i quali, secondo il costume di loro terre settentrionali, avevano recata a Roma le edificazioni in tavola, massime delle scale, e la copertura delle case con embrici di legno[118]. La credenza pia divulgò che l’incendio cessasse per virtù delle orazioni di Leone, il quale era corso in gran fretta, e col segno della croce aveva comandato tregua alle fiamme. La tradizione di questo infortunio si mantenne lungo tempo nella Città, e Raffaello la immortalò con un affresco dipinto in una camera del Vaticano, che ne ha nome di «sala dell’incendio»[119].
Frattanto, la energia di Gaeta, il valore dei Napoletani condotti da Cesario e le vittorie degli Imperiali nel territorio di Benevento costringevano i Saraceni alla ritirata; ma fresche bordaglie di predoni succedevano alle prime, e il ricco bottino raccolto in Roma allettava la ladronaia d’Africa a una novella impresa. Intanto che i Romani in fretta e in furia afforzavano le loro mura, e munivano di trincee il quartiere del san Pietro, metteva loro spavento l’approssimarsi di una grande armata corsara. I Saraceni s’erano ragunati presso Sardegna, e i loro intendimenti contro Roma [119] venivano in chiaro. Era l’anno 849. Per buona ventura, questa spedizione di Mauri dava occasione che si conchiudesse una lega fra le città marittime del mezzogiorno, la prima che compaia nella storia del Mediterraneo. Ad istanza fervente del Papa, Amalfi, Gaeta e Napoli, già fiorenti in questo tempo per loro traffici e quasi indipendenti da Bisanzio, univano le loro galere e conchiudevano alleanza con Roma. I collegati si schierarono innanzi a Porto per attendere che comparissero sul mare le vele dei Saraceni, e annunziarono a Roma il fausto arrivo. Il Papa fe’ venire nella Città i suoi alleati, l’ammiraglio Cesario ed altri capitani della flotta, ed ivi nel palazzo Lateranense fe’ loro giurare propositi d’amicizia: indi Leone, alla testa della milizia romana e della soldatesca dello Stato ecclesiastico, mosse ad Ostia per benedire la flotta e l’esercito[120]. Ostia vedeva dentro di sè un operoso affaccendamento di guerrieri coraggiosi, come in antico ai tempi degli eroi Belisario e Totila. Quell’ora era solenne di trepidazione; trattavasi di salvare Roma dal più formidabile di tutti i nemici della Cristianità. Il Papa, in mezzo al canto maestoso degli inni, condusse in processione [120] l’esercito alla basilica di santa Aurea; ivi amministrò la comunione, e inginocchiato supplicò vittoria: «O Signore, tu che liberasti dal sommergere l’apostolo Pietro quando solcava le onde del mare, tu che salvasti dai gorghi profondi l’apostolo Paolo nel suo terzo naufragio, ci ascolta benevolo; concedi, per i meriti di quei due Santi, fortezza al braccio di questi fedeli tuoi che pugnano contro ai nemici della tua Chiesa; così avvenga che il conseguito trionfo glorifichi il nome tuo santo presso tutti i popoli»[121].
Compiuta questa solennità, Leone tornò alla Città, e già nel dì successivo le navi saracene erano in vista innanzi ad Ostia. I Napoletani coraggiosamente vogarono contro di loro, e le galere attaccarono mischia. Ma una subitanea procella separò la battaglia che ferveva, e scompigliò la pugna; i bastimenti nemici furono dispersi, o colarono a fondo o furono gittati sulla costiera. Molti Mauritani, che naufragarono contro le isole del mar Tirreno, vi furono trucidati; molti caddero in mano dei capitani romani. Alcuni furono impiccati per la gola in Ostia, altri in catene furono tratti a Roma, dove i Romani, meravigliando, loro corsero incontro con grida di trionfo. Li condannarono a lavorare nelle trincere, e, come anticamente i Greci di Sicilia dopo la grande vittoria di Himera avevano adoperato i prigioni Cartaginesi nella edificazione dei templi di Agrigento e di Selino, [121] parimenti adesso, in proporzioni minori, i Romani obligarono quei Saraceni a lavorare nella costruzione della città Vaticana[122]. Roma possedeva nuovamente degli schiavi di guerra, e dopo quattrocento anni s’allieta ancora della festa di un trionfo, sebbene per verità il testimonio oculare di questi avvenimenti non parli delle geste d’armi che i Romani operavano in quella gloriosa giornata, di cui il giovane Cesario fu l’anima e l’eroe. Se pur la colonna di Duilio, ornata di rostri di nave, e rinnovata da Tiberio, sia stata ancora a quel tempo ritta in piedi dominando i ruderi del vecchio foro, non v’era tuttavia più un solo Romano che comprendesse la significazione di essa e della sua inscrizione: la vittoria di Ostia, cui senza dubbio avevano avuto parte anche le galere pontificie, era celebrata nelle chiese di Roma con solenni orazioni di grazie, ma attribuivasi a miracolo del principe degli Apostoli[123]. Quasi sette secoli dopo, Raffaello dipingeva la storia di quel [122] combattimento marittimo, in Vaticano, nella medesima «sala dell’incendio», e un mezzo secolo dopo che il quadro era terminato, la gloria ma non l’importanza della battaglia di Ostia fu rinnovellata a Lepanto dal valore di un ammiraglio romano; e i Romani affisarono di bel nuovo con isguardi di meraviglia prigionieri di guerra maomettani lavorare intorno alle loro fragili mura, sì come era avvenuto in antico al tempo di Leone IV.
Un anno innanzi a quella battaglia di mare i Romani avevan posto mano alla restaurazione delle loro mura. Il pericolo che pendeva minaccioso, operava prodigî; il Papa mostrava il massimo fervore correndo a piedi od a cavallo a sopravvegliare i lavori e ad infondere lena operosa. Tutte le porte furono fortificate e munite di sbarre; si costruirono a nuovo quindici torrioni che erano caduti, e due torri si innalzarono presso la porta Portuense sulle due rive del fiume, così che si potesse distendere fra esse una catena[124]. Ma la più gloriosa impresa di Leone IV fu il fortificamento del territorio Vaticano, vero avvenimento nella storia della Città; n’ebbe origine la Civitas Leonina, nuovo quartiere di Roma e arnese nuovo di difesa, che nei secoli successivi acquistò grandissima rilevanza.
Quando Aureliano imperatore aveva cinto Roma di mura, non s’era allora manifestata la necessità di chiudervi entro il Vaticano, laonde questo territorio era rimasto affatto aperto ed esteriore alla Città. Ancor dopo [123] che s’era eretto il duomo di san Pietro, e dopo che, intorno ad esso, s’erano edificati chiostri, ospitali e case di parecchie fogge, e dalla parte sinistra s’erano fondate colonie di stranieri, nessun Pontefice aveva pensato mai di proteggere quel territorio con mura, chè finora gli inimici di Roma erano stati tutti di gente cristiana. Leone III pel primo ne concepiva l’idea, e, se la avesse mandata a compimento, la basilica non avrebbe sofferto il saccheggio dai Saraceni. Le opere incominciate da lui erano state sospese a causa dei tumulti interiori, ed avevano avuto distruzione dai Romani, che s’erano impossessati dei loro materiali[125]. Adesso, dopo il sacco, Leone IV riprendeva quel progetto, e procedeva alacremente a condurlo ad eseguimento. Egli ne propose il disegno a Lotario imperatore, chè, senza il consentimento del signore supremo, egli non avrebbe osato d’intraprendere un’opera tanto grandiosa: non soltanto ne ottenne approvazione, ma altresì soccorso di moneta. La edificazione, che importava gran costo, fu ripartita per modo che ogni città dello Stato ecclesiastico, tutti i patrimonî publici della Chiesa o della Città, e tutti i conventi contribuissero con loro denari e con loro genti a fornire una parte determinata del lavoro[126].
[124]
La costruzione ebbe incominciamento nell’anno 848, e fu compiuta nell’852. Il territorio Vaticano, ossia il portico di san Pietro, ne fu quindi recinto così, che dall’Adrianeo, cui si appoggiava, la muraglia da un fianco saliva tutto lungo l’altezza del monte Vaticano, indi, ripiegando in arco, serrava entro a sè il san Pietro, e, scendendo dritta dal monte, nuovamente giungeva a toccare il fiume, al di sotto dell’odierna porta di Santo Spirito, che più tardi fu aperta nel muro di Leone. Costruita a strati di pietra di tufo e di mattoni, era alta quaranta piedi e larga in proporzione. Ventiquattro forti torrioni la rendevano munita; il modo della costruzione di quelli puossi oggidì ancora ravvisare nella grossa torre angolare di forma rotonda, che sta sul più alto vertice del Vaticano. S’entrava nella nuova città da tre porte; due erano nella linea del muro che si dipartiva dalla tomba di Adriano: una, minore, posta vicino a questo castello, era detta Posterula S. Angeli; l’altra, grande, in prossimità della chiesa di san Pellegrino, aveva perciò nome di Porta S. Peregrini: più tardi s’appellò Viridaria, Porta Palatii e S. Petri, ed era la porta maggiore della città Leonina, da cui tenevano loro ingresso anche gli Imperatori[127]. La terza [125] porta metteva dalla città nuova nel Transtevere; era chiamata Posterula Saxonum dal quartiere dei Sassoni in cui s’erigeva, e stava nel luogo dov’è oggidì la porta di Santo Spirito[128]. Questo anello di mura edificato da Leone IV, e somigliante quasi ad un ferro di cavallo, si conserva tuttavia in alcuni luoghi, o vi mostra le sue tracce; così vedesi in Borgo, presso al corridoio di Alessandro VI, in vicinanza alla zecca ed ai giardini pontificî fino alla grossa torre angolare, nella linea di mura che si dirige a porta Pertusa, e là dove la linea stessa dipartendosi [126] da un’altra torre angolare, ripiega verso porta Fabrica. Però i posteriori edificî del nuovo Borgo, i bastioni di castel Sant’Angelo, l’allargamento del Vaticano, i bastioni di Santo Spirito, interruppero le mura di Leone, e qua e colà le distrussero; e quando il più moderno e grande circuito di muro del Vaticano ebbe, dopo di Pio IV, chiusa dentro di sè l’antica città Leonina, quelle vecchie mura subirono in minori proporzioni la sorte istessa che avevano avuto le antiche di Servio dopo l’edificazione di Aureliano.
Allorchè Leone ebbe dato l’ultima mano al suo lavoro, impose con un senso di orgoglio il nome di Civitas Leonina alla nuova città. Roma, su cui adesso i Papi stampavano il marchio della loro signoria, non aveva da secoli celebrato festività maggiore di quella che fu alla consecrazione delle novelle mura: essa avveniva nel dì 27 di Giugno dell’anno 852. Tutti i Vescovi, i preti e le congregazioni monastiche della Città, guidati dal Papa, a piè scalzi, col capo cosperso di polvere, mossero salmodiando in giro attorno dei baluardi. Camminando innanzi a tutti, i sette Cardinali vescovi aspergevano le mura di acqua benedetta; avanti ad ogni porta la processione si arrestava, e ad ogni volta il Papa implorava dal cielo benedizioni sulla nuova città[129]. [127] Compiuto tutt’intorno il cammino, Leone dispensava con mano liberale doni d’oro, d’argento e di palii di seta ai nobili, al popolo ed alle colonie straniere.
Si magnificò la nuova fondazione con pompa di epigrafi. I Papi avevano ereditato siffatta costumanza dai Romani antichi, che di tutti i popoli erano stati primi per vaghezza di inscrizioni, onde ancora a quel tempo si leggevano le scritte allogate sopra le porte di Onorio. Dai tempi di Narsete in poi s’era perduto il genio epigrammatico della vecchia Roma, ma adesso sopra ciascuna delle tre porte si incidevano, parimenti come s’usava nelle chiese, dei distici composti in un latino zeppo di barbarismi. Due di quelle epigrafi si sono conservate in copie di tempi posteriori.
Sulla porta maggiore di san Peregrino era scritto:
«O tu, viatore, che entri ed esci, mira questo splendido edificio che Leone IV papa con lieto animo costruì. Belli di marmo squadrato rifulgono questi pinnacoli eccelsi, che, lavorati dalla mano degli uomini, piacciono per loro ornato decoro. Monumento dell’età di Lotario invitto, è quest’opera grande che il Pontefice trionfalmente compose. A te in verità non noceranno mai guerre di empî, nè l’inimico celebrerà più suoi trionfi. Roma, principe del mondo, splendore, speranza, aurea città, alma sei come nell’opera sua ti addimostra il Pontefice. Quest’è città che Leonina s’appella, dal nome del suo edificatore[130].»
[128]
Sulla porta del castello leggevasi:
«Romani, Franchi, pellegrini Longobardi, e voi tutti che mirate quest’opera, magnificate con inno condegno: il buon pontefice Leone IV l’ha consecrata solennemente al bene della patria e del popolo. Lieto e trionfante per lunghi anni insieme col Principe sommo, compiè il monumento che celebra la gloria altissima di lui. Veneranda fede gli strinse con nodo di amore: Iddio onnipotente gli adduca al castello de’ cieli. Città Leonina ha nome[131].»
[129]
La novella città, che il Papa aveva consecrata al Redentore e raccomandata ai santi Pietro e Paolo come a patroni (Leone si fece dipingere sopra a pallii d’altare con in mano il disegno della città), continuò ad essere abitata da stranieri; ed anche Romani o Transteverini furono indotti con privilegî a respirarne l’aria malsana, accanto alle genti nordiche. La fondazione della città segnò un’epoca nella storia monumentale di Roma medioevale, del paro che nella storia della dominazione pontificia, la quale adesso per la prima volta ebbe ampliato il pomerio di Roma[132].
Gregorio IV aveva restaurato Ostia; Leone riedificò Porto. Questa città marittima di Roma, celebre un dì, era quasi discomparsa; soltanto l’ombra e il nome di essa si conservavano in mezzo alle paludi formate dal Tevere, perciocchè fosse sede di un vescovato antichissimo, e durassero tuttavia la chiesa di santo Ippolito nell’isola santa, e l’altra di santa Ninfa posta [130] sulla marina. Dopo che i Saraceni ne ebbero cacciato anche gli ultimi abitatori, Leone IV vide con grande dolore, Porto essere precipitato all’estremo decadimento. Cercò di porvi un argine cingendo la deserta città di nuove mura ed erigendovi novelli edificî; in quello gli capitavano molti Côrsi cacciati dagli Arabi fuor di loro patria, e furono coloni quasi speditigli dal cielo. Un trattato in piena regola si conchiuse con essi, e Roma ebbe una nuova colonia. Dopochè per via di scritture pontificie, e colla confermazione degli imperatori Lotario e Lodovico, Porto fu ceduta ai Côrsi con provvisione di terre, di mandre di bestiami e di cavalli, eglino vi si misero dentro nell’anno 852, in condizione di liberi proprietarî e di vassalli della Chiesa romana. Però la città cadente non si rianimò più a vita; la giovane colonia soggiacque mietuta dalle febbri o dalla scimitarra dei Saraceni, od altrimenti i Côrsi, che fra tutti i popoli sono fervidissimi dell’amore di patria, tornarono ai monti della loro piccola terra natìa, desiderosi del sole che gli inonda. Un buio profondo copre la storia di loro, mentre vissero in Porto[133].
Il porto di Trajano a questi dì si era tramutato in laguna ossia in palude. Nessuna nave toccava le sue [131] acque, e quando le barche mercantesche di Napoli, di Gaeta o di Amalfi s’avventuravano verso il Lazio, esse toglievano la via del Tevere dalla parte di Ostia. Per lo contrario, Centumcelle, l’altro porto edificato da Trajano, aveva serbato ancora fino a’ tempi di Pipino e di Carlo qualche poco di vita, ma i Saraceni avevano assalita di già nell’813 quell’antica città tusca, e, più tardi, probabilmente nell’anno 829, la devastarono. Temevasi che le toccasse la sorte di Luni, la quale nell’anno 849 era stata rasa al suolo dai Maomettani: abbandonato era il porto e tutto colmo di sabbie, infrante in pezzi le mura, e omai da quaranta anni gli abitatori, fuggitine, vivevano appiattati nelle gole dei monti vicini. Sembrava che la città di Centumcelle fosse destinata alla ruina senza speranza di salvamento, per guisa che Leone IV la lasciò nella sua desolazione, e cercò di fondare la dimora di quegli abitanti in un altro luogo, distante dall’antico dodici miglia entro terra. Procedette all’opera con fervore istancabile; al cenno della sua mano sorsero chiese, case, mura e porte. Consecrò la novella città con ceremonie simili a quelle che aveva celebrato per la città Leonina, correndo allora l’ottavo anno del suo pontificato, e chiamò Leopoli la città[134]. Ma il nome e il luogo non ebbero lunga durata; gli abitatori di Leopoli erano strascinati dalla brama della patria abbandonata, e corre una leggenda che Leandro, un vecchione venerabile, li congregasse a parlamento sotto una quercia, e gli inducesse a far ritorno alla città [132] antica, ond’eglino si ridussero nuovamente a Centumcelle, e da questo tempo in poi la appellarono Civitas vetus (Civitavecchia)[135].
Leone IV restaurò anche due altre città di Tuscia, Orta ed Ameria, ossia le fornì di mura e di porte. D’ora in poi il solo modo di tenere unita la cittadinanza, era quello di afforzare le terre: poichè i Saraceni correvano saccheggiando tutte le marine di Tuscia e del Lazio, avveniva facilmente che luoghi indifesi, massime della pianura, si lasciassero in deserto abbandono, e i loro terrieri si ricoverassero sui greppi delle montagne; laonde fin dall’incominciamento delle piraterie musulmane, che avveniva nei primi anni del secolo nono, si alzavano nella Campagna castella e torri in gran numero, destinate ad essere più tardi rocche di signori feudali.
Lo splendore di città edificate involse nell’ombra le costruzioni di chiese cui attese Leone IV, e sì che anche in questo ei fu grandemente operoso. L’incendio [133] di Borgo aveva recato guasti molti, e probabilmente aveva distrutto anche l’antica basilica di santa Maria dei Sassoni, perocchè il Papa la erigesse a nuovo: nel luogo ov’essa era, sta oggidì la chiesa di Santo Spirito[136]. Può essere eziandio che Leone abbia restaurato la chiesa dei Frisoni, il san Michiele in Sassia, a tergo di cui si erigeva la nuova muraglia; per lo meno narra la tradizione che egli la costruisse a ricordanza di quei Sassoni che ivi erano periti sotto la spada dei Saraceni[137]. Riparò ai danneggiamenti che aveva sofferto il portico del san Pietro, e ne restaurò anche l’atrio.
Il saccheggio dei Saraceni lo costrinse a rifornire il san Pietro dei suoi ornati preziosi. La magnificenza che egli vi adoperò, ci dimostra quanto sterminate fossero le dovizie che il tesoro della Chiesa possedeva. Leone ricoprì il maggior altare di lamine d’oro seminate di pietre preziose, e sopra di esse, in mezzo a molti disegni, miravasi anche l’imagine del Papa e quella di Lotario, probabilmente composte in ismalto. Una sola di queste tavole d’oro pesava dugento sedici libbre; un crocifisso d’argento dorato sparso di giacinti e di diamanti aveva il peso di settanta; sull’altare si collocava un ciborio d’argento a colonne, decorato di gigli dorati, ed era grave nientemeno che di mille seicento e sei libbre; una croce d’oro massiccio tutta scintillante di perle, di smeraldi e di prasine giungeva alle [134] libbre mille. Oltracciò il Papa provvedeva il tempio di vasi, di incensieri, di lampade sostenute da catene d’argento e pendenti da palle d’oro, e vi allogava candelabri d’argento a colonne, erigeva delle arcate d’argento, vi forniva calici sparsi di gemme, leggìi o pulpiti d’argento a lavoro battuto, rivestiva nuovamente le porte «di molte lamine d’argento lampeggianti di luce, sulle quali erano figurati fatti di sacre istorie»[138]. A tutto questo si aggiunga ricchezza di arazzi e di cortine pendenti da colonne e da porte, e sontuosità di paramenti sacerdotali tessuti in seta: erano lavori mirabili d’arte e di valore, poichè s’adornavano di sottilissimi ricami d’oro che rappresentavano istorie a molte figure, arabeschi, e disegni di piante e di animali; di solito erano seminati di perle e di pietre preziose[139]. Poichè si faceva profusione tanta di stoffe orientali di [135] seta e di porpora, e di sì gran copia di perle e di gioielli, se ne cava la conseguenza che Italia coltivava un grande commercio coll’Oriente. Ne erano mezzani i Napoletani, quelli di Gaeta e di Amalfi che comperavano dai Saraceni: e quei pagani medesimi che avevano saccheggiato il san Pietro e il san Paolo, divelte le pietre preziose dagli arredi rubati, le rivendevano ghignando a Roma coll’intermezzo degli Ebrei; fornivano la Chiesa romana dei metalli e delle perle d’Asia e di Africa, mentre dal settentrione i Veneziani facevano pari traffico con Roma, dopo di aver ricavato le loro mercanzie da Bisanzio.
Non soltanto al san Pietro erano dedicati quei magnifici doni votivi; di simili ne otteneva anche il devastato san Paolo; altre chiese della Città e financo delle province furono regalate in proporzione, e Roma da questa dovizia di lusso assiro poteva a ragione essere nomata città «aurea». Oltre a questo, la moneta che Leone IV impiegò nella edificazione della città Leonina, e di quelle di Porto, di Leopoli, di Ostia e di Ameria, dimostra che allora il tesoro della Chiesa era più ricco di quello che fosse più tardi all’età di Leone X; infatti Leone IV poteva spendere tanti milioni, traendoli massimamente dalle rendite dirette dello Stato, chè non ancora si ricavavano considerevoli tributi dai paesi stranieri, sebbene ognor più crescesse la dovizia per redditi ricavati dal di fuori, per lasciti di testamenti e per donativi. In quel tempo i Papi non aggruzzolavano tesori a beneficio loro proprio, nè ancora le profusioni ai nepoti s’erano aperta la via: per di più, la vita della Curia non aveva peranco rinnegata la semplicità [136] monacale, laonde avveniva che gli scrigni della Chiesa erano sempre ricolmi, e il suo patrimonio poteva essere impiegato a scopi così grandi e benefici.
Leone IV, che era stato cardinale dei «santi Quattro Coronati», ricostruì sontuosamente anche questa basilica. Ma l’incendio di Roma, avvenuto all’età di Roberto Guiscardo sulla fine del secolo undecimo, distrusse il suo edificio, e soltanto poche reliquie se ne sono conservate nella chiesa che fu rinnovata più tardi[140]. Nella via Sacra Leone eresse a nuovo la chiesa di santa Maria, che fino allora era stata detta antiqua, ed ebbe quindi nome di nova. È quella chiesa che, non lungi dall’arco di Tito, s’eleva fra le ruine del tempio di Venere e di Roma, e che nel secolo decimosettimo ebbe titolo di santa Francesca Romana. Nicolò I, che la compiè, ne adornò la tribuna di musaici; ma è difficile che quelli che vi si vedono oggidì appartengano al secolo nono[141].
[137]
Leone estese le sue cure altresì alle chiese ed ai conventi di altre città. Alcuni dei loro nomi sono meritevoli di menzione; così vale far cenno del convento di Benedetto e di Scolastica a Subiaco (che ancor di questo tempo ha nome di Sub Lacu), il chiostro di Silvestro sul monte Soratte, le chiese di Fundi, di Terracina e di Anagni; e per la prima volta nella Biografia di questo Pontefice viene a galla il nome di Frascati o Frascata. Esso significa una terra che era omai abitata, perocchè in essa esistessero chiese parecchie: per tal modo quel luogo dei monti Albani, dove oggi siede il vago Frascati, era già fin dal secolo nono coperto di edificî, ed era appellato con pari nome[142].
La guerra contro ai Saraceni e le fondazioni di Leone seppelliscono nell’ombra tutti gli altri avvenimenti di Roma; pochi soltanto se ne devono registrare durante questo pontificato. Nell’anno 850, Lodovico II riceveva nella chiesa di san Pietro la corona imperiale per mano del Papa, poichè ancor prima Lotario, seguendo la consuetudine, lo aveva coronato publicamente nella [138] dieta dell’Impero. Ignoto è il giorno in cui si compiè l’incoronazione[143]. Il novello Imperatore combattè i Saraceni nell’Italia meridionale, chè nell’anno 852 ei strinse di assedio Bari; però si ritirò tosto nell’Italia superiore, e fu conseguenza di ciò che i Romani mossero loro doglianze a Lotario, lamentando che Lodovico nulla operasse a difesa di loro[144]. Un Concilio che trattò d’argomento di disciplina, nel Dicembre dell’anno 853, assorbì per qualche tempo l’attenzione dei cittadini; in esso si pronunciò condanna contro di Anastasio, cardinale di san Marcello, e lo si privò della sua dignità sacerdotale. Da cinque anni egli aveva abbandonato la sua chiesa, e non era comparso ad onta della citazione che il Pontefice gliene aveva fatto; scomunicato nella primavera di quell’anno, era fuggito ad Aquileja, e senza frutto era stata la ricerca che ne avea comandato l’Imperatore, poichè Leone lo aveva richiesto che gli desse in mano il Cardinale[145]. Questo fatto dimostra quanto alto si fosse levato l’orgoglio di quei preti che s’appellavano Cardinali, e del cui gremio già da lungo tempo andavansi eleggendo i Pontefici; poco a [139] poco eglino riuscirono a soppiantare l’influenza dei ministri di Palazzo, fino a che, più tardi, diventarono essi il sacro collegio dominatore, ossia il senato ecclesiastico.
Poco tempo dopo, il Papa aveva ragione di allegrarsi per l’arrivo di due Principi britanni. Etelvolfo veniva a Roma per farsi consecrare e coronare da Leone, e con sè conduceva il suo giovane figlio Alfredo, quel desso che più tardi doveva far isplendere la sua corona della gloria immortale di eroe e di sapiente. Rimasero questi Principi un anno nella Città, e il loro soggiorno fruttò di molti donativi alla Chiesa ed al popolo di Roma, e giovò a grande incremento della colonia degli Anglosassoni che aveva tanto sofferto dall’incendio; il Re liberalmente diede ai suoi concittadini i mezzi di ricostruire le loro case, e confermò altresì, a favore della Chiesa romana, l’obolo di san Pietro.
Gli ultimi tempi della vita di Leone IV furono amareggiati da una controversia, che troppo a fondo dimostrò la stretta dipendenza in cui Roma era tenuta sotto la mano dell’Imperatore. Daniele, maestro dei militi, andava a Lodovico, e proferiva gravi querele contro Graziano nemico suo, cui mirava a perdere. Quest’uomo, che era parimenti capitano dell’esercito e nell’istesso tempo «consiliario e superista» pontificio, fu accusato di intelligenze traditrici coi Greci[146]. Dopo che i Saraceni avevano saccheggiato i loro due maggiori santuarî, i Romani facevano udire discorsi assai acerbi contro l’Imperatore; non avevano riserbo di parole [140] ingiuriose all’indirizzo dell’Impero franco, il quale (così senza dubbio dicevano) era stato da loro eletto a difesa di Roma e della Chiesa; e può darsi che dessero a capire, meglio essere di restituire l’Impero a Bisanzio. Per verità gli Imperatori avrebbero potuto far tacere il mormorìo dei Romani per poco che avessero loro additato le ruine delle molte città franche e perfino i ruderi del bel palazzo di Aquisgrana, opera di Carlo magno, che eglino non avevano saputo difendere contro ai Normanni. Lodovico aveva omai compreso ancor più addentro qual fosse l’intendimento degli animi in Roma; lo stesso Papa era stato accusato di maneggiamenti contro la costituzione dell’Impero o di propensione a novità. Leone s’era giustificato con lettere presso l’Imperatore, ed aveva perfino protestato di volersi assoggettare a qualunque giudizio, purchè si chiarisse se egli aveva dato offesa alle leggi dell’Impero. Ove tutti questi fatti non v’avessero preceduto, l’accusa di un solo Romano non avrebbe potuto destare tanto furore in Lodovico[147].
«Infiammato di grandissima collera», ei corse in gran furia a Roma, senza dare avviso al Papa ed alla nobiltà della sua venuta. Leone lo accolse con tutti gli onori, e aspettò con animo tranquillo l’inquisizione. [141] Il placito imperiale fu tenuto nelle case di Leone III presso il san Pietro, dove si radunarono il Pontefice, la nobiltà dei Romani e quella dei Franchi. Comparvero accusatori, accusati e testimonî; Daniele fu convinto di audace menzogna e fu posto in balìa del calunniato Graziano: ma l’Imperatore lo assolse e gli ridonò la sua grazia[148].
Pochi giorni dopo di questo procedimento morì Leone IV, addì 17 di Luglio dell’anno 855. Nella storia della Città quest’uomo illustre tiene il luogo di Aureliano secondo, grazie l’opera ch’ei diede alla restaurazione ed alla ampliazione delle mura di essa; a buon dritto egli avrebbe potuto appellarsi Restaurator Urbis, e la memoria di lui si raccomanda in Roma al monumento della città Leonina, ed è splendida per fondazioni di altre: aver edificato città è per i Principi gloria eletta, poco meno che quella di averne distrutto.
Una delle favole più meravigliose che abbia inventato la fantasia del medio evo diede a succeditore dell’operoso ed energico Leone IV una femmina avventuriera: per lunghi secoli, Storici e Vescovi, e financo Papi, e tutto il mondo, ebbero creduto che la cattedra di san Pietro sia stata per due anni tenuta dalla papessa Giovanna. Questa leggenda esce fuor della cerchia dei fatti storici, ma non della storia delle credenze del medio evo, laonde noi dobbiamo qui in brevi tratti registrarla.
Narrossi che una bella giovinetta, figlia di un Anglosassone, quantunque nata in Ingelheim, andasse [142] a studio nelle scuole di Magonza, e fosse ornata di sì eletti pregî di mente che se ne rivelasse un genio fuor dell’ordine consueto. Amata da un giovane scolastico, celò le grazie del suo sesso sotto la tonaca di frate, ch’ella vestì a Magonza nel convento di Benedettini, dove il damo suo era monaco: appararono insieme tutte le scienze umane; viaggiarono l’Inghilterra, visitarono Atene, dove la bella travestita s’addottrinò alla sublime scuola dei filosofi, di cui la fantasia dei Cronisti credeva che ancor formicolasse quella città. Ivi le venne a morte l’amante, e allora Giovanna, ossia Giovanni Anglico come s’era battezzata, venne a Roma. La sua scienza le ottenne una cattedra di professore alla scuola dei Greci, poichè in iscuola la favola tramuta la diaconia che noi conosciamo sotto il nome di S. Maria Scholae Graecorum. I filosofi romani ne furono ammaliati, i Cardinali (anche senza sospettare il sesso di lei), ne andarono in visibilio; ella diventò il portento di Roma. Però l’animo ambizioso della donna mirava alla corona pontificia, e allorchè Leone IV fu morto, i Cardinali convennero nella sua elezione, perocchè niun uomo credessero degno di porre a capo della Cristianità più di Giovanni Anglico, esemplare di tutte le perfezioni teologiche. La Papessa entrò in Laterano, ma il suo sesso, anche sotto ai santi paludamenti, continuò a far sentir vive le voci dei suoi istinti, ed ella si die’ in braccio al suo fidato cameriere. Le larghe pieghe del vestimento pontificio ne celarono le prime conseguenze, ma venne tempo che la natura tradì la peccatrice. Mentre ella moveva in processione al Laterano, giunta fra il Coliseo e san Clemente, fu assalita dalle doglie [143] del parto, diede alla luce un bambino, e morì[149]. I Romani inorridendo le diedero sepoltura in quel luogo, e a memoria dell’avvenimento inaudito ivi elevarono una statua che rappresentava una donna bella, la quale teneva in capo la corona pontificia e un bimbo fra le braccia. D’allora in poi i Papi schivarono di passare da quel sito, allorchè lungo la via Sacra andavano al Laterano per prenderne possedimento, e si assoggettarono ad un formale esame del loro sesso maschile, seduti sulla Sella stercoraria, che era un fesso sedile di marmo nel portico del Laterano[150].
[144]
Questa rozza favola fu parto dell’ignoranza, dell’avidità di racconti da romanzo, e forse anche dell’odio che i Romani sentivano contro la signoria temporale dei Papi. Vi si ravvisa l’età dei Mirabilia, che però non ne fanno narrazione, ossia del secolo decimoterzo. Il racconto si foggiò sulla metà di quel secolo, e lo si trovò per la prima volta interpolato in alcuni manoscritti di Martino Polono e di Mariano Scoto; indi la fecero loro tutti i Cronisti, ed ottenne fede sì ferma ed universale, che intorno all’anno 1400 non si ebbe riserbo di dar luogo al busto della papessa Giovanna nella serie delle imagini dei Papi, onde si ornarono le pareti della bella cattedrale di Siena. La non credibile ingenuità di tempi, nei quali la critica non ardiva di sturbare la credenza di qualsiasi favola o di qualsiasi tradizione, serbò sotto la sua protezione il busto allogato in quel duomo, ond’esso ivi durò senza ostacolo di sorta, fra quelli degli altri Papi per il corso di duecento anni, con questa inscrizione: «Giovanni VIII, donna inglese»: finalmente il cardinale Baronio indusse Clemente VIII a farnelo rimuovere; la figura di femmina si mutò in quella di papa Zaccaria[151].
[147]
Morto Leone IV, la quiete della Città fu gravemente conturbata a causa della elezione pontificia. Il numero maggiore dei Romani sceglieva a papa Benedetto, cardinale di san Calisto, e lo conduceva con solennità di processione in Laterano; al decreto di elezione sottoscrivevano clero e popolo, affine di sottoporlo poi, «come era consuetudine antica», alla confermazione degli Imperatori[152]. Nicolò, vescovo di Anagni, e Mercurio, maestro de’ militi, ne erano fatti latori; ma per via, Arsenio vescovo di Agubbio, convertiva quei messaggieri a differente intendimento. Lo legava amicizia a quel cardinale Anastasio, ch’era stato deposto per ordine di [148] Leone IV, ma che, essendo pur sempre uomo potente ed ambizioso, si struggeva della brama d’impossessarsi della corona pontificia, e coltivava un suo partito in Roma. Arsenio trasse dalla sua i nunzî, ond’eglino si adoperarono alla corte dell’imperatore Lodovico, patrocinando la causa di Anastasio. Tornati a Roma, dove già era venuto questo Cardinale, eglino annunciarono il prossimo arrivo di legati imperiali, e con lui e colla sua fazione composero i loro piani: capi di questa parte erano Gregorio e Cristoforo maestri de’ militi, Radoaldo vescovo di Porto e Agatone vescovo di Todi. Frattanto, i Missi dell’Imperatore, Bernardo e Adelberto conti, giungevano nella città di Orta; Anastasio correva loro incontro, e dietro a lui andavano Nicolò e Mercurio, Radoaldo e Agatone. Tutti insieme mossero indi a Roma; alla quinta colonna miliare, presso alla basilica di san Leucio, s’imbatterono nei messaggieri che erano spediti dall’eletto pontefice Benedetto, li caricarono di catene, ed allora Benedetto deputò un altro Duce e un Secondicerio.
I Missi dell’Imperatore (vedasi con che autorità s’impancassero costoro contro a Roma) comandarono al clero, alla nobiltà ed al popolo di adunarsi nel dì dopo a san Leucio, dove si avrebbe loro fatto conoscere il volere imperiale. Mentre i Romani si affrettavano di andare a quella volta, s’incontravano coi Conti imperiali, con Anastasio e colla sua parte, che traeva in ferri Adriano secondicerio, Graziano superista e Teodoro scriniario. La comitiva, tutta sonante d’armi, cavalcò attraverso il campo di Nerone, e, dalla porta di san Peregrino, entrò nella città Leonina. Roma era messa a grande commovimento; e intanto che l’eletto Benedetto se ne stava [149] in Laterano attendendo ciò che sarebbe per accadere, Anastasio entrava in san Pietro, ed ivi primamente dava sfogo alla sua rabbia e alle sue tendenze ereticali d’iconoclasta. Seguendo un costume antico, Leone IV aveva fatto dipingere sopra alle porte della sacrestia, un quadro rappresentante il Sinodo nel quale il Cardinale ribelle era stato deposto. Non s’accontentava Anastasio di distruggere quella pittura, ma faceva in pezzi ed abbruciava imagini di Santi, e con un’accetta atterrava financo le figure del Cristo e della Vergine[153]; indi cogli amici suoi correva al Laterano, comandava che si rompessero le porte del palazzo ch’ei trovava serrate, e si sedeva sulla cattedra pontificia: nel tempo istesso, dentro della basilica, sopra un altro trono, stavasi assiso Benedetto, circondato dei preti a lui fidi. Anastasio ordinava che ne lo si scacciasse; Romano vescovo di Bagnorea entrava con uno stuolo di armati nella chiesa, trascinava Benedetto giù della sedia pontificia, gli strappava di dosso le vestimenta papali e lo copriva di oltraggi: indi lo dava in custodia di alcuni Cardinali che parimente erano stati deposti da Leone IV. Tutto questo avveniva nel giorno 21 di Settembre dell’anno 855.
[150]
Allorchè si sparse per Roma la notizia di questi fatti, molti cittadini e preti mossero in gran furia alla cappella dei Sancta Sanctorum, e vi entrarono dentro con gran clamore di grida. Il dì successivo, gli aderenti di Benedetto, prendendo animo dagli spiriti che correvano fra il popolo, si raccolsero nella basilica Emiliana; nè li vinsero le minacce colle quali i Conti imperiali, entrando colle armi alla mano nel presbitero della chiesa, intendevano di far loro accettare l’Antipapa. Al giovedì, il popolo si raccolse nuovamente in Laterano, e ivi protestò con grida concordi di volere Benedetto, eletto giusta ai canoni[154]. Cedettero allora i legati; Anastasio con vitupero fu cacciato delle case patriarcali, Benedetto fu liberato con molta allegrezza del popolo dalla sua custodia, e, fattolo montare sovra il cavallo di Leone IV, lo trassero in processione alla santa Maria Maggiore. Fu bandito un digiuno di tre giorni a penitenza di quant’era accaduto; gli aderenti di Anastasio si gettarono a’ piedi del Papa implorando mercè, e nel giorno 29 di Settembre, Benedetto III fu consecrato in san Pietro, presenti i legati dell’Imperatore[155].
Questi avvenimenti furono nunzî di una delle più terribili epoche del Papato; svelarono le scissure ognor più minacciose che serpeggiavano dentro della Città, posero in aperto le fazioni che dividevano la nobiltà e [151] il popolo, l’ambizione di Cardinali ribelli, le relazioni che ora andavano facendosi più difficili fra la Chiesa e l’Impero. Del resto, il diportamento sorprendente dei legati imperiali, i quali colle violenze volevano porre nel seggio apostolico un Cardinale su cui il decreto di un Sinodo aveva pronunciato condanna solenne, rivelava che l’Imperatore si stava ancora sotto l’impressione del processo di Daniele e di Graziano, e viveva pur sempre travagliato di sospetti: perciò ei bramava d’impedire che il reggimento capitasse in mano di un Papa d’animo gagliardo com’era stato Leone IV, e mirava a dare la cattedra di Pietro ad un uomo che gli fosse creatura devota. Ma il suo proposito fallì contro alla fermezza dei Romani, e soltanto contribuì a fare spegnere la reverenza che tribuivasi all’Imperatore.
Precisamente un giorno prima dell’ordinazione del novello Pontefice, Lodovico era diventato solo Imperatore. Lotario aveva diviso il suo Impero tra’ figli suoi; affralito d’animo e infermiccio di corpo, torturato dai rimorsi (lo spettro del padre suo gli vagolava sempre davanti con grandi terrori), egli s’era coperto della cocolla di frate benedettino nel convento di Prüm presso a Treviri, ed ivi era morto addì 28 del mese di Settembre[156]: la città di Roma non si mostrò pur [152] accorta di quella morte. Durante il breve pontificato di Benedetto III, la storia propria della Città è vuota d’avvenimenti. La Cronica pontificia narra di ripetute inondazioni del Tevere che recarono gravi devastazioni; del rimanente essa riempie la Biografia del Pontefice soltanto colla enumerazione di doni votivi e di riparazioni di chiese, fra le quali merita che si tenga nota della restaurazione data alla tomba di san Paolo ch’era stata distrutta dai Saraceni.
Benedetto coltivò relazioni d’amicizia con Bisanzio. Un dì l’imperatore Michele spedì a Roma Lazzaro monaco e pittore, che recava al Pontefice un magnifico libro degli Evangelî rilegato in oro e coperto di pietre preziose: era per certo opera delle mani del messaggiero, che lo aveva ornato di miniature. Possiamo imaginare che i pittori romani avranno fatto ressa intorno a questo artista bizantino, per mostrargli i loro lavori e per averne consiglio o lodi[157].
[153]
Benedetto III moriva nel giorno 8 di Aprile dell’anno 858, in quello che Lodovico aveva abbandonato Roma, dove era venuto per ragioni che ci sono ignote. Appena che l’Imperatore udì della morte del Papa, tornò difilato alla Città affine d’impedire, colla sua presenza, che la elezione pontificia avvenisse contrariamente alla legge. Lodovico seppe indurre i Romani a raccogliere i loro voti sul diacono Nicolò, uomo di nobile stirpe, figlio di Teodoro regionario, e illustre per qualità così rare d’ingegno e di animo, che tenne grandissimo luogo in mezzo ai Pontefici. L’eletto fu consecrato in san Pietro sotto agli occhi dell’Imperatore; indi Lodovico, poichè ebbe assistito alle solite feste dell’ordinazione, si partì della Città[158]. L’estimazione ch’egli dimostrò a Nicolò, il quale contava molti avversarî fra il clero, e la gratitudine di cui questo Pontefice non mise indugio di fargli testimonianza, fanno supporre che i due uomini fossero legati con vincoli di amicizia personale. Uscito di Roma, l’Imperatore fe’ sosta in vicinanza a san Leucio, [154] dove oggidì sono le ruine di Torre del Quinto. Ivi ricevette visita da Nicolò, che vi andò accompagnato dal clero maggiore e dalla nobiltà. L’Imperatore gli corse incontro; lungo un tratto di via condusse per le briglie il cavallo del Papa, lui accolse ospite nella sua tenda, lo rimandò con ricchi regali, e quando il Pontefice s’accomiatò, s’abbassò nuovamente a guidarne il palafreno. In questo atteggiamento superbo di contra ad un Imperatore che gli si umiliava dinanzi così profondamente, Nicolò I diede principio al suo pontificato.
Avvenimenti di gravissima natura resero massimamente difficile quel reggimento, chè le chiese nazionali giusto in questo tempo si sollevarono a loro lotte contro la incominciante monarchia del Papato. Ma Nicolò stette saldo e risoluto; tenne testa contro a Re ed a Vescovi, scagliò anatemi contro Bisanzio, diede sapienti costituzioni a popoli barbari, come altra volta aveva fatto Gregorio magno; nè baroni o cardinali di Roma osarono di ribellarsi sotto il severo occhio di lui che li dominava.
Nel primo anno del suo pontificato Ravenna si mostrava reluttante all’obbedienza. Quell’arcivescovo Giovanni non prestava reverenza al primato del Papa, e attentava di farsi independente nel suo territorio, dove trattava da principe con laici e con preti, incamerava beni, scomunicava Vescovi, e ad essi ed agli officiali pontificî vietava che andassero a Roma. Ai nunzî del Papa protestava, che l’Arcivescovo di Ravenna non era tenuto di comparire innanzi ad un Sinodo romano: tre volte Nicolò gliene faceva invito, finalmente lo scomunicava. Giovanni allora andava a Pavia da Lodovico imperatore, e dappoi, accompagnato da legati di questo, [155] veniva a Roma; però Nicolò gagliardamente respingeva qualsiasi intromissione dell’Imperatore, ed allora l’Arcivescovo si partiva della Città. Tosto vi capitavano ambasciatori dell’Emilia e della nobiltà di Ravenna, chiedendo al Papa che andasse egli in persona a quelle terre, affine di salvarle dagli arbitrî dell’Arcivescovo e del fratello di lui[159]. Giovanni non s’aspettava la venuta del Papa, e mentre faceva ritorno all’Imperatore, Nicolò veniva fra i Ravennati, e rimetteva a quiete i cittadini col riporli in possesso dei loro beni. L’Arcivescovo si sottomise; il Papa lo assolse, ma gli impose obligo di presentarsi a Roma una volta all’anno, gli vietò di consecrare vescovi nell’Emilia senza che ne ottenesse licenza da Roma e prima che fossero eletti dal Duce pontificio, dal clero e dal popolo[160]. Gli proibì di torne tributi e di porre impedimento ai loro viaggi a Roma, e gli statuì che in tutte le controversie dovesse assoggettarsi alla sentenza del tribunale di Ravenna, cui assistevano il Missus pontificio e il Vestararius di quella città[161]. Dopo che Giovanni [156] ebbe sottoscritto a questi decreti sinodali, partì di Roma, e Nicolò ne conseguì un vero trionfo, anche da signore temporale dell’Emilia e della Pentapoli.
Più grave fu la controversia che di questo tempo ebbe incominciamento contro a Bisanzio, e condusse ad uno scisma senza riparo, che mise al colmo la separazione fra Roma e l’Impero greco. Però gli avvenimenti che vi si associano e nei quali rifulgono i nomi di Fozio e di Ignazio, escono fuor della cerchia in cui si rinserra la storia della Città, laonde in questa non ponno accennarsi che soltanto di volo[162]. Nel Dicembre dell’anno 857, gli intrighi di Barda, ministro onnipossente, avevano indotto l’imperatore Michele a deporre del suo officio Ignazio, patriarca ortodosso; e Fozio protospatario, uomo che per dottrina si levava di gran lunga sopra quella dei tempi suoi, passava addirittura dal ceto laicale al seggio patriarcale di Bisanzio. S’accese in Oriente una gran lotta fra i seguaci d’Ignazio e quelli di Fozio; le fazioni sporsero appello a Roma; i legati pontificî, Radoaldo vescovo di Porto (che anticamente era stato fautore del ribelle cardinale Anastasio) e Zaccaria di Anagni si lasciarono corrompere dall’oro, e protestarono che l’esaltamento di Fozio era avvenuto di buona ragione. Il Pontefice scagliò l’anatema sui traditori dei suoi voleri; convocato un sinodo romano nell’Aprile dell’anno 863, vi condannò Fozio, e, minacciandolo di scomunica, gli impose di scendere del trono patriarcale. Era un via vai di legati fra Roma e Bisanzio; dalla controversia delle imagini in [157] poi, Roma non aveva visto fra le sue mura una moltitudine così numerosa di Greci. Per verità, adesso gli Spatarî imperiali non recavano più doni di libri magnifici di Evangelî, ma lettere cui dettavano l’odio e lo sprezzo. La controversia assunse una piega dogmatica, non sì tosto che Fozio ebbe formulati gli articoli che egli rinfacciava alla Chiesa latina, siccome ereticali: il suo digiuno del sabato, l’uso del latte e del cacio che essa permetteva nella prima settimana della quaresima, il celibato dei suoi preti, e soprattutto quel filioque, onde significavasi la fede che lo Spirito Santo fosse proceduto anche dal Figliuolo: opinioni e cose che per felice ventura non scalderebbero più gli intelletti della nostra età, ma che, in secoli nei quali la gente umana aveva perduto la virtù di studiare problemi alti e condegni della ragione filosofica, bastavano a mettere incendio negli animi e ad evocare quella grande scissura che or separa per sempre le due Chiese. Fozio, alla sua volta, scagliò contro il Pontefice l’anatema, ma nell’anno 867, dopo che fu assassinato l’imperatore Michele, ei fu deposto da Basilio succeditore di questo: per tal modo l’acerba lotta durò tutt’intiero il pontificato di Nicolò.
Le contese coll’Oriente rinfocolarono più veementi a causa anche delle fauste relazioni che Roma contraeva con un popolo barbarico, proprio ai confini di Bisanzio. Quando Gregorio magno aveva steso la sua mano paterna alle ultime terre di Britannia per bandire in mezzo agli Anglosassoni le leggi della Chiesa romana, Bisanzio non se n’era dato pur mente; ma che Nicolò tentasse di accogliere nel seno e nelle costumanze della [158] Chiesa romana i Bulgari, quest’era intendimento che doveva destare in altissimo grado la gelosia dei Greci. Da alcuni secoli quel formidabile popolo slavo aveva sue sedi sulla riva meridionale ed esterna del Danubio, in un territorio ubertoso, diviso in dieci comitati. Esso conduceva vita vagante, saccheggiando le pianure dell’Istro e le steppe che si stendono fino al Don; aveva spesso combattuto contro ai Conti franchi in Pannonia, e aveva trattato seco loro per ragione dei confini; si spingeva ben dentro nelle province dell’Epiro e della Romania, e più di un esercito bizantino aveva dovuto soccombere sotto ai colpi delle sue frecce micidiali. Fin dall’anno 811, il feroce Re dei Bulgari beveva il suo vino entro una tazza formata del teschio di un Imperatore bizantino, mentre sedeva solo a mensa, circondato dai suoi terribili guerrieri che mangiavano il grossolano loro cibo, assisi sopra scanni a reverente distanza, o accoccolati sul nudo terreno[163]. Quella coppa era composta col cranio, cerchiato in oro, dell’ipocrita Niceforo che aveva rovesciato del trono Irene imperatrice; in quell’uso, per la prima volta, esso s’era fatto vase di qualche generosa cosa. In mezzo alle orde selvagge dei Bulgari, il Cristianesimo s’aveva sgombrato la via, venendo di Bisanzio, per opera di Costantino, ossia di Cirillo apostolo degli Slavi. Re Bogori, che tenevasi in pace con Lodovico imperatore, nell’anno 861 s’era fatto battezzare [159] con rito greco sotto nome di Michele; il partito pagano dei suoi maggiorenti, che aveva attentato alla sua vita, era stato vinto da lui coll’ausilio dei Santi celesti, ossia col fendente della sua spada e col coraggio di lui, guerriero valoroso; ora poi il Re spediva suoi ambasciatori a Roma[164]. S’eran destati dei dubbî nell’animo suo intorno al modo con cui fosse a darsi battesimo al popolo dei Bulgari; probabile è che lo mettessero in forse le contraddizioni dei missionarî che venivano nella sua terra, dove il prete latino e il greco facevano a chi più lavorasse l’uno a danno dell’altro; laonde molte incertezze s’avevano fatto strada nello spirito ingenuo del Re, che fino a quell’ora aveva tratto dì felici nella beata ignoranza della sua vita pagana. Il possedimento della cattedra patriarcale di Bisanzio era a quel tempo oggetto di un’acerrima disputa fra due pretendenti, perlochè Bogori si volgeva a Roma, alla fonte remota e santa della dottrina cristiana, per averne lume di consigli e soccorso di sacerdoti.
Gli ambasciatori bulgari, che erano gli uomini maggiori di lor terra, capitanati dal figliuolo stesso del Re, giunsero a Roma nell’Agosto dell’anno 866. Fra i ricchi donativi che portavano seco, trovavansi anche le [160] armi vittoriose che il Re aveva impugnato durante la sua guerra contro i ribelli; le votava a san Pietro. La novella di ciò accese peraltro la collera di Lodovico, che omai s’era istizzito contro il Papa: l’Imperatore era allora a Benevento. Chiese che gli si consegnassero le armi e gli altri doni dei Bulgari; può darsi che ei reputasse non convenirsi tai segni di vittoria al san Pietro, e li bramava per sè, quali trofei guerrieri di una nuova provincia della Bulgaria, che egli sperava di riunire all’Impero suo. Qualche cosa Nicolò ne concedette; il resto, scusandosi, tenne per sè[165]. Del resto i Bulgari furono accolti a braccia aperte in Roma. Due Vescovi elesse il Papa, affinchè andassero a portare l’insegnamento apostolico in Bulgaria; furono Paolo di Populonia e Formoso di Porto, al quale era serbata più tardi la corona pontificia. Con loro partì un’ambasceria mandata a Costantinopoli, che, passando dal regno dei Bulgari, doveva andare a quella città. Felicemente arrivarono i nunzî nella contrada, ma i legati che erano spediti a Bisanzio non furono lasciati passare oltre al confine, e dovettero tornarsene con vergogna[166]. Formoso [161] e Paolo però andarono battezzando senza posa turbe intiere di Bulgari; discacciarono i missionarî greci, indussero il Re ad accogliere soltanto preti latini e culto romano; ed anzi l’accorto Formoso giunse ad ottenere che un’ambasceria spedita al Papa, lui domandasse ad arcivescovo di Bulgaria[167]. Ma Nicolò respinse quelle istanze, perocchè non volesse torre a Porto il suo Vescovo, e mandò in gran fretta due altri Vescovi e preti molti alla lontana terra, comandando che l’Arcivescovo si eleggesse tra questi.
Ancor prima, egli aveva acchetate le dubbiezze puerili dei Bulgari; e i suoi precetti, raccolti sotto il titolo di Responsa, formano quasi un codice di costituzioni civili accomodate all’uso di una nazione rozza; la loro ragione pratica e mite è tale da ispirarci altissima reverenza della mente del Papa. Avvi appena un dovere o una evenienza della vita civile su cui gl’inesperti Bulgari non chiedessero consiglio; domandavano quale dovesse essere il rito delle loro nozze, quale il tempo in cui potessero consumare l’atto conjugale, a che ora dovessero pranzare, come vestire, se potessero giudicare gli uomini delinquenti: ond’è che fanno sovvenire dei selvaggi del Paraguay e della costituzione impartita a queste genti dai Gesuiti. Dicevano che fin allora avevano costumato di inalberare come vessillo nelle loro battaglie una coda di cavallo, e chiedevano che cosa dovessero introdurre fra loro in cambio di questo simbolo di cavalleria turchesca: il Papa alla coda di cavallo sostituiva [162] la croce. Narravano che prima di appiccare la mischia avevano usato di ogni sorta di incantesimi pagani per impetrare dagli Dei il trionfo; il Papa consigliava loro che, a vece di quelle ceremonie, pregassero nelle chiese, aprissero le carceri, liberassero gli schiavi e i prigionieri di guerra, mandassero consolati i deboli afflitti. Chiedeva il Re se fosse cristiano costume quello suo di pranzare superbamente solitario, separato dalla Regina e da’ suoi guerrieri; rispondeva il Papa ammonendolo all’umiltà e dicendogli che gli antichi Re famosi avevano accondisceso a cibarsi alla stessa mensa coi loro amici e coi loro schiavi. Allorchè poi gli rivolsero una domanda, ch’era piuttosto d’ordine politico che pratico, quando cioè gli chiesero quali Vescovi dovessero venerarsi da veri patriarchi, Nicolò afferrò la propizia opportunità per rispondere con discorso lungo e con voce alta sì, che stuzzicasse le orecchie anche a Bisanzio. Primo di tutti i Patriarchi, disse, è il Papa di Roma, la cui Chiesa fu fondata dagli apostoli Pietro e Paolo; tiene luogo secondo Alessandria, dacchè fu costituita da Marco santo; terza è Antiochia, perocchè Pietro, prima di venire a Roma, abbia governato quella Chiesa. Sono questi i tre Patriarcati veramente apostolici. Per contro, Costantinopoli e Gerusalemme non possono pretendere a tanta autorità; la sede di Costantinopoli non ebbe a fondatore apostolo alcuno, e il Patriarca di questa città appellata novella Roma, è nomato pontefice soltanto per favore degli Imperatori, non già per intima ragione di diritto[168].
[163]
Questi e simiglianti articoli conteneva la costituzione data da Nicolò I ai Bulgari; fu essa uno dei più mirabili monumenti del pontificato di questo uomo illustre, monumento eziandio dell’operosità pratica e dell’accortezza della Chiesa romana, la quale, tutto ad un tratto, senza violenza d’armi e di tribunali, seppe introdurre lingua e costumi romani in un paese che, da dopo i tempi di Valente e di Valentiniano, non era stato più calpestato da alcun uomo latino: così la Chiesa di Roma imprendeva a guadagnarsi una novella provincia nel remoto Oriente. In verità, le relazioni che si conchiusero tra Nicolò e re Bogori, pur d’indole sì diversa, non furono per Roma meno gloriose delle vittorie che un dì Trajano aveva riportate su re Decebalo in quelle terre che il Danubio bagna. Però la provincia di Bulgaria non rimase lungo tempo sotto il dominio religioso di Roma; per forza naturale delle cose cadde in balìa dei Greci.
Intanto che Nicolò cercava di far romana la giovane Chiesa dei Bulgari, intanto che combatteva contro allo [164] scisma di Bisanzio e mirava con grave cura dell’animo i progressi dei Maomettani in Sicilia e nell’Italia inferiore, egli si vedeva in pari tempo trascinato ad una lotta così veemente colla casa regale e colla Chiesa dei Franchi, che lo prendeva trepidanza perfino di uno scisma franco. Ne porgevano occasione i casi avventurosi di alcune donne illustri. Il costume morale publico (se di esso parlar si possa in quel secolo) era offeso da alcuni avvenimenti rilevanti, ma non insoliti. Giuditta, figlia di Carlo il Calvo e vedova di Etelwolfo, s’era sposata a Etelbaldo figliastro di lei, senza che questa unione fosse tenuta in conto di immorale. Morto il suo novello marito, tornava ella in Francia; la donna voluttuosa destava le brame di Balduino conte, e questi se la rapiva: re Carlo faceva che un Sinodo pronunciasse contro a lui la scomunica, ma allora gli amanti si rivolgevano al Papa, il quale riconciliava con loro il padre. Nello stesso torno di tempo un’altra femmina si acquistava nominanza con sue dissolutezze. Ingiltrude, figlia di Mactifredo conte, maritata al conte Bosone, fuggiva dalle case del suo sposo, andava lunghi anni menando nel mondo una vita randagia in mezzo ai piaceri, e fra le braccia dei suoi ganzi non badava all’anatema che il Papa le scagliava. Però la sventura d’una Regina e il trionfo sfacciato d’una concubina regale, seppellivano nell’ombra le sorti di quelle femmine.
Lotario di Lorena, fratello dell’Imperatore, ripudiava Tiutberga sua sposa, a cagione di Gualdrada sua amanza. Questo dramma conjugale levava a grande commovimento paesi e popoli, Stato e Chiesa, ed offriva al Papa opportunità di sollevarsi a tanta altezza, che gliene veniva [165] splendore più chiaro di quello che gli avrebbero procacciato dispute di dogmi teologici. Il diportamento di Nicolò I di contro a questo scandalo regio, fu quale si conveniva ad animo saldo e invitto; in lui la podestà sacerdotale apparve essere forza morale che salva la virtù e punisce il vizio: forza per verità necessaria in un tempo barbarico, nel quale non era ancor sorta quella potenza della opinione publica che è giudice anche dei Principi. La rejetta Regina, coperta di onta inventata dalla calunnia, privata della corona che Lotario aveva già posto in capo della favorita, invocava il soccorso del Papa. Questi commetteva al Sinodo di Metz di pronunciare sentenza, e minacciava di scomunica l’adultero regale se innanzi a quel tribunale non comparisse. I legati del Papa, fra i quali trovavasi Radoaldo di Porto, quegli stesso che dapprima s’era venduto a Bisanzio, erano inchinevoli alla forza dell’oro, che in tutti i tempi esercitò sui Romani un’attraenza irresistibile. Eglino pertanto non produssero le lettere pontificie, ma protestarono che il matrimonio di Lotario era stato disciolto a buon dritto, e che Gualdrada gli era legittima moglie: tanto per far qualche cosa, mandarono a Roma Guntero, arcivescovo di Colonia, e Teutgaudo di Treviri, affinchè sottoponessero le deliberazioni del Sinodo al giudizio del Papa. Fra i molti Vescovi che, cupidi di immunità regali e di donazioni, secondavano senza coscienza i desiderî di Lotario, quei due uomini erano i suoi più stretti e fidi: d’altronde essi tenevano le parti della monarchia per porla di mezzo fra l’Episcopato e la supremazia pontificia. Venuti a Roma, produssero gli atti di Metz, pieni di speranza di guadagnare il Papa colle loro [166] persuasioni; ma Nicolò per tre settimane non se li lasciava accostare, indi comandava loro di comparire innanzi al Sinodo che s’era raccolto in Laterano; e senza lasciar loro adito di difesa, senza esame, senza accusa, senza intervento di Vescovi franchi, pronunciava la loro deposizione e gli scomunicava, in quello che senza più cassava le statuizioni del Sinodo provinciale di Metz[169]. Tutto questo accadeva nello autunno dell’anno 863.
Gli Arcivescovi, frementi d’ira, corsero con quanta fretta erano capaci, a Benevento, dov’era l’Imperatore. Si dolsero della violenza patita, gli dissero che nella persona di loro il Papa aveva offeso Lotario fratello suo, anzi lui stesso; gli rappresentarono che la signoria sconfinata del Pontefice minacciava di gran pericolo la maestà imperiale e la regia, ed eziandio la Chiesa franca; le loro parole misero il fuoco addosso a Lodovico. Questi allora mosse tosto con un esercito su Roma, accompagnato da Engelberga, sua donna, e dai due Arcivescovi, dacchè egli voleva costringere il Papa a rimetterli nella loro dignità. Entrò nella Città che era il mese di Febbraio dell’anno 864[170]. Poichè si era sparsa [167] voce ch’ei veniva con intendimenti ostili, il Papa aveva ordinato dappertutto digiuni e letanie, e una mestizia desolata si spandeva per la Città tutta quanta. L’Imperatore poneva dimora nel palazzo vicino al san Pietro; ma il Papa non andava a fargli omaggio, e si teneva chiuso in Laterano, dove attediava il cielo con orazioni incessanti contro «il malefico Principe.» Indarno i baroni di Lodovico significavano al Papa che con quei modi di provocazione malaccorta ei non faceva altro che aggiungere fiamma alla collera dell’Imperatore; le processioni non finivano di percorrere in tutti i versi le vie della Città. Una di esse s’incamminava verso il san Pietro e stava per ascendere i gradini dell’atrio, allorchè alcuni vassalli e armigeri di Lodovico, istizziti dei rifiuti del Papa, si scagliarono sovra ai preti; li conciarono a nerbate, li gettarono a terra, rovesciarono i vessilli ecclesiastici, e fecero in pezzi la croce di sant’Elena, nella quale, secondo la credenza che allor correva, era racchiuso il legno della vera croce: quelli della processione si salvavano dandosela a gambe[171]. Un simile spettacolo non si era mai visto in Roma dacchè aveva avuto fondazione [168] l’Impero dei Carolingi: parve rotta l’armonia fra il Papato e l’Impero, e per la prima volta scoppiarono dentro della Città gli odî di nazione fra Germani e Romani.
Narrò la fama che il Papa in gran secreto si fosse messo in una barca, e pel Tevere fosse fuggito in san Pietro, dove avesse passato due giorni e due notti senza torre cibo o bevanda, e si sparse voce che la morte avesse colpito il Franco spezzatore della croce di santa Elena, e che l’Imperatore fosse infermato di febbre. L’Imperatrice allora s’inframmise fra Nicolò e il suo sposo per compor pace.
Avuta promessa di sicurtà, il Papa venne alle case dell’Imperatore, e v’ebbe con lui un lungo colloquio. Nicolò tornò indi al Laterano, non sciolse però dalla scomunica gli Arcivescovi, e Lodovico comandò a questi di tornare in Alemagna. Prima di lasciar Roma i due prelati tedeschi compilarono una scrittura, in cui protestarono contro la loro deposizione e contro l’opera del Papa, e lo fecero con linguaggio sì veemente quale giammai un Pontefice l’ebbe udito dalla bocca di Vescovi; vi era espresso con discorso gagliardo l’intendimento per cui le Chiese nazionali cercavano di ottenere independenza e di svincolarsi dal primato di Roma. Nell’esordio del loro libello, che era intitolato ai Vescovi della Lorena, quei due osavano dire: «Sebbene Nicolò, che appellato è Papa, che da apostolo si ficca in mezzo agli Apostoli, che pompeggia da imperatore dell’universo mondo, ci abbia condannati, tuttavolta, per grazia di Cristo, egli ha trovato da parte nostra ferma resistenza, nè poco s’ebbe pentito di ciò che poi fece»[172]. [169] Il loro scritto conteneva sette capitoli indirizzati al Papa: gli autori vi condannavano il suo procedimento contrario ai canoni, indi ritorcevano l’anatema sul capo di lui[173]. Guntero di Colonia, animo robusto e risoluto fuor del comune, incaricava Ilduino, fratel suo, ch’era cherico, di recapitare egli stesso in mano del Pontefice quella scrittura, e, se questi si fosse rifiutato di accettarla, di deporla nella Confessione del san Pietro. Nicolò fece quanto previsto s’era, e Ilduino, tutto circondato di uomini armati, andò tosto audacemente in san Pietro per fare ciò che il fratello gli aveva commesso. I guardiani della Confessione (formavano una Schola loro propria con titolo di Mansionarii scholae confessionis S. Petri) si posero all’intorno della tomba dell’Apostolo per respingerli, ma gli invasori si scagliarono su di loro, ne lasciarono uno di morto sul terreno, gettarono la scritta nella Confessione, e, sgombrandosi la via colle spade, uscirono della basilica.
Questo avvenimento dimostrò che l’Imperatore non s’era in alcun modo riamicato col Papa. Senza darsene un fastidio al mondo, Lodovico stavasi spettatore impassibile dei più feroci eccessi che le sue soldatesche commettevano, parimente come se fossero state in terra nemica: saccheggiamenti di case e perfino di chiese, ammazzamenti, stupri di monache e di matrone. Lodovico sdegnava perfino di passare la Pasqua in Roma; [170] partiva della Città, e con maligno intendimento moveva a Ravenna per celebrare le feste presso all’arcivescovo Giovanni: questi infatti andava sempre covando i suoi rancori, memore dell’umiliazione patita in Roma; anzi con grande animo afferrava l’opportunità delle discordie sorte fra i Vescovi alemanni e Roma, entrava in buone relazioni coi prelati scomunicati, e con gran calore attizzava le ire di Lodovico[174]. Queste tempeste avrebbero atterrato un Pontefice d’animo fiacco, ma non piegarono la tempra gagliarda di Nicolò: il suo animo orgoglioso e inflessibile stette saldo colla fortezza di un Romano antico. Minacciò scomuniche, e furono temute come folgori vere; i Vescovi di Lorena gli mandarono proteste di pentimento; Arsenio legato di lui, munito di lettere indirizzate ai Re, ai Vescovi ed ai Conti, e fiammeggianti di minacce, andò in Lorena con una baldanza tale da far ricordare l’orgoglio dei proconsoli della vecchia Roma. Con una mano quel legato riconduceva la sposa ripudiata al Re che s’era fatto trepido per paura dell’anatema, coll’altra gli strappava dal fianco la donna amata. Il reame, debole e disunito, abbandonando una cattiva causa venuta a lotta con Roma, non resistè più a lungo, e diede in mano al Papato la più splendida vittoria. Tuttavolta non era ancor giunto a fine l’ultimo atto di questa tragedia; papa Nicolò morì mentre essa ancor durava, chè soltanto al tempo del suo succeditore ebbe termine lo scandalo di quel processo[175].
[171]
Durante il pontificato di Nicolò I non si parla di torbidi cittadini che avvenissero in Roma, ed anzi si narra che quel suo tempo s’allietasse per pienezza di prosperità od almeno per ubertà di ricolti. Ai poverelli si provvedeva satollandoli con generosità; e il Papa, sì come un Imperatore romano avrebbe fatto, giungeva perfino a dispensare dei marchi che davano il diritto di un pranzo a chi li mostrava; erano segnati col nome di lui e si distribuivano agli uomini indigenti o a quelli che erano incapaci di lavorare[176].
Due acquedotti restaurò Nicolò, l’Aqua Tocia e la Trajana o Sabbatina, la quale nella città Leonina, da essa abbeverata, aveva allora nome di acquedotto di san Pietro[177]. Dappoichè Gregorio IV aveva restaurato [172] questo medesimo acquedotto, convien dire che, dopo di lui, lo avessero danneggiato i Saraceni, oppure che Nicolò gli desse una direzione differente e ne facesse una distribuzione migliore delle acque[178]. Il cattivo modo di fabbricazioni di quella età faceva sì che gli edificî prestamente decadessero; Nicolò ebbe pertanto necessità di costruire novellamente financo le mura di Ostia, benchè soltanto da Gregorio IV derivasse la loro erezione; e dovette munirle di saldi torrioni, entro ai quali collocò un presidio. Il terrore dei Saraceni aveva fatto omai che Ostia si lasciasse in abbandono, laddove [173] Porto si conservava ancora, grazie alla colonia di Côrsi che ivi era[179].
Il numero mirabilmente scarso di doni votivi e di edificazioni di chiese cui diè opera Nicolò I, non torna a disdoro dell’intelletto pratico di questo Pontefice. A detta del suo Biografo, egli costruì il portico a santa Maria in Cosmedin; nè v’ha dubbio che Nicolò fosse stato diacono di quella chiesa, perocchè, sopra tutte le altre, rivolgesse cura ad adornarla: infatti, oltre alle menzionate case dei Papi, egli vi edificò anche un bel triclinio. Da lui derivarono le pitture o musaici allogati nella diaconia di santa Maria Nuova, edificio di Leone IV; al palazzo Lateranense aggiunse poi una nuova fabbrica di abitazione, e presso al san Sebastiano eresse un convento.
Se il Biografo di questo Pontefice avesse avuto senso di comprendere quello che valeva la cultura scientifica in Roma, ben avrebbe potuto narrare che Nicolò provvide al suo incremento. Se non è altro, il Biografo dà lode al padre di Nicolò per ciò che era stato amico delle arti liberali e il figliuolo aveva iniziato in cosiffatti studî; ma siccome aggiunge che il Papa fu per questa ragione erudito in ogni maniera di sacre discipline, ei ci vieta di pensare che quella scienza uscisse fuor degli studî attinenti alle cose teologiche[180]. Ad ogni modo il [174] periodo dei Carolingi s’adorna di chiarissimo pregio, poichè accolse il generoso intendimento di diradare la tenebra della barbarie colla cultura delle scienze. Il genio di Carlo e degli amici suoi iniziati nella letteratura classica dei Romani, diede agli studî un repentino impulso, ed i succeditori di Carlo operarono con pari indirizzo. Ne offre splendida testimonianza l’editto promulgato da Lotario nell’anno 825. L’Imperatore vi deplora che, per ignavia degli uomini prepostivi, le discipline dell’istruzione abbiano cessato quasi in tutte le terre d’Italia, e comanda la fondazione di nove scuole centrali per i respettivi territorî; le costituisce a Pavia (la cui Università, celebre dappoi, certo erroneamente si attribuisce a fondazione di Carlo Magno), a Ivrea, a Torino, a Cremona, a Firenze, a Fermo (per il ducato di Spoleto), a Verona, a Vicenza ed a Forum Julii (Cividale di Friuli)[181]. L’aperta dichiarazione che s’era spento del tutto l’insegnamento di scuole, fa che s’argomenti lo stato miserrimo in cui era l’istruzione in Italia. Di istituti scolastici maggiori non puossi pur pensare; ciò che si denotava sotto il concetto di doctrina comprendeva soltanto le cose di religione, e fuor d’esse [175] tutt’al più gli elementi delle scienze profane, segnatamente della grammatica.
L’editto di Lotario si riferiva al reame d’Italia e non a Roma, nè alle province della Chiesa, ma anche qui v’aveva la istessa ignoranza se pur non era più grave, sì come lo dimostrano le decisioni di alcuni Concilî romani. Nell’anno 826, Eugenio II faceva ordinanza che in tutti i vescovati e nelle parrocchie si raccogliessero dei dottori che insegnassero con diligenza le scienze, le arti liberali e i sacri dogmi. Quest’ordinamento in classi dimostra che si aveva riguardo anche agli umani studî (artes liberales), facendosene espressa differenza dalla teologia (sancta dogmata); ma appena egli era se ne trovavano maestri. Estinto s’era lo studio di quelle discipline profane, e allorquando Leone IV confermava nell’anno 853 il decreto di Eugenio, v’aggiungeva queste testuali parole: «Sebbene, com’è di solito, rade volte si trovino nelle parrocchie precettori di scienze liberali, occorre tutta volta che non difettino maestri della divina scrittura, e istitutori di officiatura ecclesiastica»[182].
Anche in Roma si poteva muovere eguale lamentanza. Non si fa pur cenno di un maestro, o di scuola alcuna che ivi avessero qualche rinomanza. Certo è che fin [176] dal tempo in cui i Benedettini avevano posto stanza nella Città, s’erano aggiunte scuole ai conventi, e continuava quella antica Lateranense che loro doveva sua origine, e nella quale erano stati educati parecchi Papi: però questi istituti romani non potevano gareggiare colle scuole di Alemagna e di Francia, quali erano quelle di Fulda, di San Gallo, di Tours, di Corveia o di Pavia in Lombardia. Roma non isplendeva per ornamento di uomini illustri pari a Giovanni Scoto, a Rabano Mauro, ad Agobardo di Lione, o pari allo scozzese Dungalo che viveva a Pavia, od a Lupo di Ferrières. Può darsi che le dottrine giuridiche fiorissero ancora di qualche po’ di cultura in mezzo a tutte le discipline degli studî profani; ed invero, dopo dello Statuto di Lotario, dovevano trovarsi dei professori di giure che fossero addottrinati nelle leggi di Giustiniano e che le insegnassero in compendio; nè gli avvocati e i notai potevano essere del tutto digiuni di scienza della legge salica e di quella longobarda.
Parecchi Papi avevano posto monaci greci entro a nuovi conventi; e quelli nella loro lingua materna impartivano istruzione a’ sacerdoti romani, per guisa che, se anche non ne profittava la cultura delle lettere greche, se ne manteneva tuttavia viva in Roma la cognizione del linguaggio; i Papi in quei seminarî educavano alcuni uomini che potevano adoperare da nunzî a Bisanzio, o da scrivani e da interpreti.
Alcune chiese e alcuni conventi di Roma erano forniti di biblioteche. Durava sempre quella Lateranense, e il glorioso titolo di «Bibliotecario» s’ode anche nel tempo della più fitta tenebra. L’archivio pontificio custodiva [177] gli innumerevoli atti della Chiesa e i Regesti, ossiano lettere dei Papi, che erano documenti inestimabili della storia, della lingua latina di quei secoli, e, può dirsi, della pretta letteratura romana nella prima metà del medio evo: tesori che nel secolo duodecimo perirono senza lasciar traccia di sè, e la cui perdita lasciò nella storia un vuoto profondo, che non è mai deplorato abbastanza[183].
Non vale dubitare che le biblioteche ed i conventi di Roma possedessero eziandio opere di letteratura greca e romana; chè esemplari di quei codici dovevano essersi conservati qua e colà in Roma ancor dopo del periodo dei Goti, e nel corso del tempo se ne erano per certo tratte delle copie. I conventi dei paesi di fuori possedevano nel secolo nono molti tesori di lettere; nell’anno 831 l’abazia di Centule, ossia di San Riquiero nelle Gallie, di cui più in antico era stato abate Angilberto, celebrava a sua gloria di possedere duecento cinquantasei codici, ed è rimarchevole a sapersi quali libri il Cronista registri fra le opere profane che ivi si serbavano. Erano Etico, de mundi descriptione, la Historia Homeri con Dite e con Darete di Frigia, Gioseffo completo, Plinio il giovane, Filone, le [178] favole di Avieno, Virgilio; e fra i «Grammatici», di cui massimamente quell’età era bramosa, Cicerone, Donato, Prisciano, Longino e Prospero[184]. Se di tai libri trovavansi in Francia, può egli darsi che non ne esistessero a miglior ragione in Roma? Lupo, abate di Ferrières, nell’anno 855 volgeva a Benedetto III l’ingenua preghiera che gli mandasse alcuni codici di Cicerone de Oratore, le istituzioni di Quintiliano, il commento di Donato a Terenzio: e lo faceva certo che gli restituirebbe senza dubbio quegli scritti, dopo che ne avesse fatto cavar copia[185]. Soltanto nelle notizie che ci danno i Romani, non si fa pur motto di codici profani. Se nelle Biografie dei Papi si tien parola di libri, d’altro non si tratta che di Evangelî, o di antifonarî, o di messali che solevansi dedicare alle chiese. A ragione si tenevano in conto di doni votivi preziosi, e di essi facevasi menzione perfino nelle iscrizioni funerarie dei donatori. Grande era la spesa che occorreva per compilare un codice in pergamena, e la fatica laboriosa di trascriverlo e di alluminarlo, [179] di gran lunga superava quella che gli orafi o i fonditori di metalli adoperavano a comporre i loro candelabri o i loro vasi[186]. Monaci periti dell’arte passavano la loro vita solitaria a copiare di quei codici delle sacre Scritture e dei Padri ecclesiastici, che eglino, con amore incredibile e con diligenza di pennello e di penna, solevano disegnare anzi che scrivere, parte a caratteri unciali romaneschi in lettere majuscole o minuscole, parte in più difficili caratteri longobardi; tratto tratto fregiavano i codici di miniature, e, di consueto, il primo dei disegni rappresentava lo scrivano, o l’abate che gliene dava incarico, o tutti e due, col codice in mano, in atto di offrirlo ad un qualche Santo[187]. La difficoltà dei caratteri [180] non consentiva correntezza di mano al copista, e lo costringeva a dipingere[188]; oltracciò egli ornava il suo codice di lettere iniziali disegnate con grande arte in oro e a colori. Di queste opere sottili e belle, condotte con grande varietà di colori e con dovizie di arabeschi, fa testimonianza ancora oggidì il celebre Codice carolino della Bibbia, lavoro del secolo nono, che il convento di san Paolo custodisce come massimo tesoro suo[189].
Siffatti codici rivelano in pari tempo l’indole di [181] quell’età in cui l’arte lottava contro a una barbarie profonda, le cui tracce sono segnate nelle sue fatture goffe e ancor sempre stecchite di durezza. La tempra del secolo nono e dei secoli successivi, come quella dei popoli Dorici, degli Egiziani e degli Etruschi antichi, ha qualche cosa di figurativo, di enimmatico e in generale di simbolico; lo dimostrano manifestamente il disegno e i caratteri della scrittura, l’uso dei monogrammi apposti nei documenti e nelle monete, e la consuetudine degli arabeschi. La moneta massimamente rivela in un modo sempre più fisso e preciso l’imagine della vita publica della sua età, e i denari pontificî di questo tempo sono impressi di caratteri bruttissimi nella scrittura e nel disegno[190].
[182]
Se l’Anonimo di Salerno fosse venuto a Roma nel tempo di Nicolò I, egli non avrebbe saputo numerarvi una schiera di trentadue filosofi, com’egli afferma di averne contato in sull’anno 870 nella florida Benevento[191]. Se Erchemperto, che fu continuatore della Storia dei Longobardi di Paolo Diacono, fosse uscito del suo dotto monastero di Monte Cassino (dove splendeva allora per grande valore l’illustre abate Bertario), e fosse venuto a Roma, lo avrebbe indotto a spavento l’ignoranza dei frati e dei cardinali: se Fozio, il patriarca di Bisanzio ch’era stato scomunicato da Nicolò I, avesse mosso suoi passi a Roma, il lume della sua scienza avrebbe sfolgorato come un portento in questa città, dove non era più alcun Romano, il quale sapesse distinguer per nome le statue dei savî e dei poeti dell’antichità, che annerite e mutilate duravano ancora in piedi nel cadente foro di Trajano.
[183]
Di contro alla cultura scientifica di Costantinopoli, Roma aveva cagione di coprirsi di vergogna profonda; perfino quei Saraceni d’Africa, che avevano messo a ruba i tesori del san Pietro e del san Paolo, potevano tenersi in conto di semidei se si paragonavano ai Romani ignoranti, e se guardavano alle università ed ai filosofi, ai teologi ed ai grammatici, agli astronomi ed ai matematici che fiorivano a Kairewan, a Siviglia, ad Alessandria, a Bassora e a Bagdad, Atene maomettana dell’Oriente. Lo splendore prodigioso della cultura dello spirito appo gli Arabi, influiva a infondere vita a Bisanzio. Questa città, sempre animata di uomini cavillatori e di sofisti, di pedanti e di fanatici, aveva un grande mecenate in quello stesso Cesare Bardane, che aveva discacciato il patriarca Ignazio; e nei suoi Principi, quali furono Leone il filosofo e, più tardi, Costantino Porfirogeneto figliuolo di lui, trovava discepoli zelanti di una sapienza pedantesca: in Fozio possedeva un novello Plinio o un Aristotele di età barbarica, il quale nella sua celebre «biblioteca» custodiva compendî e lavori critici che comprendevano lo stillato di dugentottanta Autori; e non era che una piccola parte della sua scienza.
I Bizantini avevano la coscienza della purezza, pur sempre relativa, della lingua greca, e questa fu che conservò la loro vita scientifica per un corso di secoli, ancora dopo che l’idioma latino si fu estinto: pertanto eglino guardavano con disprezzo alla barbarie di Roma. Michele imperatore, in una sua lettera indiritta a papa Nicolò I, gettava a larga mano lo scherno sui Romani, a cagione del loro latino che egli chiamava linguaggio «da Barbari e da Sciti»; e il modo che esso era [184] parlato in bocca del popolo, o scritto dai notai e perfino dai Cronisti, dava del resto buon giuoco ai motteggi dei Bizantini eruditi. Il Pontefice rispondeva in un latino bello assai; fossene egli l’autore oppure la sua segreteria sempre esperta di stile, fatto sta che vi si metteva tutta l’arte a comporlo, e per fermo era la migliore apologia che oppor si potesse. E il Papa aveva agio di rispondere acconciamente all’Imperatore, essere ridicola cosa ch’egli pretendesse per sè il titolo di Imperatore dei Romani se non ne sapeva parlare la lingua, e se perciò barbarica l’appellava: tuttavolta gli argomenti che il Papa adoperava a difendere l’idioma di Cesare, di Cicerone e di Virgilio, sono rettoricumi frateschi, o attinti per ragione gerarchica all’autorità della religione cristiana e della croce, il cui titolo J. N. R. J., diceva, era scritto in latino[192].
Financo quei popoli di Germania e di Gallia, cui i Romani davano nome di barbari, continuavano a coprir Roma di vergogna, perocchè essi progredissero nella cultura del linguaggio e della scienza dei Latini: agli occhi dei cardinali della Città, un Incmaro di Reims passava per un vero miracolo. Muta s’era fatta in Roma [185] la voce della poesia, fosse di tema religioso o di subbietto profano; ma nel tempo stesso in cui a mala pena avveniva che i Romani possedessero tanto ingegno da comporre qualche epigramma per i musaici delle loro chiese, per le porte della loro Città o per i sepolcri dei loro morti con un’accozzaglia di ritmi e di vocaboli barbarici, Cronisti franchi, quale era Ermoldo Nigello, dettavano le loro Storie in versi latini; e preti tedeschi, i cui padri erano vissuti tuttavia nel paganesimo, scrivevano nella gagliarda lingua primitiva del loro popolo, e poetavano quelle armonie evangeliche, di cui oggidì ancora ammiriamo la tempra originale. Nessun’opera teologica si compilava più in Roma. La storia della Città, la trasformazione memoranda che avea subita da Pipino e da Carlo in poi, non trovava pur un annalista, e intanto che Alemagna e Francia e la stessa Italia meridionale (dove nel venerando Monte Cassino si dava opera a scrivere la storia) ivano producendo un gran numero di Croniche, la ignavia oppure la ignoranza dei monaci romani seppelliva la Città in una tenebra profonda.
Peraltro, giusto in questo tempo, il Papato raccoglieva la sua Cronica antichissima, e in parte vi comprendeva tutto quello che ha maggiore importanza per la città di Roma di quell’età. Dopo che s’era costituito lo Stato ecclesiastico, dopo che aveva avuto incremento la potenza non solo dei Pontefici, ma anche dei Vescovi, i cui vescovadi erano altrettante ricche immunità, facevasi sentir più potente la necessità di tramandare ai posteri la storia delle Chiese, composta in una serie ordinata dei loro Vescovi e in forma di loro biografie. [186] Il bisogno non era specialmente proprio di un solo paese, avvegnachè questo istesso tempo producesse parecchie collezioni di tal foggia, che avevano tutte a fondamento i cataloghi delle vite dei Vescovi, le loro lettere, i loro Regesti ed altri documenti. Fuor di Roma Agnello raccoglieva e scriveva la sua Storia dei Vescovi di Ravenna, opera barbarica ma preziosa, che sta a fianco del Liber Pontificalis; e Giovanni, diacono napoletano, compilava le Biografie dei Vescovi della sua bella terra natìa. Così appartiene pure a quest’epoca la collezione celebre delle Vite dei Papi, che è nota sotto il nome di Anastasio.
Anastasio ebbe il titolo di «bibliotecario», che lo distinguette dal ribelle Cardinale dell’istesso suo nome; visse a’ tempi di Nicolò I, e tuttavia a quelli di Giovanni VIII. Se non abbia dettato di sua mano altre biografie fuor di quelle dei suoi contemporanei, forse da dopo di Leone IV, e, sopra tutte, quella di Nicolò I, che è per vero dire assai poco copiosa, è pur probabile ch’ei raccogliesse il restante; per lo meno la tradizione ebbe raccomandato al nome di lui questo lavoro. Le Biografie, che hanno cominciamento da san Pietro fondatore del vescovato di Roma, furono, dal terzo secolo in poi, continuate in forma di registri riuniti in ordine di calendario e di cataloghi sugli anni di reggimento e sulle geste dei Papi: dopo di Gregorio magno, a compilarle, si trasse giovamento anche dalle epistole e dagli atti dei Pontefici. In tal guisa, da questa materia sempre più perfetta e abbondante ebbero origine le Biografie dei Papi continuate in forma officiale, e, durante il periodo dei Carolingi, contengono dovizia massima di notizie. [187] La loro tessitura non ha la forma degli annalisti, e questo ne rende difficile l’uso; sono un ammasso mal composto di notizie assai esatte delle edificazioni e dei doni votivi di Roma, e di veri avvenimenti storici. Brutto ne è lo stile al paro della trattazione, e la lingua è ben diversa da quella della segreteria romana, di cui l’andatura spigliata, franca e robusta ci induce a meraviglia anche adesso, quando leggiamo i Regesti di Nicolò I e di Giovanni VIII, che per buona ventura giunsero fino al tempo nostro. Ma il valore di quelle Biografie è inapprezzabile, avvegnaddio sieno ricavate dalle origini più sicure e genuine; e, senza di esse, la cognizione della vita del Papato e altresì della città di Roma, sarebbe per lunghi secoli involta in completa oscurità. Ora il Liber Pontificalis nella nota sua forma s’interrompe colla vita di Nicolò I, così che, abbastanza presto nella nostra Storia, avremo a deplorare l’inaridirsi di questa fonte. Vi fanno seguito soltanto le aggiunte Biografie di Adriano II e di Stefano V, che sono attribuite a Guglielmo bibliotecario[193].
L’ingegno di Anastasio era vasto a sufficienza perchè eclissasse col suo splendore i Romani suoi contemporanei. Siccome s’intendeva di greco (e questo bastava [188] per dargli fama d’erudito), ei traduceva la Cronografia di Niceforo, Giorgio Sincello, Teofane ed altre opere di letteratura ecclesiastica greca. Ebbe un solo emulo nel suo concittadino Giovanni diacono, perocchè questi non fosse meno di lui saputo nel greco, e fosse inoltre ornato di maggiore ingegno letterario. Scrisse questi la Biografia di Gregorio magno, giovandosi degli atti dell’archivio Lateranense, e vale che si noti come una tale monografia fosse compilata precisamente nell’età dei Carolingi, e dopo che il suo Autore era sopravvivuto al pontificato di Nicolò I, il quale per operosità e per grandezza richiamava alla mente la ricordanza di Gregorio. Quella scrittura è un lavoro di concetto originale, e mirabilmente differisce dall’arida forma di tutte le altre Biografie dei Papi. L’Autore dà nel rettoricume e corre con fervida imaginativa; tenta miseramente di essere elegante e copioso; però rivela qualche cognizione di letteratura antica[194].
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La fiacchezza personale dei succeditori di Carlo, le loro passioni, le lotte con cui si disputavano la monarchia che la feudalità ruinava senza speranza di salvezza, avevano, intorno a questo tempo, fatto crescere di assai l’autorità del Pontefice. La sua dignità santa spiegò con Nicolò I così alti sensi di grandezza e di ardire, che pochi Papi soltanto ne ebbero pari. Natali illustri, bellezza di corpo, cultura eletta, per quanto concedeva il suo tempo, rendevano compiuta la persona di lui, e, da dopo di Gregorio magno, nessun Papa era stato, come egli fu, favorito dalla fortuna che si rende soggetta la forza. A lui riuscì di umiliare la Podestà regia e l’Episcopato; e l’Impero affralito discese ad una sembianza di forma priva ognor più di valore, allorquando la sua corona toccò a Lodovico, che fu privo di discendenza e [190] che seppellì, per così dire, l’Impero in quelle guerre energiche sì, ma minute e senza fine, ch’ei combattè nell’Italia meridionale. Nel Pontificato invece alitava il pensiero della monarchia ecclesiastica universale, quello che più tardi ebbe vita con Gregorio VII e compimento da Innocenzo III. Il concetto che Roma era centro morale del mondo, continuava a dominare con tradizione indestruttibile: e, quanto più adesso l’Impero andava perdendo di unità e di potenza, quanto meno esso era capace di formare dentro di sè il centro politico delle comunità dei popoli cristiani, tanto più facilmente il Pontificato andavasi confermando nella pretensione di essere anima e principio informatore della Republica cristiana, ed i Principi temporali si abbassavano a farsene organi mutevoli e caduchi.
Necessità di avvenimenti e un grande impulso storico avevano indotto il Papato a rinnovellare la podestà imperiale romana, ma, appena che questa era fondata, incominciava la lotta secreta dell’ordinamento ecclesiastico contro al sistema politico. Se l’Imperatore romano avesse potuto governare da monarca cristiano, come fatto avevano Costantino e Teodosio, se fosse stata spenta ogni autonomia delle province, allora il Papa avrebbe potuto dividere coll’Imperatore la signoria, a lui lasciando il laborioso reggimento temporale, e per sè tenendo il dominio spirituale. Ma la forza delle tendenze proprie alla natura umana creava nel mezzo della monarchia di Carlo una moltitudine di potenze separate fra sè, che tutte elevavano ostilmente il loro capo contro al Papato e all’Impero; l’indole di nazione, le Chiese, i Duchi, i Vescovi nazionali, i Re, i diritti, le franchigie, i privilegî [191] e le immunità di ogni maniera, erano principî di naturale disgregazione e di ragioni individuali che indicevano guerra ai sistemi: laonde resero debole l’Impero, perocchè l’unità sua fosse soltanto di fattura meccanica, e il suo fondamento restasse pur sempre di natura materiale e peritura. Per lo contrario, il principio morale e indivisibile del Papato, ad onta di passeggiere sconfitte, aveva tanta potenza da signoreggiare quei principî; non interrotto di tempo, nè ferito all’interno da rivoluzioni politiche, esso vinse sempre e rivinse i suoi avversarî, la Monarchia regia, l’Episcopato, l’Impero. Ed infatti la fede della gente umana, sola potenza cui nelle cose della terra nulla resiste, venerava nel Papato un’origine non terrena ma sovrumana, e lo paragonava all’asse del mondo religioso, cui nessun crollo valeva ad infrangere.
La coscienza della monarchia di Roma s’incarnò nella persona di Nicolò. Sebbene si possa affermare che il possedimento dello Stato della Chiesa e della Città (di cui l’Impero aveva dato conferma), non avesse importanza essenziale in riguardo al primato religioso, ei si deve però confessare che esso giovò gagliardamente agli intendimenti del Pontificato, gli concesse independenza preziosa, e gli compose una sede di valore inestimabile. Il possedimento di un grande reame in qualsivoglia altra parte del mondo, non avrebbe mai dato al Papato quel fondamento che esso ottenne grazie al suo piccolo territorio, che aveva Roma per città capitale. All’età di Nicolò I i patrimonî di san Pietro erano proprietà tuttavia intatta della Chiesa, e il tesoro di essa riboccava di dovizie immense. I predecessori del [192] Pontefice avevano fondato città e armato eserciti e navigli, avevano conchiuso una lega italica, difeso e salvato Roma, ed egli, da re, dominava poderoso sopra le bellissime terre che si stendono da Ravenna fin giù a Terracina. Vien detto che Nicolò, primo dei Papi, si coronasse della tiara; però soltanto più tardi la superbia sconfinata de’ suoi successori la cinse di un triplice serto[195]. Per l’animo di un tal uomo, veramente temprato alla monarchia, la corona non aveva cosa alcuna di strano, ma nella corona egli mirava significarsi assai più che il simbolo dello Stato temporale, che la Chiesa possedeva e presto doveva perdere. La falsa donazione di Costantino aveva prestato buon servigio alle pretese dei Papi, e la estensione che quella goffa astuzia aveva dato a tali pretese, mostrava in pari tempo massimamente fin dove giungevano le idee del Papato. Però, maggiore importanza ebbero le Decretali pseudo-Isidoriane, che accolsero nel loro testo la donazione. Questa meravigliosa raccolta di molte lettere e di decreti favoleggiati, [193] che s’attribuivano a Papi antichi, interpolati in una collezione di atti di Concilî, fu supposta opera del celebre Isidoro di Siviglia, ed ebbe origine sulla metà del secolo nono: Nicolò fu il primo Papa che se ne servì a codice dei diritti pontificî[196]. Essa forniva propriamente la Chiesa di privilegî siffatti che la affrancavano onninamente dallo Stato; poneva la Podestà regia profondamente al di sotto di quella pontificia, al di sotto perfino dell’autorità vescovile, ma nel tempo stesso sollevava il Papa al di sopra dell’Episcopato, dacchè prefiggeva che non potessero obligarlo le decisioni dei Sinodi provinciali: gli dava facoltà di giudice supremo dei Metropoliti e dei Vescovi, il cui officio e la cui autorità, sottratta alla influenza regia, doveva essere subordinata ai comandamenti papali: in una parola, attribuiva a Roma la dittatura del mondo ecclesiastico e religioso. Nicolò I afferrò con lieta avidità quelle false Decretali; avvisò che gli prestavano le armi più formidabili a combattere i Re e i Sinodi provinciali; e sopra ambedue queste potenze egli trionfò, nel tempo stesso che l’Imperatore, il quale pur comprendeva il pericolo onde era minacciato il principio politico, non potè essere altro che spettatore della vittoria pontificia.
Allorchè il grande papa Nicolò I scese nella tomba, addì 13 di Novembre dell’anno 867, la sua morte fece [194] sensazione profonda. Il mondo gli diè testimonianza di averlo temuto ed ammirato[197], ma coloro che erano stati colpiti o minacciati dei suoi fulmini, alzarono il capo con gioia, sperandone libertà e annullamento dei decreti papali.
I Romani furono concordi ad eleggere Adriano, uomo vecchio d’anni e cardinale di san Marco, figlio di Talaro, della famiglia di Stefano IV e di Sergio II. I legati dell’Imperatore presenti in Roma ebbero a male che non gli avessero invitati ad assistere alla elezione, ma furono acchetati colla protesta che i Romani non avevano leso i diritti della corona, e che la Costituzione ordinava bensì la confermazione imperiale dell’eletto, ma non prescriveva che la sua elezione si compiesse innanzi agli occhi dei legati[198]. Ne furono soddisfatti; l’Imperatore confermò la elezione, e Adriano II fu consecrato papa nel giorno 14 di Dicembre.
Egli fe’ onore all’inizio del suo pontificato concedendo un’amnistia. Permise che alla sua prima messa assistessero alcuni dei preti che erano stati scomunicati dal suo antecessore; fra gli altri era il famoso cardinale [195] Anastasio, ed altresì Teutgaudo di Treviri: a questo ei perdonò, perocchè avesse mostrato pentimento del suo peccato e gli statuì a dimora una cella nel convento di sant’Andrea nel Clivus Scauri[199]. Alcuni prelati accusati di alto tradimento languivano in esilio; l’Imperatore aveva pronunciato il bando anche contro i Vescovi di Nepi e di Velletri, ed è argomento per cui si nota come egli esercitasse in tutta la sua pienezza l’autorità imperatoria; Adriano ora otteneva che si restituissero alle loro sedi. Altri Romani laici erano stati cacciati nelle galere come rei di maestà; anche di loro il Papa conseguiva liberazione. Ei sembra che durante la vacanza della sede, parecchie persone fossero state vittime di accuse, false o vere che fossero, portate agli orecchi dei Missi imperiali; chè fin d’allora ogni interregno produceva anarchia di cose, e dava adito alla tirannia dei potenti[200]. Ne dava prova un avvenimento assai meraviglioso. Poco tempo prima che Adriano fosse consecrato, Lamberto, duca di Spoleto, era irrotto con [196] violenza nella Città. D’intesa coi malcontenti di Roma, dove abitavano parecchi uomini potenti Longobardi e Franchi, che avevano perfino titolo di Duchi, nè forse sapendo che la elezione era stata confermata, Lamberto osò di far cosa che sorpassava di gran lunga la sua autorità. Questa infatti, fondata nella Costituzione imperiale, consentiva al Duca di Spoleto il diritto che alla morte del Papa vigilasse alla nuova elezione; e pare massimamente che il Duca a quest’epoca facesse quasi da vicerè nelle cose romane[201]. Entrato in Roma, ch’era indifesa, Lamberto si comportò da conquistatore; confiscò beni della nobiltà e li vendette o regalò ad uomini Franchi; die’ il sacco a chiese ed a conventi, e permise che i suoi armigeri rapissero donzelle romane della Città e dei dintorni: indi se ne andò. Il Papa scrisse all’Imperatore dolendosi, e scomunicò tutti quei Franchi e que’ Longobardi che avevano chiamato Lamberto, o che gli avevano dato mano a saccheggiare la Città. La invasione dimostrò che sull’Impero de’ Carolingi pendeva omai la dissoluzione, e schiuse l’età delle tristi desolazioni d’Italia, delle lotte dei Duchi disputantisi Roma, e della guerra di fazioni divampanti nella Città stessa, di cui presto dovremo dire[202].
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Lodovico trovavasi allora nell’Italia meridionale. Egli aveva bandito una leva universale dei vassalli italiani, perocchè intendesse assalire in Bari i Saraceni; ed era in procinto di cominciare la sua campagna dalla Lucania[203]. Di colà udì i lagni dei Romani, ma gli mancò il tempo di punire Lamberto, togliendogli il ducato; forse non volle; lo fece soltanto nell’anno 871, e per altre ragioni.
Nei primi momenti del suo pontificato, Adriano II ebbe a sostenere prove gravissime; quei suoi nemici che erano stati aderenti del morto Pontefice, gli invidiavano la tiara; spargevano il grido che egli, fatto pauroso per temenze umane, volesse annullare quegli atti del suo predecessore, che avevano sollevato a tanta altezza la podestà pontificia. Ei fece presto a reprimere quelle voci; acchetò coloro che erano fautori della autorità romana, accertandoli che non diserterebbe la via di Nicolò I; se li guadagnò ordinando publiche preci per il defunto e dando solenne confermazione ai suoi [198] decreti; e comandò che si compiesse la basilica onde Nicolò aveva incominciato l’edificazione. Mentre ei così pacificava gli amici del suo predecessore, ne inacerbiva gli avversarî, che ora gli davano, con doppio senso, soprannome di «Nicolaita»[204].
In mezzo a questo partito, che aveva suo sostegno nei Franchi, primeggiavano il cardinale Anastasio e il fratel suo Eleuterio, uomini della più eletta nobiltà, figli del ricco vescovo Arsenio, il quale si crucciava non poco che il figliuol suo fosse stato scomunicato da Leone IV, e per causa di Nicolò I avesse perduto la tiara. Prima che fosse entrato negli ordini sacri, Adriano aveva avuto una figlia di legittimo matrimonio; divenuto papa, aveva promesso la donzella in moglie ad un patrizio romano. Eleuterio, ve lo inducesse l’amore oppure l’odio, rapiva la fidanzata e se la sposava. Il Papa oltraggiato, non potendo punire l’uomo potente che si era chiuso nel suo forte palagio, mandava lettere pressanti all’Imperatore, chiedendo che mandasse suoi legati a far giustizia del reo. In pari tempo, il padre del rapitore correva a Benevento, ove intendeva guadagnarsi con suoi tesori il favore dell’avara Imperatrice, ma ivi la morte rattamente lo colpiva. Venivano frattanto in Roma i Missi imperiali, ed Eleuterio era preso da sì furibonda ira che pugnalava la figlia del Papa e Stefania madre di lei, la quale, costretta o volonterosa, era andata insieme colla figliuola. Gli Imperiali s’impadronirono dell’assassino e gli mozzarono il capo.
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Sotto l’impressione di questi fatti terribili, lo sventurato Adriano congregò un Sinodo. Pronunciò nuovamente la scomunicazione contro Anastasio, cui non a torto si attribuiva una parte nel delitto del fratel suo, e lo minacciò di anatema se si fosse allontanato più di quaranta miglia dalla Città, o se si avesse ingerito in qualche funzione di chiesa. Il Cardinale ricevette il decreto, addì 12 di Ottobre 868, nella basilica di santa Prassede, e giurò di sottomettersi alla sentenza[205]. Erano avvenimenti i quali dimostravano fino a che segno di arroganza omai si spingesse la nobiltà romana: frenata allora tuttavia dall’autorità imperiale, essa doveva strapparsi la signoria sulla Sede apostolica, non appena che quella si fosse spenta in Roma.
Adriano continuò, con pari fermezza d’animo, l’opera che Nicolò aveva incominciato. La storia della Chiesa loda la energia con cui egli combattè le contrarietà [200] dei Vescovi, ma noi non possiamo, neppure di volo, soffermarci a dire del celebre ottavo Concilio ecumenico, che nell’anno 869 fu tenuto a Bisanzio sotto la presidenza dei legati pontificî, e dove ebbero confermazione i decreti di Nicolò I riguardanti la deposizione di Fozio[206].
Frattanto, causa la debolezza morale dei Principi, seguiva a crescere la potenza dei Papi. Le loro armi, folgori di scomunica battute sulla incudine della superstizione, si facevano poderose ogni dì più. La malaugurata passione che Lotario nutriva per una cortigiana aveva aperta una breccia profonda nell’autorità regia; Nicolò era passato arditamente dalle ruine di quella, e Adriano ve lo seguiva con eguale pertinacia. Tosto dopo che Tiutberga era stata restituita alla sua casa conjugale e a’ suoi diritti di sposa, la infelice Principessa, maltrattata dal marito e angosciata per gravi sofferenze dell’animo, era fuggita a Carlo il Calvo, e aveva protestato a papa Nicolò di voler rompere i suoi legami con un Principe tiranno, di voler cercar pace nel silenzio di un chiostro: ma invano; quella tragica vittima di un dogma, era condannata ad una tortura senza fine. Il Papa aveva niegato di concederle che si separasse dall’adultero consorte, se Lotario anche da parte sua non si fosse assoggettato a legge di celibato; scomunicava Gualdrada, e mandava una lettera di fuoco [201] a Lotario, minacciandolo di eguale condanna[207]. Il Re, forte soltanto nella sua debolezza per una femmina, chinò il capo a queste umiliazioni, e supplicò il Pontefice che lo ammettesse alla sua presenza in Roma, dove sarebbe venuto per giustificarsi: il Papa glielo divietò[208]. Come Nicolò fu morto, Lotario si rivolse al suo succeditore, sperando di piegarlo ai suoi desiderî, e sembra che Adriano gli concedesse di venire a Roma. Il Re pregò l’Imperatore di intercedere presso il Papa, affinchè volesse separarlo da Tiutberga e gli permettesse di sposare Gualdrada; e gli annunciò che sarebbe andato a visitarlo. Nel Giugno dell’anno 869 Lotario giungeva infatti a Ravenna, ma i messaggieri dell’Imperatore, che era affaccendato nell’assedio di Bari, gli significavano che non procedesse più avanti, poichè il loro signore non voleva avere di quei rompicapo. Però l’uomo ammaliato d’amore, pensava soltanto alla felicità che lo aspettava fra le braccia di Gualdrada e per la quale egli avrebbe prodigato tutti i tesori del suo regno; nulla lo trattenne, corse al fratello, profuse supplicazioni e donativi, finchè guadagnò alla sua causa l’imperatrice Engelberga. L’Imperatore chiese allora ad Adriano che venisse a Monte Cassino, [202] ed Engelberga ivi accompagnò il cognato. Lotario tentò di vincere il Papa con gran doni, ma non seppe cavarne altro costrutto fuor della comunione che Adriano gli porse nel dì primo del Luglio 869, dopo che il Re con faccia tosta ebbe solennemente giurato di non essersi più accostato a Gualdrada dopo la scomunica di lei[209]. Engelberga, da Monte Cassino tornò al marito; tornò il Papa a Roma, e Lotario senza vergognarsi gli tenne dietro alle calcagna. Obbrobrioso fu il modo onde entrò nella Città; nessun prete mosse ad incontrarlo; colla sua accompagnatura guizzò a capo basso nel san Pietro, e, senza che alcuno lo salutasse, pose dimora nel palazzo vicino, le cui camere non avevano pur avuto un po’ di pulitura dalla granata[210]. Il Papa gli negò che assistesse alla messa, ma lo invitò a mensa in Laterano, e per beffa ricambiò i ricchi donativi regî col presente di un vestimento di quella foggia che era appellata «Laena», di una palma e di una «ferula»[211]. Il debole Principe con quelle contentezze partì di Roma per proseguire il [203] suo viaggio a Lucca; qui giunto, egli e le genti del suo seguito ammalarono delle febbri estive; procedette fino a Piacenza, e vi morì nel giorno 10 di Agosto. La sua morte fu tenuta in conto di punizione, che il cielo aveva inflitto allo spergiuro ed alla lussuria.
Mentre adesso Carlo il Calvo e Lodovico il Tedesco si gettavano sul patrimonio del morto, il Papa aveva opportunità di levarsi contro a loro come se fossero stati predoni, perocchè l’Imperatore, cui ne veniva il danno, lo avesse pregato di frapporsi paciere. Infatti, la guerra contro ai Saraceni teneva sempre Lodovico occupato nell’Italia meridionale, e finalmente ei conquistava Bari, dove faceva prigioniero lo stesso Sultano nell’anno 871. La gelosia dei Greci, che in quell’impresa importante gli avevano prestato fiacco soccorso, si accese perciò di maggior livore; e Basilio scriveva a Lodovico una lettera sprezzante, in cui gli negava il titolo di «Basileus», e con ironia gli dava nome di «Riga.» Notevole è la risposta che gli diede Lodovico; noi vi ci riportiamo per far conoscere in che concetto si tenesse l’Imperium romano a questa età, e per mostrare che, di confessione propria dello Imperatore, la santità della dignità imperiale omai si derivava dal crisma, con cui era consecrata per mano del Pontefice.
«I nostri zii», diceva, «gloriosi Re, ci appellano Imperator, e non ne sentono gelosia, quantunque d’anni sieno più vecchi di noi, avvegnaddio essi volgano mente al crisma e alla consecrazione onde noi per volontà divina siamo saliti all’Imperium romano, mercè l’imposizione delle mani e l’orazione del Pontefice. Uno è l’Imperium del Padre, del Figliuolo e dello Spirito [204] Santo, di cui è parte la Chiesa costituita sulla terra; nè di questa il reggimento Iddio concesse a te od a me esclusivo, ma ad ambidue, che dobbiamo comporre una sola unità»[212]. E parlando del modo con cui i Re dei Franchi hanno ottenuto l’Imperium, soggiunge: «Noi l’abbiamo ricevuto dall’avo nostro, non, come tu pensi, per usurpazione, ma per volontà di Dio, per sentenza della Chiesa e del sommo Pontefice, per la imposizione delle mani e per lo crisma. Tu però dici che noi dobbiamo appellarci Imperator dei Franchi e non dei Romani, ma tu dei sapere che se non fossimo Imperatore dei Romani, nemmanco potremmo esserlo de’ Franchi. Per verità, dai Romani conseguimmo questo nome e questa dignità, avvegnacchè appo di loro primamente splendesse questo culmine di autorità suprema; e con essa avemmo il reggimento divino del popolo e della Città, e la missione di difendere e di esaltare la madre di tutte le Chiese di Dio, da cui la stirpe degli avi nostri prima conseguì l’autorità regia, indi quella imperiale[213]. Infatti, i Principi dei Franchi s’appellavano dapprima Re, indi Imperatori, ossiano quelli che tali furono unti dal Papa col santo olio. Così il bisavolo nostro Carlo magno, per la unzione datagli dal Papa, per l’amore [205] che lo ispirava, primo del nostro popolo e della nostra stirpe fu nomato Imperatore e diventò l’Unto del Signore; a maggior ragione lo fu egli, quando spesse volte altri giunse allo Imperium senza opera divina espressa nella consecrazione pontificia, la dignità imperiale ottenendo soltanto per elezione del Senato e del popolo. Anche senza di questa elezione, taluno fu elevato al trono imperiale, soltanto per acclamazione dei soldati; altri in differente guisa s’impadronì dello scettro imperatorio di Roma. Che se tu mal dicessi dell’opera del Pontefice romano, potresti allora censurare anche Samuello, perocchè egli, rigettando Saulle che aveva prima consecrato, non ebbe riserbo di unger re Davide.»
Dopo di avere istituito questi maestrevoli paralleli fra il repulso Saulle, ossia l’Imperatore greco, e Davide, ossia il Re de’ Franchi (si ricordi che Carlo magno godeva di esser chiamato David), egli conchiude dicendo al Bizantino: «Noi giungemmo dunque al romano Impero grazie alla nostra ortodossia; i Greci, per lo contrario, lo hanno perduto per colpa della loro cacodossia; nè soltanto hanno abbandonato la Città e la sede dell’Impero, ma anche il popolo romano, e financo ripudiarono la lingua romana, e si gettarono al forestierume»[214].
Questa lettera, scritta con arguto ingegno da un prete, è il documento più importante che si posseda [206] riguardo al concetto dell’Imperium romano dopo di Carlo magno. Riferendosi al tempo passato, dalla catena delle ipotesi storiche la lettera ricava una conseguenza ben chiara. La duplice usurpazione commessa a danno della legittimità, Davide che soppianta Saulle, si copriva adesso col manto della grazia di Dio e dell’opera sua, significata nell’autorità del sommo sacerdote della religione. Il crisma che l’Imperatore riceveva, derivava da quella stessa fonte onde era stato consecrato il maggiordomo dei Franchi quando aveva rapito la corona ai Merovingi; e poichè i diritti della legittimità non potevano tollerare l’esistenza di tutte le altre fonti giuridiche ricavate dalla ragione politica o dalla forza degli avvenimenti, si cancellava quei diritti invocando come titolo la volontà divina. Per vero, Lodovico rammenta tuttavia con frase generica i Romani quali sorgente dell’Imperium, ma li ricaccia assai nell’ombra, e, mentre più non si dà pensiero dell’elezione avvenuta per opera del popolo o della dieta dell’Impero, ei si appella sempre di bel nuovo al giudizio della Chiesa ed al crisma del Papa. Questa idea in parte discendeva dall’arte politica degli Imperatori stessi, i quali preferivano di far derivare la loro dignità dalla consecrazione pontificia, cioè da Dio, anzi che dalla elezione di vassalli fattisi ognora più temerarî, i quali bramavano di rendersi soggetto l’Impero, e indebolivano il reame di Carlo, e lo frastagliavano in pezzi per farsi potenti sui ruderi di esso. Più tardi avvenne, che l’Impero si concepì sorto in via assoluta dalla consecrazione pontificia, e accadde che i Papi poterono protestare, la podestà imperiale essere largita soltanto da loro, nè più, nè meno che [207] un feudo; essere emanazione della loro autorità suprema di sacerdozio.
Un’inaudita opera di violenza in questo istesso anno 871, manifestava al mondo, quanto l’Impero avesse omai perso della sua maestà. Il vincitore di Bari, il salvatore dell’Italia meridionale era andato coi tesori del raccolto bottino a Benevento, in quello che il suo esercito si sparpagliava per sottomettere alcune città ribellate. La sua donna Engelberga, i maggiorenti ed i guerrieri suoi irritavano i Beneventani con loro angherie di ruba e colla loro oltracotanza. Adelchi, principe della terra, cupido dell’oro predato ai Saraceni, formava l’ardito disegno d’impadronirsi dell’Imperatore, che spesso aveva offeso con sue inobbedienze, e di cui temeva le ire: il giogo imperiale sopportava egli di mal animo, e nell’odio aveva compagno tutto il mezzogiorno d’Italia, dove covava la ribellione. L’Imperatore fu sorpreso nel dì 25 di Agosto nel suo palazzo, e dopo uno spettacolo selvaggio di pugna e di difesa che durò tre giorni, Adelchi s’impadronì dell’ospite imperiale, della sua donna e di tutti i Franchi. Tolse loro tutti i tesori, li sostenne in carcere per quasi un mese, e costrinse Lodovico a promettergli con giuramento solenne di non entrare più con eserciti nel ducato di Benevento, e di non torre mai vendetta dell’offesa sofferta. Indi ripose in libertà i prigionieri, solo quando giunse ad atterrirlo la novella che i Saraceni erano sbarcati a Salerno. Così l’Impero era maltrattato e vilipeso dagli stessi vassalli suoi[215].
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La notizia di questo vitupero sollevò un chiasso indicibile. I giullari tolsero soggetto di cantarne per le vie; se ne sparse il grido per tutte le terre, e si diffuse credenza che Lodovico fosse morto. Sitibondo di vendetta, ma colle mani legate dal fatto sacramento, lieto in pari tempo di essere scampato da male maggiore, l’Imperatore riunì le sue milizie sparse. Entrò in quello di Spoleto, dove depose Lamberto dalla sua dignità di duca; indi mosse a Ravenna. L’anno dopo, intorno alle Pentecoste dell’anno 872, venne a Roma. Qui, ed è cosa che fa meraviglia, cinse ancora una volta la corona, a causa forse di quelle terre che gli erano venute dall’eredità di Lotario[216]. Ospitato dal Papa in Laterano con [209] tutti gli onori, gli fe’ preghiera che lo sciogliesse del giuramento che eragli stato strappato a Benevento: gli fu concesso in un’adunanza del clero e dei maggiorenti. Infiammati dai suoi discorsi, quelli che aderivano a lui od all’Impero, si trasportarono colla mente alle ricordanze dell’antichità. Il parlamento romano, che di certo non s’era raccolto fra le rovine del Campidoglio, ma nella basilica del Laterano ossia del san Pietro, proclamò essere Adelchi nemico della Republica, e una dichiarazione di bando fu promulgata contro il vassallo ribelle[217]. Però, nell’universale, l’infiacchimento dell’Impero era visto con secreta gioia. I Romani, gli Italiani, i Duchi, i Vescovi, i Conti, il Papa, i Saraceni, i Normanni contribuivano tutti quanti a demolire l’Impero, e allorquando, cooperandovi il rapido decadimento della casa di Carlo, ciò avvenne, tempi e avvenimenti terribili piombarono addosso di Roma e del Papato, il quale tutto a un tratto dal culmine della potenza cadde nella umiliazione più profonda.
[210]
Però in quell’epoca Roma ebbe ancora la bella ventura che si succedessero, uno dopo dell’altro, dei Papi d’animo valoroso, sì come quelli che l’avevano liberata dal giogo bizantino. Mentre i reami dei Carolingi erano tenuti da reggitori sempre più fiacchi, alla cattedra di Pietro salivano invece uomini che per arte diplomatica, per fermezza di volontà e per energia di propositi, erano di loro immensamente maggiori.
Adriano II moriva, e Giovanni VIII, tempra ancor più gagliarda, figlio di Gundo, romano che forse discendeva di origine longobardica, era ordinato papa addì 14 di Dicembre dell’anno 872[218]. Anche Lodovico II imperatore, ultimo dei Carolingi in cui s’accogliessero forti spiriti e intendimenti degni dell’Impero, passò di vita di lì a pochi anni. Aveva combattuto a lungo nell’Italia meridionale, facendo sforzi gloriosi per salvare dai Saraceni il reame e per comporlo ad unità, ma era stato [211] incapace di porre un argine all’interno decadimento, che di necessità doveva derivare dal sistema feudale e dalle immunità dei Vescovati: morì in vicinanza di Brescia, addì 12 dell’Agosto 875, ed ebbe sepoltura in santo Ambrogio a Milano[219]. Fu il primo Imperatore del medio evo che si intricasse nel fatale labirinto delle cose d’Italia, e, fatto quasi uomo italiano, nella procella di quei casi sommerse. La sua morte segna un nuovo periodo nella storia dell’Impero dei Carolingi, che con lui perdette forza e dignità: ed invero, l’Impero or diventava un burattino palleggiato dalla mano del Papa e dei maggiorenti italiani, nel tempo stesso che Italia cadeva in quelle vicende di contraddizioni, durate fino ai giorni nostri, che, a motivo della posizione geografica di questo paese, lo riducono ad essere il pomo della discordia tra Francia e Germania: e oggidì pure esso somiglia a quel navigante che, per fuggire di Scilla, intoppa in Cariddi[220].
[212]
Lodovico non aveva lasciato altri eredi che Ermengarda sua figliuola. I suoi zii, Carlo il Calvo di Francia e Lodovico di Germania vennero a controversia, chè ciascuno di loro pretendeva al possedimento d’Italia e della corona imperiale. Un’adunanza dell’Impero, congregata nel Settembre a Pavia per opera dell’Imperatrice vedova che prediligeva la parte tedesca, non riuscì ad alcun risultamento, e le sorti dovettero essere decise colle armi. I figli di Lodovico, Carlo il Grosso e Carlomanno, erano protetti dal possente margravio Berengario di Friuli, che, per parte di sua madre Gisela, era nipote consanguineo di Lodovico il Pio. Un dopo l’altro eglino scendevano dalle Alpi per combattere il loro zio, ma costui a forza d’oro e di bugie sapeva renderli inoperosi. Roma aveva già guarentito a questo meschino Principe la corona dell’Impero, chè, ancora al tempo in cui viveva Lodovico II, di cui Roma aveva temuto e sperimentato la possanza, la Chiesa gettava il suo sguardo a Francia, e Adriano prometteva segretamente a Carlo il Calvo, che, dopo la morte dell’Imperatore, egli non avrebbe accordato la corona a qualsiasi altro Principe che lui non fosse[221]. Darla ad un Re nazionale tedesco, era [213] pensiero ancor di là da venire, o pareva pericoloso a causa dell’associazione troppo prossima d’Italia con Alemagna; nè Giovanni VIII stava in dubbio di decidersi per la parte francese, perocchè fosse la più potente e gli desse speranza di valido ajuto contro agli ottimati di Roma e contro ai terribili Saraceni[222]. Col mezzo dei vescovi Formoso di Porto, Gaderico di Velletri, e Giovanni d’Arezzo, invitava Carlo il Calvo a venire a Roma per ricevervi la corona, e Carlo scendeva in fretta e in furia. Addì 17 di Dicembre dell’anno 875 il Papa lo salutava con grandi solennità nel san Pietro, indi, nel giorno di Natale, lo coronava imperatore dei Romani[223].
Così larga moneta profuse Carlo per ottenersi il voto del Papa e dei Romani, che i suoi nemici lo paragonarono a Giugurta, il quale aveva comprato il Senato [214] venale di Roma[224]. Poichè ora Carlo, a differenza dei suoi predecessori, non aveva già ricevuto la corona d’imperatore dalla volontà di un padre imperiale e dall’elezione di una dieta dell’Impero raccolta fuor di Roma, ei sembrava che il suo esaltamento al trono non avesse altro titolo fuor di quello che gli concedeva il favore del Pontefice e dei Romani. Gli toccava umiliarsi a brogliare, nè più nè meno di un candidato, per ottenere i voti della nobiltà; e il Papa con un linguaggio, di cui prima d’ora non s’aveva udito mai il simigliante, si faceva lecito di dire in publico che l’Imperatore romano era un creato suo[225]. Non abbiamo conoscenza perfetta del trattato che Carlo il Calvo conchiuse colla Chiesa, ma poichè egli aveva ricevuto la corona dalle mani di un donatore benevolo, grandi dovettero essere le concessioni ch’ei fece. Se le donazioni di un Principe senza potenza avessero avuto pari valore di quelle di un Imperatore [215] poderoso, di quelle di Lodovico il Pio, ben avrebbero esse tenuto luogo eminente nella storia del Pontificato, come diplomi di gran rilevanza[226]. Con Carlo il Calvo, la maestà imperiale cadde profondamente e obbrobriosamente; quella pontificia si sollevò assai in alto. Le Costituzioni di Carlo magno e di Lotario diventarono lettera morta; i diritti imperatorî cessarono o non furono dappiù di un nome senza efficacia; probabilmente non fu mandato più nella Città un legato imperiale permanente; l’Impero presto diventò un fantoccio nelle mani dei Papi; presto se ne trastullarono i grandi feudatarî, e presto gli ambiziosi Conti italiani poterono pavoneggiarsi col serto di Carlo, del cui Impero eglino erano sorti in condizione di vassalli.
Il novello Imperatore non si fermò in Roma che fino al dì 5 di Gennaio dell’anno 876. Mosse indi rapidamente a Pavia, accompagnato o seguito dal Papa in persona, ed ivi, in un’adunanza dei Vescovi e dei maggiorenti del reame d’Italia, non soltanto ebbe confermazione [216] della dignità imperiale, ma altresì, per la prima volta, conseguì formale elezione di re d’Italia, e ne fu coronato da Ansperto, arcivescovo di Milano: per lo contrario i Re antecessori suoi, da dopo di Carlo magno, vi erano stati eletti unicamente per volere dell’Imperatore e di una Dieta imperiale delle province non italiche. Per tal guisa, la elezione di Carlo il Calvo forma massimamente il polo di un nuovo indirizzo nella storia d’Italia; con essa si manifestò la potenza sommamente cresciuta del Papa, dei Vescovi, degli ottimati italiani, e s’ebbe decisa dimostrazione del sentimento nazionale cui s’inspirava l’Italia settentrionale[227]. Il nuovo Re eletto dagli Italiani, confidò il reggimento delle cose italiche a Bosone duca, la cui sorella Richilda egli aveva menato in donna; poi mosse a Francia per farsi riconoscere imperatore anche dalla dieta imperiale di quei paesi, che si congregò nel Luglio a Pontigon: ei vi si presentò in pompose vestimenta di foggia bizantina, e dalle mani dei legati del Papa ricevette uno scettro d’oro, come se fosse stato un feudatario.
Dopochè Giovanni VIII con sì fortunate combinazioni s’ebbe reso suddita la podestà imperiale, tornossene di Pavia a Roma, dove lo richiamava l’avanzarsi dei Saraceni e l’atteggiamento ostile della nobiltà. Alla vittoria riportata sull’Impero, succedevano condizioni anarchiche di cose che non avevano parità d’esempio, per guisa che assai tosto quel trionfo si tramutava in una [217] deplorevole sconfitta del Papato, il quale non aveva più un braccio imperiale che lo proteggesse: rare volte la Storia insultò ai disegni dell’ambizione con un’ironia parimenti amara, come toccò in quell’epoca ai Pontefici di Roma. Nella Città v’aveva una parte potente, d’intendimenti germanici, che coltivava accordi colla Imperatrice vedova, con Berengario di Friuli, con Adalberto di Tuscia e col Margravio di Spoleto e di Camerino. Essa aveva combattuto l’elezione di Carlo il Calvo; in ispecie poi si sforzava di conseguire independenza in Roma, e tribolava con ogni maniera di angustie il Papa. L’indole di questi maggiorenti era educata alla rozzezza della loro età; ma siccome si trova in società con loro un uomo che tutti i contemporanei tenevano in concetto di santo, il vescovo Formoso, s’eleva qualche dubbio sulla veracità delle accuse che contro di loro furono scagliate.
Formoso di Porto, illustre per la missione che aveva sostenuto nella terra dei Bulgari, eccelleva per ingegno e per sapienza fra i preti di Roma, e s’aveva procacciato l’odio del Papa sospettoso e di molti Cardinali. Allorchè, poco tempo prima, era stato mandato a Carlo il Calvo per invitarlo alla coronazione, egli s’era sobbarcato a quella ambasceria di mala voglia, od altrimenti vi si era acconciato perchè necessità lo costringeva a navigar con prudenza e a dissimulare i suoi sentimenti che lo trascinavano alla parte germanica; avrebbesi potuto temere che egli aspirasse alla corona pontificia, dacchè, uomo eminente, possedeva il favore di una grande fazione. Aveva abbandonato, incerto è il perchè, il suo vescovato di Porto, laonde gli si moveva rimprovero di aver congiurato coi Romani contro l’Imperatore ed il Papa.
[218]
Quei maggiorenti erano congiunti fra loro per potente parentela nepotesca. Fra loro erano dei generali della milizia e dei ministri di palazzo, un Gregorio nomenclatore, Giorgio genero di lui, Stefano, Costantino e un Maestro de’ militi di nome Sergio[228]. Giorgio aveva assassinato la sua donna, ch’era nipote di Benedetto III, per maritarsi con Costantina figlia di Gregorio; l’influenza del suocero suo e la corruzione dei giudici facevano sì che ei n’uscisse netto e senza pena. Anche Sergio, nipote del grande papa Nicolò I, aveva ripudiato la moglie per imitare l’esempio di un Re adultero, e per vivere colla sua concubina Walwisindula, femmina franca. La nuova elezione imperiale e il ritorno del Papa costringevano questi uomini rei a partire di Roma, nel tempo stesso in cui i Saraceni davano il guasto alla Campagna, e scorseggiavano fino sotto alle porte della Città. Giorgio e Gregorio, prima di andarsene, rubavano il Laterano e altre chiese, indi, aperta di nottetempo la porta di san Pancrazio, fuggivano per cercarsi un nascondiglio nelle terre spoletine. Ciò dava motivo al Papa di accusarli che avessero voluto mettere i Maomettani dentro di Roma; ed egli congregava, addì 19 di Aprile dell’anno 875, un Sinodo nel Panteon. Letta l’accusa, Giovanni pronunciava la scomunicazione contro a que’ Romani ed al Vescovo di Porto, se non fossero comparsi entro il termine di un giorno che loro determinava. Nol fecero; la pena ebbe esecuzione, e Formoso fu deposto del suo vescovato e di ogni grado [219] ecclesiastico[229]. Non v’ha alcun dubbio che Formoso ed i fuggitivi Romani fossero in lega col Margravio di Spoleto e di Camerino, e con Adalberto di Tuscia, chè tosto li vedremo sotto la protezione di quei Principi, ma improbabile è che coltivassero traditrici intelligenze coi Saraceni: almeno Formoso deve andare assolto da questa accusa[230].
Da dopo l’anno 876, i Maomettani erano penetrati nella Campagna romana; saccheggiavano la Sabina, [220] guadavano l’Anio e financo il Tevere, davano il guasto al Lazio ed alla Tuscia, e parecchie volte le loro orde si mostravano fino alle porte della Città. I conventi, i possedimenti del contado, le Domus cultae, fondazioni laboriose di tanti Pontefici, erano rasi al suolo; i coloni tagliati a pezzi o condotti in ischiavitù; la Campagna si tramutava in un deserto, non fecondo d’altro che di febbri. Nelle lettere di doglianza, che Giovanni, duranti gli anni 876 e 877, scriveva a Bosone, a Carlo il Calvo, all’imperatrice Richilda, ai Vescovi dell’Impero, al mondo tutto, Roma rinnovella quei gridi di agonia che aveva gettato al tempo dei Longobardi e di Gregorio; ma i guerrieri di Maometto erano nemici più feroci di quello che fossero stati gli uomini di Agilulfo. La Città poteva a mala pena dar ricetto e pane alle turbe di fuggenti del contado, di frati e di preti che lasciavano dietro a sè le loro chiese in cumuli di ruine. «Le città, le castella, i villaggi sono periti coi loro abitatori; dispersi e raminghi i Vescovi; dentro delle porte di Roma si raccolgono gli avanzi del popolo affatto nudo; fuori non v’ha che aridità e deserto; non ci sovrasta più, lo tolga Iddio, che la caduta della Città. Tutta la Campagna è vuota di popolo, nulla è più rimasto a noi od ai conventi od agli altri luoghi pii, nulla avanza al Senato romano per sostentamento; e i dintorni della Città sono devastati così, che non si può scoprirvi orma di abitatore, neppure un uomo, neppur un fanciullo.» In questi termini Giovanni scriveva a Carlo il Calvo, che egli in quelle stringentissime necessità avrebbe desiderato di mutare in un Imperatore possente, e con supplici istanze «prostrandosi quasi al suolo innanzi alla [221] magnificenza di lui», lo pregava di ajuto[231]. Ma Carlo lasciava Roma in balìa al ferro dei Saraceni, sebbene, allorchè era stato coronato, avesse giurato di proteggerla col suo braccio imperiale.
Italia tutta capiva adesso di che danno fosse stata la morte del battagliero Lodovico II, in un tempo nel quale le condizioni politiche del mezzogiorno agevolavano le conquiste dei Saraceni. Il sentimento di religione non aveva opposto impedimento di sorta al traffico e perfino alle alleanze fra loro ed i Principi dell’Italia meridionale. Ancora dai tempi di Lodovico II, i reggitori della bassa Italia s’erano giovati ai loro scopi degli Arabi; e quell’Imperatore aveva fatto alte lagnanze, che segnatamente i Napoletani se gli avessero fatti alleati, e che Napoli fosse diventata una seconda Palermo o un’Africa vera[232]. In tal modo, il lucro dei commerci e il soccorso che i Saraceni prestavano ai Principotti nelle lotte che essi combattevano l’uno contro all’altro e contro agli [222] Imperatori d’Oriente e d’Occidente, facevano sì che quegli Italiani conchiudessero delle leghe cogli Infedeli: le stipulavano o le scioglievano secondo che davano le circostanze. Oltracciò, era loro ben noto l’intendimento della Chiesa romana, la quale, dopo di Carlo magno, volgeva cupidi sguardi ai patrimonî di Napoli e delle Calabrie, levava pretese su di Capua e di Benevento, e si giovava della immensa confusione in cui erano le cose della bassa Italia per guadagnarsi colà possedimenti di terre. Dopo la caduta di Bari, i Saraceni ristretti a Taranto, avevano mandato nuove armate contro Italia; la morte dell’Imperatore che gli aveva vinti aveva sgombrato loro l’impedimento maggiore; eglino costringevano Napoli, Gaeta, Amalfi e Salerno non soltanto a conchiuder paci, ma eziandio ad unire le loro armi a quelle maomettane per assalire le marine dello Stato ecclesiastico e Roma medesima[233]. Solo avversario che loro si opponesse robustamente, era papa Giovanni. La operosità che usò quest’anima energica, fu vergogna pei Re, e lui ornò di splendida gloria guerriera. In verità che un tanto uomo meritò di esser signore di Roma; ei vedeva contro a sè armata questa lega terribile, la quale, dicevasi, faceva rotta contro di Roma con cento vascelli, eppure non si smarriva di coraggio. Scriveva lettere pressanti a Carlo il Calvo affinchè gli mandasse soccorsi, e l’Imperatore gli spediva Lamberto di Spoleto, che nell’anno 876 era stato riposto nella sua ducea, e [223] Guido fratello di lui, affinchè lo accompagnassero a Napoli e a Capua, e lo appoggiassero nei suoi sforzi intesi a mandar a monte la lega. Ma i due Principi erano alleati di dubbia fede. Giovanni VIII, sul principio dell’anno 877, andò a Napoli in persona. Con preghiere e con minacce gli riuscì di far disertare dalla alleanza saracena, Guaiferio di Salerno; indi entrò in fervidi negoziati con Amalfi, fiorente già nei commerci e governata allora da Pulchario, duca elettivo ossia Prefecturius, e in pari tempo si indirizzò a Gregorio e a Teofilatto, ammiragli greci, affinchè gli mandassero delle navi nel porto del Tevere[234].
Neppur Gregorio I aveva dato prova di maggiore energia quando s’era trovato sotto la pressura dei Longobardi: gli è altresì che Giovanni disponeva in suo servizio di potenza assai maggiore. Egli stesso armava ed equipaggiava un naviglio romano, e per la prima volta potevasi parlare di una marineria pontificia, per quanto piccola fosse. Quelle navi di guerra avevano ancor nome di dromone, come a’ tempi di Belisario; di regola avevano centosettanta piedi di lunghezza, erano munite di castelli da prora e da poppa, con macchine di guerra, fromboliere, incendiarie, e da arrembaggio; cento remi maneggiati da’ galeotti le spingevano al corso, mentre i soldati marinai stavano nella corsia di mezzo e nei [224] castelli[235]. Il possedimento di questa piccola flotta, che tenne stazione in Porto, fu orgoglio del Papa; laonde scriveva egli giubilando all’imperatrice Engelberga, che non aveva adesso più bisogno di quei di Gaeta, perocchè egli potesse apparare ajuto a sè stesso[236]. Ma gli sforzi suoi avevano a Napoli esito meno avventurato. Non era possibile di indurre Sergio II duca, a rompere l’alleanza coi Saraceni che a lui era tanto giovevole. Il Papa scagliava la scomunica contro di lui e della sua città, gli armava contro Guaiferio, e, senza pensarci su gran fatto, faceva mozzare il capo a ventidue Napoletani prigionieri[237]. Tornando a Roma, e vedendo guaste dai Saraceni le costiere che erano prossime a Fondi e a Terracina, sostò cinque soli giorni a Roma, indi egli stesso partì colla flotta da Porto, veleggiò prendendo il largo, incontrò i Maomettani presso a Capo di Circe, tolse loro dieciotto navi, liberò seicento schiavi cristiani, e uccise nemici in gran numero. Fu questa la prima volta che un Papa movesse a battaglia armato da ammiraglio; [225] e, mentre or trionfava dei Saraceni, ei volgeva in pari tempo l’occhio suo alle terre dei Principi meridionali d’Italia, dove ferveva il disordine, sperando di sottometterle alla santa Sede[238].
S’affrettava d’andare a Traetto, che apparteneva alla Chiesa, per comporvi una lega di Principi, in quello che la flotta greca, sotto gli ordini di Gregorio e di Teofilatto, recava una sconfitta ancor maggiore ai Saraceni nel mare di Napoli. Tosto dopo, egli attizzava colà una rivoluzione. Atanasio vescovo, s’impadroniva di Sergio fratel suo, lo orbava degli occhi, e in quello stato lo mandava a Roma, dove il Papa lo faceva languire in un carcere. Il fratricidio, opera di un Vescovo, fu da lui, Papa, tenuto in conto di un fortunato evento politico; l’assassino era pagato a peso di quell’oro onde prima aveva stipulato il patto, e riceveva una lettera di lode[239]. A siffatte enormezze le necessità terrene del [226] reame strappavano il Pontefice, facendogli dimenticare quelle virtù apostoliche del sacerdozio, che moralmente non potevano accordarsi col regno mondano.
Poco dopo però, avvenimenti che succedevano nella primavera dell’anno 878, costringevano Giovanni VIII a fuggire in Francia, e facevano tramontare i disegni che egli andava volgendo sull’Italia inferiore. Innanzi che lasciasse Roma, ei si vedeva perfino costretto a comprare la pace dai Saraceni con un tributo annuo di venticinque mila «mancusi» d’argento[240]. Alcun tempo prima aveva conchiuso un trattato cogli Amalfitani, i quali in esso s’erano obligati di pagargli l’annua moneta di diecimila «mancusi», e di difendere con loro navi la costiera che si stendeva da Traetto a Civitavecchia; non pertanto egli si crucciava di stizza, dappoichè, prima che abbandonasse Roma, quella Republica non aveva ancora adempiuto al patto[241]. Tornato di [227] Francia nell’anno 879, si vide ingannato. Lo scellerato Atanasio, ch’era in pari tempo vescovo e duca di Napoli (e perciò in piccole proporzioni riproduceva l’imagine del Papa), seguiva le vie del fratello Sergio; nè aveva ritegno di conchiudere alleanza cogli Infedeli, chè questa giovava a proteggerlo contro all’Imperatore di Bisanzio, con cui il Papa andava adesso d’accordo. Invano Giovanni si recava nuovamente a Gaeta ed a Napoli, invano profondeva ivi il suo oro, invano scagliava il suo anatema contro il traditore. Anche gli Amalfitani si beffavano di lui; quegli astuti mercanti tenevano serrati nei loro scrigni i diecimila «mancusi», protestavano anzi che per ragione di patto ne avevano eglino un credito di dodicimila, e continuavano a tenersi le loro navi e a trattare da alleati coi Saraceni. Giovanni gli scomunicò, e rade volte un Papa ebbe usato di tanti anatemi quanti egli lanciò: erano ormai le armi solite che s’affilavano nell’armeria del Laterano[242].
D’allora in poi, ogni anno più, le cose dell’Italia meridionale, longobarda e greca, andarono peggiorando; Saraceni e Greci saccheggiavano quei campi ubertosi, e spesso combattevano, uniti coi Napoletani sotto la stessa bandiera, contro a Salerno. Pandolfo di Capua, che si voleva costringere a riverire la signoria suprema del Papa, chiamava i Maomettani nella sua terra franta in pezzi[243]: così la temenza in cui Principi cattolici [228] erano messi di fronte alle pretese mondane di un Pontefice, era una delle ragioni più essenziali che permettevano ai Saraceni di afforzarsi nel mezzodì d’Italia. Se si pon mente alla storia di quel paese in quell’età, l’animo è preso di smarrimento, poichè non vi si mira che audaci astuzie, ed arti d’inganno, e brutale ferocia d’indole.
Atanasio vescovo fece accoglienze agli Arabi, alleati suoi contro a Roma ed a’ Greci, tenendoli nelle vicinanze della sua città, dove eglino si appostarono appiè del Vesuvio. Vi si fortificarono intorno all’anno 881; posero stanza in Agropoli prossimamente a Paestum; chiamati in soccorso da Docibile duca di Gaeta, che viveva in timore del Papa, ne ottennero primamente di porre un accampamento presso a Itri, indi piantarono sede sulla destra sponda del Liri o Garigliano, in vicinanza alle ruine di quel Minturno, nelle cui paludi anticamente s’era celato Mario fuggente. Colà si edificarono un grande castello, e per quarant’anni si mantennero in possesso di quel terribile nido di predoni. Dal Garigliano andavano correndo la bella Campagna, facendo stragi e saccheggiamenti; perfino i celebri conventi di Monte Cassino e di san Vincenzo sul Vulturno, sedi solitarie e fiorenti della cultura, erano arsi dalle fiamme, e per lungo tempo rimanevano cumuli di ruine[244].
[229]
Per ciò che riguarda Roma, soli documenti di quella terribile pressura che le davano i Saraceni, rimangono le lettere di Giovanni. Di questo Papa perì un altro grande monumento, la cui erezione aveva avuto origine dal pericolo sovrastante. Giovanni VIII circondava la basilica di san Paolo con un muro, sì come Leone IV aveva fatto per il san Pietro. Il colle roccioso che s’alzava in vicinanza al san Paolo offeriva eccellente appoggio ad un fortificamento; può darsi che il Papa vi edificasse un castello, ma, più probabilmente, giovandosi del portico che dalla porta conduceva alla chiesa, egli cingeva di muraglia tutto il sobborgo che ivi era, e vi imponeva nome di «Giovannipoli». Di questo monumento glorioso non è rimasta la menoma traccia. Nessun Cronista parla della edificazione della città «Giovannina», e notizia della sua fondazione abbiamo soltanto dalla copia dell’epigramma che leggevasi sopra una porta della nuova fortezza:
«Qui è il muro salvatore e la porta invitta che tien lontani i reprobi e fa accoglienza agli uomini pii. Di qui entrate, genti illustri, vecchi e giovani togati, popolo sacro di Dio, che movete ai santi limitari della [230] chiesa. Con rito condegno la edificò Giovanni, vescovo di Dio, che rifulse di splendido costume e di meriti eccelsi, e dal nome di Giovanni ottavo papa, la veneranda città si appella Giovannipoli. L’angelo santo del Signore, con Paolo principe, segga alla custodia di questa porta, e ne respinga sempre l’iniquo nemico. Papa Giovanni, che siede trionfante sulla cattedra apostolica, la costruì insigne, d’ampio muro cingendola. Così, dopo morte, a lui si schiuda la porta del regno celeste; glielo conceda Cristo, Dio misericorde[245].»
[231]
I Saraceni e il disordine delle cose d’Italia ci ebbero distolto un tratto dal por bada agli avvenimenti, che derivarono dalle relazioni costituitesi fra la Città e l’Impero. Le difficoltà che premevano su Roma, erano cresciute anche da questa parte. Lamberto, novellamente riposto nel suo ducato di Spoleto, faceva quanto era possibile per aggrandire i torbidi d’Italia, perocchè essi favorissero le sue speranze rivolte a conseguire independenza, e potere ancor maggiore. Roma aveva provato un tempo quanto pesasse la sua mano; i maggiorenti condannati da Giovanni avevano cercato rifugio presso di lui, e, come sogliono fare i fuorusciti, lo colmavano d’instanze affinchè li riconducesse in patria. Fra l’Imperatore e il Papa era calata una densa nube di sospetti, [232] ai quali porgevano alimento le mire dei figliuoli di Lodovico il Tedesco, avvegnadio questi Principi per parte loro fossero sempre desiderosi di conseguire il possedimento d’Italia. Perfino i rapporti d’amicizia che esistevano fra Roma e l’Imperatore greco, i cui generali facevano nuovamente comparsa nel mezzogiorno d’Italia e spesso erano vittoriosi, aumentavano le diffidenze di Carlo il Calvo; e la coscienza della sua debolezza aguzzava il sospettare. Egli aveva dato ai Romani ragioni sufficienti di deplorare la sua elevazione all’Impero, e di desiderare che un altro Imperatore sottentrasse in vece di lui. Le lettere che Carlo scriveva a Giovanni non possediamo; ma uno scritto del Papa pone in luce lo stato delle cose. Lamberto, in nome dell’Imperatore, aveva chiesto ai Romani degli ostaggi; Giovanni con forte animo gli aveva niegati. Il Papa protestava di non poter mai credere che ciò fosse volontà dell’Imperatore, scriveva a Lamberto che la nobiltà romana preferirebbe la morte piuttosto che accedere a quella inaudita domanda, lo pregava che non s’isturbasse di venire a Roma, e lo accertava che, anche senza l’intervento di lui, il raffreddamento tra l’Imperatore e i Romani si dissiperebbe, nè più nè meno che se fosse una ragnatela[246].
Il Papa si giustificava tosto dopo del sospetto che l’Imperatore nutriva sulla fedeltà sua e dei Romani, e [233] facevalo in quel notevole Concilio che egli raccoglieva a Roma nel Febbraio dell’anno 877. La necessità lo rendeva più pieghevole, e lo sprezzato Impero ne guadagnava ancora una volta d’importanza. Il Sinodo confermava novellamente la dignità imperiale di Carlo; di tal guisa dovevano andarne ferite nel cuore le pretese dei figliuoli di Lodovico di Germania (ch’era morto addì 28 di Agosto dell’anno 876), e volevasi risparmiarne una scissura nell’Impero. L’angustia in cui lo tenevano i Saraceni e i profughi, l’aspettazione di soccorso da parte dell’Imperatore, la temenza di Lamberto e dei Principi tedeschi, erano cagione che il Papa, tenendo discorso ai Vescovi congregati, spargesse il suo linguaggio di espressioni ispirate ad un’adulazione indegna e invereconda. Poteva darsi che Carlo il Calvo meritasse qualche lode per le cure che aveva rivolto agli studî scientifici; la Chiesa romana avrà potuto anche tenere in pregio quest’omaccino debole, come fatto aveva un tempo di Onorio, perocchè a lui andasse debitrice di concessioni parecchie; ma le apologie di Giovanni dovevano spargere il ridicolo, innanzi agli occhi di tutti, su questo fantoccio d’Imperatore. Il Papa lo appellava stella di salvamento che era sorta sulla terra, affermava che Dio aveva predestinato la sua elezione imperiale fin da prima della creazione del mondo, e vestiva il meschinetto monarca di una copia siffatta di splendide virtù, che neppure un Carlo magno avrebbe potuto reggere a sostenerne il pondo[247]. Sulla fine diceva, essere stato [234] a causa di queste virtù ch’egli aveva eletto e confermato Carlo, d’accordo coi Vescovi, coll’illustre Senato, con tutti i Romani e col popolo togato: rispondevano i Vescovi acclamando di bel nuovo anche da loro parte la elezione imperiale[248]. Così in basso era caduto l’Impero del gran Carlo!
Accompagnato dalla sua donna, Carlo il Calvo venne effettivamente in Italia con un esercito. In vicinanza di Orba gli fu recapitata una copia degli Atti del Sinodo di Roma, ed ebbe messaggio che il Pontefice aveva stabilito di andarlo ad incontrare a Pavia. Giovanni trovavasi allora a Ravenna, dove nell’Agosto dell’anno 877 aveva tenuto un Sinodo. Fra le deliberazioni di questo, erano alcune che concernevano l’ordine dei patrimonî della Chiesa; e s’era promulgato un decreto che divietava la loro alienazione sotto qualsiasi titolo di natura feudale. Il concetto di feudum, la cui voce non era allora peranco venuta in uso, s’esprimeva generalmente in quella età col vocabolo di beneficium. Beni fondi erano dati in beneficia; altri erano concessi in [235] usufrutto con nome di praestaria, in esaudimento d’istanze scritte (praecarium); e dall’istromento di concessione, che detto era libellum, quei possedimenti avevano nome di libellaria[249]. La confusione sempre maggiore di tutte le cose, or che avarizia, e rapacia, e violenze, e trufferie d’ogni maniera si scatenavano per ottener possesso di beni e ne creavano titoli innumerevoli, agevolava le alienazioni e le traslazioni della proprietà; i beneficî si trasformavano in possedimenti ereditarî di coloro che ne avevano avuto investitura. Gli ottimati di Roma, del cui seno erano usciti i Papi, stendevano avidamente le loro mani sui patrimonî, e, presto assai, i Pontefici vedevansi costretti di cedere a buoni patti i beni di san Pietro a uomini del loro partito sotto titolo di locazioni, perocchè in siffatta guisa eglino pagassero il debito del loro esaltamento alla sede pontificia, o si cattivassero aderenti. A impedire questa divisione dei beni della Chiesa, Giovanni VIII volle dar provvedimento nel Sinodo di Ravenna. Per ragione di patronato dei maggiorenti, s’era fatta consuetudine, al tempo dei Carolingi, d’infeudare conventi o chiese a Vescovi, a Conti, financo a nobili donne; adesso Giovanni proibiva che si dessero in beneficî i conventi e i beni che erano in quel di Ravenna, nella Pentapoli, nell’Emilia, nella Tuscia romana e nella longobarda; faceva eccezione per quei soli che erano dati in servigio speciale della [236] Chiesa romana ad abitatori del Ducato, o che erano attribuiti alla Camera pontificia[250]. I beni di appartenenza immediata del fisco pontificio erano così precisamente denotati: il Patrimonium Appiae, il Labicanense o Campaninum, il Tiburtinum, il Theatinum (ambidue nel territorio sabinense), il Patrimonium Tusciae, il Porticus s. Petri (città Leonina), la zecca romana, tutti i balzelli publici, l’imposta di ripatico, il porto (Portus) e Ostia[251]. Fu statuito espressamente che [237] questi patrimonî non potessero essere ceduti a titolo di feudo. La Chiesa romana voleva dare i suoi beni in affitto, come fino allora aveva fatto, ma indarno si adoperava essa a combattere il progresso invadente del principio feudale germanico, da cui, coll’andare del tempo, doveva derivare l’alienazione assoluta dei possedimenti conceduti in investitura, e sorgere un gran numero di pericolosi tirannelli ereditarî.
Posto termine al Sinodo di Ravenna, Giovanni VIII mosse rapidamente ad incontrare l’Imperatore; con lui s’imbattè presso a Vercelli, e insieme ad esso andò a Pavia; ma l’annunzio che Carlomanno scendesse di Germania con un grosso esercito, mise tutte le paure in corpo all’imbelle Carlo. Lasciò Pavia più presto che in furia, e dopo di aver fatto che il Papa coronasse in Tortona la moglie sua, se la battè in Francia, mentre Giovanni, dolente che fosse ita in fumo la impresa contro i Saraceni onde aveva avuto promessa, se ne tornava a Roma[252]. Ivi, poco tempo dopo, gli giungeva novella che Carlo era morto addì 13 di Ottobre, in quello che fuggiva; alcune polveri che gli mesceva il suo medico ebreo per guarirlo dalle febbri, lo avevano spedito (così correva voce) all’altro mondo. Morendo, aveva espresso desiderio che lo si seppellisse in san Dionigi, ma invece l’Imperatore di Roma fu chiuso in una botte impeciata e involta di cuoio, e fu sotterrato nel nudo suolo, in un romitaggio presso a Lione[253].
[238]
La morte di Carlo il Calvo recò una subita mutazione nelle cose politiche. La parte francese soccombette con lui; trionfò la tedesca. Carlomanno che stavasi con soldatesche nell’Italia settentrionale, si guadagnava il voto dei Vescovi e dei Conti affinchè lo eleggessero a re d’Italia; chiedeva al Papa che gli concedesse la corona imperiale, nè Giovanni VIII poteva far altro che palliare le sue vere intenzioni con astuzie di negoziati. Lo atterriva il partito tedesco che adesso alzava il capo; i suoi nemici di Roma, i fuorusciti di Spoleto ne giubilavano, e Lamberto si rizzava minaccioso. Il Papa, preso di paura, scriveva adesso a quest’ultimo lettere zeppe di blandizie adulatrici, e ve lo chiamava unico proteggitore della Chiesa, e difensore suo fedelissimo. Dicevagli, aver udito che ei volesse ricondurre nella Città coloro che gli erano nemici, quei Romani che erano stati scomunicati tre volte; meravigliarsene, giacchè viveva con lui in buona pace; dispensarsi di dar accoglimento in Roma così a lui che ad Adalberto, margravio di Tuscia, che chiamava suo aperto avversario[254]. Rispondeva Lamberto con disprezzo, e poneva in non cale le forme di onoranza dovute al Papa, fino al punto da dargli soltanto il titolo di «Vostra Nobiltà», come se stato fosse un uomo secolare, e di ciò Giovanni si doleva: Lamberto poi protestava, che ogni qual volta il Papa intendesse [239] mandargli suoi legati apostolici, dovesse prima chiedergliene permissione[255]. Alla fine, Giovanni dichiarava di volerne andare a Francia, chè di là avrebbe trattato con Carlomanno, perchè soccorresse alle necessità sue. Diceva inoltre, essere motivo di questo viaggio la pressura che da due anni sofferiva dai Saraceni, e i continui attacchi degli inimici interiori della Sede apostolica, che non gli permettevano di rimanere più a lungo in Roma: e, sotto minaccia di anatema, ammoniva Lamberto che durante la sua assenza non recasse danno al territorio di san Pietro, e a Roma, città «sacerdotale e imperiale[256].»
L’imprudente annuncio di un viaggio in Francia, il quale non poteva avere altro scopo che quello di indurre Lodovico, figlio di Carlo il Calvo, a levarsi in arme contro a Carlomanno, e forse anche di dare al Principe la corona imperiale; oltracciò i maneggi che il Papa andava tessendo in Francia e dei quali s’aveva sparsa la fama, indussero Carlo a prendere una subita risoluzione. Scoppiata era la peste in mezzo al suo esercito, e, infermatone egli pure, era costretto a starsene in [240] Baviera inoperoso, nè poteva muovere contro a Roma; ma Lamberto e i fuorusciti romani non aspettavano che un cenno di lui per impadronirsi del Papa. Nel Febbraio o nel Marzo dell’anno 878, Lamberto comparve di repente davanti a Roma: con lui era Adalberto margravio di Tuscia, figlio di Bonifacio conte e sposo di Rotilda, ch’era sorella a Lamberto; col loro seguito venivano gli esuli romani. Senza far mostra di intendimenti ostili, Lamberto chiedeva di parlare col Papa per conto di Carlomanno, e Giovanni era obligato di riceverlo nel palazzo prossimo al san Pietro. Frattanto gli Spoletini occupavano la città Leonina, e vegliavano con loro guardie alla porta di san Pietro per impedirne di colà l’accesso ai Romani. Il Papa si vide prigioniero. Mentre, per incutergli timore, le genti d’arme esercitavano opere di violenza, Lamberto chiedeva che gli promettesse di eleggere Carlomanno a imperatore: in tali sensi aveva costretto i grandi romani a dargli giuramento[257]. Ma Giovanni non si lasciò strappare un’adesione, nè volle perdonare agli uomini esiliati, laonde per trenta giorni fu sostenuto in prigionia, e, com’ei si lagnò, fu essa così stretta e dura, che soltanto dopo ferventi preghiere, gli furono lasciati accostare maggiorenti romani e vescovi e famigliari [241] suoi; perfino dovette sofferire penuria di cibo[258]. Lamberto alla fine si partì, minacciando di tornare, e per verità null’altro ebbe ottenuto che di aggiunger fiamma all’ira del Papa e di affrettare il suo viaggio in Francia. Andati che furono gli Spoletini, Giovanni mosse al san Pietro, fe’ trasportare in Laterano i tesori della Chiesa, velò il maggior altare con una cortina di cilicio, serrò la basilica, proibì che v’entrasse pellegrino alcuno, e ne diffuse in tutti alto sgomento[259]. Dopo di avere scritto lettere di doglianza ai Re di Francia e di Germania, all’Arcivescovo di Milano, a Berengario e ad Engelberga, e dopo di avere dalla chiesa di san Paolo minacciato Lamberto di anatema, se per la seconda volta fosse venuto ad assalir Roma, lasciò la Città, ch’era il mese di Aprile, montò in una nave, e fuggì in Francia[260].
[242]
Giovanni VIII giungeva in Arles, ch’era la festa delle Pentecoste: ivi lo accoglieva Bosone duca, e gli faceva accompagnatura nel rimanente del viaggio. Soltanto in sul principio del mese di Settembre s’incontrò a Troyes con Lodovico re: nel dì 14 di Settembre, dal Concilio che s’era ivi congregato, scagliò l’anatema contro Lamberto e Adalberto, contro i proscritti romani e il vescovo Formoso, il quale allora, dopo lungo ramingare, aveva trovato rifugio presso Ugo abate di san Germano, ed era stato citato a comparire in persona davanti al Concilio. Indi, il Papa coronò a re di Francia il balbuziente Lodovico, e trattò con lui delle cose d’Italia. La inettezza di Lodovico fe’ crollare tutto l’edificio delle sue speranze; però un uomo di origine nuova, che accoglieva animo gagliardo, seppe rianimarle. Bosone, il quale portava titolo di duca di Lombardia, era stato dapprima cognato [243] di Carlo il Calvo, ed era adesso sposo d’Irmengarda unica erede dell’imperatore Lodovico II, cui aveva condotto in moglie per mire politiche, dopo di avere avvelenata la sua prima donna: possedeva grandissima potenza, per guisa che il Papa lo credeva adatto a tagliar la strada a Carlomanno in Italia. L’astuto Giovanni confidava di potersi giovare di quell’uomo ai suoi intendimenti; conchiuse con lui un patto; gli promise l’appoggio suo perchè ottener potesse titolo di re di Provenza, gli fe’ travedere da lungi il lampo della corona imperiale che avrebbe potuto toccargli, lo tolse per suo figliuolo di adozione, e n’ebbe promessa che s’adoprerebbe validamente a suo pro in Italia: vedasi in che labirinto di intrighi politici le condizioni del principato temporale spingessero i Pontefici! Giovanni VIII, sitibondo di vendetta, aveva il sangue ribollente sì, che difficilmente n’ebbero parimenti arse le vene altri pari suoi; precipitava le cose con passione cieca, laonde i suoi propositi fallivano, e, appena che aveva tocco il suolo di Francia, cadeva per sempre dalla sua altezza.
Pressochè un anno fe’ dimora in quel paese; indi, accompagnato da Bosone, tornò in Italia[261]. A Pavia, [244] tentò di stogliere i Lombardi dalla fede di Carlomanno, e poichè adesso Engelberga era divenuta suocera di Bosone, potè giovarsi della influenza di lei; ma i Conti e i Vescovi dell’alta Italia, capitanati da Berengario di Friuli e da Ansperto di Milano, non si lasciarono indurre a cambiare re Carlomanno con un avventuriero. I Vescovi lombardi, massime l’orgoglioso Metropolita di Milano, erano allora bene alieni dal riverire la primazia del Papa; miravano con occhio sospettoso ciò ch’ei faceva nella loro terra, e gli resistevano con ogni maniera di impedimenti. Senza aver conchiuso cosa alcuna, Bosone tornava pertanto in Provenza, e Giovanni VIII, senza gloria e amaramente deluso, faceva ritorno a Roma. Allorchè si leggono le lettere di questo Pontefice memorando, ei conviene che se ne ammiri la maestria diplomatica. Era nato uomo di Stato, e possedeva una siffatta valentìa di garbugli politici, che pochi Papi l’ebbero eguale alla sua. In mezzo a difficoltà gravissime di cose, le quali avevano cagionato la divisione dell’Impero e prodotto un gran numero di pretendenti, egli spiava attentamente ogni combinazione possibile. Conchiudeva e rompeva leghe con coraggio temerario; preso di temenza dei Saraceni e sperando di ricuperare la Bulgaria perduta, volle aprirsi la via ad un trattato con Bisanzio, e, senza provar la menoma dubbiezza nell’animo, riconobbe nuovamente per patriarca quel Fozio ch’era stato solennemente condannato dalla Chiesa, e gli diè onoranza di lode. Così sfidò il giudizio del mondo ortodosso suo contemporaneo, e quello dei posteri, che perciò lo copersero di imprecazione; ma i vantaggi temporali gli stavano a cuore più assai [245] che le sottigliezze dommatiche del filioque. Era uomo che non sentiva legge di coscienza; avrebbe forse imitato l’esempio di alcune città dell’Italia inferiore, e, di nome, avrebbe riposto novellamente Roma sotto l’Impero bizantino, se tuttavia la cosa fosse stata possibile. La decadenza miserevole dei Carolingi formava per fermo un acerbo contrasto collo splendore della dinastia dei Macedoni, i quali, nell’anno 867, erano saliti con Basilio I al trono di Bisanzio. Se mai s’era mostrata un’età favorevole a restaurare nuovamente in Italia la dominazione dei Bizantini, gli era certo l’epoca del reggimento di questo Principe; ma il disordine in cui egli aveva trovato l’Impero e il pericolo onde lo minacciavano i Saraceni, gli impedivano di mandare ad esecuzione siffatto disegno. Basilio si accontentava di celiare con lettere in cui spargeva il sarcasmo addosso agli Imperatori romani; prendeva Bari, stendeva la mano su Capua e su Benevento, ma non poteva impedire che l’eroica Siracusa precipitasse nelle ugne de’ Saraceni, addì 21 di Maggio dell’anno 878: e il figliuol suo, appellato Leone il Filosofo, non arrossiva di rimpiangere con lai di molli anacreontiche la caduta dell’illustre città[262].
Tornato a Roma che trovava tranquilla, perciocchè anche Lamberto vivesse in temenza di Bosone, Giovanni VIII pensò di prendere finalmente una risoluzione decisiva. Gli prendeva adesso il ticchio di rimandar pei [246] fatti suoi il figlio adottivo, e, costretto dalla necessità, cingeva della corona imperiale Lodovico di Germania, fratello di Carlomanno infermo[263]. Ma egli voleva almeno un Imperatore che fosse creatura sua, e pretendeva financo di disporre della corona regia italica a suo piacimento: così richiedeva il sistema fondato da Nicolò I, cui egli arditamente intendeva di dare maggior larghezza. Bandì, per il mese di Maggio, un Sinodo che doveva congregarsi a Roma, e invitò ad assistervi anche l’Arcivescovo di Milano. Poichè Carlomanno, così gli scriveva, non può tenere il regno a causa di sua grave malattia, è assolutamente necessario che voi siate presente al tempo prefisso, affinchè noi, tutti insieme, possiamo consigliare sulla elezione di un nuovo Re. Voi non potete perciò torre uomo alcuno per Re senza l’adesion nostra; avvegnaddio colui che noi eleggeremo allo imperio debba primamente da noi essere chiamato ed eletto[264]. Ma il Milanese sprezzò queste pretensioni e non intervenne al Sinodo, per lo che Giovanni gli scagliò l’anatema.
La partita di scacchi che la diplomazia pontificia andava giocando senza termine, ebbe esito di questa maniera: i tre fratelli Carlomanno, Carlo e Lodovico convennero di lasciare Italia al mezzano di loro, e, ancor nell’anno 879, Carlo il Grosso scese con un esercito [247] in Lombardia, e cinse a Pavia la corona d’Italia. Non poteva dunque Giovanni far adesso altra cosa che dare, sebbene a repugnanza, la corona d’imperatore a questo Principe tedesco, dopochè già lungo tempo prima aveva negoziato e conferito con lui personalmente a Ravenna, e dopochè Bosone, il figliuol suo adottivo, era stato da lui proclamato tiranno, dacchè in Arles si era levato a re di Provenza[265]. Carlo il Grosso ottenne quanto aveva sperato. Su di lui s’erano riuniti i voti d’Italia e di Roma; tolta l’imperatrice Engelberga, che era per lui di pericolo, al suo convento di Brescia, l’aveva fatta condurre in Germania; e, sull’incominciamento dell’anno 881, veniva a Roma, dove, senza combattimento e senza fatica, riceveva dalle mani del Papa la corona imperiale[266]. Ma, anche in questo [248] momento, Giovanni era deluso nella sua speranza di raccogliere una crociata contro ai Saraceni; l’Imperatore odiava il passato politico del Pontefice, nè alzava il suo debole braccio per assisterlo; nella propria impotenza abbandonò Roma a sè stessa, chè nemmanco una volta spedì suoi legati nella Città, dove lasciò decadere affatto i suoi diritti imperatorî.
Irrequieto sempre, Giovanni trascorse il tempo rimanente del suo pontificato movendo lagni sempre nuovi; non ne toglieva di mira soltanto i Saraceni, ma anche i suoi nemici di Roma e di Spoleto, che continuavano a premere sulla Chiesa[267]. Per verità, Lamberto, che il Papa alla mutazione dell’indirizzo politico aveva sciolto dell’anatema, era morto; ma Guido, succeditore di lui nel Ducato, procedeva con opera parimenti violenta. Usurpava parecchi beni della Chiesa; e gli incoli pontificî, condotti prigionieri, stendevano indarno le loro braccia mutilate verso il Papa, invocandone salvamento[268]. Invano Giovanni scongiurava l’Imperatore affinchè mandasse suoi legati che gli restituissero pace nel Ducato, pace in Roma. Le sue preghiere [249] erano inutili, ed egli andava profondendone di qua e di là, ora al settentrione ed ora al mezzogiorno, dove avevano similmente fatto naufragio i suoi arditi disegni, dove Napoli, Amalfi e i Saraceni non gli davano un sol momento di requie. Finalmente, morte lo liberava dal peso tormentoso del suo pontificato: passò di vita addì 15 di Dicembre dell’anno 882. Se sia da credere alla isolata notizia di un Cronista, gli era primamente propinato un veleno da uno de’ suoi parenti, e, poichè esso operava con troppa lentezza, gli si fraccassava la testa a furia di martellate[269].
Giovanni VIII fu l’ultimo pontefice illustre nella serie dei suoi predecessori; con lui si chiude omai la breve epoca dello splendore principesco cui s’era sollevato il Papato dopo la fondazione dello Stato temporale sotto ai Carolingi. Al paro di Nicolò I, lo ispirò un’altissima coscienza della podestà pontificia; però a null’altro attese che agli scopi della signoria mondana, e trascinò il Pontificato nel vortice profondo delle fazioni politiche d’Italia. Egli primamente aveva fatto suddito a sè l’Impero, ma, al tempo stesso e tutto d’un tratto, aveva risentito il contraccolpo dell’indebolimento di quello. L’ambizione dei Pontefici s’adoperava alla distruzione dell’Impero, eppure essi avevano duopo della potenza imperiale; e questa contraddizione educava in Roma la più sottile arte diplomatica. Appena che [250] Giovanni VIII aveva fiaccato l’Impero, pensava egli omai a rendere il reame italico soggetto a Roma, e massimamente cercava di innalzare la cattedra di Pietro sulle ruine dell’Impero, affine di dominare, come sopra a vassalli, sui Vescovi e sui Principi d’Italia, riunendo questa contrada in una teocrazia romana. Tuttavia, siffatti progetti audaci non ebbero compimento; il genio diplomatico di Giovanni VIII, o di altri Papi, non fu capace mai di signoreggiare il caos delle cose italiche. I Vescovi di Lombardia, i Duchi feudali che la caduta dell’Impero rendeva tutti strapotenti, i Principi dell’Italia meridionale, i Saraceni, i Re tedeschi, la nobiltà ribellante di Roma, tutti questi nemici dovevano esser combattuti ad un tratto; ed era còmpito soverchio alle forze di un uomo solo. Per quanto pur sia grave il giudizio che cade su Giovanni VIII, e che in lui condanna l’indole ambigua, l’animo maestro d’inganni e di sofismi, l’uomo senza coscienza, convien riflettere che egli fu figlio della sua età e premuto dalle più desolate condizioni delle cose d’Italia: lo adornarono rari pregi d’intelletto e un’energia così grande di volontà, che il nome suo splende con magnificenza regale nella storia temporale del Pontificato, dove egli siede in mezzo a Nicolò I e a Gregorio VII. In un tempo in cui s’erano spente le virtù religiose, in cui non si poteva far altro che navigare con accorte arti in mezzo a mille forze combattentisi fra loro, Giovanni VIII, se si prescinda affatto dal mirare all’officio suo sacerdotale, si leva sublime tanto, quanto più grave fu la debolezza di quelli che gli succedettero nella cattedra apostolica.
[251]
Nuovo papa fu Marino I, nemico acerrimo di Fozio, in occasione delle cui controversie egli era stato tre volte a Costantinopoli, in qualità di nunzio apostolico. Buje sono le circostanze della sua elezione, sì come oscuri sono i fatti del suo breve pontificato[270]. Dagli Atti suoi si rileva ch’egli apparteneva alla fazione tedesca avversa a Giovanni VIII; invero non soltanto si affrettava a condannare Fozio novellamente, ma scioglieva altresì Formoso del giuramento onde questi aveva promesso di non riporre mai più il piede in Roma, ed anzi lo restituiva nel suo vescovato di Porto. Il Papa ebbe coll’Imperatore una conferenza amichevole in Nonantola, ed ivi gli riuscì di rovesciare il più fiero nemico dello Stato della [252] Chiesa. Guido di Spoleto fu accusato di accordi traditori con l’Imperatore greco; Carlo il Grosso lo depose, e comandò a Berengario conte di muovere contro il Ducato di lui: Guido fuggente volse i passi all’Italia inferiore per far leva di Saraceni, in quello che i suoi amici andavano preparando il terreno ad una ribellione. Questi tetri avvenimenti fanno prova della dissoluzione che premeva ognor più gravemente sopra Italia[271].
All’incominciamento dell’anno 884, in cui Marino venne a morte, saliva alla cattedra pontificia Adriano III romano, abitatore della via Lata, uomo ispirato a sensi italiani. Neppure della sua elezione e dello stato in cui era Roma a quel tempo sappiamo cosa alcuna, e soltanto notizie sparse e slegate dei Cronisti fanno intendere che nella Città avvenissero de’ tumulti per parte della nobiltà[272]. Di dubbia verità sono due decreti che si attribuiscono ad Adriano, sebbene l’indebolimento dell’Impero in questa età offra qualche argomento a far credere che in realtà fossero promulgati; laonde essi appaiono essere conseguenza dei principî posti da Nicolò I e dalle Decretali pseudo-Isidoriane. Adriano vi avrebbe statuito, che il Papa eletto dovesse ordinarsi anche senza la presenza dei Missi imperiali, ed avrebbe [253] eziandio proclamato che, dopo la morte di Carlo il Grosso privo di discendenza, la corona imperiale dovesse toccare ad un Principe italico[273]. La inoperosità di Carlo, la ruina della casa de’ Carolingi, la divisione d’Italia tutta abbandonata a sè stessa, favorivano senza dubbio le speranze dei Duchi italiani, massime di Berengario e di Guido, il quale ultimo, verso la fine dell’anno 884, aveva in Pavia ottenuto grazia dall’Imperatore, ed era stato riposto nella sua ducea. Sul principio dell’anno successivo Carlo il Grosso tornava in Alemagna per presiedere in Worms a una dieta, che decidesse della successione all’Impero. Invitava Adriano a prendervi parte, e questi imprendeva il viaggio, dopo di avere affidato la difesa della Città a Giovanni vescovo di Pavia, che era venuto quale Missus imperiale; ma per via il Papa moriva, nel giorno 8 di Luglio dell’anno 885, a Villa Vilczachara ossia a San Cesario presso a Modena, ed aveva sepoltura nel celebre convento di Nonantula[274].
I Romani procedettero, senza frapporre indugi, alla elezione ed alla consecrazione del suo succeditore. Poichè eglino non badavano punto nè poco al diritto imperiale di conferma, si rinfranca manifestamente la credenza che Adriano III avesse promulgato il decreto [254] onde dicemmo; ma la collera che s’impadronì dell’Imperatore quando seppe della lesione dei suoi diritti, dimostra che egli non vi aveva in modo alcuno data rinuncia. Infatti, tosto ch’ebbe udito della ordinazione di Stefano, mandò nella Città Liutwardo suo cancelliere ed alcuni Vescovi romani, affinchè lo deponessero. Però, il pronto arrivo di legati pontificî lo indusse a sensi di pace, dappoichè eglino, coll’esibizione del documento di elezione, gli dimostrarono che il nuovo Pontefice era stato eletto coll’osservanza di tutte le buone regole; egli die’ la sua conferma, ma i Romani, ciò nondimeno, erano riusciti al loro scopo di un’elezione completamente libera[275].
Stefano V, primamente cardinale dei «quattro Coronati», era romano di natali illustri, figlio di Adriano abitatore della via Lata, che allora era il quartiere ove dimoravano gli uomini i quali andavano per la maggiore. Eletto con volontà unanime, era condotto in Laterano, assistendovi il Missus imperiale che Adriano aveva lasciato nella Città. Ei trovava ridotti al verde gli scrigni del palazzo; avvegnaddio da lungo tempo corresse la consuetudine, che, alla morte del Papa, famigli e popolani si cacciavano nelle stanze del defunto; nè quelle soltanto, ma tutto il palazzo saccheggiavano, e ogni cosa che rinvenivano ivi dentro, ori e argenti, stofferie magnifiche e gemme rubavano. La strana condizione di anarchia in cui Roma piombava alla morte di [255] ciascun Papa, dava opportunità a siffatti eccessi. La morte del Principe cagionava ogni volta una smodata gioia nel popolo, chè la nave di san Pietro faceva la mostra di una barca in secco, e le sue ricchezze, non vigilate da padrone alcuno, erano aperte al saccheggio. Lo stesso avveniva alla morte dei Vescovi nelle città e nelle campagne; anche i loro palazzi si vòtavano da capo a fondo[276]. Il lusso principesco ond’erano circondati quei Vescovi, contrastava per fermo colla dottrina del Cristianesimo. Quei signori dimoravano entro a camere magnifiche, splendenti d’oro, di porpora e di velluti; simili a principi tenevano mensa servita in vasellami d’oro; i loro vini bevevano in preziosissimi bicchieri o coppe. Le loro basiliche erano tetre e nere, quasi che le coprisse la fuliggine, ma le loro «obbae», ossiano anfore da vino dalle rotonde pance, erano dipinte vagamente. Come ai banchetti di Trimalcione, quei Vescovi s’inebbriavano i sensi alla vista di belle danzatrici e ai concenti di «sinfonie». Fra le braccia delle loro concubine dormivano oziosi sonni, appoggiando il capo su guanciali di seta, in letti ornati d’oro con squisita arte; e mentre i loro vassalli, i coloni e gli schiavi provvedevano ai bisogni [256] della loro corte, eglino giocavano ai dadi, cacciavano, tiravano d’arco. Dopo di aver celebrato la messa cogli sproni alle calcagna e col pugnale al fianco, lasciavano l’altare e le loro cattedre, montavano in arcione dei loro cavalli, ch’erano tenuti a freno con briglie d’oro e sellati a foggia sassone, e andavano a dare il volo ai loro falconi. Allorchè poi viaggiavano, li seguiva il codazzo dei loro cortigiani, e movevano in cocchî trascinati da cavalli, di cui non avrebbe avuto a vergognarsi nemmanco il Re di Tracia[277].
Seguito dai Vescovi e dai maggiorenti di Roma, suoi testimonî, Stefano percorse le vuote camere del Vestiarium, e si confortò vedendo che v’era rimasto un celeberrimo ed antico dono votivo: era la croce d’oro, che un tempo il grande Belisario aveva consecrato al san Pietro, in ricordanza della vittoria riportata da lui sopra i Goti[278]. Ma lo scrigno era vuoto. Conforme all’usanza, il Papa, tosto dopo la sua ordinazione, doveva presentare il clero, i conventi e le scuole di Roma di donativi in denaro, ossiano Presbyteria, e dispensare pane e grasce fra i poverelli: ma anche le canove del [257] Laterano erano state spazzate pulitamente. Mis’egli pertanto mano al patrimonio suo proprio, e saziò gli ingordi. Così, alla morte di un Papa, Roma godeva di duplice festa, aveva il saccheggio delle case del morto e i donativi del suo successore.
Frattanto, dal loro campo del Garigliano i Saraceni si spingevano avanti nel Lazio e nell’Etruria. Stefano, come aveva fatto Giovanni VIII, chiedeva soccorso agli Imperatori d’Oriente e d’Occidente, e ne riceveva da Guido di Spoleto. Prossima era la fine della casa de’ Carolingi; preparata era la caduta dell’Imperatore, cui tutte le province disprezzavano; e Guido, il vicino di Roma, era in quel momento l’uomo più potente che fosse. Il Papa (può darsi che gli facesse travedere la corona d’Imperatore) lo indusse a muover contro ai Saraceni; e una vittoria riportata contro di loro sul Liri consentiva qualche po’ di tregua a Roma[279]. Nel Novembre dell’anno 887 i popoli tedeschi, nella dieta di Tribur, deponevano Carlo il Grosso, ed a loro re eleggevano Arnolfo, valoroso figliuolo di Carlomanno. Morto poi, nel Gennaio dell’anno 888, il meschinello Carlo, gli Italiani si vedevano privi di imperatore e di re, mentre gli ambiziosi Duchi affilavano i ferri per disputarsi la corona di Carlo.
Poichè i Carolingi della linea legittima avevano finito di esistere in Germania (Carlo il Semplice, figlio di Lodovico il Balbo e ancor fanciullo, era in Francia continuatore di quella sventurata dinastia), balzavano fuori, d’ogni parte, i pretendenti. Estinto s’era il principio [258] ereditario del monarcato; i popoli rivendicavano a sè il diritto di elezione, ossia, più veramente, i Vescovi e i Baroni potenti dell’antico Impero occupavano i troni. Odone, conte di Parigi, s’era eretto a re di Francia; la Provenza, ossia l’Arelato, era divenuto reame di Bosone e di Lodovico suo figliuolo; Rodolfo conte si prendeva la corona di Borgogna; in Alemagna il bastardo Arnolfo si copriva col regio paludamento; in Italia finalmente il paragone delle armi doveva decidere se la corona dei Longobardi e dell’Impero de’ Romani dovesse toccare a Berengario oppure a Guido II.
Questa terra, tutta straziata dalle divisioni, su cui sorgevano adesso in folla i tiranni, vedevasi pertanto chiamata dalle necessità sue a rimuovere per sempre lungi da sè l’influenza del di fuori, a disfarsi dell’Impero, ed a costituire sè stessa in un regno unito: questa avrebbe dovuto esser missione di un uomo d’animo grande, ma uomo tale non si trovava, nè trovarsi poteva. Se Nicolò I, se Giovanni VIII fossero ancor vissuti, ben avrebbero eglino tentato di fondare una teocrazia italica, di cui Roma sarebbe stata il centro; ma Stefano era indole fiacca, e la prevalenza di vassalli innumerevoli che s’erano fatti independenti, avrebbe soffocato financo il genio di quei Pontefici arditi. E neppur v’erano allora Principi italiani e nazionali di stirpe latina, nei quali si potesse riporre fidanza, perocchè in quel tempo i Duchi possenti fossero di schiatta germanica; laonde trattavasi di vedere se uno dei due signori più ragguardevoli d’Italia avesse tanta forza e tanta fortuna da abbattere i suoi emuli o i suoi avversarî, facendone altrettanti vassalli a sè soggetti.
L’origine illustre ornava Berengario, margravio di [259] Friuli, di più chiaro splendore, chè egli nasceva di Gisela, figliuola di Lodovico il Pio, la quale un tempo aveva sposato Eberardo conte. Per lo contrario, Guido dominava su Spoleto e su Camerino[280], aveva fatto suo pro delle condizioni orribili dell’Italia meridionale per conquistarsi colà terre e vassalli, e la vicinanza di Roma, al paro dell’amicizia imposta al Papa, gli concedevano buon vantaggio sopra di Berengario. Però, la fortuna de’ suoi successi era impedita in Italia dai disegni ch’ei coltivava su di Francia, dove un partito condotto da Folco arcivescovo di Reims, congiunto suo assai potente, aveva gridato re lui, franco di orrevole prosapia. Ei corse a Francia in fretta e in furia, lasciò fuggire il corpo per correr dietro all’ombra, e Berengario fu chetamente coronato re dei Lombardi a Pavia, sull’incominciamento dell’anno 888. Quanto a Guido, ei tornava indietro coll’inane nome di re di Francia, e, irritato, moveva guerra contro a Berengario. Dopo due battaglie sanguinose, restava padrone del campo, indi anch’egli, nell’anno 889, si prendeva a Pavia la corona regale d’Italia[281].
Però, l’Impero franco continuava ad essere tradizione [260] incancellabile, e Guido lo restaurò nel suo significato antico, senza che pur gli balenasse il pensiero di tener conto delle così dette tendenze nazionali. Infatti, il sentimento di nazione italiana era, in quell’epoca, fiacco assai: v’aveva una fazione lombarda, una spoletina, una tusca, che nazionali potevano dirsi sotto un certo aspetto, ma nazione italiana non v’era nel senso politico e sociale, perocchè ne mancassero tutti quegli elementi essenziali che sono la comunanza d’interessi, la lingua, la letteratura, l’unità politica. In Roma, il Papato, potenza massima d’Italia, forviava dall’idea di nazione, causa il suo principio di regno temporale; al settentrione e al mezzogiorno della penisola, i Vescovi, i Duchi e i Conti poderosi, erano tutti franchi o longobardi, e qua e colà anche greci. Tuttavia, soltanto addì 21 del Febbraio 891, Guido fu coronato in san Pietro, ed allora un vassallo dei Carolingi si nomò audacemente «Augusto, grande Imperatore e pacifico»; e, seguendo il solito stile, segnò i suoi decreti coll’era del postconsolato[282]. Così, dopo lunghi secoli, l’Imperium [261] fu dato dagli Italiani per la prima volta ad un potente che, se non era d’origine latina, era pure della lor terra. Ed allora potè sembrare che il problema più rilevante il quale affaticasse quell’età, fosse di vedere se l’Impero rimarrebbe in Italia, e se Guido avrebbe valore di fondare una novella dinastia imperiale.
Stefano, il quale aveva posto la corona in capo a Guido figliuol suo adottivo, poteva dire a sè medesimo che compiuti erano gli intendimenti politici di molti predecessori suoi. La maestà imperiale, fatta molesta ai Papi, ai Romani ed agli Italiani, era divenuta un’ombra vana; l’altissima dignità, che posava sulla potenza e sulla grandezza dell’Impero di Carlo, era adesso discesa ad ornare la personcina minuta di un Duca, che possedeva qualche territorî nel mezzo d’Italia, e che conseguiva dal Papa il titolo di Cesare.
Stefano V passò di vita nel Settembre dell’anno 891. Nessun monumento di lui è rimasto nella Città, avvegnaddio la chiesa degli Apostoli, da lui edificata a nuovo da capo a fondo, non abbia conservato la forma antica. Egli illustrava questa basilica, dappoichè era la parrocchia cui apparteneva la sua nobile famiglia; le case del padre suo sorgevano in vicinanza di essa[283].
[263]
Alla cattedra di Pietro saliva adesso, nel Settembre dell’anno 891, Formoso, cardinale vescovo di Porto, che era, così almeno pare, romano d’origine[284]. Sappiamo [264] quali fossero state le sorti anteriori di quest’uomo ambizioso: scomunicato da Giovanni VIII, aveva giurato di non tornare a Roma o nel suo vescovato; più tardi Marino lo aveva sciolto di quella promessa e lo aveva restituito a Porto. Era vissuto in pace sotto al pontificato di due Papi, finchè, morto Stefano V, era stato, (parimenti di quello che avvenne con Marino), appellato addirittura dal suo seggio vescovile a quello di Pontefice: e siffatta traslazione in quel tempo si reputava contraria ai canoni[285]. Formoso s’era senza dubbio adoperato per giungere al Papato, e sembra che, per conseguire l’intento, facesse delle promesse agli uomini temprati a sensi nazionali, e che così guadagnasse i loro voti.
La parte del Papa presto si stringeva attorno alla bandiera di Arnolfo d’Alemagna e di Berengario favorito di lui; la fazione avversa si schierava sotto al vessillo spoletino di Guido, di Lamberto suo figlio e di Adalberto di Tuscia, chè in questi contrapposti s’erano adesso mutati i partiti antichi dei Tedeschi e de’ Francesi in Roma. A capo della fazione spoletina stava Sergio diacono, romano illustre che era stato candidato oppositore di Formoso, ed era il suo antagonista più acerbo[286].
[265]
Quantunque il Pontefice fin d’ora volgesse le sue speranze ad Arnolfo, tuttavolta la condizione delle cose lo costringeva a riverire Guido imperatore, e questi, forse coll’adesione del Papa e intendendo a raffermare la dignità imperiale nella sua dinastia, eleggeva il suo figliuolo Lamberto a socio nell’Impero: nell’anno 892, Formoso medesimo lo coronava a Ravenna[287]. Ciò faceva egli di mala voglia; chè nessun Pontefice poteva di vero senno augurare la fondazione o il rassodamento [266] di una dinastia imperiale indigena. La sorte delle armi favoriva Guido; Berengario era battuto, e indarno chiedeva salvezza ad Arnolfo di Germania, sebbene le sue instanze fossero raccomandate anche dai legati di Formoso, cui tosto gravemente angustiavano Guido e la parte spoletina ch’era in Roma. Guido infatti, violava i confini dello Stato della Chiesa, e incamerava patrimonî di san Pietro; la lotta delle due fazioni minacciava di venire in Roma ad uno scoppio; perciò Formoso, nell’anno 893, chiedeva ad Arnolfo che calasse dalle Alpi. Il Re venne in Italia sull’incominciamento dell’anno successivo[288]; Milano e Pavia, prese di terrore, gli aprirono le porte; perfino i Margravî di Tuscia, Adalberto e Bonifacio fratello di lui, gli si diedero in balìa quali vassalli. Però, a Pasqua, ei tornavasi indietro a Germania, nè proseguiva il suo cammino vittorioso, attraverso le terre di Guido, fino a Roma, dove il Papa l’avea invitato ad andare.
La subita morte di Guido non indusse mutazioni essenziali nelle cose di Roma. Questo Imperatore, ossia tiranno d’Italia, come i Cronisti tedeschi lo appellano, moriva di un’emorragia di petto, presso al fiume Taro nell’Italia meridionale, sulla fine dell’anno 894; probabilmente Lamberto s’affrettava adesso di andare a Roma per ottenere da Formoso la confermazione della [267] sua dignità imperiale, e per farsene coronare con solennità grande. Era ancora giovanissimo, bello della persona, cavaliere compiuto, speranza massima degli Italiani che aderivano alla parte nazionale. Il Papa, non soccorso da Germania, doveva acconciarsi alle circostanze; protestava essere disposto a proteggere questo Imperatore con sollecitudine paterna; però novellamente spediva suoi legati ad Arnolfo affinchè fervidamente gli raccomandassero di venire a Roma[289]. Era cosa che doveva infiammare la fazione spoletina a furibondo odio contro il Papa, il quale la tradiva a Germania. Nell’autunno dell’anno 895, Arnolfo sbucò di Baviera, per cacciare fuor del suo sentiero Berengario e Lamberto, e per torsi finalmente il reame d’Italia e l’Impero. La sua marcia guerresca è la prima e avventurosa impresa che un Re tedesco tentasse contro di Roma. Guadato il Po, divideva in due il suo esercito; scagliava gli Svevi su Firenze per la strada di Bologna; i Franchi guidava egli, dalla parte occidentale, a Lucca. Corse fama di apparati ostili per parte di Berengario e di Adalberto di Tuscia; ciò fece sì che Arnolfo s’affrettasse nel suo cammino, laonde, passate le feste natalizie a Lucca, ruppe contro a Roma. Il giovane Lamberto non gli opponeva resistenza alcuna, avvegnachè egli cercasse di difendere soltanto Spoleto; ma la madre sua [268] Ageldrude, che nutriva spiriti gagliardi ed era figlia di quell’Adelchi duca di Benevento celebre per la prigionia cui aveva costretto Lodovico imperatore, sperava di poter ributtare il nemico dalle mura di Roma. Quivi era già scoppiata una furiosa rivolta; la fazione spoletina, ossia nazionale, capitanata da Sergio e da due nobili, Costantino e Stefano, s’era omai impadronita del Papa; Spoletini e Toscani erano penetrati nella Città, ne avevano sbarrate le porte, asserragliata la città Leonina e riempiutala di genti di guerra; una femmina ardita era l’anima di tutto quell’armeggio belligero.
Adesso, per la prima volta, conveniva che Roma fosse assediata dalla soldatesca di un Re tedesco, dai «Barbari» di Germania; per la prima volta conveniva che questi conquistassero la Città santa, ed ivi con forza di armi s’impadronissero della corona imperiale.
Arnolfo, il valoroso bastardo, poneva campo fuor di porta san Pancrazio; chiedeva che Roma s’arrendesse, ma gli rispondevano con ischerni[290]. I Tedeschi, [269] dapprima scoraggiti poichè erano vaghi di pugne ardenti, chiesero finalmente con grandi grida di esser condotti all’assalto; e, come narrò la leggenda, un avvenimento accidentale, un lepre fuggente verso le mura e inseguito da loro, ve li trasse. L’atteggiamento bellicoso degli Spoletini e dei Romani presto si smarrì; le mura furono superate con iscale oppure a forza di selle da cavallo ammonticchiate le une sulle altre; alcune porte furono spezzate a colpi di ascia, quella di san Pancrazio fu abbattuta cogli arieti, e i Tedeschi, nella sera di quell’istesso giorno, penetravano nella città Leonina, e vi liberavano il Pontefice dal castel sant’Angelo, dove i suoi nemici lo avevano rinchiuso[291].
Arnolfo non entrò insieme colle sue soldatesche; volle seguire la consuetudine degli Imperatori, tenendo sua entrata dal campo di Nerone, e volle avere accoglienze solenni nel san Pietro. Si fermò presso a ponte Molle; clero, nobiltà e scuole di Roma, fra le quali i Cronisti tedeschi fanno speciale menzione di quella dei Greci, ve lo andarono a levare con loro croci e con vessilli, e lo condussero nella città Leonina: ivi il Papa lietamente lo ricevette sui gradini del san Pietro, lo [270] mise dentro nella basilica, e, rinnegata fede a Lamberto, lo coronò imperatore[292]. Ignoto è il giorno in cui la coronazione avvenne, ma cader dovette nella seconda metà di Aprile dell’anno 896. Così il bastardo tedesco diventò imperatore romano, nè Formoso ottenne perdonanza di quest’opera sua, che urtava contro al sentimento di nazione[293]. Dopochè Arnolfo ebbe dato assetto a quelle molte cose che concernevano l’Impero [271] e la Città, e dopochè ebbe probabilmente conchiuso un patto col Papa, ricevè nel san Paolo anche la protesta di omaggio del popolo romano. Il giuramento fu prestato così: «Per tutti questi misteri di Dio, giuro, che, salvo l’onor mio, salve la mia legge e la mia fedeltà verso il signore e papa Formoso, per tutti i giorni della mia vita sono e sarò fedele ad Arnolfo imperatore; non mi associerò mai con uomo alcuno per romper fede a lui; non presterò mai ajuto a Lamberto figlio di Agildrude, o a sua madre, affinchè conseguano dignità temporale; nè con astuzie od argomento qualsiasi darò mai questa città di Roma in balìa di esso Lamberto, o di sua madre Agildrude, o di loro genti[294]».
La parte spoletina non aveva opposto energica resistenza al vincitore; del sepolcro di Adriano, che poco tempo dopo fu pure un forte castello, non è fatta parola, sebbene dubitar non si possa che Agildrude vi avesse messo un presidio. Tosto dopo la presa di Roma, la vedova di Guido imperatore era tornata colle soldatesche nella sua terra[295], ed i Romani, alleati con lei, avevano deposto le armi. Pertanto l’ira di Arnolfo avrà potuto presto acquetarsi, in pensando quanto lieve fatica gli avea costato la presa di Roma su cui nemmanco possedeva diritti; tuttavia può darsi che nella Città alcune teste cadessero sotto la mannaia del carnefice; e due illustri romani, Costantino e Stefano, quali rei di maestà, furono tratti in esilio in Baviera. Quindici [272] soli giorni rimase Arnolfo in Roma; vi lasciò da prevosto della Città il suo vassallo Faroldo, cui avrà affidato un nerbo sufficiente di milizie; dipoi mosse sopra Spoleto, dove l’amazzone Agildrude s’era apprestata a difesa. Però, una infermità di paralisi lo coglieva per via, nè tanto era conseguenza di veleno che gli propinasse la nemica sua, quanto di quello che egli, dedito a stravizzi e a lascivie, aveva succhiato fra le braccia delle sue amanze. La splendida vittoria riportata da lui su Italia e su Roma destò meraviglia quasi minore del suo ritorno precipitoso a Germania, che parve d’uom che fuggisse; e la prima impresa guerriera che un Re tedesco facesse su Roma, triste presagio de’ tempi venturi, non lasciò dietro a sè alcun sostanziale risultamento.
Sia che perisse di infermità, oppure di veleno, morte liberò, in quello stesso tempo, papa Formoso dai pericoli in cui lo avrebbero precipitato la lontananza del suo proteggitore tedesco e la subita mutazione che ne conseguivano le cose, per via di un trattato che si conchiudeva fra Lamberto e Berengario. Formoso trapassava di vita nel Maggio dell’anno 896, dopo un reggimento di quattro anni, di sei mesi e di due giorni[296]. Nessun monumento serba ricordanza di questo Pontefice degno di nota, ma la Città gli andò debitrice della [273] restaurazione fondamentale del san Pietro e dei suoi musaici, e dell’adornamento di parecchie altre chiese[297].
La morte di Formoso fu in Roma segnacolo di tumulti lunghi. La fazione tusca e quella spoletina s’impadroniscono adesso di tutti i poteri; la cattedra di Pietro diventa oggetto di ruba dei maggiorenti, e con rapidissima successione la occupano Papi che, appena sorti, piombano, cadaveri sanguinosi, nelle loro tombe. Il Papato, che sotto di Nicolò e di Adriano ed ancora a’ giorni di Giovanni VIII, si era innalzato a tanta grandezza d’intenti, cade in ruina nel mezzo della dissoluzione universale di tutte le cose politiche. Sullo Stato temporale della Chiesa, migliaja di predoni s’impongono da padroni, e financo la podestà spirituale del Papa presto non è dappiù che un titolo senza valore. Un buio che mette ribrezzo involge tutta Roma, ed appena è se lo rischiari una debile luce che, tratto [274] tratto, dalle Croniche antiche si diffonde su questo periodo spaventoso: in verità è uno spettacolo orrendo, in mezzo al quale compaiono in vista Baroni, cui è ragion la violenza, che si danno nome di consoli o di senatori; compaiono Papi d’animo brutale o sventurati che escono del grembo di quei signorazzi, donne belle e feroci e lascive, larve d’Imperatori che vengono, pugnano e vanno; e tutte queste persone e i loro fatti passano innanzi allo sguardo colla rapidità di un vorticoso tumulto.
I Romani ponevano a forza sulla sedia di Pietro Bonifacio VI: non trascorrevano che quindici giorni, ed ei moriva[298]. I maggiorenti della parte spoletina, ossia nazionale, elevavano allora alla cattedra papale Stefano VI, figlio di Giovanni prete romano. Quantunque dapprincipio questo nuovo Pontefice riverisse Arnolfo perchè ne aveva paura, se ne discostò tosto che, partito lui d’Italia, Lamberto entrò nuovamente in Pavia. Incorato dagli acerbi nemici di Formoso, fra i quali era egli pure, tenuto fra le mani dei Lambertini che dominavano su di Roma, ispirato dal truce fanatismo degli odî partigiani, i quali avevano tutta l’indole di una vera demenza furibonda, Stefano bruttò la storia del Papato con un fatto di barbarie inaudito sì, che nessuna età ebbe mai visto l’eguale.
Fu bandito un giudizio solenne contro a Formoso: [275] il morto fu citato a comparire in persona innanzi al tribunale di un Sinodo. Era il Febbraio od il Marzo dell’anno 897, in quello che anche Lamberto imperatore era venuto con sua madre a Roma, dove già comandava da padrone. I Cardinali, i Vescovi e molti altri dignitarî del clero si congregarono in sinedrio. Il cadavere del Papa, strappato alla tomba in cui riposava da otto mesi, fu vestito dei paludamenti pontificî, e deposto sopra un trono nella sala del Concilio. L’avvocato di papa Stefano si alzò, si volse verso quella mummia orribile al cui fianco sedeva un Diacono tremante che doveva fargli da difensore, propose le accuse; e il Papa vivente con furore insano chiese al morto: «Perchè, uomo ambizioso, hai tu usurpato la cattedra apostolica di Roma, tu che eri già vescovo di Porto?» L’avvocato di Formoso parlò in suo patrocinio, seppure il terrore non gli fe’ intoppo alla lingua; il morto restò convinto e fu giudicato; il Sinodo sottoscrisse il decreto di deposizione, pronunciò sentenza di condanna, e deliberò che tutti quelli i quali da Formoso avevano ricevuto ordinazione ordinarsi dovessero nuovamente.
Se il cadavere del Vicario di Cristo si fosse di repente rizzato in piedi e avesse risposto alle accuse che gli erano scagliate, coloro che nel Sinodo tenevano scranna di giudici, colti da terrore mortale sarebbero fuggiti, e alcuni di quei temerarî profanatori di sepolcri ne sarebbero stramazzati al suolo per lo spavento; ma la mummia sedeva immobile, tutto chiusa nel suo silenzio. Le strapparono di dosso i vestimenti pontificî, le recisero le tre dita della mano destra colle quali i [276] Latini sogliono benedire, e con grida barbariche gettarono il cadavere fuor dell’aula: lo si strascinò per le vie, e, fra le urla della plebaglia, lo si buttò nel Tevere[299]. Non un fulmine del cielo, che pur sì spesso e sì di buon grado aveva svelato prodigî a tornaconto dei Papi, scoppiò su questo «Sinodo del terrore», nessun martire s’alzò irritato dal suo avello; però il caso, che spesso fa le veci della provvidenza, e mostra segni e portenti allorchè i Santi se ne stanno muti, volle che tosto dopo crollasse la basilica del Laterano, debole per vecchiezza. Papa Stefano, che dimorava lì presso nelle case patriarcali, avrà trasalito ne’ suoi truci pensieri, adendo il rovinìo del tempio; e la caduta della chiesa maggiore e madre della Cristianità potrà essergli stato presagio del precipizio che aspettava il Papato stesso [277] e del giudizio che gli pendeva sul capo[300]. Le onde travolsero il cadavere di Formoso; alcuni pescatori del Tevere lo rinvennero quando Stefano non viveva più; gli avanzi di quell’uomo, che non aveva trovato mai requie in vita nè in morte, furono riposti nuovamente nel suo sepolcro in san Pietro; e vecchi e donne pie narrarono, che le imagini dei Santi, collocate nella cappella in cui si trasportavano le reliquie di lui, chinassero reverenti la fronte innanzi al morto sventurato[301].
Vorremmo torcer lo sguardo da questo spettacolo di delitto, e ritemprare l’animo alla similitudine per cui il Cardinal Baronio dice, che alla Chiesa non ne potè venir macchia o vergogna, avvegnaddio essa sia pari al sole, la cui faccia talvolta si vela di nubi, per rifulgere poi di splendore più vivo: ma lo Storico che rifugge dalle similitudini, trova in quel Sinodo un documento delle condizioni morali di quell’età. Ben egli può affermarne che Papi, clero, nobili e popolo di Roma erano allora immersi in una barbarie di cui imaginar non si può la più orrenda: l’odio feroce dei Romani [278] condannati da Formoso, il livore di un Sergio, di un Benedetto, di un Marino (erano cardinali preti), di un Leone, di un Pasquale, di un Giovanni (cardinali diaconi, chè così specialmente li denota il posteriore Concilio di Giovanni IX), la sete rabbiosa di vendetta della parte nazionale infellonita di furore, perciocchè Formoso disertandola avesse coronato Arnolfo primo imperatore tedesco, le relazioni politiche di Stefano VI, che, premuto da Lamberto, lo blandiva; tutte queste circostanze di cose avevano dato occasione al misfatto. L’orribile inquisizione toglieva qualche fondamento giuridico dalla legge dei canoni; ricorreva all’antica condanna di Formoso vescovo, alla infrazione del suo giuramento, da cui ad ogni modo Marino I lo aveva sciolto con rito solenne, finalmente alla esaltazione di lui, vescovo, al Pontificato. Decreti di Concilî antichi avevano proibito ai Vescovi di trasferirsi da una città ad un’altra, ma altri decreti avevano protestato, questo esser lecito allorchè lo esigesse necessità delle cose; e il Sinodo congregato da Giovanni IX nell’anno 898, si decideva in tai sensi per riguardo a Formoso, quantunque aggiungesse, non doversi torre a imitazione quell’esempio che non s’acconciava ai canoni[302].
Formoso, il cui corpo sofferse dopo morte il martirio che in vita gli avevano risparmiato i Bulgari, trovò peraltro, anche a quell’età, dei difensori in alcuni [279] uomini cui la iniquità metteva a indignazione: massimamente furono preti consecrati da lui, i quali protestarono contro il Sinodo che aveva dichiarato invalide le loro ordinazioni. Ausilio compilava una scrittura in cui vestiva di gloria lo infelice Papa; un altro sacerdote, sconosciuto di nome, scagliava contro a Roma un’invettiva focosa, nella quale rigettava a condanna dell’intiera Città ciò che era colpa dei Romani, e con grande ira rammemorava che eglino avevano sempre trucidato i loro benefattori: Romolo e Remo, fondatori della Città, erano caduti l’uno sotto la mano del fratello, l’altro sotto il ferro dei ribelli sul Quirinale; e di Pietro e di Paolo (assai bene avrebbe egli potuto appellarli fondatori secondi di Roma, e forse gliene librava in mente l’idea) diceva che l’uno era stato crocifisso, l’altro decapitato: del paro, la Città avea sbrigliato le ire sue contro a Formoso, santo, giusto e cattolico uomo[303].
Frattanto, il destino coglieva Stefano nell’autunno di quello stesso anno 897. Il suo delitto commoveva ad agitazione gli amici di Formoso e tutti i Romani che nutrivano sentimenti generosi; la fazione tedesca, che era in Roma, prese fiato; il popolo si sollevò; [280] il Papa colpevole fu preso, gittato in un carcere ed ivi strozzato. Però, Sergio, amico suo ed avversario acerbo di Formoso, allorchè, pochi anni appresso, salì alla cattedra apostolica, gli innalzò un mausoleo nel san Pietro, e la inscrizione, che tuttavia suona ad infamia di Formoso, annuncia i casi della sua caduta e della sua morte[304].
[281]
Nel mese di Settembre o in quello di Ottobre dell’anno 897, a Stefano succedeva Romano, uomo di incerta stirpe, che moriva quattro soli mesi dopo. Ed anche il suo successore, Teodoro II, che vien detto romano e figlio di Fozio (egli aveva pertanto origine di Grecia), non resse la tiara che venti soli giorni[305]. Pareva che l’aere ammorbato dal cadavere profanato nel Sinodo pesasse gravemente sopra queste persone che passano rapide e fuggenti; pareva che lo spirito irato di Formoso si rizzasse su loro, e, abbrancatele, tosto le cacciasse giù a capo fitto nei loro avelli. Fra [282] i pochi fatti che si narrano di Teodoro, gli reca onore la cura ch’ei diede a seppellire nel san Pietro il cadavere di quel Papa[306]. Laonde è, che con Teodoro il potere era tornato in mano della fazione avversa a Stefano; per vero gli aristocratici dell’altro partito tentavano, morto il Papa, di strapparlo a sè nuovamente, ma non vi riuscivano. Forse, fin d’allora, ajutati da Adalberto margravio di Tuscia, cercavano di coronare papa il potente cardinale Sergio, ma prevaleva la parte di Formoso, e il Cardinale, cacciato della Città coi suoi aderenti, si ricoverava di nuovo nel suo esilio in Toscana[307].
[283]
In mezzo a condizioni nefaste di cose, delle quali non ci giunse novella, Giovanni IX fu ordinato papa nella primavera o nella estate dell’anno 898. Era figlio di un uomo di origine germanica, di Rampoaldo di Tibur; era benedettino e cardinale diacono. Nel suo reggimento, che durò due anni e pochi giorni, questo Papa diede prova di animo temprato a moderazione e di intelletto. Il mutismo profondo in cui adesso incomincia a chiudersi la storia della Città, è interrotto soltanto dalla notizia di due dei suoi Concilî, onde ci furono conservati gli Atti importanti. Sebbene Teodoro e Romano avessero pur avuto desiderio di farlo, la brevità del loro governo aveva impedito a quei Pontefici di purgare la Chiesa dal vitupero che le aveva inflitto il Sinodo «del cadavere»; ma Giovanni IX, che era stato ordinato prete da Formoso, congregava adesso un Concilio. Innanzi a questo furono citati i Vescovi e i Preti che avevano sottoscritto i decreti sinodali di Stefano; protestarono eglino, vero fosse o falso, che le sottoscrizioni erano state ad essi carpite da quei furibondi; si prostrarono ai piedi del Papa, e lo invocarono a pietà. Furono perdonati; ma i profanatori del sepolcro, i Sergiani (stavano eglino in arme nella Toscana, e da fuorusciti spiavano l’opportunità di scagliarsi su Roma), furono ancora una volta maledetti con rito solenne. Condannati furono gli Atti del Sinodo «del cadavere», e (lo si legge con meraviglia) si reputò necessario di vietare che nell’avvenire si istituisse giudizio contro ad un morto[308]. La [284] memoria di Formoso fu splendidamente restituita ad onoranza; si confermò la sua elezione a pontefice; le sue ordinazioni furono sancite come valide.
Il decimo canone del Concilio statuì che la consecrazione di ogni Papa nuovamente eletto dovesse nello avvenire farsi soltanto allora che fossero presenti i legati imperiali. Di qui si pare che i tumulti sanguinosi avvenuti duranti le elezioni di Giovanni e dei suoi predecessori, chiedevano che una tale concessione si facesse alla podestà imperiale, divenuta ombra vana. Oltracciò, i rapporti di amicizia che avvincevano Giovanni IX e Lamberto influivano per loro parte a promuovere siffatta decretazione[309]. Infatti, lo stato di Roma costringeva [285] Giovanni ad attaccarsi con ambe le mani all’Impero; ei tentava di restaurarne la potenza, perocchè prevedesse che, senza di quello, il Papato sarebbe perito: e orribili per verità dovevano essere le condizioni delle cose, se strappavano al Papa un simigliante decreto. Il giovine Lamberto imperatore, dopo la partenza di Arnolfo, dominava in Italia senza contrarietà di sorta; sicuro del suo emulo Berengario, ei sperava adesso di impadronirsi con tutta quiete dell’Impero. Giovanni intendeva seriamente di dargli sostegno a quest’uopo; nello istesso Sinodo lo confermava a imperatore, adulava a lui ed anche agli Italiani, protestando che la consecrazione data da Formoso al «barbaro» Arnolfo, era stata un atto surrettizio ed imposto, e che si doveva tenere come nulla[310]. Giovanni non volgeva più lo sguardo a Germania, dove Arnolfo imperatore languiva sul suo letto di morte; non a Francia, dove universale era la confusione delle cose; a lui, come agli Italiani, Lamberto, giovane, magnifico, prode, sembrava essere il solo uomo che desse guarentia di uno Stato bene ordinato.
In questo stesso anno 898 Giovanni IX e Lamberto si videro in Ravenna; e colà il Papa, in presenza dell’Imperatore, tenne un Sinodo di settantaquattro Vescovi italiani, che fu notevole per alcune costituzioni [286] promulgatevi in riguardo della podestà che su di Roma spettava all’Imperatore. Vi fu ordinato che nessun Romano, appartenesse egli al clero od al senato od a qualunque altro ceto, potesse essere impedito di «proclamare» alla maestà dell’Imperatore, o di andare a lui in persona per ottenervi giustizia; coloro i quali gliene avessero opposto ostacolo e perciò lo avessero danneggiato nei suoi beni, sarebbero incorsi sotto giudizio dell’Imperatore[311]. Così volevasi dunque restaurare il tribunale imperiale a protezione dei deboli contro le oltracotanze dei grandi; e può accogliersi con buon fondamento che l’Imperatore mandasse a Roma novellamente il suo Missus. Parimenti fu rinnovato colla Chiesa il patto già conchiuso con essa da Guido; si dette confermazione al possedimento dello Stato della Chiesa ed ai diritti di supremazia del Papa sui suoi territorî e su di Roma. Prometteva Lamberto di restituire i patrimonî appresi contro diritto; accordava altresì al Papa la sua protezione contro ai Romani banditi, in quello che protestava di voler impedire i loro conventicoli rivoluzionarî con Longobardi o con Toscani, nel territorio di Toscana e in quello della Chiesa[312]. Nello stesso Sinodo dolevasi il Papa della desolazione senza fine che affliggeva le province, delle quali coi suoi stessi occhi aveva veduto le miserie nel corso del suo viaggio a Ravenna; deplorava [287] la caduta della basilica Lateranense; si lagnava che le sue genti spedite a procacciare travi necessarie alla riedificazione, ne fossero state impedite dai ribelli; pregava l’Imperatore di soccorso; rimpiangeva che i redditi della Chiesa fossero esauriti, che non ne fosse rimasto pur tanto che bastasse a pagare lo stipendio dei cherici e dei famigli della corte pontificia, od a largire elemosine ai poverelli. Così al basso, in soli quarant’anni, era dunque caduto lo Stato romano; sì poco tempo era trascorso dacchè i Papi avevano cavato milioni dai loro scrigni per edificare nuove città, cui eglino, parimenti come Pompeo o Trajano, avevano imposto i loro nomi.
Leale era il sentimento col quale Lamberto aveva fatto pace con Roma, nè meno lealmente il Papa aveva cercato di raffermar lui nell’Impero: ed è con vivo compiacimento che noi consideriamo gli sforzi che quei due uomini, seguendo un indirizzo nazionale, rivolsero a mettere un po’ di ordine nel caos d’Italia, per liberarla da tutte le influenze del di fuori, e per foggiare, la prima volta, un Impero autonomo entro ai confini delle terre italiche. Il lieto periodo di pace onde fruiva lo sventurato paese, sembrava offrire malleveria di un bello avvenire, e gli spiriti giovanili dell’Imperatore davano alimento ad ardite speranze. Ma, tutto ad un tratto, un avvenimento sventurato dissipava questo sogno di felicità, e il secolo di ferro o barbarico, come può appellarsi il millennio della Cristianità, picchiava colla sua mano inesorabile alle porte di Roma.
Partito di Ravenna, Lamberto era ito sull’alto Po, nelle pianure di Marengo, ossia Marincus, che a quel [288] tempo era tutto coperto di boscaglie, fra le quali il giovine Principe soleva dilettarsi a cacciare. Una caduta che ei vi faceva di cavallo, schiacciava d’un sol colpo le speranze d’Italia. Il giovine degno di rimpianto, il più bello e generoso cavaliere della sua età, spirava l’anima sopra quel campo che, novecento anni dopo, diventò tanto celebre per la grande battaglia che in esso fu combattuta. Voci si sparsero le quali accusavano della sua fine Ugo, figlio di Maginfredo conte di Milano, che Lamberto aveva mandato al supplizio estremo[313].
Quella subita morte cambiò in Italia la faccia delle cose. Berengario in gran furia corse di Verona a Pavia per impadronirsi del Regno italico: ed un tratto gli sorrise anche la sorte, chè molti maggiorenti e Vescovi gli prestarono reverenza, e, nel Novembre dell’anno 899, la morte dell’imperatore Arnolfo lo liberò dalla temenza delle pretese, suffulte d’armi, che andavano alzando i Tedeschi. Però, quantunque ei fosse certo dell’amicizia di Adalberto di Tuscia, quantunque l’afflitta vedova di Guido e madre di Lamberto avesse conchiuso con lui un [289] trattato, quel Principe non potè toccare la meta che vagheggiava. Guido e Lamberto erano prestamente giunti a porsi in capo la corona imperiale, prestamente la avevano perduta insieme colla vita, eppure Berengario, ad onta di fatiche grandi e di anni lunghi, non riuscì ad afferrarla; neppure come a re d’Italia, e in mezzo a circostanze di cose tanto favorevoli, dappoi che s’aveva estinto il titolo ond’erano stati investiti Lamberto e Arnolfo, non gli fu dato di torsi da Roma quel serto fatale. Questo fatto sorprendente riesce a dimostrare che, omai nell’anno 899, gli Ungheri movevano il loro primo assalimento contro all’Italia superiore, e che, nell’anno stesso, Lodovico di Provenza erigevasi da pretendente all’Impero.
Sembrò che alla fine del secolo desse segno la morte del giovane Lamberto, similmente a meteora sanguinosa, nuncia dei mali che si venivano avvicinando. Infatti, in questo tempo, le terribili orde degli Ungheri irrompevano dalle loro terre di Pannonia e rinnovellavano i tempi di Attila; trucidando e devastando, si spingevano, nell’Agosto dell’anno 899, sull’alta Italia, e sotto i colpi dei loro dardi cadeva sul Brenta, addì 24 di Settembre, l’esercito del prode, ma sventurato Berengario. Le conseguenze di questa disfatta gravarono orribilmente le spalle ad Italia[314]. Lo scellerato giuoco dell’arte [290] politica italiana, che chiamava nella disunita contrada or Tedeschi, or Francesi, sempre stranieri e sempre conquistatori, diventò adesso continuo; la bellissima delle terre d’Europa, Lombardia, fu d’ora in poi il grande campo delle battaglie della storia, sopra il quale le nazioni romanesche e germaniche combatterono, e tuttavia combattono, per il possedimento d’Italia, Elena nuova. Gli amici del morto Lamberto (grande ne era il numero anche in Roma), i nemici di Berengario, fra i quali primeggiava Alberto di Tuscia, s’inframmettevano in mezzo a Berengario stesso e alla corona imperiale, e gettavano il loro sguardo sul giovane Re di Provenza, nato di Bosone e di Irmengarda, la quale era figlia di Lodovico II. Il nipote di un celebre Imperatore della stirpe dei Carolingi poteva far valere dei diritti apparenti di legittimità, e poteva contare sopra una grande aderenza di Conti e di Vescovi, i quali miravano con invidia che ad un uomo del paese toccasse la corona. Lodovico discese nell’anno 900, dopochè la sanguinosa sconfitta subita da Berengario sul Brenta, aveva sgomberato dal suo sentiero i massimi impedimenti[315].
[291]
Incerto è se ve lo chiamasse anche Giovanni IX: ad ogni modo, l’accoglimento amichevole che il Principe s’ebbe in Roma sotto del successore del Pontefice, dimostra quanto prestamente ei guadagnasse alla sua parte i Romani, i quali ancora ricordavano che, tempo addietro, Bosone padre suo aveva dato asilo a Giovanni VIII, e che questo Papa lo aveva elevato a re d’Italia, contrapponendolo a Berengario e ad Arnolfo. Però, a questi avvenimenti Giovanni IX non sopravvisse; nel Luglio dell’anno 900 morì, gemendo sulla ruina di tutte le sue generose speranze: egli pose fine al secolo di Carlo il grande, ed aperse il secolo del mille, che, in mezzo a orribili martorî di Roma, doveva educare l’imperio romano della nazione tedesca. Non v’ha in Roma alcun monumento che conservi ricordanza di Giovanni IX[316].
[293]
[295]
Sul finire del secolo nono abbiamo veduto crollare l’Impero franco-romano, e con esso il Papato; il secolo decimo ci mostrerà lo spettacolo di una ruina spaventosa ancor più. In mezzo alla confusione senza limite delle cose d’Italia, ed innanzi al dubbio chiarore delle più scarse notizie, noi vi mireremo la Roma del medio evo desolata e tetra, come se a illuminarla vi battesse sopra il raggio di una luna colorata di sangue: epoca sommamente memoranda, la quale si chiude con un pallido albore di civiltà, dopo che la nazione tedesca ha restaurato l’Impero. Laddove, ancora nel secolo nono, la storia interiore della Città fu, nell’essenza, assorbita da quella dei Pontefici e degli Imperatori, nel secolo decimo invece, per la prima volta nel medio evo, vedremo, ad onta della densa tenebra dei tempi, sorgerci davanti i Romani con figure di rilievo più definito; chè la storia del Senato del medio evo, ossia della nobiltà di Roma, incomincia, [296] colla caduta dell’Impero carolingio e della podestà pontificia, a muoversi nell’orbita di una sua propria autonomia.
Mentre, al settentrione, due Principi pugnavano per disputarsi il possedimento d’Italia, Roma risonava dello strepito romoroso delle fazioni. Non v’era più un braccio imperiale che le infrenasse, e i Papi, l’un dopo l’altro, salivano tumultuariamente alla sedia di Pietro, per esserne strascinati abbasso in brevissima ora. Benedetto IV romano, figliuolo di Mammolo, otteneva la tiara nel Maggio o nel Giugno dell’anno 900. Il suo breve reggimento fu segnalato soltanto dalla coronazione di quel Lodovico di Provenza che gli Italiani avevano chiamato nella loro contrada; il figlio di Bosone ricevette in Roma la corona, nei primi giorni di Febbrajo dell’anno 901[317]. Alcuni Diplomi promulgati da lui dimostrano che egli vi esercitò veramente diritti imperatorî; e massimamente ci fu conservato un Placito romano del dì 4 di Febbrajo 901, in cui sono registrati i nomi dei più illustri ottimati romani, in qualità di giudici di Lodovico. Appellavansi: Stefano, Teofilatto, Gregorio, Graziano, Adriano, Teodoro, Leone, Crescenzio, Benedetto, Giovanni e Anastasio; sono detti Judices della città di Roma, e tutti, senza dubbio, erano [297] fregiati del titolo di Consules e di Duces[318]. Parecchie volte ci avverrà di trovare nuovamente questi uomini stessi, o i loro discendenti; e giova notare che fra quei loro nomi, non uno se ne trova che abbia suono germanico.
Benedetto IV, uomo di animo mite e di pietà sacerdotale, come lo appella Flodoardo, moriva prestamente, nell’estate dell’anno 903, ed allora Leone V, nativo di Ardea, saliva alla cattedra santa[319]: però non s’andava più in là d’un mese, che Cristoforo cardinale ne lo sbalzava. Ma neppur questo intruso sfuggiva ad egual sorte, chè, pochi mesi dopo, Sergio lo chiudeva in un convento, dove spariva dalla scena del mondo[320]. In soli otto anni erano dunque [298] saliti al trono, e n’erano caduti, ben otto Papi, indizio manifesto degli orrori onde le guerre di fazioni funestavano Roma; sennonchè, poco a poco, da questo caos andavano emergendo alcune famiglie, e finalmente ad una di esse riusciva di impadronirsi del potere.
A questa casa apparteneva Sergio, figliuolo di Benedetto. Il suo ripetuto esaltamento dinota l’epoca della tirannide nobiliare, che gravò decisamente su di Roma all’incominciamento del secolo decimo. Vedemmo già questo ambizioso Cardinale combattere Giovanni IX, lo mirammo indi, nell’898, cacciato in esilio, rimanervi sette anni, sempre cogli occhi cupidamente torti al trono pontificio; alla fine gli veniva fatto di insignorirsene. Sebbene Flodoardo o l’inscrizione funeraria di Sergio dichiarino, che le instanze del popolo lo ebbero tratto dall’esilio alla cattedra di san Pietro, ciò potè avvenire soltanto dopo che furono debellati i suoi nemici, cacciati od uccisi i Cardinali a lui avversi, e dappoi che a forza di terrore s’ebbe conseguita nel popolo concordia[321]. Le soldatesche del potente Adalberto [299] di Tuscia lo avrebbero condotto a Roma; di ciò peraltro non si ha certezza; poichè l’influenza toscana adesso scompare, e poichè Sergio si mantenne sette anni nel pontificato, vuol dire che la fazione dei nobili allora dominanti, ed alla quale egli apparteneva, aveva già disfatto i partiti nemici. E Sergio si conservò sul trono per ciò che, dal più o dal meno, egli affidò alle mani della sua fazione il reggimento della Città. Capo di quella aristocrazia romana era allora Teofilatto; e la potente moglie di lui, Teodora, era amica e proteggitrice di Sergio.
Sergio III diventò papa nel mese di Gennaio dell’anno 904[322]. Tosto ei pronunciò novella condanna sul morto Formoso, dichiarò essere invalide tutte le ordinazioni avvenute per opera di quel Pontefice, e, seppur non li fe’ uccidere, fe’ che nei tormenti del carcere morissero Leone e Cristoforo che lo avevano preceduto sulla cattedra pontificia[323]. Quest’uomo operoso nella violenza, che visse sette anni nell’esilio e sette nel papato, che si lasciò dietro alle spalle il cadavere vituperato di Formoso e gli spettri sanguinosi di alcuni Pontefici, che regnò in mezzo a condizioni di cose le quali cingono Roma di un mistero impenetrabile, quest’uomo ci fa deplorare la oscurità in cui quel periodo di tempo [300] sarà sempre sepolto. Gli Scrittori ecclesiastici, il Baronio sopra tutti, hanno imprecato alla memoria di lui come a quella di un mostro; la parte ch’egli ebbe all’inquisizione contro a Formoso, la violenza onde si levò al pontificato, i legami d’amore colla romana Marozia, figlia di Teodora, che a lui attribuì lo storico Liudprando, danno ragione a siffatta sentenza. Forse essa potrebbe essere più mite se ci venisse in chiaro lo stato di quell’età; e poichè Sergio durò papa sette anni in mezzo alle orrende procelle di quel tempo, egli ha, se non altro, il diritto di parerci animo dotato di gagliarda energia: virtù apostoliche, d’altronde, in lui non andiamo cercando. Gli è con grande curiosità che leggiamo alcuni de’ suoi documenti: con una Bolla dell’anno 906, egli donava alcuni fondi del patrimonio toscano al Vescovato di Silva Candida, dove i Saraceni avevano fatto sterminio di quasi tutti gli abitatori. Un’altra Bolla costituisce molti terreni in dote ad Eufemia, abbadessa del convento Corsarum, perocchè i Saraceni avessero recato ruina anche al possedimento di questo convento. Un uomo, quale era Sergio, doveva credere di aver davvero bisogno delle orazioni delle monache, dal momento che loro ordinava di cantare, ogni giorno, cento «Kyrie Eleison», a beneficio dell’anima sua[324].
[301]
Se possedessimo i Regesti di quella età, noi vi leggeremmo che Sergio III restaurò parecchie chiese di Roma che erano cadute. Abbiamo documenti della riedificazione del Laterano cui egli diede opera. La veneranda chiesa di Costantino era crollata nell’anno 896; i tumulti di Roma avevano impedito a Giovanni IX di rinnovarla. Durante questo orrendo periodo di tempo, per ben sette anni aveva ingombrato, cumulo di ruine, il suolo, e i Romani entro a quelle erano iti frugacchiando per rubarne gli splendidi doni votivi. Opere preziose dell’antichissima arte cristiana, e robe financo che erano state donativi di Costantino, e di cui il Laterano sopra tutte le chiese si gloriava, trovarono allora fine, e può darsi che a quel tempo anche la croce d’oro di Belisario si trafugasse[325]. Il popolo romano non poteva tollerare la rovina del suo tempio santissimo: sebbene, dopo la coronazione di Carlo, il duomo di san Pietro fosse diventato il centro di tutte le attenenze di Roma col mondo politico e dommatico (perocchè ivi fossero stati anche celebrati nella massima parte i Concilî), la basilica Lateranense era pur sempre il sacrario delle reliquie, l’imagine vera di Gerusalemme, la Sionne [302] romana, la chiesa massima e madre di tutta la Cristianità; era consecrata al Salvatore, e illustre per la ricordanza di Costantino. La calma in cui era venuta la Città sotto il reggimento di Sergio e della sua fazione, dominanti col terrore, concedeva al Papa di restaurare la basilica; e quel grande «delinquente», in mezzo ad un’età nefasta, potè ornarsi della gloria di un edificio, che, poco a poco colmandosi di monumenti della storia, durò, monumento di lui, quasi quattrocento anni, finchè ebbe anch’esso distruzione da un incendio. E, per vero, come la caduta del Laterano, alla fine del secolo nono, fu annunciatrice e presagio dell’età più desolata di Roma, così l’incendio dell’anno 1308 coincidette col periodo Avignonese, in cui Roma precipitò in pari miseria.
Sergio edificò tutta a nuovo la basilica, vi fondò nuovi doni votivi, e noi con molta vaghezza torniamo a leggere gli antichi nomi artistici di ciborii, di croci e di crocifissi seminati di gemme, di candelabri a corona, di calici, di patene e di arazzi[326]. Più non si può completamente rilevare quale fosse la forma dell’edificio, e dacchè l’architettura era allora in decadimento, non può darsi che la basilica di Sergio per bellezza si illustrasse. Ei pare che si conservassero le fondamenta e le dimensioni antiche[327], ma può essere [303] che da Sergio derivasse l’atrio di dieci colonne e la partizione in cinque navate. Le colonne erano, quali di granito, quali di verde antico, e naturalmente provenivano da monumenti antichi. Sergio fece ornare la tribuna di musaici, ed è possibile cosa che fossero di gusto abbastanza barbarico: una lunga inscrizione celebrava ivi la sua edificazione, e versi simiglianti leggevansi altresì collocati sopra alla porta maggiore[328]. La basilica continuò ad aver titolo dal Salvatore, ma Sergio nella sua inscrizione dichiarò che la chiesa teneva come «patrono» suo san Giovanni (probabilmente il Battista), quale Costantino stesso aveva eletto: così il titolo del Salvatore principiò a scomparire anche da questa chiesa massima, e per Roma è cosa degna di nota. Pertanto il Laterano si eresse un’altra volta in piedi; al tempio novello, sorto da ruina così completa, crebbe la venerazione dei fedeli; e dal tempo di Sergio III in poi, per il corso di due secoli, quasi tutti i Pontefici non più in san Pietro, ma ivi dentro, si composero i loro sepolcri.
L’edificazione di una chiesa è il solo monumento [304] storico di quell’età, chè tutti gli altri avvenimenti sono involti nel buio. Lo sventurato Lodovico per verità s’appellava Imperatore, ma non era che un’ombra o un nome vano di senso, e, già fin dall’anno 905, la persona di lui era scomparsa dalla storia d’Italia. Berengario lo aveva assalito e fatto prigioniero in Verona, e, orbatolo degli occhi, lo aveva rimandato alla sua terra natia. Però, neppur Berengario era capace di torsi da Roma quella corona imperiale ch’era caduta a sì vil prezzo; nè tanto gli opponevano ostacolo i diritti legittimi del cieco Lodovico, quanto la confusione in cui erano involte le cose tutte del paese, le lotte continue contro agli Ungheri, e finalmente gli aristocratici di Roma che di Imperatori non volevano saperne più[329]. Ora, correndo l’anno 911, moriva Sergio III[330], ed aveva a succeditore Anastasio III, romano. Fittissima tenebra ricopre il pontificato di questo Papa (che durò più di due anni) e il reggimento (di poco più di sei mesi) che si ebbe Lando venuto dopo di lui: può essere che questi Pontefici abbiano finito con tragiche sorti. E dopochè Lando, figlio di un Raino, dovizioso conte longobardo della Sabina, passò di vita nella primavera dell’anno 914, un uomo degno di ricordanza salì alla cattedra di Pietro, [305] e la occupò per quattordici anni, con animo fornito di energia non comune[331].
Brutta fama in parte ravvolge la vita prima di Giovanni X; però dubbioso ne è il fondamento. Deriva quella dalle narrazioni del lombardo Liudprando, nato soltanto a’ tempi del pontificato di Giovanni; ma l’indole leggiera dello scrittore affievolisce la fede di parecchie delle sue notizie. Racconta egli che Pietro, arcivescovo di Ravenna, avesse soventi volte mandato a Roma Giovanni, prete suo, per trattare di negozî ecclesiastici, e che ivi il Ravennate fosse divenuto l’amante di un’illustre romana, per nome Teodora. Poco tempo dopo quel prete diventava vescovo di Bologna; indi, morto l’Arcivescovo di Ravenna, ascendeva alla cattedra di lui, finchè Teodora, assetata di voluttà, [306] lo chiamava dalla remota Ravenna a Roma, e lo faceva papa[332]. Secondo che narra la tradizione, Giovanni era nato nel castello Tauxinianum (Tossignano), in vicinanza di Imola; aveva però cominciato il corso della sua vita ecclesiastica a Bologna, dove quel vescovo Pietro lo aveva ordinato diacono; e con opere di violenza, così vien detto, gli succedeva nella dignità episcopale. Animo ambizioso e destramente accorto, giungeva, dopo la morte dell’arcivescovo Cailo, anche al seggio di Ravenna, e, prima di diventar papa, si manteneva in quello nove intieri anni, e non senza gloria[333]; indi, ad onta di ciò che statuiva il decreto conciliare di Giovanni IX, passava da una sede vescovile [307] alla cattedra di san Pietro. Ciò accadeva contro alla ragione dei canoni, ma non per questo gliene venne macchia; se poi egli veramente sia stato l’innamorato di una bella donna (e non è cosa appieno dimostrata) occorre pur dire, che non fu il solo dei Papi venuti prima e dopo di lui a godere di simiglianti fortune. La fazione nobiliare dominante allora su di Roma (ad essa apparteneva Teodora) chiamò al papato Giovanni che era uomo di robusta tempra d’animo, e, vinta la contrarietà del clero e della parte avversa, gli diè la corona. Ad una femmina potente, che era l’anima di un grande partito, Giovanni X andò debitore della sedia apostolica; però noi dobbiamo confessare che le circostanze più particolareggiate di quei fatti si celano agli occhi nostri dentro alla tenebra[334].
Teodora, bellissima della persona e ardita di spiriti, nata di una famiglia onde l’origine ci è ignota, s’eleva tutto a un tratto, Semiramide misteriosa, in mezzo all’oscurità di quel tempo, e, come dice Liudprando, domina la Città con autorità di monarca, non senza valore virile: ella ci costringe a studiare le ragioni onde una femmina, aprendosi una via quasi fuor delle ombre della notte, potesse giungere a tanta altezza di [308] potere. Sposo di lei era Teofilatto, console e duce, che apparteneva ad una delle più egregie stirpi di Roma; e nell’anno 901 ci fu dato d’incontrarlo, per la prima volta, annoverato tra i giudici romani di Lodovico III[335].
Il nome di lui, al paro di quello di Teodora moglie sua, si trova frequente in ogni luogo d’Italia dove i Greci dominavano o dominato avevano; ma non per questo deve indurci a credere che i suoi avi venissero di Grecia. Nomi bizantini, omai da secoli, s’erano fatti di gran costumanza in Roma, per modo che in Diplomi dei secolo decimo si rinvengono assai di sovente; i nomi di Dorotea, di Stefania, di Anastasia, di Teodora, compaiono spesso sì, come quelli di Teodoro, di Anastasio, di Demetrio, parimenti che gli altri di Sergio, di Stefano e di Costantino. Queste nominazioni non erano soltanto vibrazione dell’eco dei tempi bizantini, ma, nel secolo [309] decimo, erano conseguenza di una specie di risorgimento legittimista, una forma di moda che i ragguardevoli di Roma avevano adottata; fors’è che con esse la nobiltà cercava di opporre una protesta politica contro all’Impero germanico. In pari tempo, quei nomi danno una prova notevole che le idee di nazione erano ancora fra i Romani assai fiacche, avvegnachè non venga mai a galla, in mezzo a loro, il nome di uno Scipione, di un Cesare, di un Mario, nè quello di un Trajano o di un Ottaviano; e là dove trovi nomi di suono latino, sono tratti da quelli di Santi, segnatamente di Benedetto, di Leone e di Gregorio. Appena però che la Città verrà in balìa di un principe della nobiltà, tosto farà sua mostra anche il nome del primo Imperatore di Roma, di Ottaviano, come quello che si spetta al suo erede. Per la qual cosa noi reputiamo, che gli antenati del romano Teofilatto fossero di origine ravennati, e che venissero nella Città durante l’età bizantina di Roma[336].
Sull’incominciamento del secolo decimo, Teofilatto conseguiva un grandissimo potere. Sebbene nell’anno [310] 901 egli fosse numerato a mazzo cogli altri nobili, secondo nella loro serie, tuttavolta, negli ultimi tempi di Sergio III o dei fiacchi succeditori di questo Papa, egli doveva portare omai, a preferenza d’altri, il titolo di «Console o Senatore dei Romani.» Accanto a lui Teodora, sua donna, esercitava influenza onnipossente sopra il Papato e sulla città di Roma[337]. Nell’anno 915 il figliuolo di Teofilatto non era già appellato figlio di un console denotato per suo special nome, ma addirittura era detto «figlio del Console,» e, accosto al fratello del Papa, andava, sopra tutti gli altri Romani, distinto[338]. Ei ci è duopo tuttavia confessare che lo studio, pur laborioso, dei documenti, non ci concedette di giungere ad una conchiusione ben sicura e determinata sull’assetto in cui trovavasi il reggimento temporale di Roma a quell’età. Noi ripudiamo l’opinione che i Romani allora eleggessero dei consoli [311] annualmente, e li ponessero a capo del loro governo municipale, ma crediamo con buon fondamento, che, caduto l’Impero dei Carolingi, Roma subisse un mutamento nell’ordine interiore. Poco a poco il reggimento della Città era venuto in mano de’ laici (dei Judices de militia), ed i prelati (i Judices de clero) erano messi da banda. Scosso il giogo imperiale, e liberata dalla soggezione dei Missi, l’aristocrazia strappava al Pontefice franchigie ancor maggiori, in quello che essa sorgeva a prender parte al governo della Città e di tutte le cose prettamente politiche: sembrava che il Senato antico risorgesse adesso in questo baronato cittadino; il Patriziato, quell’idea tradizionale e importantissima di Roma temporale, sembrava tornare, dopo la caduta dell’Impero, in mano ai così detti «Consoli» di Roma divenuti potenti; e famiglie ambiziose s’adoperavano a conquistarsi podestà di Patricius, e a renderla ereditaria nelle loro case. Un «Consul Romanorum» era eletto dal gremio della nobiltà, siccome Princeps dell’aristocrazia, ed era confermato dal Papa; simile ad un Patricius, era posto a capo della giurisdizione e della amministrazione cittadina; ed oltre che del titolo di «Console dei Romani» sembra che questo capo della nobiltà si fregiasse fin d’allora anche di quello di Senator Romanorum[339]. [312] Teofilatto ci si presenta rivestito di tal qualità, e questa sua condizione ne spiega di per sè sola la potenza di Teodora, della Senatrix, com’ella si chiamava. La bella e valorosa donna del Senatore de’ Romani, era in pari tempo l’anima di quella grande famiglia di nobili e della sua clientela, e da ultimo trasfondeva nelle sue figliuole la propria potenza. Infatti, non molto andava che queste, Marozia e Teodora, più ancora di lei, coi loro vezzi avvincevano Romani e non Romani. Già di Sergio III s’era mormorato che lo allietasse l’amore di Marozia e che con lei procreasse quello che più tardi fu Giovanni XI; in progresso di tempo la bella romana introduceva nella famiglia di Teofilatto un audace uomo che sorse in quell’età a nuove fortune, e da cui le nacque un figliuolo, che fu primo principe secolare di Roma[340].
Fu quegli Alberico, uomo nuovo in Roma del paro che nella storia, avvegnachè, prima di lui, ivi non fosse visto mai alcuno che portasse un nome prettamente germanico come il suo[341]. Nulla sappiamo de’ suoi [313] padri che furono indubbiamente di gente longobarda, e di cui è possibile cosa che avessero loro case nelle terre di Spoleto, oppure nella Tuscia romana, e forse in Orta; però, nell’anno 889, Alberico fa sua comparsa sotto le bandiere di Guido, e se ne mostra prode vassallo, indi lo abbandona per cercar sua fortuna sotto il sole di Berengario che va sorgendo sull’orizzonte: la sua vita somiglia a quella degli arditi capitani di ventura dei tempi posteriori d’Italia, sì come fu a Milano dell’antenato degli Sforza. Alberico divenne margravio, forse di Camerino, e già nell’anno 897 teneva titolo di Marchio: se poi egli giungesse altresì al possedimento del ducato di Spoleto, dopochè s’avesse sgombrato dalla sua via l’ultimo erede della casa Spoletina, è incerta cosa[342]. Ad un uomo ardito che tendeva a sollevarsi [314] in alto luogo, niun’altra epoca poteva dare maggiori speranze di quelle che concedeva quest’età, in cui le fazioni italiche avevano origine, per eternare indi la loro peste in tutto il paese. Alberico, tutt’a un tratto, diventava il più potente vicino di Roma, e tosto si maneggiava negli affari della Città. Duranti i tumulti sanguinosi che portarono Sergio III alla cattedra di san Pietro, non si fa ancor cenno di lui, ma il pericoloso uomo di nuova potenza presto fu avvinto agli interessi della fazione di Teofilatto. Amore lo strinse alla bella Marozia, la sposò[343], e dobbiamo accogliere per vero che ciò avvenisse prima dell’anno 915: può darsi che Sergio III, o Giovanni X, combinasse quest’alleanza di famiglia, affinchè la dubbia fede del forte vicino si tramutasse in amicizia zelante[344].
Furono pertanto questi uomini, Teofilatto prima, [315] Alberico poi, che addussero un’epoca nuova nella storia di Roma, o furono piuttosto le donne di loro, destre di raggiri, le quali, per buon tratto di tempo, seppero ravvolgere Roma entro una cerchia fatata, disegnata dalla loro mano. Nella storia dei Papi, entro cui dovrebbero avere accoglimento soltanto femmine di pia santità, similmente come nel recinto di un convento o di un tempio, formano invece un contrasto alquanto strano le persone di donne maestre d’inganni e di lascivie. Perciò, questo arido e oscuro periodo di Roma fu significato con una frase appellativa assai aspra, che parecchi Scrittori, indotti da idea di frivola malignità, andarono massimamente aggravando; sennonchè la Chiesa romana di quella età parve vero «bordello» anche agli occhi dei Cattolici mossi a indignazione di cotali casi[345]. Il fatto incontestabile che, per una pezza di tempo, alcune femmine fossero dispensiere della corona pontificia e dominatrici di Roma, è cosa in verità inonorevole per i Romani di quel tempo; però, anzichè rilevare questo fenomeno coll’occhio munito di un microscopio morale, meglio si conviene allo Storico di rintracciarne le ragioni in una condizione di ordine sociale. Da sei secoli a questa parte la storia della Città non ci mise in aperto donna alcuna che colla sua [316] persona si levasse sopra dell’altezza comune; dopo di Placidia e di Eudossia, una sola figura di donna vedemmo risplendere, e questa fu di nazione gota, Amalasunta, e neppur visse in Roma: qui mirammo primeggiare soltanto qualche santa monacella; tali furono le amiche di Girolamo, o Scolastica, sorella di Benedetto. Nei secoli settimo, ottavo e nono veruna femmina sovrasta in Roma alle altre, oppur tien luogo meritevole di nota, per fuggevole che sia; nè ciò desta meraviglia di sorte, perocchè Roma fosse fatta città prettamente di Chiesa. Poichè adesso, sul principio del secolo decimo, emergono tutt’a un tratto donne illustri per bellezza, per potenza e per fortune di vita, se ne rivela uno stato di cose che fra’ Romani era tutto mutato da quello d’un dì; e propriamente si discopre essersi affraliti gli elementi ecclesiastici, preponderare la società laicale. Non occorre di ricordare quanto luogo avessero avuto le donne nella bigotta e licenziosa corte dei Carolingi, chè ci stanno ancor vivi innanzi agli occhi i casi della vita di Gualdrada. In questo periodo di dissolvimento universale degli ordini politici ed ecclesiastici, il feudalismo, mentre creava una duplice aristocrazia possidente, diffondeva la più brutale licenza in ogni cerchia della vita sociale. Tutte le passioni si sguinzagliavano, perocchè lo spirito morale della Chiesa non le frenasse più: alla splendida vittoria che Nicolò I, in nome della legge morale e cristiana, aveva conseguito combattendo le voglie sfacciate di un Re, il mondo rispondeva con una emancipazione della carne che non voleva saperne di briglia; e vi si associavano i preti e financo i frati, [317] senza che pudore li rattenesse[346]. L’istesso stato di decadimento si manifestava a Roma e nei patrimonî, dappertutto ov’erano ricchi ottimati, laici o cherici, in balìa dei quali era caduto il Papato. Da siffatte condizioni di cose, in un’età di frivolo ribollimento dei sensi, e di parteggiari che non conoscevano legge o coscienza, quelle donne romane si elevavano a grande possanza, poichè voleva così la natura degli avvenimenti; nè sole erano, chè in pari tempo altre leggiadre femmine vedremo dominare in Italia a capo di fazioni. Una Teodora o una Marozia del secolo decimo non s’aggentiliva colla splendidezza esteriore della cultura classica, quale fu quella onde si ornò Lucrezia Borgia, figliuola di un Papa venuto più tardi; egli è probabile che quelle donne non sapessero di leggere o di scrivere[347]; e poichè vivevano in una età di barbarie profondissima di costume, gli è da questa che dobbiamo torre misura dell’essere loro. Tuttavolta, è difficile cosa che l’indole di esse fosse più immorale di quella ch’ebbero le donne venute al tempo raffinato di una Lucrezia, di una Caterina di Russia o di una Pompadour. Nella cerchia rimpicciolita del mondo romano non dobbiamo in Teodora e in Marozia andare a cerca di una novella [318] Messalina o di una nuova Agrippina; in esse dobbiamo mirare donne ambiziose, fornite di grande intelletto e di coraggio, avide di piaceri e di potenza di comando, destre di astuzie. La figura di loro persone, che induce a meraviglia, ci dà sentore che nella società laicale di Roma spira omai una vita che si estende a più larghi confini, sebbene rozza ancor sia; elleno, in modo mirabile, interrompono la monotonia claustrale che poc’anzi pesava sulla storia di Roma.
Giovanni X salì alla cattedra di san Pietro nella primavera dell’anno 914: il favore di Teodora e la potenza del console Teofilatto diedero a lui la dignità pontificia[348]. Però, non fu egli altrimenti un officioso favorito di femmine, ma si rivelò uomo independente, anzi grande, per guisa che ebbe superata la gloria del bellicoso predecessore suo, Giovanni VIII: tenne in pugno le cose d’Italia, siccome Giovanni IX fatto aveva, [319] nè v’ha dubbio che in questo paese fu il primo uomo di Stato della sua età.
Giusto in quel tempo i Saraceni dal Garigliano facevano nuovamente battere il cuore a Roma per la paura. I piccoli Principi dell’Italia meridionale, Atenolfo di Benevento, Landolfo di Capua, Guaimaro di Salerno avevano fatto contro essi qualche spedizione di guerra, ma senza frutto: quei predoni terribili continuavano a devastare la Campagna, la Sabina e la Tuscia. Nessuna voce più eloquente che quella di Giovanni VIII ebbe mai descritto i mali spaventosi delle province; però, dai documenti di Sergio III raccogliemmo il lamento della devastazione ond’era afflitta la campagna di Roma. Le mura che cingevano la Città guarentivano sicurezza ai Romani, grazie alle gloriose cure di Pontefici anteriori; ma tutte le terre circostanti non erano altro che un campo di incendî saraceni, e, più d’una volta, nei Diplomi di quel tempo, ci occorre di trovare discorso di una chiesa deserta (in desertis posita, oppure destructa), perfino nelle più prossime vicinanze di Roma. Il territorio Sabinate era tribolato anch’esso orribilmente, avvegnaddio le ricche Badie di Farfa e di Subiaco allettassero l’ingordigia dei predoni, e dessero compenso alle imprese di quelle ladronaje. Il convento imperiale di Farfa era allora, insieme con quello lombardo di Nonantola, il più bello d’Italia. Situato in mezzo ad un paese vaghissimo, somigliava ad una oasi della cultura: la bella chiesa maggiore dedicata alla Vergine, tutta splendida d’oro, era ancor circondata da cinque altre basiliche; un palazzo imperiale e case molte stavano nel territorio [320] soggetto al convento. Dentro e fuori s’elevavano corridoi sostenuti da colonne (arcus deambulatorii), destinati ai passeggiari dei monaci, e tutta l’Abazia, parimente come una città munita, era cinta di un muro forte di torri[349]. Allorchè nel prezioso codice a pergamena dei Regesti farfensi, che si conserva oggi nella Vaticana, si leggono le sei pagine in foglio, che, a minuti caratteri di scritto, contengono l’elenco dei beni fondi, delle castella, delle chiese e delle ville che Farfa possedeva nel Sabinate, nella marca di Fermo, nel territorio romano e financo dentro della Città, ei si crederebbe di numerare i possedimenti di un principato potente. Ed in vero le dovizie della Badia erano regalmente grandi. Per l’amministrazione dei suoi dominî avrebbe occorso un vero esercito di officiali, ma i suoi vassalli, baroni grandi e piccoli dell’Italia media che tenevano quei possedimenti in affitto, liberavano l’Abate del convento da quella cura, che troppo grave sarebbe stata[350]. Fin dalla metà del secolo nono i Saraceni avevano mosso minaccia all’Abazia; e, intorno all’anno [321] 890, la assediavano con forze poderose. Per sette anni il coraggioso abate Pietro si difese coi suoi vassalli; ma finalmente conobbe che impossibile gli era di ottener salvamento. Spartì i tesori del suo convento, gli spedì a Roma, a Fermo e a Rieti, spezzò il prezioso ciborio del maggior altare, con lagrime ne seppellì sotterra le colonne di onice, indi abbandonò la Badia. Usciti che ne furono i frati, v’entrarono i Saraceni; però la bellezza degli edificî scosse i loro animi siffattamente, che ne risparmiarono la distruzione; tennero Farfa per loro quartieri, ma, non avendovi lasciato presidio, avvenne che briganti cristiani, i quali avevano stanza in quelle vicinanze, appiccarono il fuoco all’Abazia, e, per ben trent’anni, Farfa la bella ingombrò il suolo col cumulo delle sue ruine.
Tempo prima ancora era perito quel Subiaco, che i Saraceni avevano già ruinato intorno all’anno 840. Sebbene l’abate Pietro I l’avesse, tosto dopo, restaurato, il convento venne una seconda volta in loro balìa[351]. Massimamente, dai tempi di Giovanni VIII in poi, quei ladroni non cessavano di devastare la regione montuosa dell’Anio, fin dove questo fiume, uscendo della profonda gola di Jenne e di Trevi, si spinge a Tivoli, per continuare indi il suo corso lungo la Campagna romana. In tutte le terre che ivi erano, [322] i Saraceni recavano il guasto, oppure qua e là vi si afforzavano munitamente. Oggidì tuttavia, vive la ricordanza di loro in quei luoghi solitarî, di cui si favoleggia che fossero coltivati ancor prima de’ tempi romani. Dietro a Tivoli, sul dorso roccioso di un monte, s’alza il vecchio castello saracinesco, che è notevole per la foggia delle vesti e dei costumi d’antichissima data, che ancor durano fra quegli abitatori: il suo nome deriva dagli Arabi del secolo nono, che ivi si erano trincerati[352]. Dall’altra parte di quella montagna, nella magnifica e selvaggia solitudine dei monti Sabinati, sta Ciciliano; e anche questo castello, a’ tempi di Giovanni X, era una rocca forte dei Saraceni[353]. Adesso, lorquando i pellegrini nordici, che movevano a Roma, scendevano dalle Alpi, intoppavano nei Mauri ispani, i quali, dopo l’anno 891, avevano posto sede a Frejus ossia Fraxinetum; trovavano da quelli impedimento alla loro via, e tosto che con tributi avevano riscattato [323] il passo, cadevano nelle mani della ladronaia saracena che scorrazzava lungo le strade di Narni, di Rieti e di Nepi. Nessun pellegrino più giungeva a Roma recando donativi. La Sabina, la Tuscia, il Lazio erano fatti deserto dove dominava silenzio di sepolcro, e, sorte peggiore, vi si aggiungevano orde di predoni cristiani, che spesse volte facevano causa comune coi pagani: tali condizioni disastrose duravano da trent’anni; nè il Re d’Italia, nè i Margravî di Tuscia o di Spoleto si davano un pensiero al mondo di spurgare il paese da siffatta piaga. In questo periodo di tempo, di cui non si riesce a descrivere la confusione, cessato aveva di esistere ogni potere che s’affermasse in un centro: ogni città, ogni abazia, ogni castello era abbandonato a sè medesimo ed ai suoi casi[354].
Finalmente, Giovanni X sentì pietà del suo paese e salvò Italia. Gli Infedeli non avevano nemico più acerbo del Papa, per il quale si trattava nientemeno che di salvarne Roma, anzi la Chiesa. Ricordava egli quel che un tempo aveva potuto operare la podestà imperiale, rammentava l’appello universale alla riscossa, per cui mezzo Lodovico II aveva condotto gli Italiani a combattere contro i Saraceni, ed a vincerli; vedeva il decadimento ognor più profondo in cui s’andavano inabissando gli ordini politici, capiva che le ruine di questi avrebbero alla fine travolto con sè Roma, e fattala preda di qualche Principe che avesse avuto maggiore audacia o fortuna. Egli deliberò pertanto di restaurare la podestà [324] imperiale, sì come Giovanni IX aveva fatto. Per verità, il cieco Lodovico continuava in Provenza a fregiarsi del nome d’imperatore, ma i suoi titoli non avevano più valore alcuno in Italia. Per lo contrario, le terre dell’Italia superiore erano raccolte sotto al mite scettro di Berengario, e questi, come altra fiata Lamberto, era adesso la speranza degli uomini che s’ispiravano a idea di nazione. Il Papa si unì risolutamente con questa parte, se ne pose alla testa, e, come ebbe certezza di riuscire nel suo intendimento, decise di dar la corona a Berengario, affine di fondare per mezzo suo un Impero italico independente.
Chiamato con lettere e con messaggi del Pontefice, Berengario si pose in cammino per Roma, nel mese di Novembre. L’accoglimento festoso che vi trovò dimostra che il Papa aveva guadagnato a favore di lui i voti dei Romani, e che ora la parte italica era dominatrice. Un Poeta cortigiano (ne è ignoto il nome) descrisse con diligente cura, qual si conveniva a lui testimone di veduta, le solennità che avvennero allorchè il signor suo entrò in Roma e v’ebbe la corona: i sonori esametri di lui sono la sola opera che la immiserita musa d’Italia dettasse a quel tempo; modestamente adorni dei fiori di Virgilio e di Stazio, ci ridestano la ricordanza della venuta di Onorio, onde un tempo aveva cantato Claudiano[355]. Parimente come i suoi predecessori, [325] anche Berengario venne per Monte Mario, attraversando il campo di Nerone: la nobiltà, ossia senato, e le milizie della Città lo salutarono colle consuete laudi; e il Poeta nota che le loro alabarde erano adorne di simulacri di fiere, cioè di teste di aquile, di leoni, di lupi e di dragoni[356]. Nè mancavano le Scuole della Città: fra esse il Poeta, ispirandosi alla venerazione della classica antichità, metteva al di sopra di tutte quella dei Greci, ricordandone gli «inni dedalici di lode,» laddove le altre comitive di esse salutavano Berengario, ciascuna parlando l’idioma della propria nazione. Non perdette il Poeta di vista gli omaggi che due illustri giovani, bianco-vestiti, venivano prestando all’Imperatore: erano Pietro fratello del Pontefice, e il figliuolo di Teofilatto console. Poichè il Papa e il Console dei Romani erano qui accoppiati l’uno allato dell’altro, [326] poichè l’uno mandava incontro a Berengario il fratel suo, l’altro il figliuolo, eglino compajono quasi in sembianza di due podestà, per guisa che, accosto al Papato, s’erige l’aristocrazia come ordine di potenza cittadina.
Dall’alto della scalea del san Pietro il Papa stavasene attendendo il Principe, che veniva cavalcando un palafreno delle stalle pontificie: Giovanni sedeva sopra un cliothedrum ossia faldestorium, che era una scranna d’appoggiatoio ripieghevole. L’affollamento della gente che gli faceva ressa intorno, era così grande che soltanto a stento Berengario giungeva fino a lui. Come egli ebbe prestato giuramento di dare ajuto e di far giustizia alla Chiesa, si aprirono le porte della basilica: orarono innanzi alla Confessione, come era costume, indi il Re fu condotto nel palazzo Lateranense. Nei giorni primi del Dicembre dell’anno 915 avvenne la coronazione colle solite ceremonie; nè il Poeta dimentica di descrivere il suo diletto Imperatore tutto raggiante nella porpora del suo manto, e ne dipinge lo splendore della corona e dei coturni d’oro. Dopo che Berengario fu unto col crisma e coronato, e dopo che il popolo a lui ebbe acclamato, fu ordinato silenzio, ed un Lector pontificio diede, ad alta voce, lettura del Diploma con cui il novello Imperatore confermava i possedimenti della Chiesa romana. La solennità ebbe termine coi donativi che l’Imperatore fece alla basilica di san Pietro, al clero, alla nobiltà ed al popolo di Roma[357].
[327]
In tal guisa, disconosciuti i diritti del cieco Lodovico III, la corona imperiale per la terza volta cinse le tempie ad un Principe che, sebbene disceso di origine germanica, era tuttavia italiano. Ed ora il paese sperava di conseguire independenza, unità e ordine interiore, in quello che il Pontefice aveva fede nella gagliarda operosità del novello Imperatore.
[328]
La coronazione di Berengario fe’ palese la sua efficacia nella splendida opera di guerra che fu tosto intrapresa contro a’ Saraceni. L’amor di nazione risvegliavasi; era desso che ispirava gli Italiani e li riuniva ad un solo intento, per guisa che eglino in gran moltitudine correvano a schierarsi sotto il vessillo di questa crociata gloriosa. Per verità, il novello Imperatore non si metteva alla loro testa. Avvenimenti gravi lo richiamavano indietro nell’Italia superiore, dopo che aveva trattato coi Principi dell’Italia meridionale e coi Bizantini, per muovere ad una comune impresa[358]. Egli poneva delle soldatesche sotto il comandamento del Papa, ed erano propriamente composte di Toscani, che Adalberto margravio aveva levato in arme, e di genti di Spoleto e di Camerino, che erano guidate da Alberico; forse l’Imperatore vi aggiungeva altresì alcune milizie dell’Italia superiore, e un naviglio delle città marittime settentrionali. La grande lega contro ai Maomettani toccava [329] a fortunato risultamento; concordi erano i Principi dell’Italia inferiore; financo l’Imperatore bizantino, premuto da ambascerie di Giovanni, faceva tacere i suoi rancori e porgeva la mano all’Imperatore dei Romani per una spedizione concorde. Alle instanze del Papa e dei Principi del mezzodì, il giovane Costantino di Bisanzio aveva armato una flotta e l’aveva messa sotto agli ordini dello stratega Nicolò Picingli. Poichè una grande parte delle Calabrie e delle Puglie obbediva nuovamente ai Greci, che continuavano a chiamare quella loro provincia col nome di «Lombardia,» era cosa desiderata per il governo bizantino di entrare nell’Italia meridionale, armato in guerra. Il Picingli veleggiava, nella primavera dell’anno 916, nel mare napoletano; ai Duchi di Gaeta e di Napoli apportava il titolo pur sempre ambito di Patrizio; induceva questi, che altra volta erano stati ostinatamente amici dei Saraceni, a prender parte alla lega; indi schierava innanzi alla foce del Garigliano la sua armata, cui si saranno aggiunte le dromone pontificie di Ostia e le galere di Berengario: l’esercito di terra dell’Italia meridionale prendeva ordinanza, al di sotto della fortezza saracena, dalla parte di mare. Dalla banda di terra s’avanzavano le soldatesche condotte da Giovanni X in persona, e, insieme con lui, da Alberico. Il Papa aveva dato prova di un’operosità istancabile, degna di un Principe guerriero; aveva chiamato in arme le milizie di Roma, le genti del Latium, della Tuscia romana, della Sabina e di tutti gli Stati suoi, e le aveva riunite con quelle che gli venivano di Toscana e di Spoleto. Teofilatto senatore e Alberico avevano, quai generali, la capitananza [330] dell’esercito così composto[359]. La preponderanza delle forze di esso cacciò, battendoli, i Saraceni fuor della Sabina, ed ivi e nella Campagna s’accese la prima pugna. I Longobardi di Rieti e di altre terre sabinati, condotti da Agiprando, si scagliarono sull’inimico in vicinanza a Trevi; le milizie di Sutri e di Nepi combatterono prodemente presso a Baccano, finchè i Maomettani furono costretti di ritirarsi sul Garigliano; e, anche senza di ciò, i loro fratelli, messi a mal punto, ve gli avrebbero chiamati. Ei pare che Giovanni conseguisse, in prossimità di Tivoli e di Vicovaro, una vittoria, la cui novella si serbò in tradizione[360]. A Terracina, il Papa s’incontrò coi Principi dell’Italia inferiore, e con essi conchiuse un trattato in piena regola, perocchè quegli astuti signori esigessero un compenso, se volevasi che entrassero nella lega. Il Papa dovette rinunciare a parecchi diritti cui la Chiesa pretendeva [331] sulla Campania del mezzodì: oltre al patrimonio di Traetto, il Duca di Gaeta riceveva altresì il Ducato di Fundi, e i restanti Principi probabilmente erano guadagnati a forza di donazioni di altri possedimenti. Quei due paesi avevano, da lungo tempo, appartenuto alla Chiesa romana, la quale li faceva amministrare per mezzo di suoi officiali laici, che avevano titolo di conte o di console e duce[361]; ma di già Giovanni VIII, nell’anno 872, in pari circostanze, ne avea fatto cessione a Docibile e a Giovanni di Gaeta, ed ora Giovanni X era costretto a confermare quella donazione. Il trattato si conchiuse nella pianura del Garigliano, entro al campo dell’esercito alleato. Gli ottimati romani, che ora, in armamento di guerra, comandavano nell’esercito con autorità di capitani pontificî, sottoscrissero da parte loro il Diploma: ivi sono registrati per nome; a capo di loro è primo Teofilatto, senatore dei Romani; vengono indi i duchi Graziano, Gregorio, Austoaldo (uomo germanico), Sergio primicerio, Stefano secondicerio, Sergio de Eufemia, Adriano «padre del signor papa Stefano (VI)», Stefano primicerio dei defensori, Stefano arcario, Teofilatto sacellario. Per comando di Giovanni, giurarono il patto altri diciassette nobili, che nominati non sono; vi sottoscrissero [332] altresì i Principi e i capitani della lega; primo Nicolò (Picingli) Stratigus della Longobardia greca, poi Gregorio console di Napoli, Landolfo patrizio imperiale e duca di Capua, Atenolfo di Benevento, Guaimaro principe di Salerno, Giovanni e Docibile gloriosi duchi e consoli di Gaeta[362].
Splendida e completa fu la vittoria che gli alleati riportarono sul Garigliano. Nel Giugno dell’anno 916, si cominciò a muovere contro le schiere dei Saraceni, i quali si difesero ancora ostinatamente per ben due mesi. Circondati da tutte le parti, e senza speranza di soccorso da Sicilia, eglino finalmente si appigliarono [333] al partito di aprirsi un varco, e di rifuggirsi sui monti. Di nottetempo diedero fuoco al loro campo, e se ne scagliarono fuori con grande impeto, ma caddero sotto la spada dei Cristiani inferociti, o ne furono fatti prigionieri; e quanti si salvarono sulle vette dei monti, ivi pure furono inseguiti e sterminati. Così, quel covo meraviglioso di ladroni musulmani disparve dalle terre inferiori del Garigliano, dopochè, per più di trent’anni, era stato onta, spavento e ruina d’Italia. La sua distruzione è l’opera nazionale più onoranda che abbiano compiuto gli Italiani nel secolo decimo, parimente come la vittoria di Ostia era stata il maggiore loro decoro nel secolo nono[363].
Adorno di gloriosa onoranza per questa vittoria ottenuta sugli Africani, Giovanni X tornò a Roma, pari a trionfatore reduce da una guerra punica. I Cronisti tacciono di feste che celebrasse la Città in segno di gratitudine e di letizia; non parlano dell’ingresso che vi fece l’uomo liberatore, innanzi ai cui passi forse avranno preceduto Saraceni, tratti in catene con pompa di [334] trionfo; ma noi possiamo credere che egli entrasse a cavallo da una delle porte che guarda a mezzodì, tenendosi al fianco Alberico margravio, e venendo alla testa dei nobili Duchi e dei Consoli di Roma, che avevano maneggiato la spada con pari prodezza; lo avranno accolto le acclamazioni del popolo, il quale plaudiva a lui, capitano diplomatico della guerra, e ad Alberico rendeva venerazione come ad un Scipione novello. L’eroe del Garigliano, carico di allori, salutato con grande reverenza dalla Città, ne avrà chiesto ed ottenuto una ricompensa. Se potessimo penetrare collo sguardo entro il buio di quella età, vedremmo che il Papa lo regalava riccamente di beni, e che egli ebbe benanco in dono la dignità di console dei Romani. Tempo prima ancora, aveva menato in moglie Marozia, figlia di Teofilatto senatore; dopo la vittoria del Garigliano, doveva per certo essergli attribuito uno stato potente in Roma; però confessiamo di non saper cosa alcuna delle geste di Alberico, e neppur del luogo ove ponesse sue dimore per una serie di anni: anche il senatore Teofilatto perdiamo di vista. Vien detto che il figlio di Alberico nascesse nel palazzo della sua famiglia, posto sull’Aventino, e ivi può darsi che il Margravio e Console avesse stanza. Finchè durò la potenza di Berengario, e fino a tanto che Roma obbedì chetamente all’energico reggimento del Papa che gli era amico, nessuna opportunità si offerse ad Alberico di condurre a compimento quei disegni ambiziosi che per certo coltivava nell’animo: anzi, per alcuni anni, fu egli sostenitore del Pontefice in Roma[364].
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Ma una rivoluzione violenta mutò lo stato d’Italia. Gli irrequieti ottimati di Tuscia e di Lombardia, alla cui testa stava Adalberto margravio d’Ivrea, che aveva sposato Gisela sorella di Berengario, si levarono in arme contro l’Imperatore. Quei piccoli tiranni si beffavano dell’idea di nazione italiana, o, piuttosto, nessun’altra cura nutrivano fuor di quella che premeva alla persona propria di loro. Li frugava la maledizione antica di cacciare un dominatore con evocarne un altro, laonde novellamente chiamavano nella loro terra uno straniero, ed erano di bel nuovo i Principi e i Vescovi stessi d’Italia, che senza necessità soffocavano le speranze della independenza nazionale, e vendevano la loro patria alla gente di fuori. Nessun popolo rivela nei suoi annali un’arte politica così triste, come è quella del popolo italico per lungo corso di secoli. Se pur sia un fatto innegabile che i Pontefici favorirono la disunione d’Italia, è però difficile che quel peccato sia apposto sempre a colpa di loro soli; e, poichè le cose d’Italia erano così [336] cadute in basso, chi pronuncia giusto giudizio deve confessare che per lungo tempo il Papato fu sola podestà che reggesse Italia anche nell’ordine politico: senza di esso questa contrada avrebbe dovuto precipitare in miseria ancor più profonda.
Giovanni X, che ne fu innocente, vide, per isventura propria, cadere in pezzi l’opera che egli aveva composto. Rodolfo, re della Borgogna cisalpina, era chiamato in Italia, e scendeva dalle Alpi per torsi la corona che gli veniva profferta. La Storia della Città non descrive le battaglie che Berengario combattè contro a lui ed ai ribelli italiani; soltanto di volo essa nota, che lo sventurato Imperatore era costretto a tradire il suo paese, perocchè, come la disperazione sua lo consigliava, implorasse a soccorso i terribili Ungheri: e questi allora davano alle fiamme Pavia, sede antica dell’Impero longobardo, che Liudprando diceva essere tanto bella, da sovrastare financo a quella Roma che andava così famosa nel mondo. L’imperatore Berengario, di cui le genti contemporanee lodarono la fortezza e la clemenza dell’animo, cadde a Verona nello stesso anno 924, sotto il pugnale di un assassino. Fu il terzo e ultimo imperatore di nazione italiana, avvegnaddio, dalla morte di Carlo il Grosso in qua, gli Italiani avessero sollevato all’Impero tre uomini della loro terra, Guido, Lamberto e Berengario. D’allora in poi, l’Impero uscì per sempre fuor delle mani del popolo italico, e cagione ne fu la debolezza e la colpa di quest’ultimo. Per verità, anche lo stato di altri paesi a questi tempi era spaventevole tanto, che, nell’anno 909, Eriveo vescovo di Reims, innanzi al concilio di Trosle, paragonava gli uomini ai [337] pesci del mare, di cui gli uni divorano gli altri; però Italia trovavasi allora in balìa ad una dissoluzione così orribile, che superava i mali di ogni altro popolo. Divisa per differenze di stirpi, lacerata da fazioni, da tiranni grandi e piccoli, cherici e laici, orbata di coscienza, di onore e di diritto di nazione, Italia non aveva intelletto di conquistarsi independenza e unità. E adesso, anche il titolo di imperatore romano si spegneva per un periodo di trentasette anni; indi la corona imperiale toccava nuovamente in sorte ad uno straniero, ad un eroe sassone, che la tramandava in retaggio agli animosi Principi di nazione tedesca.
Italia sommerse in un caos di barbara anarchia: l’Imperatore, morto; il Papa, minacciato di pericolo estremo. Anche in Roma l’idra delle fazioni levava adesso il suo capo, e Giovanni X doveva cader soffocato fra le sue spire. Ma Roma si asconde al nostro sguardo, ravvolgendosi nelle negre ombre di una notte che cela gli avvenimenti venuti dappoi. Ogni luogo è funestato di stragi orrende; sui ruderi fumanti di città distrutte celebrano loro baccanali gli Ungheri che non hanno costume umano; gli abitatori paesani fuggono in luoghi ermi e selvaggi; Re, vassalli e Vescovi pugnano fra loro per strapparsi i brandelli sanguinanti d’Italia; donne belle e dal protervo sorriso sembrano furie o menadi tremende che conducano quelle schiere feroci. Le Croniche contemporanee, o di tempi poco più tardi, sono tutte un guazzabuglio incolto, così che lo studioso vi si perde, come dentro a un labirinto inestricabile: di Alberico non fanno pur motto. Tuttavolta, se sia nella natura delle cose che un uomo cupido di giungere [338] ad alto luogo, colga le opportunità favorevoli per accrescere la sua potenza, e se debbasi accogliere con buon fondamento che l’ambizione di Marozia moglie sua gliene desse stimolo, può credersi che Alberico, morto l’Imperatore, abbia vagheggiato il Patriziato di Roma, che allora, in pari tempo, diveniva vacante. Potrebbesi accogliere per vero ciò che annunciano Cronisti di tempi posteriori, che egli si imbronciasse col Papa, che strappasse a sè il governo della Città, e che despoticamente dominasse in Roma, fino a che all’accorto Pontefice riusciva, coll’ajuto dei Romani, di cacciare fuor della Città lui che romano non era: allora Alberico si sarebbe munito a difesa in Orta, che ben era il luogo maggiore dei suoi dominî; avrebbe chiamato in soccorso suo gli Ungheri, ma, assalito nel suo castello dalle milizie di Roma accese di furore, ne sarebbe stato trucidato[365]. Ad ogni modo, di certo v’ha questo solo che le orde dei Magiari in quel tempo mettevano a guasto la Campagna romana, e, d’allora in poi, ripetute volte scorazzavano fino sotto alle porte di Roma[366].
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La fine di Alberico è coperta di mistero; però il suo nome, la sua ambizione, il suo valore, le sue astuzie ei lasciava in retaggio ad un figliuolo, più fortunato di lui: di lì a non molti anni, Roma doveva obbedire al vero dominio di questo[367].
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Frattanto Rodolfo di Borgogna non riusciva a tenere la corona d’Italia per più di tre anni; e anche in questi facevalo a grande stento. Egli cadeva sotto l’urto di una potente fazione avversa, della quale era l’anima una donna leggiadra e ammaliatrice, Irmengarda, seconda moglie di Adalberto d’Ivrea, onde era adesso rimasta vedova. Se vogliamo trovare il filo che ci guidi fra gli avvolgimenti di questi fatti, i quali ebbero influenza anche su Roma, ci occorre di far menzione di una moltitudine di persone, e dei loro rapporti di parentela. I vezzi seducenti della celebre Gualdrada s’erano tramandati nelle sue discendenti: la fiamma della passione, che le censure della Chiesa e finalmente la morte [341] avevano spento in quella donna, divampò con ardore ancor più fatale nelle figlie e nelle nipoti di lei, e mise il fuoco in Italia, per quant’era vasto il paese. Gualdrada aveva avuto una figlia di grande bellezza, Berta: frutto di adulteri amori, costei andò sposa al conte Teobaldo di Provenza, e gli partorì un figliuolo appellato Ugo. Divenuta vedova, colse ella nei suoi lacci Adalberto II, il dovizioso margravio di Tuscia; gli diè mano di sposa in seconde nozze, e n’ebbe tre figliuoli, Guido, Lamberto e la bella Irmengarda. Una volta che fu in Toscana, Berta si venne in potenza grandissima, che trasmise ai toscani suoi figli, e si strusse del desiderio di ottenere la corona d’Italia per Ugo di Provenza, suo prediletto figliuolo di primo letto. Poichè però siffatto disegno era impedito in lei dalla morte, che la colpiva nell’anno 925, quell’intendimento trovava continuazione per opera di Guido, di Lamberto e d’Irmengarda; e quest’ultima, divenuta allora vedova del Margravio d’Ivrea, colla sua avvenenza e colle sue astuzie sapeva muovere a voler suo i maggiorenti lombardi. Se sieno veri i racconti di quell’età, alquanto proclivi alle fole di romanzo, Irmengarda, per potenza di affascinare i cuori, non era dammeno della greca Elena o della egiziana Cleopatra; e i Vescovi, i Conti, i Re, le tributavano omaggio, smaniando d’amore a’ suoi piedi: financo Rodolfo di Borgogna ella adescava nelle sue reti seduttrici. Quel Principe valoroso si tramutava in un adoratore piagnoloso, e la novella Circe, sbuffoneggiandolo, toglieva la corona dei Lombardi dalla sua povera testa indebolita per darla a Ugo figliuolo di sua madre. Gli ottimati lombardi cominciarono a disprezzare [342] Rodolfo; Lamberto arcivescovo di Milano, che il Re aveva tradito ed era allora il più ragguardevole uomo dell’Italia settentrionale, diè il crollo alla sua caduta, e tutti i maggiorenti, anche da parte loro, chiamarono Ugo di Provenza in Italia.
Agli inviti di quei grandi si associava la voce del Papa. Giovanni X soffriva in Roma grave travaglio dal partito di Marozia, la quale dai suoi morti parenti aveva ereditato ricchezze, estesa clientela e potenza. Pertanto, Giovanni cercava di vincere ancor una volta le fazioni per opera di un braccio poderoso; e, pensando a restaurare l’Impero, volgeva insieme coi Lombardi i suoi voti ad Ugo di Provenza. A lui spediva legati, che s’avvennero col Principe a Pisa, dov’era sbarcato; nè egli stesso metteva tempo in mezzo, e andava a trovarlo: nell’anno 926 Ugo era coronato a Pavia re d’Italia, indi andava tosto a Mantova, vi si incontrava col Papa, e con lui conchiudeva un trattato[368]. Probabile cosa è che Giovanni gli offerisse la corona d’Italia, e che Ugo si obbligasse, in cambio, di liberarlo dalle zanne dei suoi nemici di Roma. Ma il Papa fu deluso nel risultamento dei suoi viaggi e de’ suoi negoziati, chè la influenza di Marozia, proprio in questo tempo, diventava più terribile che mai. Come la vedova di Alberico ebbe compreso che Ugo stava per toccare la corona d’Italia, ella, con calcolo accorto, gettò tosto il suo occhio astuto sul potente fratello di lui. Offeriva mano di sposa a Guido, che allora era margravio di Tuscia, nè questi disdegnava la ricca Senatrice di Roma, o piuttosto l’attraente [343] speranza di farsi signore della Città. Così la fazione di Teofilatto, ossia, adesso, di Marozia, la quale altra volta aveva favorito, sotto di Berengario, gli intendimenti nazionali d’Italia, si poneva dalla parte dei Toscani, che massimamente erano quelli che lavoravano a sollevare al trono il Principe provenzale.
Il Pontefice, mesto e dolente, tornò a Roma non per altro che per cadervi vittima de’ suoi avversarî. Tuttavolta, ei tenne ancor fermo due anni travagliati di tumulti, minacciato ogni giorno dalla spada dei suoi nemici, i quali non ancora gli avevano strappato tutta la podestà: e questa è splendida prova della prudenza e della fortezza dell’animo suo. Il suo appoggio, il suo braccio armato, era Pietro, onde abbiamo già udito far chiara nominanza al tempo in cui avvenne la coronazione di Berengario. Giovanni lo aveva, così ci giova credere, posto a capo del reggimento cittadino, e, morto Alberico, lo aveva creato console de’ Romani; anzi è probabile, che fosse Pietro quegli che aveva condotto i Romani contro Alberico, che lo aveva battuto e conquistato Orta. Il Cronista di Soratte lo appella financo col nome di margravio, e, a meno che non l’abbia scambiato con Alberico, può darsi che Pietro avesse saputo insignorirsi del titolo e dei possedimenti di quello. Le scarse notizie che ci soccorrono dichiarano espressamente che Pietro s’opponeva alla fazione che intendeva a gettar abbasso il Papa, a porre una delle sue creature sulla cattedra di san Pietro, e a dominare poi sopra di Roma[369]. [344] Guido e Marozia, che da parte loro miravano al patriziato, non erano ancora diventati padroni di Roma. Soltanto alla celata intromettevano soldatesche in Città, e con esse assaltavano un dì il Laterano. Se si voglia prestar fede ai Cronisti, Pietro in prima era cacciato della Città e confinato ad Orta; allora egli chiamava in soccorso gli Ungheri, capitava con essi alle porte di Roma, e, venendo in Laterano, si univa nuovamente al fratel suo. Innanzi agli occhi del Papa il popolo lo trucidava; le genti di Guido s’impadronivano anche di Giovanni, e Marozia lo faceva rinchiudere in Sant’Angelo. Il popolo romano era irritato dalle devastazioni che alla terra avevano dato gli Ungheri chiamati prima da Alberico, indi anche da Pietro, e di questo, forse ad arte, si era sparsa la fama; il popolo faceva plauso ad ogni mutazione di reggimento, ad ogni caduta di Papa; laonde dava aiuto al rivolgimento, e probabilmente la plebaglia s’aveva in ricompensa un nuovo saccheggio del Laterano. Questa rivoluzione, onde deploriamo l’oscurità che ne involge i particolari, avvenne nel Giugno, od altrimenti nel Luglio dell’anno 928. Ma il Papa passava di vita l’anno dopo, sia che in carcere lo facessero morire di fame, o che ve lo uccidessero per laccio[370].
[345]
Così finì il benefattore di Roma: ebbe sorte immeritata, ed è strana cosa che, al principio e alla fine della sua vita di Pontefice, incontrasse nella sua via due persone di donna, madre e figliuola; Teodora che gli diè la corona papale, Marozia che gli tolse corona e vita. Sulla storia dei suoi casi si distende per parecchi riguardi una tenebra che forse durerà eterna. Le circostanze del suo esaltamento al pontificato, i suoi vincoli con quelle femmine famose diedero motivo a molti Scrittori ecclesiastici, e sopra tutti al Baronio, di maledire alla sua memoria; eppure Giovanni X, i cui errori sono denunciati soltanto dalle dicerie della fama, ma le cui grandi virtù splendono invece dei fatti scritti nel libro della storia, si solleva fuor delle ombre buie del suo tempo barbarico, ed è una delle persone più memorande, massimamente fra i Papi. Gli atti della Storia ecclesiastica registrano con onoranza la operosità di lui, i rapporti ch’ei tenne [346] stretti vivamente con tutte le terre della Cristianità, e lo celebrano come uno dei riformatori del monacato, perocchè egli sia stato che confermò la severa regola di Cluny. Degno di lode fu il suo tentativo di rimettere ordine nelle cose d’Italia per via di Berengario; e la gloria di aver liberato la sua patria dai Saraceni mediante la grande lega che egli conchiuse, renderà magnifica sempre la sua ricordanza.
In Roma non v’è monumento alcuno che parli di lui. Vien detto che egli compiesse la basilica Lateranense, e che ornasse di quadri il palazzo. Probabile è che nei pochi anni di quiete, succeduti alla vittoria del Garigliano, usando del ricco bottino fatto sui Saraceni, desse nella basilica compimento a molte opere che Sergio III non aveva potuto condurre a termine[371].
[347]
A Giovanni X succedettero due Papi, i quali non furono altro che ombre vane, creature entrambi, senza alcun dubbio, di Marozia or divenuta onnipossente, cui non era dato peranco di elevare alla cattedra di san Pietro il suo proprio figliuolo, avvegnaddio la giovinezza troppo acerba di questo lo impedisse. Leone VI, figlio di Cristoforo primicerio, fu papa soltanto per pochi mesi, in quello stesso tempo che il suo predecessore, deposto violentemente, languiva tuttavia in un carcere. Dopo di Leone, si innalzava alla sedia pontificale Stefano VII, anch’egli romano come l’altro. Quantunque tenesse il pontificato per più di due anni, fino al Febbrajo od al Marzo dell’anno 931, le opere di lui ci sono affatto ignote[372]; l’esistenza di questi due Papi andò [348] perduta in un silenzio così profondo, che financo Liudprando, loro contemporaneo, sebbene d’alquanto più giovane, gli ebbe preteriti per modo tale, che a Giovanni X ei fa tosto susseguire Giovanni XI. Con questo Papa il potere di Marozia comincia a non aver più confine.
Giovanni XI era figlio di questa famosa donna romana, che si faceva appellare Senatrice e perfino Patrizia, avvegnachè ora ella fosse in fatto la dominatrice temporale della Città ed elettrice dei Papi: padre di lui reputavasi Sergio III, ma è cosa tuttavia incerta. Una femmina tiranneggiava adesso la Chiesa e Roma. Morto era allora il suo secondo marito, Guido di Tuscia, che senza dubbio i Romani avevano nominato Patrizio; però la dignità di margravio era toccata a Lamberto fratello di lui. Rimasta appena vedova, Marozia pensava a trovarsi un terzo marito, e i suoi desiderî, fatti sempre più audaci, si levavano fino ad Ugo re d’Italia. Lamberto, ch’era giovane ed aveva vigoria d’animo, rivolgeva i suoi intendimenti a grandi cose, laonde era cagione di pericolo a quel Principe: costui voleva sbarazzarsene e presto; perciò afferrava la mano che la Patrizia di Roma gli offeriva.
Ugo era maestro d’inganni e di astuzie: dissoluto, [349] avaro, temerario, non si faceva coscienza di cosa alcuna, e coi modi più perfidi si studiava di ampliare il suo reame italico: egli raffigura al vivo la vera tempra di quell’età. In essa, Stato e Chiesa, così in Francia che in Italia, erano in balìa della dissoluzione più spaventosa, laddove la robusta Alemagna per buona ventura, non era tocca che lievemente di quel pestifero morbo romanesco, ed è per questa ragione che essa custodiva nel suo seno il principio della legge morale e del diritto, e le era riserbata la missione di rigenerare l’Impero di Carlo insieme colla Chiesa: tuttavolta i tempi non ne erano peranco maturi, e Italia doveva in prima piombare nell’estremo del decadimento. Se ci fosse concesso di soffermarci a lungo fuor dei limiti della storia di Roma, potremmo mostrare come quell’Ugo facesse traffico dei Vescovati e delle Abazie d’Italia, e li riempiesse di impudenti cortigiani, e sbrigliasse ogni licenza di desiderî, e soffocasse tutti i sensi di giustizia. Liudprando vescovo viveva allora in Pavia, ed era paggio alla corte di quel Re, di cui s’aveva guadagnato il favore col suono armonioso della sua voce; ivi era dove acquistava quelle tendenze d’ingegno frivolo e arguto, che in parte è impresso negli scritti suoi. Magnificò egli con lodi Ugo tiranno, sì come più tardi il Macchiavelli fece di Cesare Borgia un eroe; gratitudine, intendimento politico e ricordanze di quei suoi anni giovanili vissuti in vita cortigianesca influirono sul giudizio di lui: celebrò Ugo come principe prudente, coraggioso, liberale, favoreggiatore di preti e di scienze, e addirittura lo appellò filosofo. Certo è che quel Principe s’ornava di pregi fuor del comune; le sue dissolutezze ammantava con forme cavalleresche; [350] molto trattava con Santi, ad esempio con Odone di Cluny; ma in pari tempo era il più audace libertino del suo tempo. Poco diverso da un Sultano, teneva con sè un aremme ben fornito; financo Liudprando, ai cui occhi tutte le donne parevano non esser altro che femmine da partito, ne lo doveva biasimare, ma, in mezzo alla censura, trovava di che spassarsi alla facezia del popolo, il quale alle favorite di Ugo dava nomi di dee; chè Pezola era appellata Venere, Rosa passava per Giunone, e la bella romana Stefania aveva nome di Semele. Ad ogni modo, innanzi ai delitti di Ugo, anche il Vescovo, che pur era privo di coscienza, non può far tacere ogni voce di verità, ed egli stesso narra che, per ottenere la mano di Marozia, il Re non si trattenne di vituperare la propria madre. Le leggi canoniche divietavano i maritaggi fra cognati come se fossero state nozze incestuose, e Marozia era stata moglie di Guido, fratello uterino di Ugo. Perciò questi andò affermando publicamente, che i tre figli di sua madre Berta erano stati suppositi nel parto: non giovò che Lamberto, secondo il costume di quel tempo, dimostrasse in duello l’origine sua legittima, e della prova uscisse vincitore; Ugo attirava un dì il fratello in un suo trabocchetto, lo faceva acciecare, lo cacciava in un carcere, e dava il margraviato di Toscana a Bosone fratel suo, nato dell’istesso padre. Tostochè s’era così liberato di Lamberto, andava egli a Roma per celebrare il suo matrimonio con Marozia, cui la morte di sua moglie Alda aveva lasciato libero il varco.
Marozia, di mariti non mai sazia, calpestò ogni riguardo religioso, chè censure o anatemi non poteva [351] temere da un Papa che le era figliuolo[373]. Appena morto Guido, ella aveva spedito messaggi a Ugo, per offerirgli la sua mano di sposa e il possedimento di Roma, dove la podestà temporale non era più del Papa. Ella medesima non si sentiva ben forte nella signoria della Città; soltanto per breve ora una femmina poteva tenervi luogo potente coll’ajuto di uomini che erano suoi vassalli o zerbini, e doveva ben temere che i Romani, presto o tardi, risentendosi di loro onta, fossero per iscuotere il turpe giogo[374]. Alla sua sconfinata ambizione sorrideva il pensiero di cambiare il titolo di senatrice, ossia di patrizia, colla pompa di regina, e già le pareva di ornarsi della porpora d’imperatrice, chè il figliuolo di lei, Giovanni I, non avrebbe potuto rifiutarsi di porre la corona imperiale sul capo di colui che presto sarebbegli divenuto patrigno, ed era re d’Italia. Ugo non adescavano i vezzi di una beltà avvizzita, bensì le aspettazioni che gliene erano offerte, ed ei veniva a Roma [352] per isposarsi a Marozia e per torre possesso del Patriziato, della Città e di tutto ciò che doveva conseguire da quel connubio. Gli avvenimenti che ora succedevano segnavano nella storia di Roma caratteri tutto nuovi; di repente e per la prima volta partorivano una tirannide, quale nei tempi antichi aveva oppresso le città di Grecia, o quale, nel più tardo medio evo, doveva gravare le spalle alle città d’Italia.
Nel Marzo dell’anno 932 Ugo giunse alla testa di un esercito: sia che seguisse l’esempio dei suoi predecessori o che obbedisse alle leggi di Roma, fece che le sue soldatesche ponessero campo fuori della Città; egli v’entrò con grande accompagnatura di cavalieri, circondato del clero e della nobiltà, che lo avevano salutato con omaggio degno di re. La fidanzata stava attendendolo ansiosamente, ma gli sponsali di quella femmina, maestra raffinata d’arti galanti, dovevano celebrarsi entro a un sepolcro: la sala delle nozze e la stanza nuziale erano apprestate con grande magnificenza in una tomba, quella di Adriano imperatore, il cui sarcofago di porfido riposava allora tuttavia nella camera sepolcrale. Al mondo non v’ha un secondo edificio, il quale possa vantare una storia fortunosa sì che superi ogni imaginativa, parimenti di quella del mausoleo di Adriano: nè esso l’ha peranco tutta fornita la sua storia; gli si spetta di continuarla ancora per un corso di secoli lunghi, i quali non saranno peraltro tanto tristi e oscuri come furono quelli del suo tempo passato. Da Onorio in poi, nella storia della Città ci avvenne di far cenno spesse volte di quel monumento; e di esso parlammo da ultimo, allorquando le brune [353] cime delle sue moli furono inondate di luce alla visione celeste che parve innanzi agli occhi di Gregorio. Fin dal settimo secolo, a ricordanza di quel portento, s’era edificata una chiesa sul suo vertice sommo, e dedicata all’arcangelo Michele; dal suo luogo aveva avuto nome di S. Angeli usque ad coelos, «fino al cielo»[375]. Al tempo di Marozia era quasi caduto in oblio l’officio cui in origine aveva servito il castel Sant’Angelo; appellata dal popolo «casa di Teodorico», da secoli la tomba di Adriano serviva da fortezza munita, ed era la rocca più salda, anzi la sola, di Roma. Ella è perciò cosa mirabile, che Liudprando, il quale coi proprî occhi vide la mole di Adriano, la chiami fortezza addirittura, senza pur darle nome di Hadrianeum. Poichè Liudprando scriveva la storia degli eventi di allora, gli premeva di dare la descrizione del castello, sì come ne aveva preso cura Procopio, allorchè aveva narrato dell’assalimento recatovi dai Goti: però adesso s’era spenta ogni idea d’antico, e Liudprando non sapeva dir altro che queste parole: «All’ingresso della città di Roma v’ha una fortezza; mirabile ne è il lavoro e mirabile la gagliardia; innanzi alla porta sua è edificato un prezioso ponte che traghetta il Tevere, e dal quale passano tutti coloro che entrano in Roma o che ne escono, sempre che lo conceda la scolta della rocca. E la fortezza, per tacere di tutto il rimanente (questo ci addolora!), è tanto alta che la chiesa edificata all’arcangelo [354] Michele, e che vedesi eretta sul vertice suo, è chiamata S. Angeli Ecclesia usque ad coelos»[376]. Magnifico pertanto doveva essere tuttavia l’aspetto del mausoleo, e ancora doveva possedere molta parte dei suoi intonachi di marmo. Per fermo vi si leggevano peranco le iscrizioni degli Imperatori ivi sepolti, che il frate di Einsiedeln trascrisse; ma il tempo aveva appena lasciato una sola delle sue statue o uno solo dei suoi colonnati che non fossero miserevolmente ruinosi, ed è difficile che sul ponte di Adriano sorgessero ancora quelle statue che un tempo lo avevano adorno di tanto grande bellezza.
Ugo adesso era messo dentro al castel Sant’Angelo, vi celebrava il suo matrimonio con Marozia, e può darsi che il figlio di lei, Giovanni XI papa, lo benedicesse. Tacciono i Cronisti delle festività date in occasione di questo strano imeneo, ed è mirabile cosa che eglino non facciano pur parola degli apparati della coronazione imperiale. Se questa, nè può dubitarsene, stavasi preparando, la repentina mutazione delle cose che avveniva in Roma la faceva tramontare. Ugo, che era in possesso del castello ed aveva innanzi agli occhi la sua prossima podestà, cominciava con grande alterigia a farla da padrone: trattava con disprezzo gli ottimati romani, e da ultimo recava offesa mortale ad Alberico, giovane figliastro suo, il quale doveva [355] odiar di gran cuore il matrimonio della madre, dappoichè questo troncasse la via ai suoi intendimenti. Già l’astuto Ugo aveva accolto il disegno di disfarsi, tosto che gli fosse data opportunità propizia, del giovane romano con acciecarlo o con mescergli veleno, e Alberico da parte sua ne viveva anche in temenza. Costretto dalla madre a prestare al patrigno officio di paggio, un bel giorno il giovinetto con baldanzosa inaccortezza, mentre gli versava acqua, ne rovesciava tutto il vase sulle mani del Re superbo, che lo puniva con una ceffata. Alberico, gettando fiamme per l’ira che gli bolliva in petto, si lanciava fuori del castello, raccoglieva i Romani, gli scaldava con un discorso, dimostrava essere per loro onta indegna obbedire al governo di una femmina e lasciarsi dominare dai Borgognoni, barbari famelici che un tempo erano stati schiavi di Roma. Alle sue parole dava nerbo la ricordanza dello splendore antico di Roma, che invocava: quelle reminiscenze, immortali in Roma come i monumenti delle età trascorse, ebbero sempre potenza, in pari condizioni di cose, di accendere l’animo dei Romani; talmente avveniva allora che Alberico parlava, come più tardi accadde ai tempi di Crescenzio, di Arnaldo, di Cola di Rienzo, di Stefano Porcari, o dei così detti republicani dell’anno 1798 e del 1848[377]. [356] I Romani, che da lunghissimo tempo covavano desiderio di sollevarsi contro a Marozia e contro al novello Patrizio che loro era imposto, si levarono furibondi. Le campane sonarono a stormo; il popolo corse con grida terribili alle armi, sbarrò le porte della Città affine di impedire che v’entrassero le soldatesche di Ugo, e diè assalto al castel Sant’Angelo. Ugo e Marozia stavano rappiattati e tremanti nella tomba di Adriano. Poichè non poteva sperare di difendersi lunga pezza contro gli assalitori, il Re pensò di fuggire: di nottetempo, come un galeotto che scampa del carcere, calò del castello tenendosi a una fune, scese alla mura della città Leonina, e, lieto in cuor suo di avere schivato la morte, corse al campo de’ suoi, donde poi mosse con malanno e con vergogna a Lombardia, dietro a sè lasciando il suo onore, la sua donna e una corona d’imperatore.
Siffatta fine imprevista ebbe in Roma la pompa regale del matrimonio di Marozia. Ma la Città era libera e giubilante. D’un colpo solo i Romani s’erano disfatti di monarchia regia, d’impero, di podestà temporale del Papa, avevano conseguito independenza cittadina, e adesso eleggevano, ossia acclamavano Alberico a loro principe: prima opera del giovane signore di Roma era quella di cacciare in un carcere la madre, e di serrare in Laterano con vigilata custodia il fratello suo, Giovanni XI papa[378].
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Il rivolgimento avvenuto in Roma non s’inspirava in guisa alcuna a quelle idee romantiche dell’antichità, che più tardi vedremo sorgere a vita nella Città. Aristocratica ne era l’indole, e Roma diventò republica di nobili. Dacchè i Papi avevano conseguito il reggimento temporale, le famiglie romane di ordine cospicuo gli avevano combattuti sempre, e il risultamento di quella lotta era stato, ognor più, favorevole ad esse. La mano vigorosa de’ Carolingi primi aveva messo a dovere gli ottimati; la caduta della podestà imperiale aveva lor lasciato libero il campo. Al finire del secolo nono erano eglino diventati i padroni del reggimento civico; sotto di Teodora, e più decisamente sotto di Marozia, s’erano veramente insignoriti del potere. Il rivolgimento dell’anno 932 abbatteva la possanza effettiva, ma illegittima, di una femmina, che aveva trovato sostegno nella salda grandezza di sua famiglia e dei mariti suoi, uomini non romani: ed era propriamente l’erede [358] di quella donna romana, che la rivoluzione elevava a capo della Città, in quello che ne consecrava la signoria con elezione e con titolo legittimo. Il mutamento di cose tolse al Papa, che alla medesima famiglia apparteneva, il dominium temporale, e lo diede al fratello di lui: fu in pari tempo una rivoluzione di famiglia e di Stato. Colla cacciata di Ugo i Romani proclamarono di non volerne saper più di gente straniera, di non voler Re o Imperatori che, da signori supremi li tenessero in sudditanza; protestarono di volersi reggere da sè stessi con ordini nazionali. Roma fece tentativo mirabile di conseguire independenza politica; e, tutt’a un tratto, la città capitale del mondo entrò nel novero dei piccoli Ducati italici, sì com’erano Venezia, Napoli, Benevento: in mezzo alla cerchia delle donazioni che avevano costituito lo Stato della Chiesa i Romani si proponevano di formare uno Stato temporale libero, in quello che il Pontefice era ridotto alle sue discipline religiose, sì come era stato anche in tempo addietro.
Il titolo nuovo che la Città concedeva al suo signore novello, non fu di Consul o di Patricius dei Romani; i contemporanei suoi, lo chiamano così, soltanto perchè se n’era diffusa costumanza. In questo periodo di tempo la dignità di Patrizio denotava la podestà puramente temporale e giudiziaria che reggeva Roma, ma si associava al concetto di un vicariato pari a quello che altra volta aveva avuto l’Esarca, e perciò significava che, al di sopra del Patrizio, stava una podestà suprema di comando. A titolo di tale natura non si volle dare accoglienza, laonde Alberico ebbe quello di Princeps atque omnium Romanorum Senator, ed egli sottoscrisse [359] ai suoi atti, secondo lo stile del tempo, in questa maniera: «Noi Alberico, per grazia di Dio, umile Principe e Senatore di tutti i Romani»[379]. Di siffatti titoli insieme associati, quello soltanto di Princeps era nuovo per Roma. Roma vi faceva protesta di sua independenza; avvegnaddio anche Arichi di Benevento si fosse dato titolo di Princeps, allorquando, caduta Pavia, aveva proclamato il suo principato independente. Poichè la podestà regia era separata dal Papato, il titolo significava la podestà di principe temporale, a contrapposizione di quella religiosa che il Pontefice continuava a possedere: pertanto, esso era anteposto decisamente a qualunque altro, e lo dimostrano Diplomi e Croniche, dove talvolta difetta l’altro titolo di «Senatore di tutti i [360] Romani.» Per lo contrario, anche Teofilatto, avo di Alberico da parte di madre, aveva tenuto dignità di «Senatore dei Romani», ma, probabilmente adesso per la prima volta, il titolo si accresceva coll’addiettivo «tutti». In sè aveva un’importanza essenzialmente civica, che allettava le ricordanze dei Romani; e siccome poi Alberico usciva del seno dell’aristocrazia, che allora abbastanza spesso aveva nome di Senatus, in lui si riveriva di quel modo il capo della nobiltà romana. Dicendo della storia del secolo ottavo, noi ci siamo industriati di scoprire se qualche traccia vi avesse di una esistenza continuata del Senato romano, ma trovammo che questo, fuor d’ogni dubbio, s’era spento. Anche durante il periodo de’ Carolingi non si riscontra indizio di sua vita; ma, ancor più frequente negli Storici del secolo nono e in quelli del decimo, e nei documenti di quelle età, si produce il nome di Senatus, tolto in forma di concetto generale. Dacchè l’Impero romano era stato restaurato sotto di Carlo, dacchè i titoli antichi di Imperator e di Augustus, e financo la determinazione del Postconsolato degli Imperatori tornavano a udirsi novellamente, rivivevano allora più fortemente le memorie dei tempi antichi; se già gli ottimati dei Franchi di buon grado si nomavano Senatus, cupidamente ancor più la nobiltà di Roma doveva impadronirsi del titolo: e tanto abituale diventava, che il nome suo si legge fino negli Atti di un Concilio, là dove è statuito che il Papa debba essere eletto da tutto il clero, dopo la proposta che ne facciano il Senato e il popolo[380]. Però, non sono più [361] degne di accoglimento le opinioni di quegli Scrittori, che, dall’usanza di un nome antico, conchiudono alla durata del Senato, così che questo nel secolo decimo continuasse in vita. La esistenza di un Senato fa presupporre che vi fossero dei Senatori veri, ossia dei singoli membri suoi che si nomassero e si sottoscrivessero col nome di Senator, ma, quantunque in carte innumerevoli di quell’epoca, prima e dopo, trovassimo uomini romani che si segnavano col titolo di Consul e di Dux, neppur una ci fu dato di scoprirne, in cui un Romano si appellasse Senator. Questo concetto si presenta ognora con significato collettivo, e, in generale, si discorre di Senato e di nobili Senatori, ossia di maggiorenti della Città. Teofilatto fu, dopo la fine del Senato antico, il primo uomo romano che si nomasse Senatore dei Romani, ma l’addiettivo «tutti» dappoi dimostra, che di un Senato veramente costituito non può aversi mente. Parimente non crediamo che il titolo di Senator in Alberico avesse pari significazione di Senior ossia di «Signor», e reputiamo che più determinatamente denotasse la sua podestà municipale[381]. Concedendogli [362] il consolato a vita, colla dignità di «Senatore di tutti i Romani», i Romani significavano la maggior larghezza dell’officio ch’egli doveva tenere nella nuova Republica romana; nè puossi perder di vista che, anche in tempo posteriore, spesso non v’ebbe in Roma che un solo Senatore. Oltracciò, questo titolo si mostra essere stato ereditario nella famiglia di Alberico, locchè non accadde per alcun’altra stirpe di Roma: ed invero anche le donne, la sua zia, la giovane Teodora, le figlie di lei Marozia e Stefania, avevano nome di Senatrix, e, financo, il titolo era reso completo coll’aggiunta omnium Romanorum. Ed è cosa abbastanza degna di nota, che femmine si ornassero in Roma del nome di Senatrici, laddove in quel tempo nessun Romano tenesse titolo di Senatore fuori di Alberico, e, dopo di lui, di Gregorio di Tusculo che gli fu nipote[382].
[363]
La nuova signoria di Alberico posava dunque, anzi tutto, sulla aristocrazia: meglio ancora, il suo fondamento più robusto risiedeva nella potenza di sua famiglia. Non erano caduti in dimenticanza i servigî prestati dal padre suo, che aveva capitanato i Romani al Garigliano ed ornato Roma di nuovi allori; sennonchè, ultimamente, questo padre era pure stato nemico di Roma, e sempre uomo intruso: che ciò durasse in mente, ce ne ammaestra il considerare che il figliuolo non vien mai denotato dal padre suo Alberico, ma sempre dalla madre Marozia, avvegnaddio questa donna romana per qualche tempo fosse stata capo della famiglia, che più tardi ebbe appellazione di Tusculana, e il giovane Alberico non dal padre, ma da lei ereditasse tutto quello che possedeva. La casa di Marozia (questa donna scompare dalla storia senza lasciar traccia di suo fine) s’associava per ragione di matrimonî a molte altre famiglie, che erano in Roma e nel territorio della Città. Poichè ora Alberico possedeva dovizia molta, ed estesi beni fondi, e numerosi vassalli, e il castel Sant’Angelo, per sè stesso era ormai l’uomo di massima potenza; gli altri ottimati egli incatenava alla sua causa per comune beneficio della independenza, per elettissimi officî del reggimento che loro concedeva, e per donativi di molti beni ecclesiastici che eglino chiedevano con avida cupidità. Il mutamento avvenuto in Roma traeva [364] seco un organamento nuovo; la nobiltà s’impadroniva del governo, ed ora poteva statuirsi la cerchia di coloro cui il reggimento apparteneva, e che avevano il diritto di prender parte alla cosa publica. Confessiamo però, che ci mancano notizie precise degli istituti di Alberico. Non udiamo parola di un Senato che si raccogliesse nel Campidoglio, nè di nuovi ordinamenti nella magistratura. Non si discorre di Patrizio o di Prefetto, imperocchè Alberico la loro podestà raccogliesse nella persona sua; nè si può pur pensare ad una costituzione civica che si foggiasse secondo lo stile dei tempi posteriori. Le relazioni della nobiltà col ceto de’ cittadini mediocri, non s’erano allora peranco stabilite in forma di contrapposti, e gli è soltanto da questi che derivano gli ordini delle costituzioni. In una città che non aveva vita di traffici o di industrie, che era zeppa di preti, di frati, di monache, ch’era dominata da prelati, a mala pena poteva esistere una classe di media cittadinanza. Non v’erano che preti, nobili e plebe, ma il ceto medio sociale, fornito d’intelletto e di operosità, su cui riposano le libertà e le forze dello Stato, mancava in Roma, sì come propriamente vi manca anche al dì d’oggi. Abbiamo riletto con attenta cura i documenti di quell’età, per iscoprirvi traccia della vita dei cittadini mediocri di Roma: qua e là rinvenimmo soltanto citati dei testimonî col predicato dei loro mestieri, quali sono quelli di lanista, di opifex, di candicator, di sutor, di negotiator. Ma i lavoratori delle lane, gli orafi, i fabbri, gli operai, i pochi mercatanti, attendevano alle loro arti in una città che non aveva spiro d’industria, senza che pur loro sorgesse in mente con qualche vivezza il pensiero, [365] che anche a loro competeva diritto di prender parte al governo cittadino. Gli era soltanto all’elezione del Papa che facevano udire con acclamazioni la loro voce, e, nelle cose di loro interesse, si congregavano in tornate delle loro Scuole, ossiano artes, che duravano sotto il reggimento di proprî priori. La povertà e le necessità della vita li tenevano in dipendenza degli ottimati che chiamavano loro patroni, e presso ai quali eglino, sì come i coloni ossiano fittaiuoli, stavano spesse volte in condizione di clienti e in pesante rapporto di protezione e di debito: può darsi che il novello signore di Roma li regalasse di privilegî in riguardo alle loro corporazioni. Il popolo minuto finalmente, quantunque massimamente vivesse della Chiesa e della liberalità di essa, mutava volentieri di padrone, e di buon grado obbediva ad un Principe romano fornito di energia, ch’era giovane, splendido, bello di persona, e collo sguardo imponeva autorità[383]. La sua mano di ferro reprimeva i tumulti, dava quiete al cittadino, e lo difendeva contro le tracotanze dei forti; senza di ciò egli non avrebbe mai potuto durare così lungamente padrone di Roma.
Per raffermare il poter suo era costretto a rivolgere la sua sollecitudine operosa all’organamento delle [366] forze militari. La soldatesca di Roma continuava ad avere ordine di Scuole, avvegnaddio ce lo insegni la formula, pur sempre adoperata nei contratti, in cui al fittavolo viene proibito di cedere il fondo a luoghi pii, oppure al numerus seu bandus militum. Egli è dunque assai probabile che Alberico guarentisse il suo potere col soccorso della milizia cittadina, togliendola sotto la sua capitananza e agli stipendî suoi. La rendeva forte, soprattutto la costituiva a nuovo, e forse da lui derivava un altro scompartimento della Città in dodici Regioni, ciascuna delle quali comprendeva un reggimento di milizia sotto ad un vessillifero: infatti, dopo di lui, la milizia cittadina s’elevò a maggiore importanza, sì come vedremo. Egli ne aveva bisogno per ottenerne soccorso contro agli intrighi del clero che aveva avverso, contro le gelosie della nobiltà e contro gli assalimenti di Ugo. I Romani della nobiltà, del clero e del popolo gli prestavano giuramento di obbedienza, e d’allora in poi quell’uomo ardito pare monarca vero della Città.
Nei suoi Diplomi tiensi nota, come fu stile prima e poi, del pontificato e dell’anno di governo del Papa, ma le monete dei Pontefici sono adesso impresse col nome di Alberico, come per lo passato facevasi di quello degli Imperatori[384]. La pienezza della sua podestà in Roma, [367] è riconosciuta parimenti negli atti giudiziarî. Solevasi, a’ tempi prima, tenere i tribunali nel Laterano o nel Vaticano, alla presenza del Papa, dell’imperatore o dei loro Missi: adesso, non appena che Alberico ebbe tolto il dominio temporale al Pontefice, il tribunale supremo di Roma fu raccolto presso al Principe di Roma. Può darsi che, più tardi come già in addietro, corti di giustizia fossero radunate in luoghi parecchi, ma ha una grande significazione per i mutamenti di cose avvenuti, che egli facesse sedere il suo tribunale anche nelle sue proprie case. Queste ei possedeva sul monte Aventino dove era nato; però la sua dimora abituale aveva nella via Lata in vicinanza alla chiesa degli Apostoli, probabilmente nel luogo dove oggidì è il palazzo dei Colonnesi, famiglia che vuol discendere da Alberico. Abbiamo già osservato che questo quartiere era il più ragguardevole della Città; vi avevano abitazione i nobili; era il sito di Roma animato di maggior vita, circondato dalle rovine, in quel tempo ancor grandiose, delle terme di Costantino e del foro di Trajano; comprendeva la via Lata che è la parte superiore del Corso odierno. Ci è conservato un documento, che ne offre notizia di un Placito tenuto [368] da Alberico, nel suo palazzo. Addì 17 di Agosto dell’anno 942, innanzi a lui comparve Leone, abate di Subiaco, in una lite che sosteneva il suo convento: giudici della curia di Alberico erano Marino vescovo di Polimarzio e bibliotecario, Nicolò primicerio, Giorgio secondicerio, Andrea arcario, il Saccellario, il Protoscriniario della sede apostolica, e, in pari tempo, quei nobili della Città che allora andavano per la maggiore. I loro nomi leggiamo con avida curiosità. Erano, Benedetto chiamato Campanino (cioè conte nella Campagna), Caloleo, il dux Gregorio de Cannapara, Teofilatto vestarario, Giovanni superista, Demetrio figlio di Melioso, Balduino, Franco, Gregorio dell’Aventino, Benedetto Miccino, Crescenzio, Benedetto de Flumine, Benedetto de Leone de Ata, Adriano dux, Benedetto figlio di Sergio, ed altri ancora[385]. Qui pertanto si distinguono due classi di giudici. Alla prima appartengono (come fino a questo tempo era stato) i ministri palatini pontificî, prelati che, tosto dopo di Alberico, avranno nome di Judices ordinarii; e di qui si rileva che il Principe dei Romani teneva immutato l’ordinamento pontificio nelle cose della giustizia. I nobili di Roma, parimente come per lo innanzi, formavano [369] la seconda classe di giudici, ma adesso v’entravano in qualità di curiali o di cortigiani del Principe. Quei nobili uomini erano obligati ad esercitare funzioni di assessori nelle sue corti di giustizia, ed era officio che spesso poteva loro riuscir grave. Infatti, a quel tempo non v’avevano peranco assessori permanenti, alla foggia degli Scabini franchi o dei Judices Dativi venuti più tardi; gli ottimati facevano dunque da veri giudici che pronunciavano sentenza, oppure anche assistevano ai giudizî in qualità di boni homines[386].
I Cronisti di questa età non hanno attribuito al figliuolo di Marozia alcuno dei vizî che biasimarono nella madre sua: nessuno di loro leva la voce per rimproverargli un solo di quei delitti onde si contaminò re Ugo. Se sono istizziti contro di lui, ciò avviene soltanto perchè egli aveva tolto al Papa il reggimento temporale, [370] lo teneva quasi da prigioniero, e sembrava aspreggiare con tirannia la Chiesa[387]. Altri, e cioè i partigiani della podestà imperiale germanica, lo ingiuriano come s’ei fosse un usurpatore, ma, in fondo, la sua signoria, almeno in ciò che riguarda l’Impero, non era usurpazione per guisa alcuna, avvegnachè quello allora si fosse spento, e il Re d’Italia non avesse diritto di sorta sulla città di Roma. Se ai tempi di Gregorio II, quando ancora un Imperatore legittimo possedeva titolo giuridico sopra di Roma, i Romani, serbando viva sempre la tradizione di Republica ossia del diritto di elezione imperiale, s’erano appropriata pienezza di potere per mutare la loro sovranità di governo, per torla a Bisanzio e per darla al Papa, a maggior ragione credevano eglino adesso di potersi apprendere una pari facoltà, adesso che Imperatori più non v’avevano. Nè Pipino, nè Carlo avevano donato Roma ai Papi; questa s’era data loro da sè, di spontanea volontà, ossia tacitamente. La costituzione carolingia dell’Impero, che aveva consecrato la podestà territoriale del Pontefice, era crollata insieme coll’Imperium, e i Romani ora rivendicavano novellamente il loro diritto antichissimo, senza pur darsi pensiero che anche i diritti del Papa si fossero resi legittimi per corso lungo di tempo, e, ancor meglio, per mille e mille opere gloriose onde Roma nuova era stata creazione dei Papi. Pertanto, i Romani elessero [371] dal loro seno un Principe, così come elegger solevano il Papa, e la podestà temporale, che un tempo a quest’ultimo avevano concesso, ora attribuirono a quell’altro.
Gli è con grande attrattiva che gli uomini della posterità mirano alla persona del romano Alberico, il cui animo, composto a virile prudenza, adatto a grandi cose e degno d’imperare su Roma, supera di eccellenza tutti quei suoi succeditori, che più tardi nella Città vennero tentando di restituirla a libero stato. Poichè la necessità degli eventi gli imponeva di usare moderatezza, egli si accontentava della signoria di Roma e di quel tanto territorio che stava sotto al dominio di essa. Chetamente ei si tenne il titolo modesto, ma bello, di «Principe e senatore di tutti i Romani», nè si lasciò abbagliare d’ambizione maggiore, avvegnachè, a procacciarsi titolo d’Imperatore, egli avrebbe dovuto in prima conquistare la corona dell’Impero longobardo. Invece dunque di combattere contro Ugo per istrapparsela, come avrebbe fatto qualche avventuriero, egli, da savio, stette pago della podestà che aveva in Roma; perciò accadde appena mai una seconda volta, che questa Città godesse di sicurezza così grande e di pace interiore così soda, come durante il lungo reggimento di lui.
Era a prevedersi che Ugo avrebbe anelato a vendicarsi. Venne egli infatti, nell’anno 933, con un esercito; certo che aveva rinunciato senza dolore a Marozia sposa sua, la cui liberazione, se ancor essa viveva, per sicuro non metteva gran cura a chiedere; ma ardeva di desiderio di punire la Città, di far valere i diritti ch’egli vantava dal suo matrimonio, e di torsi la corona imperiale. [372] Sebbene facesse ogni giorno muovere assalto alle mura, dovette voltar indietro senza alcun risanamento, e tenersi contento di dar il guasto alla Campagna[388]. Tornò del 936, ma non ebbe fortune migliori; mentre stava assediando la Città, una pestilenza gli mieteva le sue soldatesche, e finalmente era costretto di conchiudere pace con Alberico: Odone di Cluny deve esserne stato intercessore. Ugo accondiscese perfino ad accordare Alda, figlia sua di legittime nozze, in moglie al figliastro ch’era invincibile; sperava l’astuto Re di trar nelle sue reti il Romano audace, ma ne fu deluso, chè Alberico ben accoglieva nella Città la sua fidanzata regale, ma non il patrigno, anzi ai vassalli ribelli di questo dava ricetto in Roma; e poichè adesso gli uomini malcontenti fuggivano della Città, e si ricoveravano nel campo del Re, dalle due parti se ne alimentavano i sospetti e gli odii[389]. Alberico si sposò con Alda. Gli intendimenti di lui, rivolti ad ottenere la mano di una Principessa greca, caddero allora, o più tardi, a vuoto. Per lo meno, racconta il Monaco di Soratte che Alberico mandava a Bisanzio, ambasciator suo, Benedetto della [373] Campagna, e che apparava le sue case ad accogliere la sposa, obligando nobili donne della Città e della Sabina a venire nelle sue stanze, perchè servissero da ancelle alla Principessa. Però questo maritaggio, dice il Cronista, non giunse a compiersi[390]. È probabile cosa che Alberico cercasse di raccostarsi alla corte di Grecia, per averne il riconoscimento del suo principato, e per ornarsi dello splendore che gli sarebbe venuto da così cospicuo parentado. Dopo che era caduto l’Impero di Occidente, Bisanzio destava di sè nuova temenza; i Greci, in causa di loro successi avventurati, erano venuti sempre più accostandosi a Roma; gli Imperatori d’Oriente non cessavano mai di reputare sè stessi in conto di legittimi Imperatori romani, e loro agenti mantenevano continuamente in Roma. Un’alleanza con loro, poteva dare ad Alberico un valido sostegno contro ad Ugo, e forse i Bizantini vi avrebbero consentito, se il padrone di Roma avesse aderito di diventare Patricius sotto ai loro ordini. Incerto è il tempo di questi negoziati, e ancor essi sono ravvolti nel buio; questo solo sappiamo, che Alberico si sforzava di comporre l’opera sua in modo che andasse a’ versi dell’imperatore Romanus, ed obligava il Pontefice ad accordare l’uso del pallio a Teofilatto, patriarca bizantino e figlio dell’Imperatore, senza che i succeditori di lui nel patriarcato avessero più bisogno di [374] chieder per ciò la licenza pontificia. Questa concessione, contraria ai canoni, manifesta qual fosse l’arte politica di Alberico, ma non dimostra che fosse intendimento suo di riporre novellamente Roma sotto la soggezione di Bisanzio. Piuttosto è che le sue trattative fallirono a causa degli intrighi di Ugo, e per il rifiuto ch’egli stesso opponeva alla proposta che gli veniva fatta di tradire Roma[391].
Giovanni XI, fratello di Alberico, trapassava di vita nel Gennaio dell’anno 936, dopochè, ristretto al suo officio spirituale, era vissuto sei anni privi di splendore, durante i quali il fratello suo l’aveva tenuto d’occhio con vigilanza severa[392]. Lui morto, il signore di Roma aveva costretto un monaco benedettino ad accettare la tiara[393]. L’animo pieghevole di Leone VII, che nutriva sentimenti di modestia monacale, ne lo rendeva un Papa assai docile e maneggevole per Alberico, e, poichè rinunciava alla podestà temporale senza opporre [375] contrasto o protesta, non sorgevano difficoltà nelle relazioni di quei due uomini. Reprimendo i sospiri, Leone appellava il suo patrono e tiranno con nome di «misericordioso Alberico, figliuol suo spirituale diletto, e glorioso Principe dei Romani[394]». Flodoardo cronista dedicò a quel Papa alcuni versi inspirati a gratitudine, perocchè ne avesse avuto amichevoli accoglienze in Roma; lo laudò come dovrebbesi sempre celebrare un Papa, disse che era uomo santo, tutto inteso alle divine cose, e sprezzatore delle terrene; però il Cronista evitò di dire una parola sola che si riferisse ad Alberico[395]. Così veramente era fatto di necessità virtù.
Il savio Principe dei Romani aveva posto sulla cattedra di san Pietro un pio fraticello, e ve lo faceva risplendere di virtù apostoliche; è così che noi troviamo Papa e Principe adoperarsi d’accordo per restaurare quelle modeste consuetudini della vita monastica, che s’erano perdute: perciò, noi dobbiamo qui rivolgere uno sguardo all’istituto del monacato.
Sorto sugli incominciamenti del secolo sesto, allora [376] che la società romana antica andava dissolvendosi, l’istituto di Benedetto, nel corso di quattro secoli, aveva fornito il suo còmpito di cultura storica, ed era caduto in ruina. Era stata missione sua di contribuire a foggiare la novella società cristiana: in mezzo ai popoli barbarici, i monaci nelle loro associazioni avevano raffigurato una società inspirata a’ principî d’ordine, sebbene ristretta ad un’idea unica; sua forma era quella di una famiglia obbediente ad un padre, e unita insieme da vincoli di autorità e di amore. Morte erano le leggi scritte della vita civile, ma i Benedettini avevano composto quasi un nuovo codice di civiltà, onde la regola di Benedetto fu il più antico libro di leggi che si compilasse nel medio evo: così, in mezzo alla barbarie, seminarono i germi di una società di fratellevole amore cristiano. Mentre il mondo tutto era un focolare fumante d’incendio, essi nelle loro associazioni vivevano una vita di pace, di lavoro, di pietà, e ai popoli rozzi additavano un regno d’idealità morale, di cui s’aveva tanto bisogno, dove si stava a riparo dalle necessità, dove felicità e requie, obbedienza e umiltà fiorivano rigogliose e belle. Cooperarono potentemente a domare la barbarie; con valore d’apostoli convertirono i pagani; coll’evangelio soccorsero alla spada di Carlo conquistando province, ed allargarono la cerchia delle terre soggette alla Chiesa. Nei loro conventi trovavano asilo la sventura e la colpa; ed erano in pari tempo vivai gloriosi della scienza, sole scuole dell’immiserita gente umana, rifugio unico dove si ricoveravano le ultime reliquie della civiltà ellenica e romana. Le loro idee o i loro fantasticari si perdevano nelle più remote regioni del cielo, eppure in [377] pari tempo quei sognatori seminavano i campi, e mietevano e raccoglievano i frutti della terra in capaci granai. Poichè eglino stessi possedevano beni e coltivavano le terre, sì come statuiva la regola di Benedetto informata a leggi di vita pratica, diventarono fondatori di città e di colonie; e tratti innumerevoli di paesi andarono debitori ad essi di nuova coltura, di fecondità, di popolo e di fiore[396]. Fecero una grande opera di civiltà storica componendo l’amore cristiano a principio sociale, educando colle scuole, coltivando i terreni, edificando città, frapponendosi pacieri in mille maniere nel mezzo delle forze feroci che si combattevano l’una contro all’altra, associando alla Chiesa gli elementi temporali di cui massimamente i monaci usavano per vincere la barbarie: e questa fu missione gloriosa che guarentirà all’istituto di Benedetto uno splendido luogo negli annali della gente umana. Ma quel còmpito era omai fornito allora che Carlo costituiva la monarchia germanico-romana, laonde, col secolo nono, il monacato precipitava rotoloni dalla sua altezza. Ad onta che riformazioni molte abbia ricevuto anche più tardi, ad onta che ordini monastici nuovi, ed in parte celebri, sieno stati dappoi fondati, non uno di essi possedette più le virtù cristiane, nè il valore [378] sociale dell’istituto di Benedetto; perocchè tutti abbiano obbedito soltanto a tendenze inspirate a fini speciali, e si sieno posti agli stipendî della Chiesa, e abbiano seguito particolari indirizzi delle loro età.
D’altronde, il rapido decadimento del monacato benedettino s’associava intimamente in tutti i paesi alla caduta dell’Impero e del Pontificato. Soggiaceva alle cause stesse; però il monacato racchiudeva in sè un germe di dissoluzione che, per forza di principio, lo andava logorando più degli istituti ecclesiastici e politici. Allorchè, conseguenza del nuovo ordinamento politico di Carlo, gli elementi temporali si fecero intrepidamente davanti sulla scena del mondo, scoppiò con grande violenza il contrasto fra le cose del cielo e quelle della terra, quel contrasto che alla muta stava spiando l’opportunità di erompere. Dopo un periodo lungo di abnegazioni e di sacrificî, lo spirito umano cominciò a discendere dalle sfere sublimi che erano fuori della terra, e riprese il dominio di quel mondo che le idee monastiche avevano messo tanto in disprezzo. La cultura che si era andata educando poco a poco, per sè medesima non era altro che la scienza di torre possesso giocondo delle cose terrene, animate di vita e di forma. S’abbandonò il mistico regno ch’è fuor della terra, si lasciò deserta la regione dei crucci desiosi; dal cielo delle mortificazioni l’uomo ridiscese sui campi fioriti e belli della terra; la realità, mentre reclamava il suo retaggio di diritti e di colpe, venne in lotta acerba ed empia colla virtù religiosa, e partorì orribili sconci: quindi è che il secolo decimo, come il decimoquinto, ha qualche cosa di titanico. Però, non è còmpito dello Storico di entrare in quest’ordine [379] di idee; piuttosto ei può mostrare come la decadenza del monacato abbia cominciato in quello stesso momento che i conventi s’empievano di dovizie, e sia derivata dalle alte dignità d’onore e dagli officî concessi dallo Stato e dalla Chiesa, perocchè se ne accrescesse l’ambizione dei monaci, i quali, alle corti dei Re, trovavano grandissimo luogo, e financo salivano alla cattedra di san Pietro. Forniti di possedimenti immensurati, i conventi s’erano tramutati in principati, gli abati in conti, e già Carlomagno aveva dato l’esempio pernicioso di concedere abazie a baroni laici. I beni di quelle fondazioni religiose erano prodigati a nepoti, ad amici, a vassalli degli abati; e tosto migliaia di avidi predoni facevano a chi più sapesse portarsene via. In vece di Benedetto e di Scolastica, i frati si toglievano Bacco e Venere per loro santi. L’egoismo delle passioni, proprio di questo secolo di forze scapigliate e rozze, la crescente concupiscenza di piaceri, l’indicibile divisione che i parteggiari creavano, non avevano però colpa maggiore all’indisciplinatezza, di quello che lo aveva la instabilità dei rapporti politici: per ultimo, le ripetute devastazioni che gli Ungheri e i Saraceni davano ai conventi menavano ad essi il colpo di grazia. Molte abazie andavano distrutte, i loro frati si sperdevano; e dove i conventi continuavano ad esistere, la regola era infranta, e il monacato si dissolveva parimenti come la costituzione canonica del clero secolare, che un tempo era stato cura sollecita di Lodovico il Pio.
Tutta volta, allorchè il decadimento di questi istituti ebbe raggiunto il suo limite estremo, incominciò ad opporvisi contro una mirabile reazione religiosa. Al [380] cielo cadente del Cristianesimo fecero, tutt’a un tratto, puntello con loro mani alcuni santi uomini che sembravano rivivere dalle ceneri di san Benedetto. In mezzo alle angustie onde si affannava la gente umana, paurosa dell’aspettata fine del mondo, si risvegliava altresì l’impulso dell’ascetismo; in mezzo al caos di passioni ributtanti e contaminate di delitti, si sollevava con novello trionfo l’amore della contrizione e dell’espiazione; fondatori di ordini, eremiti, penitenti, sorgevano dalla terra e diventavano sognatori fantastici come quelli della Tebaide antica; missionarî e martiri percorrevano da un capo all’altro le contrade degli Slavi feroci; principi e tiranni nuovamente si seppellivano piangendo sotto il saio monacale, e il secolo della Chiesa, oscurissimo come il cielo di una notte tempestosa, cominciava a tingersi di luce e a splendere di stelle pietose.
La riforma benedettina ebbe sua origine in Francia, dove Berno fondava nell’anno 910 il suo celebre convento di Cluny, dopo che Guglielmo, duca di Aquitania, gli aveva a quell’uopo donata la sua villa di Cluniacum. Teneva quegli a fondamento la regola di Benedetto ricondotta a principî di maggiore severità, e riordinava un sistema claustrale che ben tosto si diffuse in Europa. Odone, discepolo di Berno, presto superò il maestro; fu egli l’abate missionario della riformazione monastica, e, correndo i paesi, introdusse in parecchie abazie la regola di Cluny. D’allora in poi, la congregazione cluniacense incominciò a dominare il mondo religioso, laonde acconciamente la si paragonò ai Gesuiti venuti più tardi, e alla influenza che questi ebbero grande eziandio nelle corti [381] regie. Per verità, anche il suo sistema intendeva a restaurare la supremazia di Roma, a raccogliere il mondo morale entro al Papato come in un centro, e, per siffatta guisa, la Chiesa, anche nei suoi tempi più tristi e sconfortati, non difettò di forze; sorgevano queste sempre nuovamente da essa, e le infondevano nerbo di vita nuova. L’ordine di Cluny è il primo anello di quella catena mirabile di istituti battaglieri, che mettono capo fino alla storia moderna ed ai tempi più recenti.
Odone ebbe grande onoranza da re Ugo; non fu dammeno quella che Alberico gli tributò. Più d’una volta venne egli a Roma, e di lui si giovarono Alberico e Leone VII per restaurare l’ordine modesto della vita monastica. Nella Città stessa, nell’anno 937, affidarono al suo reggimento il convento di san Paolo, di cui caduti erano gli edificî, e i cui monaci se l’erano battuta o vivevano vita gaudente. Odone vi addusse altri fratelli, e pose a capo di essi Balduino di Monte Cassino, la cui badia egli aveva già sottoposta alla sua riforma[397]. Nell’anno 939 Alberico gli dava a riformare il convento Suppontino di santo Elia nella Tuscia romana, e gli donava il suo palazzo dell’Aventino, in vicinanza dei santi Alessio e Bonifacio, perchè vi collocasse un monastero; così fu che sorse il convento di santa Maria, monumento di quel Romano illustre, il quale esiste oggidì ancora sul monte Aventino, ed è sede del Priorato di Malta[398]. Massimamente, Alberico aveva creato Odone [382] archimandrita di tutti i conventi che erano nel territorio romano, e la Cronica di Farfa, che ne dà notizia, non fa a quest’occasione pur motto del Papa, che dietro al Principe s’asconde nell’ombra. Ad Alberico andarono debitori della riforma di Cluny anche i conventi di san Lorenzo e di santa Agnese[399], e il Principe di Roma rivolse la sua vigilanza a tutte le abazie e a tutti i vescovati che stavano «sotto il suo dominio.» Non poteva egli rimanersi indifferente al loro decadimento, avvegnachè vi si aggiungesse qualche cosa di più che non fosse l’impoverimento del contado e la ruina dell’agricultura. Egli cercava di conservarne la forza, affine di darli poi ad aderenti suoi, che lo soccorressero a imbrigliare la nobiltà la quale si erigeva contro a lui audacemente. Nell’anno 937 concedeva larghezze di suo favore al convento di Subiaco, confermandone i privilegî con cui Giovanni X lo aveva investito del possedimento di Castrum Sublacense; ivi l’Abate potè esercitare diritto di giustizia per mezzo del suo prevosto. In Roma poi confermava, sotto la podestà dell’Abate medesimo, il convento abbandonato di santo Erasmo sul Celio, che quindi fu unito per sempre a Subiaco[400].
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In vicinanza di quello stava il celebre monastero dei santi Andrea e Gregorio, e ne facciamo menzione, perciocchè vi si riferisca il più notevole dei documenti relativi ad Alberico. Vale cioè notare che, addì 14 di Gennaro dell’anno 945, egli donava a Benedetto abate, il castello di Mazzano con tutte le sue pertinenze e con tutti i suoi coloni: questa terra, che allora apparteneva in proprietà alla famiglia di Alberico, trovasi ancora nella diocesi di Nepi, di cui era vescovo Sergio, fratello del Principe. Una sorte propizia ci ebbe serbato una copia di quella pergamena preziosa, che è sottoscritta da tutta la famiglia del senatore dei Romani[401]. Così è che il tiranno di Roma compare in figura nuova di zelante promotore del monacato, e, financo, la leggenda attribuisce [384] alle sorelle di lui la fondazione del convento dei santi Stefano e Ciriaco in vicinanza di santa Maria in via Lata[402]. Però, in nessun luogo la riformazione era necessaria più di quello che fosse in Farfa. Questa badia celebre, che inutilmente i Papi avevano tentato di ridurre sotto la loro soggezione, non godeva più del patronato di un Imperatore, perocchè più non ve ne fosse uno; ma adesso il dominatore di Roma teneva sè in conto eziandio di signore supremo di Farfa, e saltava oltre ai privilegî dativi dagli Imperatori. Abbiamo narrato della ruina dell’Abazia ed ora proseguiamo il racconto della sua storia. Roffredo abate aveva riedificato Farfa, ma, nell’anno 936, due dei suoi monaci, Campone e Ildebrando, in ricompensa, lo assassinavano. Campone, uomo sabinate ragguardevole, era entrato in giovine età nel convento; l’Abate lo aveva erudito nella grammatica e nella medicina, e l’allievo dava una prova eloquente dei suoi progressi in quest’ultima arte, mescendo un veleno efficace al benefattor suo[403]. A forza di donativi ottenne colui da re Ugo la dignità di abate, e allora cominciò con Ildebrando una dissoluta vita di piaceri. Non passò un anno che i due furono nemici; Ildebrando discacciato si proclamò abate nei beni che il monastero possedeva nella marca di Fermo, e Farfa per lunghi anni rimase divisa. Ambidue quegli uomini avevano menato donna. Campone procreò con Liuza [385] sette figliuole e tre figli, e gli allevò tutti con magnificenza da principe. Mediante simulazioni di contratti di fitto e di permute, sparnazzò i beni del chiostro distribuendoli ai suoi aderenti e ai suoi militi, e nella Sabina la fece interamente da principe, mentre Ildebrando si teneva in Fermo con pari potenza. Un giorno che quest’ultimo aveva invitato ad un festino, nella sua residenza di Santa Vittoria, le sue donne, i figli, le figlie e i suoi cavalieri, ed erano ebbri tutti, s’appiccava il fuoco al castello, e ne erano arsi i tesori innumerevoli che Ildebrando ivi aveva ammassati dalle sue ruberie fatte a Farfa. L’esempio degli abati era imitato dai monaci; ciascuno d’essi s’era sposato con rito ecclesiastico ad una concubina[404]. Fra le pareti del convento non dimoravano, ma avevano stanze nelle ville, e, tutt’al più, venivano a Farfa la domenica, per iscambiarsi i loro saluti e starsi in allegria. Quello che vi trovavano di prezioso rubavano; ciuffavano perfino l’oro dei suggelli che erano apposti ai Diplomi imperiali, e strappatolo, vi sostituivano altri suggelli di piombo; prendevano i sacri paramenti d’oro per farne vesti alle loro baldracche; rapivano gli arredi d’altare per foggiarne loro agrafi e orecchini: e questo stato di cose durò un mezzo secolo. Alberico tentò di opporvi un argine, tosto che re Ugo gli lasciò libera mano nella Sabina, avvegnaddio volesse rendere suddita a Roma questa doviziosa provincia. Qui per Odone v’era a far molto; mandò a Farfa dei monaci perchè vi introducessero la regola di Cluny, ma [386] Campone si rifiutava di accôrveli, e quei frati fuggivano spaventati a Roma, poichè di nottetempo s’era tentato di pugnalarli nei loro letti: allora Alberico in persona mosse colle sue milizie contro all’Abazia, cacciò l’Abate, vi pose monaci che seguivano le leggi di Cluny, e affidò a frate Dagoberto di Cuma il governo del convento, comandando che si restituisse quanto al monastero era stato rubato. Ciò avveniva nell’anno 947. Però, cinque anni dopo, il nuovo Abate era ucciso di veleno, e le condizioni malvage di cose continuarono, salve alcune interruzioni, così che al tempo degli Ottoni vi sarà richiamata novellamente l’attenzione nostra[405].
Alberico, che riformò altresì il convento di Sant’Andrea sul monte Soratte, estese così la sua potenza anche nella Sabina. Questa terra magnifica aveva fino adesso appartenuto a Spoleto, e sembra che allora se ne fosse separata. Infatti, da dopo l’anno 939, trovansi dei Rettori proprî della Sabina, che hanno nome or di Dux, or di Comes ed or di Marchio. Primo Rector della Sabina incontriamo nell’anno 939 il longobardo Ingebaldo, sposo di Teodoranda, ch’era figlia di Graziano console romano: è difficile cosa che tenesse quel grado se non lo avesse voluto Alberico[406].
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Frattanto, nel Luglio dell’anno 939, era morto Leone VII, e nel pontificato gli succedeva Stefano VIII romano[407]: fu questi un Papa del cui governo tiene appena parola la storia, chè, sotto il reggimento di Alberico, i Pontefici raccomandavano il loro nome soltanto alle lor Bolle. Non v’ha che una voce solitaria, la quale si eleva a narrare come Stefano, in una sollevazione, andasse orrendamente mutilato, e perciò nascondesse la propria onta in un eremo, ove stette, schivando il consorzio della gente. Seppure non sia che una fola, siffatto racconto [388] dà chiaro lume alla mente degli uomini, e fa loro conoscere quel che fossero in questo tempo i Papi[408].
Stefano VIII andava debitore ad Alberico della sua dignità; se egli dunque, come credono alcuni venuti più tardi, fu maltrattato sì aspramente dagli aderenti del Principe o addirittura per comando di lui, dovrebbesi accogliere per vero, che ei si fosse messo dentro ad una congiura ordita contro di Alberico. Però, là pure dove di questa si narra, non si fa motto del Papa, nè si trova che egli fosse fra gli uomini puniti da Alberico. Che in Roma non mancassero tentativi di rovesciare di dominio colui che ne era principe, è cosa manifesta. Il clero, al quale egli aveva tolto la potenza, molti della nobiltà che ne erano invidiosi, il popolo incostante, prestavano orecchio alle sobillazioni degli emissarî di Ugo, e si lasciavano subornare; se la corruzione di una città venale avesse potuto precipitare la signoria di Alberico, il fallire dell’esito non dipendeva certo perchè quella mancasse. Il Monaco di Soratte discopre bruscamente il velo di questi avvenimenti, ma la sua arida narrazione non ci fa conoscere altro (e anche questo oscuramente), che fuvvi un complotto, e che alla testa di esso stavano i vescovi Benedetto e Marino. Parrebbe che vi fossero involte anche le sorelle di Alberico, chè una di esse, così racconta il detto Scrittore, tradì il disegno, onde i rei furono puniti di morte, di prigionia e di frusta[409]. La mano gagliarda [389] di Alberico represse i conati del clero e dei nobili, e n’ebbe vittoria: era nato per esser principe. Finchè visse nessun Papa ardì stendere la mano al potere temporale perduto; i vicarî di Cristo salivano docilmente alla cattedra di Pietro, e ne cadevano giù silenziosi e cheti.
Morto Stefano VIII nell’anno 942, Alberico innalzò al pontificato Marino II[410]. Questo inane fantasima di papa vi durò più di tre anni, obbedendo timidamente ai comandi del Principe, «senza dei quali, il dolce e pacifico uomo nulla osava operare[411].» Splendida fu la resistenza che Alberico oppose anche ai continuati assalimenti di Ugo, il quale non era mai stanco di combattere per farsi sua quella corona imperiale che, chiusa nel san Pietro, sfuggiva alla mano di lui. Già nell’anno 931 egli si era associato nel regno il suo giovane figlio Lotario, e nel 938 aveva mirato a farsi più forte sposando Berta, vedova di Rodolfo II di Borgogna, e fidanzando suo figlio colla figliuola di quello, con quell’Adelaide che più tardi ottenne tanta celebrità. Cercava [390] di rendere più saldi i vincoli di alleanza con Bisanzio; però il suo trono vacillava in Italia, quantunque dei più illustri vescovati e delle maggiori contee avesse investito i suoi Borgognoni. Era odiato il suo comportamento tutto astuzie e tirannide, ed in quel mal sentiero era costretto di procedere sempre più avanti; gli ottimati lombardi erano disgustati di lui, e le sue imprese contro di Roma, riuscendo infruttuose, scemavano manifestamente la sua autorità.
Nell’anno 941, comparve nuovamente davanti le mura della Città, e pose il suo maggior quartiere in vicinanza di santa Agnese[412]. Forse è che passasse tutto l’inverno accampato contro alle mura, in quello che Odone di Cluny tentava un’altra volta di comporre pace. Nè minacce, nè violenze, nè promesse astute valsero ad aprirgli le porte: i Romani rimanevano fermamente stretti ad Alberico, vedevano disertate senza misericordia le città e le campagne del loro territorio, ma non rompevano fede al loro Principe; e lo storico Liudprando meravigliavasi cosiffattamente del mal successo delle devastazioni e dei maneggiamenti del Re, che era costretto di attribuire ad un arcano volere di Dio la salda resistenza di Roma venale.
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Ma la Città fu finalmente liberata, e per sempre, dalle insidie di Ugo, chè un turbine scoppiava in Lombardia, nè più riusciva il Re ad abbonacciarlo. Ad onta di ogni sforzo fatto, non aveva egli potuto cacciarne tutti i Lombardi che gli erano ostili. Berengario d’Ivrea, figlio di Adalberto, aveva ottenuta in moglie Willa, nipote di Ugo e figlia di Bosone: il Re voleva far cadere nei suoi lacci il potente margravio, ma questi era scampato al tradimento che lo aspettava, fuggendo prima al Duca di Svevia, indi al tedesco re Ottone. Quando ebbe sentore che il terreno d’Italia era abbastanza gravido di mine sotto ai piedi di Ugo, Berengario tornò, che era l’anno 945. Parecchi Vescovi tosto si dichiaravano in favor suo, Milano gli apriva le porte, i Lombardi a gran frotte disertavano le bandiere di Ugo, affine di conseguire da un nuovo potente vescovati e contee. Ugo però mandava a Milano il suo figliuolo, degno di affetto per giovinezza e per cortesia, affinchè supplicasse gli ottimati di lasciare, se non altro a lui, la corona; e l’arte politica degli Italiani era di siffatta natura, che eglino tolsero a sostenerlo per opporlo come avversario a quel Berengario che avevano pur testè esaltato[413]. Poichè allora Ugo faceva mostra di trasportare in Provenza gli immensi tesori del reame, Berengario, anche a nome dei Lombardi raccolti a Milano, gli protestava che per lo avvenire, come già prima, eglino intendevano riverirlo da re d’Italia. Tuttavolta, [392] Ugo tosto dopo tornò in Provenza, e per alcuni anni infelici lasciò al suo giovane figliuolo Lotario quella larva di regno d’Italia.
Questo mutamento di cose ebbe per Roma le conseguenze di una pace. Nell’anno 946 Ugo rinunciò a tutte le sue pretese che potevangli derivare non dal suo reame italico, ma dal suo matrimonio con Marozia, e cedette ad Alberico la signoria di Roma e del territorio romano[414]. Da allora in poi, il Principe dei Romani governò con sicurezza completa, mentre il Papa anche in avvenire obbediva al reggimento di lui, sì come in addietro avea fatto. Marino II morì nel Marzo dell’anno 946; gli succedette Agapito II, romano di nascita, uomo prudente, che si conservò quasi dieci anni nella cattedra pontificia[415]. Con lui incominciò benanco il Papato a rivivere di vita nuova, avvegnachè ricompaia coi paesi di fuori in relazioni parecchie, le quali non si riscontrano avere esistito sotto i predecessori suoi. Oltracciò, [393] stavano maturandosi avvenimenti che in Roma dovevano rimutare ogni ordine di cose. Il secolo decimo era omai giunto a mezzo del suo cammino; come s’ebbe oltrepassato questo limite di tempo, la robustezza dei Re alemanni s’inoculò nell’Italia, esaurita di forze oltre ogni segno, e per lunghi secoli incatenò le sorti di questa terra all’Impero tedesco.
Il giovine re Lotario passava di vita repentinamente a Torino, nel dì 22 di Novembre dell’anno 950; moriva di febbre o di veleno che gli mesceva Berengario. Con lui cadde il partito borgognone; quello nazionale italico rialzò novellamente il capo, e si fe’ continuatore di quei tentativi che erano falliti con Guido, con Lamberto e con Berengario I. Addì 15 di Dicembre Berengario d’Ivrea si tolse la corona lombarda, e fe’ cingerne, come socio nel regno, anche Adalberto figliuol suo; così Italia tornava ad avere due Re indigeni, ai quali balenava remotamente in vista la corona imperiale. Berengario intese a sposare il figliuolo suo alla giovane vedova di Lotario, affine di guadagnarsene così il partito borgognone; Adelaide custodita in una torre sul lago di Garda espiava il suo rifiuto con quel carcere, ma ne scampava ricoverandosi nel castello di Canossa sotto la protezione di Azzo o Adalberto; e allora cambiava tutto ad un tratto la faccia delle cose. Ella, i suoi aderenti ch’erano del partito di Lotario, i nemici di Berengario, primi di tutti i Milanesi, papa Agapito, il quale, oppresso in Roma da Alberico, vedeva in pari tempo l’Esarcato e la Pentapoli caduti in balìa di Berengario, tutti costoro volsero loro sguardi alla Germania: invece di por mano a un ordinamento nazionale della [394] lor terra, chiamarono eglino nuovamente uno straniero in Italia[416].
Ottone, sfolgorante di gloria guerriera, per potenza regia, per energia di governo, per saviezza d’animo era un secondo Carlo magno: tale ei veniva di Alemagna. All’avvicinarsi di lui si sperdeva l’esercito lombardo di Berengario: Ottone liberava Adelaide, si sposava con lei in Pavia sulla fine dell’anno 951, e la giovine regina dei Lombardi, accolta nelle sue braccia poderose, non era altro che il simbolo d’Italia che gli si gettava in grembo. Da allora in poi questa bella contrada fu avvinta a Germania per un destino che dentro la stimolava: e a questo punto, in cui s’eleva una pietra di confine che separa due epoche storiche, ci è cosa gradita soffermarci un istante, e riflettere alla meravigliosa necessità che attrasse i popoli germanici di continuo sempre a Italia e a Roma: a questo punto, con un senso di maggior compiacimento, si possono rammentare i Goti generosi che un tempo erano caduti da eroi sulle ruine di Roma. Ad essi erano succeduti i Longobardi con vita lungamente durata; questi cacciati dai Franchi, avevano lasciato sparso un elemento germanico per lungo e per largo nelle terre italiche, e l’efficacia ne era stata incancellabile. S’era spenta adesso anche la dinastia dei Franchi, e in Italia si facevano avanti i Tedeschi. Non più vaganti come [395] anticamente i Goti od i Longobardi, sotto le cui bandiere, altre volte, parecchie migliaia di guerrieri sassoni avevano valicato le Alpi; venivano adesso, esercito agguerrito di uno Stato possente, col loro Re alla testa, per conquistare questa contrada, per dominarla, ma non per porvi dimora.
Roma oggidì non s’attrista più sotto lo scettro di Imperatori tedeschi, ma da lunghi anni è occupata dai soldati di Francia. Piemonte e Lombardia hanno chiamato gli eserciti di Napoleone III perchè li liberassero dall’Austria odiata; le pianure del Po furono coperte ancora una volta di cadaveri, e il mondo aspetta con ansietà di vedere qual luogo Francia sarà per tenere in Italia[417]. Antiche sono queste pugne, come antichi sono i giochi dell’arte politica, per isventura eternamente uguali; stranieri vengono chiamati perchè facciano da liberatori; vengono, liberano, indi imperano. Da quattordici secoli in cui i Principi d’Italia, i Papi, le città, le province, venditori di loro nazione, ebbero chiamato Goti, Vandali, Longobardi, Bizantini, Franchi, Ungheri, Francesi, Tedeschi, Normanni, Spagnuoli, perfino Turchi, gli Italiani pur sempre si dolgono dell’ira celeste che ha condannato il loro classico paradiso a servire agli stranieri, ossia ai barbari. Chi ama libertà e giustizia ha debito di dar loro compianto, ma giustificarli non può, chè troppo spesso il giudizio della storia loro dà rimprovero di incapacità politica, di scissura [396] eterna fabbricata dalla loro colpa, di eterni amorazzi coi paesi stranieri per cagione di partiti pigmei e miserevoli. Se alla metà del secolo decimo Italia avesse saputo darsi a re un uomo della sua terra, tal quale in Roma era il glorioso principe Alberico, l’impresa di Ottone di Germania non si sarebbe compiuta; ma quel paese, che volle sempre aver due padroni affine di aizzar l’uno contro all’altro, si gravò per interne necessità le spalle colla dominazione straniera, e dovette sopportarne le conseguenze fino al dì d’oggi.
Non si sa se Agapito facesse pervenire il suo invito ad Ottone, sciente Alberico; noi reputiamo che così fosse, avvegnachè il Principe dei Romani dovesse desiderare che Berengario s’indebolisse per via di Ottone; ed infatti ei prevedeva che il Re d’Italia avrebbe rinnovato contro di Roma i tentativi di Ugo. Sennonchè, le conseguenze della spedizione di Ottone egli non prevedeva, nè con lui sapeva prevederlo la mente politica di uomo alcuno. Il Re tedesco era disceso delle Alpi facendo le viste di voler imprendere un pellegrinaggio a Roma: dalle condizioni in cui erano le cose di colà intendeva di tor norma a’ suoi disegni, e già nell’anno 952 palesava il desiderio di venire in persona nella Città. Il suo alto intelletto comprendeva omai il grande sistema che avrebbe assunto in avvenire la ragione politica tedesca. Mandava a Roma i Vescovi di Magonza e di Coira; erano eglino indiritti al Papa e non al tiranno di Roma, ma il deciso rifiuto di dargli accoglimento veniva da Alberico; e non è piccolo l’onore che da ciò deriva all’animo energico di quest’uomo romano. Il grande re Ottone fu respinto dal Senatore di tutti i Romani; e Ottone, [397] portando la cosa in buona pace, tornò ai suoi Stati con Adelaide sposa sua[418].
Berengario, disperando della sua sorte, deluso di repente in tutte le sue speranze, si arrese allora tosto a Corrado duca di Lotaringia, che era vicario di Ottone in Italia. Berengario comparve col figliuol suo innanzi alla dieta di Augusta, ed ivi, dalle mani di Ottone, ricevette la corona lombarda come vassallo tedesco, in quello che la marca di Verona e di Aquileja erano sottratte alla unione delle terre italiche, e per volere regale erano date ad Enrico duca di Baviera, fratello di Ottone[419]. Berengario, con quella umiliazione, tornossene in patria al suo reame vassallo; la spada di Ottone si librava di continuo sul capo di lui, sebbene i torbidi interiori di Alemagna gli concedessero ancora qualche anno di vita independente. Sembra che egli ponesse sua residenza massimamente in Ravenna: questa celebre città, che Pavia e Milano avevano da lungo tempo messo nell’ombra e quasi in oblio, ottenne d’allora in poi grande rilevanza, e destò la sollecitudine degli Imperatori. Non più la mano del Papa, cui essa apparteneva per virtù di patto, nè quella di Alberico giungevano fino alle province remote dell’antico Esarcato, che, poco a poco, i Re d’Italia avevano tolto alla Chiesa.
Questo era lo stato delle cose nell’Italia superiore, allorquando l’illustre Principe e Senatore di tutti i Romani [398] abbandonò la scena della storia. Giunto nel bel fiore della sua potenza, Alberico morì in Roma nell’anno 954: ignoti sono il giorno e il mese della sua fine[420]. Fortuna gli concesse di non vedere co’ suoi occhi la patria cadere sotto un nuovo giogo d’Imperatori. Narra il Monaco di Soratte, che quand’ei sentì avvicinarsi il termine di sua vita, si affrettò di andare in san Pietro; ivi, innanzi alla Confessione dell’Apostolo, fece giurare la nobiltà di Roma che, morto Agapito II, si eleggerebbe per papa, Ottaviano figliuolo ed erede suo. Che ciò avvenisse non ci prende alcun dubbio; il chiaro intelletto di quell’uomo capiva che era impossibile di rendere durevole in Roma la separazione fra la podestà temporale ed il Papato. Ciò che il genio suo aveva saputo operare, non poteva avere continuazione dal mediocre ingegno del figliol suo, che di età era ancora un ragazzo; a questo pertanto egli assicurava la signoria, mentre induceva i Romani a concedere eziandio la corona pontificia a lui, che già aveva avviato allo stato sacerdotale. Così, almeno, poteva accogliere speranza di lasciare alla sua famiglia la podestà di Roma.
Se si rifletta che il reggimento di Alberico s’ebbe conservato ventidue anni, duranti i mutamenti di quattro pontificati; che resistette vittorioso alle pretese di dominio temporale che la Chiesa nutriva, ai torbidi interni di una nobiltà e di un popolo avvezzi all’anarchia, ed in pari tempo ai continui assalimenti di poderosi [399] nemici esteriori; che finalmente quel reggimento non si estinse con lui dopo la sua morte, ei si conviene attribuire a questo «Senatore» uno dei luoghi primi fra i Principi d’allora, e senza dubbio il luogo primo fra i Romani del medio evo che non furono papi. Alberico è una gloria dell’Italia di quel tempo, chè gloria fu l’essere, e degnamente, uomo e romano. Meritò dalla sua età quel nome di grande che sembra gli fosse dato dai suoi nepoti, orgogliosi di aver avuto origine da lui[421]. La sua stirpe non si spense con esso, nè col celebre figliuol suo Ottaviano, ma si propagò per molti membri di sua famiglia, e, nel secolo undecimo, signoreggiò una seconda volta su Roma, conosciuta sotto il nome dei Conti di Tusculum.
[401]
Morto Alberico, il suo giovine erede ottenne, senza contrarietà di sorta alcuna, reverenza di Principe e di Senatore di tutti i Romani. Noi reputiamo che Ottaviano fosse nato di Alda[422]; contava poco più di sedici anni allorchè fu chiamato a reggere Roma. Il padre suo, per un senso di orgoglio romano, gli aveva imposto nome di Ottaviano, e aveane così espressa l’ardita speranza [402] di veder giungere l’impero alla sua stirpe; tuttavia lo aveva fatto educare nello stato sacerdotale. Può darsi che vi si fosse deciso per ciò, che sotto al pontificato di Agapito le pretensioni pontificie avevano di bel nuovo trovato maggiori aderenti, e d’altra parte di lontano s’elevava minacciosa la potenza tedesca. Egli stesso destinava la corona pontificia al figliuol suo, che doveva riunirla novellamente alla podestà temporale; egli stesso era che riconduceva Roma nelle vie antiche.
Avvenne infatti che, scorso un solo anno, il giovane Principe dei Romani diventò papa, perocchè, nell’autunno dell’anno 955, morisse Agapito II[423]. Ottaviano allora appellossi Giovanni XII; e da questo tempo in poi, così vien detto, si indusse la regola che i Papi mutassero il loro nome di famiglia. La sua acerba giovinezza prometteva che avrebbe avuto un lungo reggimento; però, anche in lui, come in Giovanni XI, come in tutti quelli che furono pontefici di giovane età, dovevasi confermare la nota profezia che nessun Papa toccherebbe i venticinque anni di Pietro. Poichè adesso l’erede di Alberico nuovamente univa in sè le due podestà, la rivoluzione dell’anno 932 non conseguiva altro risultamento [403] se non questo, che alla cattedra di Pietro saliva la nobile famiglia dominatrice, la quale sperava fare del pontificato un retaggio suo proprio. Le inclinazioni di Giovanni al principato, erano tuttavolta più forti di quello che fosse la coscienza dei suoi officî religiosi; e le due nature, quella di Ottaviano e l’altra di Giovanni XII, si combattevano nel suo animo con lotta disuguale. Venuto in giovinezza immatura al possedimento di una dignità che gli dava diritto alla reverenza di tutto il mondo, smarrì la moderazione dell’intelletto, e si gettò nel vortice dei piaceri più sfrenati. Le sue case del Laterano diventarono un ridotto di piaceri, un vero aremme; la gioventù ragguardevole di Roma diventò sua compagnia favorita; passava tutto il suo tempo in cacce, in giuochi, in amorazzi, a mensa col bicchiere alla mano. Un tempo, Caligola aveva fatto senatore il suo cavallo; adesso Giovanni XII dava in una stalla di cavalli la consecrazione ad un diacono, forse in quello che s’era alzato ubbriaco fradicio da tavola, dove, con lepore pagano, aveva fatto frequenti libazioni ad onore dei numi antichi[424].
Le condizioni di Roma, duranti i primi anni di Giovanni XII, ci appajono però vestite di forma incerta. Il giovane stordito abbandonò tosto il contegno del padre suo, che della moderatezza s’era fatto legge. Poichè [404] era principe nel tempo stesso che era papa, volle imitare Giovanni X; gli sovvenne delle pretese che la santa Sede raccomandava a donazioni antiche, e bramò estendere la sua signoria fin giù basso nel mezzodì. Intraprese una guerra contro a Pandolfo e a Landolfo II di Benevento e di Capua, raccogliendo assieme in quella spedizione Romani, Toscani e Spoletini; sennonchè Gisulfo di Salerno mosse a soccorso dei due minacciati, ed il Papa fu costretto a voltar le spalle e a conchiuder pace con quel Principe, a Terracina[425]. La grandezza romana gli era di stimolo; si travagliava in grandi disegni; ma dal padre aveva ereditato l’audacia, non la saviezza. Come papa, voleva, anzi doveva tentar di restaurare in tutta la sua larghezza il dominio dello Stato ecclesiastico; per ragione dell’Esarcato si poneva imprudentemente a capo della parte tedesca contro a Berengario, ma il suo governo era travagliato di pericolo financo in Roma, avvegnaddio i Romani non sentissero più il freno, che loro aveva potuto imporre la mano gagliarda e principesca di Alberico. L’arte politica del padre, che aveva saputo affermarsi nel potere colla temperanza del comportamento, non poteva essere proseguita dal figlio, che papa era: l’opera di Alberico crollò, e Giovanni XII, per cupidigia delle sue province terrene, fu costretto di chiamare in suo ajuto Ottone il grande. Forse, come Ottaviano, sarebbe stato forte in Roma; come Giovanni XII, fu odiato e debole; donde si pare di che strana guisa operasse nello stato dei Papi la miscela delle due dignità, di re e di prete.
[405]
Fino allora, Berengario e Adalberto avevano fatto loro pro della lontananza di re Ottone, che era tenuto con grave faccenda in Alemagna per motivo della ribellione dei suoi figli e per causa degli Ungheri: così i due Principi avevano potuto costringere a soggezione i reluttanti Conti e Vescovi di Lombardia. I loro nemici di fazione tedesca, massimamente il maligno Liudprando, che aveva ricevuto offesa, non sappiamo quale, da Berengario, gli hanno dipinti coi più negri colori; tuttavolta, se Willa, moglie di Berengario, era a ragione odiata per la sua esosa avarizia, quei Re, d’altra parte, per rendere forte la loro signoria, non fecero più o meno di quello che si fossero permessi di operare i loro predecessori, o che, più tardi, si permettessero gli stessi Re tedeschi. Dopo che repentinamente fu morto Liudolfo, che Ottone padre suo aveva mandato in Italia per tenere in freno Berengario, sembrò che a quest’ultimo nulla più resister sapesse, onde adesso ei minacciava l’Emilia e la Romagna. Giovanni XII era troppo debole per difendere questi patrimonî, laonde il figlio di quell’Alberico medesimo, che un tempo aveva ricacciato di Roma Ottone, invitava, nell’anno 960, il Re alemanno affinchè a Roma venisse. Ai legati del Papa si aggiungevano i messaggieri di Conti e di Vescovi parecchi d’Italia, e con essi Walberto, arcivescovo di Milano, andava in persona ad Ottone.
Il Re tedesco accondiscese cupidamente agli inviti d’Italia, che gli offerivano l’ambita corona d’imperatore. Ripigliò l’opera dell’ardito Arnolfo: in prima, assicurò in Worms al suo giovane figliuolo la successione del reame germanico, indi con un formidabile [406] esercito discese dalle Alpi, passando da Trento[426]. Mentre i Re, abbandonati dai Lombardi, si chiudevano nelle loro castella, Ottone celebrava in Pavia le feste natalizie dell’anno 961, e, dopo di avere spacciato Attone di Falda perchè annunciasse la sua venuta, mosse egli stesso a Roma[427]. Vi andò per effetto di un trattato conchiuso col Papa: in esso aveva assunto obligo di difendere e di restaurare la Chiesa, e in cambio ne conseguiva con qualche restrizione i diritti dell’Impero carolingio. «Se concederà Iddio che io venga a Roma», così diceva il giuramento, «io esalterò, secondo le mie forze, la Chiesa e te capo suo: non sarà mai che, per mia volontà o per consenso mio, tu abbia a ricevere offesa nella vita o nel corpo o nella dignità: nella città di Roma, senza consenso di te, non terrò mai placito, nè pronuncierò deliberazione alcuna su cosa che competa a te od ai Romani. Ciò che in mano mia perverrà dei possedimenti di san Pietro, ti restituirò. E qualunque sia l’uomo cui io possa concedere il reame d’Italia, farò che prima giuri di ajutarti secondo le sue forze per la difesa dello Stato ecclesiastico[428]». Ottone pertanto [407] incominciò a operare con massima cautela; non devesi dimenticare che egli trovava innanzi a sè la Roma e i Romani di Alberico, i quali da sì lungo tempo s’erano governati con ordini nazionali. Se anche prestava quel giuramento in cui egli, Imperatore, rinunciava alla illimitata entratura di tenere placiti, il trattato non si parificava peraltro ad una costituzione dell’Impero: questa dovevasi ancora comporre.
Solenne fu l’ingresso di Ottone in Roma; degne d’imperatore le accoglienze che egli vi ebbe. Solamente che gli audaci ottimati di Alberico si chiudevano in un tetro silenzio; sui volti di questi Romani, cui egli era venuto a torre libertà e potenza, egli leggeva impressi i caratteri di un odio mortale, laonde, mentre s’allestiva a ricever la coronazione, diceva ad Ansfredo di Löwen queste caute parole: «Oggidì, allorchè m’inginocchierò innanzi alla tomba dell’Apostolo, bada di tenere la tua spada alzata sempre sopra alla mia testa; ben so quello che i miei predecessori ebbero a soffrire dalla mala fede dei Romani. Il savio scansa il male colla prudenza; per dire orazioni, avrai tempo di farlo quanto vorrai al Mons Gaudii, allorchè torneremo a casa nostra[429].» Nel giorno 2 [408] di Febbraio dell’anno 962 Ottone e Adelaide furono coronati con pompa siffatta, che la simigliante non si era usata mai; i donativi del novello Augusto destarono la letizia dei cupidi Romani[430]. Per tal guisa fu rinnovato l’Impero dopo trentasette anni dacchè s’era estinto, e, tolto alla nazione italiana, fu dato alla eroica stirpe dei Sassoni stranieri. Uno dei maggiori succeditori di Carlo era coronato da un romano, che per istrana coincidenza aveva nome di Ottaviano; ma quest’opera, grave di conseguenze, mancava di vera dignità e di consacrazione vera. Carlo magno aveva ricevuto la corona dalle mani di un vecchio venerabile; Ottone magno riceveva il crisma da un ragazzo imberbe e scostumato. Non pertanto, la storia di Alemagna e d’Italia con questa coronazione s’indirizzò sopra un sentiero nuovo.
Allorchè s’era composto l’Impero di Carlo, esso aveva avuto nella mente degli uomini un’altissima giustificazione; la grande monarchia, in cui le nazioni stavano ancor debolmente unite l’una accosto dell’altra, era tenuta in conto di novella republica cristiana; l’idea di unità della gente umana, proclamata dall’antico giudaismo con voce profetica, promossa dalla signoria dei Cesari nell’ordine politico, s’era fatta viva e reale per legge della religione universale. Alla fondazione dell’Impero carolingio avevano contribuito non poco l’intento di liberare Roma dal despotismo di Bisanzio, [409] la necessità di contrapporre una potenza cristiana affermata in un centro contro alla formidabile monarchia dell’Islamismo: per tutte queste ragioni era avvenuto in addietro, che il Vescovo di Roma aveva posto la corona di Costantino sul capo del signore supremo dell’Occidente. Ma l’Impero teocratico crollò per il ribollire delle forze ond’era gravido il suo svolgimento interiore; l’effervescenza che agitava quella società in cui l’antico si mesceva al nuovo, in cui gli elementi romani si frammischiavano a quelli germanici, sconnesse il secondo Impero; la feudalità tramutò gli officiali in principi ereditarî locali; le podestà temporali si riunirono con quelle religiose; una rivoluzione continua del possesso e del diritto fu educata nel seno della monarchia; le divisioni del retaggio dell’Impero accelerarono la sua caduta. Le nazioni cominciarono con forza impetuosa a separarsi l’una dall’altra; il centro d’Europa, che aveva formato il midollo dell’Impero cristiano, si divise in due parti, una contro l’altra armata ostilmente. Dopo cento cinquant’anni di sua esistenza, la monarchia di Carlo s’era disciolta e ridotta a termini di cose che erano simili a quelle anteriori alla sua origine: pressura di Barbari nuovi, dei Normanni, degli Ungheri, degli Slavi, dei Saraceni; devastazione delle province; morte delle scienze e delle arti; barbarie senza limite nei costumi; regresso della Chiesa come di là da’ tempi di Carlo magno; infiacchimento del Papato, che aveva perduto la sua forza religiosa e l’appoggio dello Stato fondato da Pipino e da Carlo; fazioni nobiliari signoreggianti in Roma, e più pericolose di quello che fossero state a’ tempi di Leone [410] III. Mentre adesso l’Impero si restaurava per opera della nazione germanica, i popoli non potevano più tornare completamente all’indietro, per rientrare nella cerchia d’idee che l’età di Carlo aveva accolto. Per verità, la tradizione dell’Imperium continuava a vivere ancor poderosa, e più di una voce si faceva udire in Alemagna a rimpiangerne la caduta e ad augurare la sua restaurazione che sarebbe stata beneficio del mondo; ma la venerazione degli uomini per questo istituto s’era diminuita dopo la sventurata istoria di un secolo e mezzo. La monarchia di Carlo non sorse più; Francia, Germania e Italia erano diventati paesi separati fra loro; di lì a breve tempo, dovevano combattere l’un contro all’altro, e ciascuno d’essi cercava di farsi independente anche nelle forme politiche. Mentre adesso Ottone rinnovava l’Impero in condizioni siffatte di cose, manifesto era che còmpito tale poteva adempierlo soltanto un uomo grande, e che una fiacca persona non era fatta per sostenere battaglia contro la feudalità, contro il Papato e contro le tendenze nazionali. Perciò, nel complesso, l’Impero fu considerato soltanto come una forma di arte e d’idea, sebbene altresì fosse pur sempre una grande forma politica in mezzo ai popoli. Il genio di Ottone diede un sistema al mondo crollante; il vincitore degli Ungheri, degli Slavi, dei Danesi, il patrono di Francia e di Borgogna, il signore d’Italia, l’eroico missionario del Cristianesimo, cui aveva sgombrato maggiori vie, meritava di farsi Carlo novello: financo la sua terra aveva sempre nome dai Franchi, e la sua lingua tedesca era appellata franca. Egli annodò or dunque l’Impero romano durevolmente alla nazione tedesca, e questo [411] popolo energico e intelligente intraprese la missione gloriosa, ma ingrata, di fare da Atlante della storia universale del mondo. Infatti, dall’associazione di Germania con Italia conseguiva tosto anche la riformazione della Chiesa e il risorgimento delle scienze; ed erano essenzialmente gli elementi germanici che in Italia andavano eziandio educando le splendide republiche di città. Ben sono Alemagna e Italia le più chiare rappresentazioni dell’indole antica e di quella germanica; sono le più belle province che s’accolgano nel regno dell’intelletto umano, e, per necessità provvidenziale, furono avvinte fra loro in cosiffatte relazioni, feconde della storia mondiale. Allorchè la mente si levi a pensiero cotale, i nepoti non devono deplorare che l’Impero romano abbia pesato, grave come il destino, sulla nazione tedesca, e che l’abbia costretta, per il corso di secoli, a spandere il suo sangue in Italia, affine di porre le fondamenta della civiltà universale di Europa: di ciò l’umana gente della moderna età deve necessariamente serbar riconoscenza a Germania.
È fuor di dubbio che Ottone imperatore, parimente come i suoi predecessori, desse al Papa un documento, [412] in cui confermava tutti i diritti e i possedimenti della santa Sede. La rinnovazione dell’Impero, la traslazione di questo a Germania, finalmente la confusione delle cose d’Italia e dello Stato ecclesiastico, rendevanlo necessario. Però, di questo documento conosciamo sì poco il tenore, come dei diplomi di Pipino, di Carlo e di Lodovico: nè più, nè meno di questi, anch’esso fu, più tardi, falsato, e destinato a servire di fondamento alle intemperanti pretensioni di Roma[431]. Anche il Papa fe’ sacramento all’Imperatore di non disertarlo mai di fede, e di non voltarsi a Berengario, e per parte loro i Romani prestarono giuramento di fedeltà: così parve rinnovarsi fra Ottone, Giovanni XII e la Città il rapporto [413] di costituzione ch’era stato fondato al tempo dei Carolingi. Ma Giovanni trovavasi in condizioni tali, che lo cingevano di contrasti gravissimi. Dal padre suo aveva ereditato podestà di principe in Roma, e dipoi l’aveva riunita al Papato; alla rivoluzione antica era succeduta la restaurazione, e questa finalmente metteva capo di bel nuovo all’Imperium. L’aristocrazia romana vedevasi adesso ricondotta sotto la duplice fedeltà dell’Imperatore e del Papa; cessava quella independenza di cui essa aveva goduto per tempo sì lungo sotto di Alberico; Roma tornava nella sua condizione di città universale, dacchè era imperiale e pontificia insieme; l’antica contrarietà fra il Papa e i Romani doveva rinnovarsi ancor più formidabile di quella che un tempo era stata.
Gli ottimati di Alberico, ossiano i nazionali che si dibattevano contro all’Impero, vedevansi per altro tenuti in freno dalle soldatesche di Ottone; l’Imperatore era lietamente acclamato dalla moltitudine, la quale aderisce sempre a tutto ciò che sa di novità; nei paesi di fuori correva il concetto che, col novello Impero, Ottone avesse restituito Roma a libertà, riponendo nei suoi diritti la Chiesa oppressa, e sciogliendo la Città dalla tirannide di donne licenziose e di maggiorenti temerarî[432]. Frattanto, il nuovo Imperatore mirava con senso di vergogna alla giovinezza scapigliata del Papa; fin d’ora poteva presagire ciò che si dovesse aspettare [414] dal figliuolo di Alberico. Addì 14 di Febbraio del 962 lasciava egli Roma per andarne all’Italia settentrionale, dove Berengario si teneva munito nel castello di San Leo, in prossimità di Montefeltro. Prima di sentirsi appieno Imperatore, forza era che egli rovesciasse quest’ultimo rappresentante della nazione italiana[433].
Era partito appena, che Giovanni XII cominciava a sentire di qual peso lo premesse il giogo di quella podestà imperiale che avea resuscitato. Lo angustiava lo spettro del suo gran padre; l’avvenire gli appariva minaccioso. Le conseguenze della venuta di Ottone a Roma avevano sorpassato di gran lunga i suoi calcoli; di liberatore dello Stato ecclesiastico gli si era cambiato in un padrone, che, nel più alto significato della parola, voleva essere imperatore; ed invero un monarca, quale Ottone era, non poteva accontentarsi della parte umiliante di un Carlo il Calvo. Adesso dunque Giovanni intendeva di tornare allo stato di prima; incalzato dagli ottimati, cospirò con Berengario e con Adalberto. Ma il partito imperiale che era in Roma spiava tutti i suoi passi, e ne dava contezza a Ottone, in quello che questi trovavasi in Pavia, nella primavera dell’anno 963. I messaggi del partito gli descrissero la vita dissoluta [415] del Papa, che aveva tramutato il Laterano in bordello, che dissipava città e beni per darli a sue cortigiane; dicevangli che nessuna onesta donna osava di viaggiare a Roma per temenza di cadere in balìa del Papa; lamentavano la desolazione della Città e la ruina delle chiese, dai cui tetti crollati si rovesciava la pioggia sui sottoposti altari. La risposta onde Ottone scusava i comportamenti di Giovanni è la satira più acerba che siasi scagliata contro il Papato di quell’epoca: Il Pontefice, diceva, è ancora un ragazzo; muterà vita quando avrà esempio da uomini generosi[434]. Quindi mandava suoi legati a Roma perchè s’istruissero dello stato delle cose di colà; egli poi moveva a San Leo per assediarvi Berengario e Willa, e mentre, nella state dell’anno 963, stava innanzi a quel castello, riceveva, nunzî del Papa, Demetrio e Leone protoscriniario, che venivano a lamentarsi per ciò che egli occupava dei beni ecclesiastici, e intendeva d’impadronirsi eziandio di San Leo, ch’era proprietà di san Pietro. Ottone, il quale del resto traeva in lungo la restituzione di parecchi patrimonî, rispondeva che i beni della Chiesa non poteva consegnare finchè non gli avesse tolti dalle ugne degli usurpatori; e, poichè teneva in mano le prove dei raggiri di Giovanni, poteva mostrare ai nunzî financo delle lettere intercettate, che il Papa scriveva all’Imperatore greco, e perfino agli Ungheri, eccitandoli a mover contro Germania. Legati imperiali allora andavano a Roma per dichiarare al Papa, che il signor loro era pronto a purgarsi [416] con giuramento e col giudizio di Dio, in duello, del sospetto di spergiuro; quelli però venivano accolti con mal garbo, e, appena che erano tornati indietro con accompagnatura di messi pontificî, compariva in Roma Adalberto. Questo giovane pretendente, che la forza delle armi aveva spogliato del trono, faceva, dirimpetto ad Ottone, la parte miserevole cui era stato un dì condannato Adelchi. Mentre il padre suo si difendeva in san Leo, egli correva instancabile d’ogni parte, affine di raccozzare partigiani; per via di messaggi invocava soccorso da Bisanzio, andava a Frassineto dai Saraceni, indi, come nel tempo antico aveva fatto Sesto Pompeo, in Corsica; di qui annodava negoziati col Papa; finalmente sbarcava a Civitavecchia, e gli erano aperte le porte di Roma[435].
Come gli fu giunta notizia di ciò, Ottone nell’autunno dell’anno 963, lasciò in gran fretta San Leo, e venne a Roma. La Città era scissa in una fazione imperiale e in un’altra che parteggiava pel Papa, sì come lo fu nel tempo avvenire per lungo corso di secoli. Gli Imperiali, che, alla venuta di Adalberto, avevano chiamato Ottone, si tenevano sulle difese nella Giovannipoli, laddove i Pontificî, ossiano quelli della parte nazionale, si sostenevano muniti nella città Leonina, capitanati da Adalberto e dal Papa stesso, che si faceva vedere armato da cavaliere, con elmo e corazza. Giovanni voleva difendere Roma; mosse infatti contro ad Ottone fino al Tevere, ma tosto gli cadde il cuore. Il partito avverso a lui cresceva ogni dì più; il popolo, [417] che altra volta aveva resistito con tanta fermezza contro gli assalimenti di Ugo, tremava per paura di un assalto: il figliuolo di Alberico temè di esser tradito, raccolse i tesori della Chiesa, e con Adalberto fuggì nella Campagna e si nascose nei monti[436]. Allora il partito imperiale aperse le porte ad Ottone; gli aderenti di Giovanni sbassarono le armi, diedero ostaggi, e l’Imperatore entrò in Roma per la seconda volta, addì 2 di Novembre del 963.
Raccolse clero, nobili e capitani del popolo, e li costrinse a prestargli giuramento che nello avvenire non avrebbero ordinato alcun Papa, e neppur lo eleggerebbero, senza il consentimento suo e di quello del suo figliuolo. Pertanto egli rapiva ai Romani quel diritto che eglino in tutti i tempi avevano conservato come loro gemma preziosa, come atto unico di libertà cittadina, quello che nessuno dei Carolingi aveva osato di toccare. Se si fosse considerata la cosa con intelletto di ragione, il diritto di eleggere il capo supremo della Chiesa, avrebbe dovuto appartenere alla intiera comunità cristiana, e non al piccolo numero dei Romani elettori; ma poichè impossibile era di trovare un modo pratico, per cui ne lo esercitasse la universalità cristiana, fino dall’antichità era stato tacitamente ceduto alla città di Roma, ossia, più veramente, ogni Vescovo di Roma era stato riverito eziandio come capo della Chiesa universale: privilegio [418] immensurato, che era riposto nelle mani del Clerus, Ordo et Populus dei Romani, e che i primi Imperatori, come capi dell’Imperium universale, avevano limitato soltanto per via del diritto di confermazione.
Addì 6 di Novembre Ottone convocò un Sinodo in san Pietro. Parimente come al tempo di Carlo patrizio dovevasi pronunciare sentenza sopra un Papa accusato, e il tribunale stava sotto la presidenza della podestà temporale: però Giovanni XII non aveva, come Leone III, prestato il suo consenso a quel giudizio, e non v’era presente. Nè adesso i Vescovi protestavano di non aver facoltà di giudicare la Sede apostolica; mutati s’erano i tempi; un Imperatore energico s’ergeva, in tutta la sua potenza di dominio, da ordinatore del reggimento decaduto della Chiesa; e, senza che pietà o rispetto lo trattenesse, svelava agli occhi del mondo la vergogna del Papa che lo aveva unto del crisma: chiamava egli il popolo a profferire le accuse, e al suo comando obbediva un Sinodo che, per la prima volta, giudicava e deponeva un Papa senza pure ascoltarne le discolpe, indi esaltava a succeditore di lui un candidato dell’Imperatore.
Liudprando, che era allora vescovo di Cremona, ha registrato, come si conveniva a testimone oculare, gli atti di questo Sinodo; tenne egli nota di tutti i Vescovi del territorio romano che vi furono presenti, e ne rileviamo che molti vescovati assai antichi s’erano conservati ad onta delle devastazioni datevi dai Saraceni. Dei Vescovi suburbicarî vi intervennero quelli di Albano, di Ostia, di Porto, di Preneste, di Silva Candida e della Sabina; furonvi inoltre i Vescovi di queste diocesi: [419] Gabium, Velletri, Forum Claudii (Oriolum), Bleda, Nepi, Cere, Tibur, Alatri, Anagni, Trevi, Ferentino, Norma, Veruli, Sutri, Narni, Gallese e Falerii, Orta e Terracina[437]. Liudprando vi contava soltanto tredici Cardinali di questi titoli: Balbina, Anastasia, Lorenzo in Damaso, Crisogono, Equizio, Susanna, Pammachio, Calisto, Cecilia, Lorenzo in Lucina, Sisto, IV Coronatorum, e Santa Sabina. Parecchi Cardinali avevano seguito Giovanni nella sua fuga; d’altronde può darsi che parecchi titoli si fossero estinti. Lo Storiografo nomina fra gli astanti tutti i ministri del Palazzo pontificio, i Diaconi e i Regionarî, i Notai, financo il Primicerio della Scuola dei cantori; ed egli desta in noi attenzione ancor maggiore colla menzione che vi fa di alcuni ottimati romani, fra i quali troviamo di bel nuovo parecchi nomi che ormai ci sono ben conosciuti. Stefano figlio di Giovanni superista, Demetrio figlio di Melioso, Crescenzio «dal cavallo di marmo» (così appellato qui per la prima volta), Giovanni Mizina (meglio de Mizina), Stefano de Imiza, Teodoro de Rufina, Giovanni de Primicerio, Leone de Cazunuli, Riccardo, Pietro de Canapara, Benedetto e Bulgamino figliuol [420] suo, erano allora i Romani più ragguardevoli del partito imperiale; laddove altri nobili uomini se ne erano andati col Papa fuggitivo, altri stavansi ricoverati nelle loro castella della Campagna. La Plebs romana era rappresentata dai capitani della milizia, capo dei quali era Pietro dal soprannome Imperiola[438]. La presenza sua, di cui vien fatta speciale considerazione, dimostra che gli elementi popolani avevano già conseguito uno svolgimento di maggiore independenza, e ciò aveva avuto origine da Alberico. Peraltro, se questi avesse dato ai Romani un ordine di costituzione, se veramente avesse creato un Senato e dei Tribuni del popolo, e, ancor meglio, due Consoli annuali, nessuna di queste dignità cittadine sarebbe sfuggita all’occhio di un osservatore accurato quale era Liudprando; ma egli non fa pur motto di Senato, nè di Senatori, nè di altro magistrato: parla soltanto di primati della città di [421] Roma, di milizie e del loro capitano, rappresentante della Plebs, ed enumera d’altronde tutti gli officî palatini che ci sono noti.
L’intervenzione completa di tutti gli ordini elettori faceva sì che il Sinodo somigliasse a quello avvenuto sotto di Leone III: al pari di questo, fu concilio, dieta e corte giudiziaria, tutto ad un tempo. La presidenza tenuta da un Imperatore glorioso, la presenza di tanti Vescovi, di Duchi e di Conti di Alemagna e d’Italia vi davano aspetto di maestà; l’assistenza dei Romani di tutti i ceti lo poneva a riparo da qualunque rimprovero di violenza illegale; però il modo del procedimento faceva sì che esclusivamente fosse un atto di dittatura imperiale. Giovanni di Narni e Giovanni cardinale diacono furono i più illustri accusatori del Papa assente; la scrittura di accusa fu letta da Benedetto cardinale. Ottone parlava di raro e male in latino; perciò l’Imperatore dei Romani ordinava a Liudprando, segretario suo, di rispondere, in sua vece, ai Romani.
La scrittura di citazione indiritta al Papa dichiarava le querele che erano date al padre santo. Diceva: «Al sommo Pontefice e Papa universale, al signore Giovanni, Ottone per grazia di Dio imperatore augusto, insieme cogli Arcivescovi e coi Vescovi di Liguria, di Tuscia, di Sassonia e della terra dei Franchi, nel nome del Signore. Venuti a Roma per servigio delle cose di Dio, abbiamo richiesto i figli vostri, ossiano i Vescovi, i Cardinali e i Diaconi romani, ed eziandio il popolo tutto, della ragione per cui Voi ne siate assente, e non vogliate vedere Noi, difensore Vostro e della Vostra Chiesa. Eglino ci hanno riferite di Voi cose tanto vituperevoli, [422] che ci farebbero arrossire di vergogna, quando pur fossero attribuite ad un istrione. Vogliamo dirne alcuna alla Signoria Vostra, imperocchè, a noverarle tutte, troppo breve sarebbe il corso intero di un giorno. Sappiate pertanto che non alcuni pochi, ma tutti, laici e preti, vi hanno accusato di assassinio, di spergiuro, di profanazione di chiese, d’incesto con vostre parenti e con due sorelle[439]. Altre cose eglino dichiararono, cui l’orecchio repugna di udire, che Voi, bevendo, abbiate fatto brindisi al diavolo, e, giocando ai dadi, abbiate invocato Giove e Venere ed altri demonî. Noi perciò preghiamo fervidamente la Paternità Vostra di venire a Roma e di purgarvi di tutte queste querele. Che se voi temeste insulto dal popolo, noi vi promettiamo che nulla sarà fatto contrariamente ai canoni. Dato addì 6 di Novembre.»
L’accusato rispose dal suo nascondiglio brevi parole, e con linguaggio da pontefice: «Giovanni vescovo, servo dei servi di Dio, ai Vescovi tutti. Udimmo dire, che Voi vogliate creare un altro Papa; se ciò facciate, io vi scomunico per l’onnipotente Iddio; Voi non potrete più ordinare chicchessia, nè celebrar messa.» I Vescovi ebbero di che celiare sullo stile di questo Breve, e se n’ebbe a dire che Giovanni era uso ad esprimersi soltanto in volgare[440]. Secondo i canoni, un Vescovo [423] che fosse accusato, doveva esser citato tre fiate a giudizio; l’Imperatore s’accontentò di chiamarlo due sole volte a comparire; indi si fece in pari tempo accusatore e giudice del Papa: propose al Sinodo che si deponesse Giovanni XII, e questi, senza che se ne udisse difesa, fu dichiarato colpevole di delitto, reo di maestà e decaduto dal pontificato. Al Sinodo potevasi muovere rimprovero perchè non aveva osservato un procedimento compiutamente canonico, ma il mondo tollera più giustamente le infrazioni delle leggi canoniche, anzi che le offese recate alla dignità dell’uman genere.
In vece di Giovanni, l’Imperatore proponeva a suo candidato un illustre uomo romano: addì 4 di Dicembre, fu questi eletto, e nel sesto giorno di quel mese ottenne la consecrazione. Contrariamente alla legge ecclesiastica, Leone VIII passò dal ceto laicale alla cattedra di Pietro; Sicone cardinale, vescovo di Ostia, lo insigniva con forma spedita, un dopo l’altro, degli ordini di ostiario, di lettore, di accolito, di suddiacono, di diacono, di prete e di papa[441]. Era Leone, di condizione, protonotario della Chiesa, e talvolta leggiamo il nome di lui in carte di quell’età[442]. Dimorava nel Clivus Argentarii, [424] che è la odierna Salita di Marforio, quella via che più tardi fu detta «salita di Leone Proto» (protoscriniario), avvegnachè ancora nel secolo decimoterzo una chiesa che ivi era, fosse appellata di san Lorenzo de ascensa Proti[443]. Il suo retto costume lo aveva raccomandato all’Imperatore, avvegnaddio non altri che un romano di egregia vita potesse egli levare a succeditore di un uomo vizioso; d’altronde, l’animo di Leone era debole, ossia pieghevole all’altrui volere, e questo assai bene s’acconciava ai disegni di Ottone.
L’Imperatore faceva partire una gran parte delle sue milizie, e le mandava a San Leo, affine di alleviare i Romani del peso di dar loro alloggiamento: egli poi celebrava le feste di Natale in Roma, senza pur sospettare che si congiurava contro la sua vita. Poichè era stato deposto, Giovanni XII s’era guadagnato simpatie e qualche cosa più in là: era il Papa eletto dai Romani simbolo adesso di amor di nazione. I suoi amici dispensavano oro e promesse, ed alcuni baroni della Campagna s’impegnarono a prestare soccorso. Addì 3 di Gennaio 964, si diè di repente nelle campane a stormo; i Romani si scagliarono sul Vaticano dove Ottone aveva sua stanza, ma il loro intendimento fallì. Infatti, la schiera dei cavalieri imperiali si gettò sopra gli assalitori, [425] e ruppe il serraglio che questi avevano innalzato a ponte Sant’Angelo; non ne ebbero più schermo i fuggitivi, e furono schiacciati con orribile macello, finchè l’Imperatore colla sua propria bocca comandò che si cessasse[444]. Fu questa la prima volta che il popolo romano si sollevava contro un Imperatore tedesco. Il dì dopo i Romani comparvero innanzi a Ottone supplicando mercè, e sulla tomba dell’Apostolo giurarono di obbedire a lui ed a papa Leone. Ottone sapeva che valore avesse il giuramento, si prese i loro cento ostaggi, e lasciò andare per la Città quegli uomini umiliati. Rimasto ancora un’intiera settimana in Roma, cedette alle preghiere di Leone riponendo in libertà anche gli statichi, dacchè sperava in sì tristi condizioni di cose di guadagnare degli amici al Papa, creatura sua: poi, sulla metà di Febbraio dell’anno 964, mosse a Spoleto nell’intento di cogliervi Adalberto. Lasciò esacerbata la Città, e il Papa come agnello tremante in mezzo a’ lupi. Il sangue che le armi tedesche avevano sparso in Roma nel giorno 3 di Gennaio non si asciugò mai più; ne trasse alimento l’odio contro gli stranieri, e i Romani, premuti colla forza, non ebbero appena veduto in libertà i loro ostaggi e lontano l’Imperatore, che s’affrettarono di dar libero sfogo alla loro sete di vendetta.
[426]
Giovanni XII, chiamato in gran fretta nella Città, vi veniva con un esercito di amici e di vassalli: in meno che non si dica, Leone VIII vedevasi abbandonato, e con pochi seguaci fuggiva a Camerino dove trovavasi l’Imperatore. Berengario e Willa, che si erano arresi in San Leo, erano stati di già mandati a Bamberga, nè temibili potevano essere ad Ottone gli ultimi conati di Adalberto: però l’Imperatore non moveva subito a Roma, forse perchè a molte delle sue milizie aveva dato congedo, e doveva prima raccozzare un nuovo esercito. Frattanto, Giovanni XII sfogava le sue vendette contro a’ nemici suoi. Addì 26 di Febbraio raccoglieva in san Pietro un Concilio: dei sedici Vescovi presenti trovavansene undici di quelli che, tempo prima, avevano sottoscritto la deposizione di lui, ed erano quelli di Gallese, di Anagni, di Porto, di Narni, di Veruli, di Silva Candida, di Albano, di Ferentino, della Sabina, di Nepi, di Trevi: nuovi venivano i Vescovi di Nomentum, di Labicum, di Ferrara, di Gentianum, di Marturanum e di Salerno. Può essere che i primi, a torto o a ragione, protestassero di essere stati costretti a prender parte al Concilio di Ottone; può essere che [427] altrettanto facessero i Cardinali: però il piccolo numero dei cherici che intervenivano al Sinodo di Giovanni e la loro adesione a due Concilî, di cui l’uno era il rovescio dell’altro, fanno prova dello sciaguratissimo disordine che metteva a soqquadro la Chiesa romana. Giovanni XII protestava che la violenza dell’Imperatore avealo tenuto due mesi in esilio, dichiarava di essere tornato alla cattedra sua, e di condannare il Sinodo che deposto lo aveva. I Vescovi di Albano e di Porto confessarono tutto tremanti di aver peccato, e di aver benedetto Leone contrariamente alle leggi dei canoni: furono sospesi, e Sicone di Ostia, che avea insignito Leone di tutti gli ordini ecclesiastici, fu espulso dallo stato chericale[445].
Dopochè Giovanni XII ebbe scomunicato Leone, si scagliò con tutta la foga dell’ira sopra molti dei suoi ragguardevoli avversarî. Al cardinale Giovanni fece svellere naso, lingua e due dita della mano; ad Azzone protoscriniario fece mozzare una mano: e ambidue quegli uomini erano stati legati suoi allorchè aveva invitato Ottone a venire a Roma. Fece imprigionare Otgero vescovo di Spira, ma represse la sua rabbia di vendetta a tal segno, che lo rimandò poi all’Imperatore, di cui non voleva stuzzicare troppo oltre la collera[446]. Nel frattempo Ottone continuava a starsene a Camerino, dove aveva celebrato la [428] Pasqua insieme col Papa creatura sua; indi, apprestatosi a muovere contro Roma, prima ancor che giungesse alla Città, gli capitava messaggio che Giovanni XII era passato di vita. Se sieno veritiere alcune narrazioni, questo Pontefice trovava una morte degna della sua vita: una notte il diavolo faceva tanto, che lo strascinava fuori di Roma coll’esca di adulteri amori; e vicario del diavolo era un marito offeso, il quale gli assestava sul capo una botta così gagliarda, che otto giorni dopo moriva, addì 14 di Maggio del 964. Altri dice che finisse di apoplessia, ed è cosa verosimile, dacchè una tremenda concitazione dovesse agitare il suo animo. Di tal guisa, il figlio del glorioso Alberico cadeva vittima delle sue dissolutezze e altresì di quel dualismo che si accoglieva in lui, principe e papa ad un’ora medesima. Però la sua giovinezza, la origine che aveva da Alberico, i tragici contrasti della sua vita gli danno qualche diritto ad una sentenza più mite; nè la storia gliela rifiuta[447].
I messaggeri che andavano all’Imperatore in Rieti, dove allora era giunto, per annunciargli quella morte, gli soggiungevano che i Romani s’erano eletto un nuovo Papa, e ne chiedevano la confermazione. Ma Ottone protestava di volere piuttosto spezzare la sua spada che rompere la sua parola, e dicea che veniva per restituire papa Leone in Roma, e per punire senza remissione la Città, se essa gli rifiutasse obbedienza. Morto [429] Giovanni XII, i Romani s’erano eletto un pontefice; avevano infranto il giuramento che era stato loro strappato, e s’erano ripigliato il loro diritto preziosissimo. Non prestavano reverenza a Leone VIII, ch’era stato deposto nel dì 26 di Febbraio, e ancora una volta tentavano di gettar disfida contro all’Imperatore, così che, dopo una violenta scissura delle fazioni, veniva eletto Benedetto, cardinal diacono, e lo acclamavano le milizie: era uomo egregio, che in mezzo alla barbarie di Roma s’era acquistato il raro titolo di grammatico, e con questo nome andava denotato[448].
Accusatore di Giovanni, aveva sottoscritto alla deposizione di lui, ma era pure quel desso che aveva assistito al Sinodo del Febbraio, in cui s’era condannato il Papa creato dall’Imperatore. La indignazione dei delitti commessi da Giovanni aveva imposto silenzio a maggiori doveri, e i Romani miravano nel loro nuovo Papa l’uomo che avrebbe difeso con coraggio la Chiesa contro le soperchianze imperiali. Ad onta del divieto dell’Imperatore l’eletto fu tosto consecrato, e, sotto nome di Benedetto V, salì alla Sedia apostolica.
Sennonchè Ottone giungeva; conduceva con sè Leone suo papa; veniva alla testa di un esercito furente d’ira, e Roma era nuovamente minacciata dalle furie della vendetta che accompagnavano un secondo Pontefice, prima discacciato, adesso reduce. Le città del territorio [430] romano furono crudelmente saccheggiate e devastate: nemmeno gli Ungheri ne avevano fatto sì aspra rovina[449]. Si tagliava la via a che pervenisse vettovaglia, si cingeva la Città tutto all’intorno, non si permetteva che alcuno v’entrasse; chi osava uscire cadeva sotto la spada nemica. Ottone pose campo innanzi a Roma, chiedendo che la Città si arrendesse a discrezione e consegnasse Benedetto; s’erigeva egli come Imperatore che chiede obbedienza da una terra soggetta, ma i Romani non potevano mirare in lui altro che un despota che veniva a loro torre l’ultima reliquia d’independenza, quella libera elezione del Pontefice, che avevano esercitato per diritto di tradizione. Cessata era, in fin dei conti, la ignominia del governo di Giovanni XII; i Romani avevano eletto a succeditore di lui un uomo pio, e umilmente avevano impetrata la confermazione imperiale. Però, poteva Ottone lasciar cadere Leone VIII, che un Concilio aveva creato pontefice col beneplacito suo? Potevano d’altro canto i Romani rinunciare al tentativo di affermare contro al novello Imperatore il loro antico diritto di elezione, senza confessare che la servitù era tagliata al loro dosso? Il loro Papa, involto nei vestimenti sacerdotali, saliva sulle mura e ammoniva i difensori affinchè resistessero prodemente; ma l’Imperatore si rideva della scomunica che gli veniva minacciata, e si prendeva giuoco della debolezza dei Romani. La fame incominciava a infierire nella Città, e alcuni [431] assalti toglievano agli assediati il cuor di resistere[450]. Addì 23 di Giugno Roma aperse le porte; i Romani abbandonarono Benedetto V alla sua sorte, e nuovamente giurarono obbedienza sulla tomba di san Pietro: si aspettavano punizione fierissima, ma l’Imperatore accordò loro un’amnistia[451].
Entrato che fu Leone VIII, obbedendo all’ordine di Ottone, radunò un Concilio in Laterano. La presenza dell’Imperatore, di molti Vescovi tedeschi e italiani e l’intervenzione di tutti gli ordini del popolo di Roma fecero sì che l’adunanza avesse forme di perfetta somiglianza col Sinodo tenuto addì 6 di Novembre. Lo sventurato Papa dei Romani, vestito degli abiti pontificali, fu condotto nella sala ove il Concilio sedeva; l’Arcidiacono lo richiese con qual diritto si fosse egli arrogato di ornarsi delle insegne di pontefice mentre viveva ancora Leone signore e papa suo, quello che egli stesso aveva contribuito ad eleggere dopo la deposizione di Giovanni; e gli rinfacciò di aver rotto fede all’Imperatore e signore suo ivi presente, cui giurato aveva di non eleggere mai papa alcuno, senza averne da lui consentimento. Se ho fallato, sclamava Benedetto tutto smorto in viso, pietà vi prenda di me, e stendeva supplichevolmente le mani. I piagnistei facevano male ad Ottone; la Chiesa romana, che, a’ tempi di Nicolò I, era stata tribunale temuto dei Re, giaceva adesso ai piedi dell’Impero; Ottone quindi volgeva istanza al Sinodo, intercedendo a [432] favore di Benedetto che abbracciava le sue ginocchia. Allora Leone VIII stracciava il pallio dell’Antipapa; gli toglieva dalle mani tremanti la ferula e la faceva in pezzi; gli comandava di sedersi sul nudo terreno, lo spogliava degli abiti pontificali, lo privava di tutte le dignità sacerdotali; soltanto, per far piacere all’Imperatore, gli lasciava l’ordine del diaconato, e lo condannava a eterno esilio[452].
Da lungo tempo le fazioni della Città avevano signoreggiato la cattedra pontificia impadronendosene con tumulto; financo femmine avevano potuto eleggere Papi a loro piacimento, e la bruttura del Pontificato era giunta, col nipote di Marozia, al suo culmine massimo. Perciò l’Imperatore prestava un vero beneficio alla Chiesa, sottraendo l’elezione pontificia alle mani di una nobiltà brutale. Il disordine di Roma gli dava autorità dittatoria, così che egli raccoglieva nella sua destra quella elezione, come se fosse stata un diritto imperiale di lui, che in Germania aveva consuetudine di nominare i Vescovi a suo piacimento. Quell’opera violenta era degna di un Principe che sentiva in sè il dovere e la potenza di salvare colla sovranità del suo comando la Chiesa precipitata a sì grande decadenza, e di renderla in pari tempo servigievole alle idee dell’Impero. Nessun Imperatore aveva mai conseguito un trionfo sì grande. La sua energia personale e quella di alcuni succeditori suoi, che se lo tolsero a modello, resero il Papato suddito all’Impero, la Chiesa di Roma vassalla [433] a Germania. La podestà imperiale salì a formidabile altezza, ma poi il Papato, oppresso dalla maestà de’ suoi grandi dominatori, ne tolse vendetta, perocchè esso (così per legge di natura vanno mutando le cose) non soltanto riconquistasse la libertà perduta, ma con isforzi giganteschi ne valicasse i limiti. La lotta che la Chiesa combattè contro il genio tedesco, fu l’opera maggiore del medio evo; compose il grande dramma della sua storia, e, scotendo il mondo in ogni fibra, seppe temprarlo a sana gagliardìa.
Il tentativo glorioso fatto dai Romani per conservarsi il loro diritto di elezione soccombette innanzi a una necessità istorica, chè il regno germanico doveva, per un corso di tempo, trarre a sè la dittatura di Roma e della Chiesa, affine di operarne la riformazione. La Città umiliata aveva ricevuto l’Imperatore da padron suo; il Papa creato dall’Imperatore era stato novellamente riposto sulla sua cattedra; ed è cosa abbastanza probabile che Ottone adesso, a vece di starsi contento di un giuramento, comandasse che un decreto pontificio pronunciasse qualmente i Romani davano rinuncia assoluta al diritto elettivo; è probabile che Leone VIII, creatura sua, si acconciasse a dare adempimento al suo ordine. Un siffatto documento ci è conservato nelle forme imperfette di compilazioni del secolo undecimo; però della sua autenticità si destano gravi dubbî, e manifeste falsificazioni, fatte a beneficio dei diritti imperiali, hanno reso irreconoscibile il suo preciso tenore[453].
[434]
Dopo che Ottone ebbe celebrato in Roma la festività di san Pietro, abbandonò la Città, che era il giorno primo di Luglio dell’anno 964: con sè adduceva Benedetto [435] V, che più tardi confinò ad Amburgo. Leone VIII, che, in mezzo a tanta difficoltà di cose, era rimasto a Roma, fu sottratto al suo destino disperato, perocchè morte lo cogliesse nella primavera dell’anno 965. Non osarono allora più i Romani di congregarsi insieme per dargli un succeditore, e mandarono in Alemagna Azzone e Marino vescovo di Sutri per rimettere all’arbitrio dell’Imperatore la elezione pontificia. Eglino avevano indiritto i loro voti su Benedetto V che era il papa di loro scelta, e avevano sperato che l’Imperatore adesso lo confermerebbe; ma Benedetto moriva addì 4 di Luglio in Amburgo, dove, sotto la vigilanza di Adaldago vescovo, aveva menato vita di santi costumi[454]. La morte di lui liberava Ottone dal mal passo di respingere le istanze dei Romani; congedò con molto onorifiche cortesie i loro messaggieri e mandò a Roma, in loro compagnia, Otgero di Spira e Liudprando di Cremona.
La elezione cadde sul Vescovo di Narni, che salì alla cattedra di san Pietro addì primo di Ottobre dell’anno 965. Giovanni XIII, figlio del Vescovo di Narni di pari nome, era stato educato in Laterano, dove era salito per tutta la successione delle dignità sacerdotali ed aveva acquistato gran rinomanza per la sua scienza erudita[455]. Nel Sinodo di Novembre s’era schierato fra [436] gli accusatori di Giovanni XII, indi aveva preso parte alla deposizione di Leone VIII, ma è possibile che all’esaltazione di questo avesse aderito soltanto di mala voglia. Di illustre famiglia romana sortiva i natali, ed era prossimo congiunto di Stefania Senatrice; più tardi dotava questa donna del feudo di Palestrina, e il figlio di lei e di Benedetto conte (che aveva nome eguale al padre) maritava alla figliuola di Crescenzio «dal cavallo di marmo», e lo faceva rettore della Sabina[456]. Gli è propriamente adesso che comincia lo splendore della famiglia dei Crescenzî, adesso [437] che caduta era quella di Alberico e di Ottaviano; fu Giovanni XIII che la elevò a potenza, affine di averne un sostegno contro la nobiltà cui tosto si inimicava. Egli si attaccava strettamente all’Imperatore per tentare di svincolarsi dalla influenza degli ottimati, ma ne conseguiva che si congiurava a suo danno[457]. A capo della cospirazione ponevasi Pietro, prefetto della Città, e la menzione che tutto di repente vien fatta di questo celebre officio ci ammaestra che l’Imperatore lo aveva di bel nuovo restaurato. Associati a quello erano Roffredo conte della Campagna, Stefano vestiarius, molti dei nobili, molti dei popolani. I vessilliferi della milizia presero il Papa (addì 16 Dicembre), lo gettarono nel castel Sant’Angelo, indi lo trassero nella Campagna, e facile è che lo rinchiudessero nel castello di Roffredo[458]. La rivolta aveva caratteri di democrazia, avvegnaddio in ispecie i capitani del popolo minuto (Vulgus Populi) saltino fuori assieme col Prefetto della Città; trattavasi ancora una volta di liberare Roma dal reggimento [438] pontificio e dal giogo straniero, chè la perdita del giure elettivo doveva involgere Roma in continue rivoluzioni: però, anche questo scoppio di disperazione riusciva a tragica fine.
Nell’autunno dell’anno 966 Ottone venne in Italia: prima d’ogni altra cosa punì la Lombardia sediziosa, dove lo sventurato Adalberto aveva ancora una volta tentato la sorte delle armi, per fuggire indi nuovamente in Corsica e per ricominciare la sua vita randagia nel mondo. Allorchè l’Imperatore s’avvicinò a Roma, il suo approssimarsi vi destò un moto di reazione. Giovanni, figlio di Crescenzio, si sollevava insieme cogli aderenti del Papa discacciato; Roffredo e Stefano erano trucidati, il Prefetto si salvava fuggendo; richiamavasi il Papa. Giovanni XIII stava ricoverato sotto la protezione di Pandolfo conte di Capua, al quale può darsi che fosse fuggito o che si fosse lasciato andare. Con accompagnatura di genti di Capua venne nella Sabina, dove Benedetto, nipote suo e genero di Crescenzio «dal cavallo di marmo», era conte; di colà rientrava nella città nel giorno 12 di Novembre, dopo un esilio di dieci mesi e ventotto giorni[459].
Tosto dopo in Roma entrò Ottone. Quantunque la Città lo accogliesse senza oppor resistenza, può essere che le sue soldatesche non la risparmiassero delle loro vendette, nè dubitiamo che Roma s’insozzasse del sangue di cittadini uccisi, e fosse data al sacco. Tanto era il furore che lo agitava per ogni vena, che l’Imperatore [439] deliberava di punire severamente i capi della ribellione. I maggiori colpevoli, uomini che si fregiavano del titolo di consoli, furono esiliati in Germania. Dodici capitani del popolo, che nei manoscritti antichi ricevono nome di Decarcones, espiarono il loro desiderio di libertà sul patibolo; molti furono decapitati, o orbati degli occhi e sottoposti a crudeli tormenti[460]. Barbara e insieme bizzarra come l’indole di quella età fu la pena inflitta a Pietro prefetto della Città, dopochè, fatto prigioniero, fu cacciato nelle carceri del Laterano. L’Imperatore lo diede in mano del Papa, e Giovanni lo fe’ appiccare per i capelli alla statua equestre di [440] Marco Aurelio. Così, in questa strana occasione torna di repente a galla innanzi a noi un celebre monumento degli antichi, e noi di buon grado ci soffermiamo a discorrere del «Caballus Constantini.»
Questa egregia opera d’arte dura oggidì ancora, ornamento bellissimo del Campidoglio. Chi di quel luogo la mira è compreso di venerazione ripensando all’antichità di quasi diciassette secoli che passarono sopra quell’Imperatore di bronzo, seduto sul suo destriero, col braccio teso, maestosamente silenzioso e fiero: in quell’atteggiamento esso continuerà a sedere, anche quando sarà andata in ruina una storia parimente lunga di popoli, di religioni e di culture. Sorta allora che la podestà dei Cesari era al suo culmine sommo, quella statua equestre fu spettatrice della caduta dell’Impero e dello svolgimento che ebbe il Papato in Roma. Goti, Vandali, Eruli, Bizantini, Tedeschi le passarono innanzi, trucidando e saccheggiando, e la rispettarono. Costante II, ladrone per la vita, la vide, ma non la portò via. Intorno ad essa crollarono templi e basiliche, portici e colonnati e statue; essa stette, senza soffrir danno, simile al genio solitario della grandezza passata di Roma. Soltanto il nome ne sparve, avvegnaddio, perita la statua equestre di Costantino che era collocata presso l’arco di Severo, essa fosse battezzata col nome di quell’Imperatore, cui la Chiesa aveva tanto debito di riconoscenza. La fantasia del popolo, cui erano ignote le geste di Marco Aurelio e di Costantino, affibbiò a quest’opera d’arte una rozza leggenda della sua origine. Un Re straniero, così narravano i pellegrini, aveva in antico assediato Roma, dalla porta Lateranense: [441] era il tempo in cui la Città aveva il governo dei Consoli e del Senato. In quelle angustie un guerriero dalla figura gigantesca, od altrimenti un uomo del contado, offrivasi liberatore, ma chiedeva in premio trentamila sesterzî e una statua equestre di metallo dorato, monumento dell’opera sua. Concesse il Senato; egli allora montò a dorso nudo sopra un cavallo, recando in mano una falciuola: sapeva che quel Re ad ogni notte si faceva appiè d’un albero ove lo chiamavano occorrenze del corpo; gliene dava avviso una civetta, la quale, seduta sull’albero, allora incominciava a stridire. L’uomo agguanta il Re e lo strascina con sè; in quello i Romani assaltano il campo nemico, fanno man bassa dell’oste avversa, e insaccano un immenso bottino di tesori. Il Senato adempiè alla sua promessa, diede all’uomo liberatore la sua ricompensa; e gli fe’ fare un cavallo di bronzo dorato, senza sella, con sopra il cavaliere che teneva teso il braccio con cui aveva afferrato il Re. Sulla testa del cavallo fu collocato il simulacro della civetta, e il Re fu raffigurato, avvinte le mani, in atto che l’ugna del corridore lo calpesta[461].
[442]
Omai nel secolo decimo la statua equestre di Marco Aurelio era posta nel Campus Lateranensis. La basilica che ivi s’ergeva era stata fondata da Costantino, le case patriarcali erano state palagio suo; perciò la piazza che vi si stendeva innanzi fu ornata del monumento che da lui aveva ricevuto il nome. Noi supponiamo essere di già stato Sergio III, che, dopo di avere ricostruito la basilica, ve la faceva collocare; nè era il solo monumento antico che di sì buon’ora venisse trasportato al Laterano; avvegnachè fosse possibile che nel palazzo pontificio e imperiale, residenza delle somme podestà di Roma, si raccogliessero quei tali monumenti che ricordavano le grandezze dei Romani. E fin dal secolo decimo il gruppo in bronzo della lupa che allatta i bambini era posto in una sala del palazzo Lateranense, dove, sotto la presidenza del Missus imperiale, si teneva giudizio; e il luogo da quel gruppo aveva nome ad Lupam[462].
Ma torniamo al Prefetto appiccato per i capelli. Tolto giù, e nudato dei vestimenti, Pietro fu cacciato a bisdosso di un asino colla faccia rivolta verso la coda, e questa, [443] munita di un campanello, gli venne posta in mano come se gli servisse di briglia. In testa gli fu messo un otre piumato, due simili vasi gli si appesero alle gambe, e in tale assetto lo si trasse per le vie tutte di Roma: dopo ciò, fu mandato in esilio oltr’alpe[463]. Vendetta fu tolta anche dei morti; i cadaveri di Roffredo conte e di Stefano vestiarius furono, per comandamento dell’Imperatore, strappati alla loro fossa, e gettati fuori della Città. Queste severità destarono spavento e ire in Roma, sensazione e pietà al di fuori; crebbe l’odio dei nemici dell’Impero. Non v’era che Giovanni XIII, il quale avesse ragione di ringraziarne Ottone; e lo nomava liberatore e restauratore della Chiesa cadente, imperatore illustre, grande, e tre volte benedetto[464]. Peraltro i Romani non poterono mai imparare a inchinarsi davanti la podestà di Re stranieri, che scendevano con loro eserciti dalle Alpi per torsi in san Pietro una corona ed un titolo, coi quali signoreggiavano la loro Città. Rodendosi di collera in silenzio, eglino si dovettero curvare sotto alla mano potente della casa di Sassonia. Non avevano più fra loro un poeta, che descrivesse a parole [444] le sorti della Città illustre, sì come un tempo gli antenati loro avevano fatto. Il solo Monaco di Soratte, che pon termine alla sua Cronica coll’arrivo di Ottone irato e della sua «immensa oste di Gallia», getta commosso da sè la penna, ed espande l’animo in lamenti: è un balbettìo barbarico, ma il sentimento che lo ispira parla chiaro alla nostra mente.
«Guai a te, Roma!», sclama Benedetto, «perocchè tanti popoli ti opprimano e calpestino: tu caschi in mano anche del Re sassone; il tuo popolo è giudicato a colpi di spada; la tua robustezza è annichilata. Il tuo oro e il tuo argento costoro se lo portan via ben mucchiato nelle loro sacca. Madre fosti, ed ora sei fatta figliuola. Quel che possedevi, perdesti; ti rapirono il fiore della giovinezza primiera; a’ tempi di Leone papa ti calpestò il primo Giulio. Quando fosti al culmine della tua potenza trionfasti dei popoli, frangesti in polvere il mondo, svenasti i Re della terra. Tenesti scettro e podestà grande: sei saccheggiata tutta quanta e messa a tributo dal Re sassone. Come dissero alcuni savî e come trovasi eziandio scritto nelle tue storie, un tempo hai domato i popoli stranieri, e vincesti per ogni verso il mondo, da settentrione a mezzodì: di te prende possedimento il popolo delle Gallie: troppo bella fosti. Tante erano le tue mura turrite e merlate quante trovasi detto: avevi trecentottantuna torre, quarantasei castella, merli seimilaottocento; quindici erano le tue porte. Guai a te, città Leonina: già da lungo tempo presa fosti, ma adesso caduta sei nell’abbandono del sassone Re[465].»
[445]
Questa voce, piangente la Roma caduta sotto ai Sassoni, usciva del petto di un fraticello ignorante che sedeva sul solitario monte Soratte: dalle sue cime mirando in giù su quei campi così indicibilmente belli, ei poteva seguire coll’occhio tutte le imprese armate dei popoli, che, anno sopra anno, vi scorrevano per mezzo, moventi a dar l’assalto all’eterna Roma, ed a riempierla di sangue e di terrore. Nelle condizioni mutate di Roma la lamentazione del frate non può più commuoverci come ci commossero le elegie dei tempi che precedettero; tuttavia essa si associa alle voci di doglianza che Girolamo sollevava dopo che la Città era caduta sotto ai Goti, a quelle di Gregorio, quando la angustiava la pressura dei Longobardi, finalmente al toccante inno di dolore che plorava Roma soggiogata da Bisanzio. Ma allorchè quella lamentazione si compara a queste elegie il suo stile orribilmente barbaro ci mostra quanto in basso fossero cadute, nel secolo decimo, anche la lingua e la scienza dei Romani.
[447]
Sei intieri anni le cose d’Italia tennero Ottone affaccendato in questo paese, il quale, dopo di lui, fruttò bensì gloria ad una moltitudine innumerevole di altri uomini tedeschi, ma gli afferrò colle braccia del suo odio fiero, e li seppellì nei suoi sepolcri. Mentre tuttavia era in Roma, l’Imperatore aveva infeudato Spoleto e Camerino a Pandolfo «testa di ferro», duca di Capua: per tal guisa, ad un vassallo devoto affidava le terre più belle dell’Italia di mezzo e di quella meridionale, e gli lasciava l’incarico di guerreggiare contro a’ Bizantini. Ottone celebrava a Ravenna, insieme con papa Giovanni, le feste di Pasqua dell’anno 967, ed in un Concilio restituiva alla Chiesa quella città, col suo territorio e con altri patrimonî[466]. Dipoi faceva venire in Italia il suo figliuolo per farne sicuri i diritti di successione, e [448] per rendere di ragione ereditaria il reame d’Italia e l’Impero.
Ottone II giunse a Roma col padre suo addì 24 di Dicembre; presso alla terza colonna miliare furono ricevuti con accoglienze festose, e, nel giorno di Natale, il giovine Re conseguì la corona imperiale dalle mani di Giovanni XIII[467]. Le idee che ispiravano il padre suo, accesero la mente e il petto di quel ragazzo quattordicenne, il quale, di repente, era sbalzato in Roma, nel bel mezzo dei monumenti della storia universale, con dignità di Cesare. Meta del pensiero politico di Ottone si era la restaurazione dell’Impero romano occidentale; modi di giungervi dovevano essere la soggezione di Roma e del Papato, la cacciata dei Greci e degli Arabi dall’Italia, la unificazione di questa terra divisa. Eziandio con Bisanzio si voleva annodar legami, come più in antico avevane coltivato desiderio Carlomagno; ed Ottone I bramava ornare di splendore la sua giovine dinastia, avvincendola con rapporti di parentela alla corte greca. Ma l’Imperatore bizantino mirava con occhio di gelosia la rinnovazione dell’Impero d’Occidente, cui egli non prestava riconoscimento, e vedeva di mal animo la potenza del tedesco Ottone (la quale cresceva anche in Italia), e cui i Principi di Benevento e di Capua obbedivano [449] come si conveniva a vassalli; perciò i figli fuggitivi di Berengario trovavano presso al Greco protezione, onde agevolmente potevano essi accendere un incendio di guerra dalle Calabrie, parimente come un tempo aveva fatto il pretendente Adelchi. Ora Ottone spediva a Niceforo Foca un’ambasceria, affine di conchiudere pace, e di ottenere pel suo figliuolo in isposa la figlia di Romano II. Legato di Ottone fu l’uomo più arguto che vivesse in Italia a quel tempo, Liudprando, cortigiano e adulatore, che, uno dopo l’altro, aveva servito a Ugo, a Berengario, ad Ottone, e che era, da dopo l’anno 962, vescovo di Cremona. La sua scienza non comune del greco, il suo ingegno, la vivacità del suo spirito, la sua maestria di arti cortigianesche, lo rendevano capace di sostenere la più difficile di tutte le ambascerie che allora occorressero. Liudprando indirisse ad Ottone una relazione particolareggiata della sua missione, ed oggidì ancora noi la leggiamo come una delle scritture più attrattive di quell’età, avvegnachè essa, con vivezza di vedute, offra un quadro della corte bizantina, il quale, sebbene abbastanza spesso sia dipinto con mente maligna, riesce tuttavia pregevole altamente[468]. A quella relazione ci riferiamo in quanto essa concerne le cose di Roma e dei Romani.
Liudprando giungeva nella città capitale dell’Oriente [450] addì 4 di Giugno 968, e dopo qualche attendere aveva udienza da Niceforo Foca, glorioso conquistatore di Creta. Il vano uomo di corte si vide condotto innanzi ad un eroe dall’apparenza semplice e ruvida, che si degnò a stento di concedergli qualche parola; del trattamento sprezzante che ne ricevette Liudprando si vendicò, sbozzandone il ritratto di un mostro. L’Imperatore gli disse: «Avremmo bramato di accoglierti con isplendore e con generosità; ma l’empietà del signor tuo ce lo vieta; con invasione ostile egli s’è strappato Roma; contro dritto e contro dovere egli ha fatto morire Berengario e Adalberto; ha ucciso, acciecato e bandito i Romani, e s’è preteso di soggiogare con ferro e con fuoco le città del nostro Impero[469]». Il Vescovo, che non si perdeva di leggieri nell’imbarazzo, contrappose a quelle accuse la risposta, che Roma era stata liberata dalla signoria di femmine invereconde e di aristocratici temerarî, e confortò i Greci affermando, essere bensì vero che i Romani erano stati decapitati, strangolati, acciecati e mandati in esilio, ma che queste esecuzioni avevano colpito dei ribelli spergiuri, e che s’erano compiute a tenore delle leggi degli Imperatori di Roma, di Giustiniano, di Valentiniano, di Teodosio e di altri Cesari. Nel progresso dei suoi negoziati protestava, che Ottone aveva restituito alla Chiesa romana tutti i possedimenti di questa, e che al Papa avea ceduto tutti i beni ecclesiastici esistenti nel [451] suo Impero; e su di ciò riferivasi alla donazione di Costantino, che allora era tenuta in conto di genuina. L’orgoglio del greco Imperatore, la sua persona solennemente chiusa nell’aureola tradizionale, i diritti antiquati della legittimità sopra di Roma e d’Italia, lo sprezzo pei Barbari, la pompa ceremoniale pesante e di forme teatrali che era usata nella corte, tutto ciò rende l’argomento della relazione dilettevole a considerare, e fa parere meravigliosa la destrezza con cui Liudprando sapeva cavarsi d’impaccio: però noi abbiamo dei dubbi che egli veramente usasse di tutta quell’ardita franchezza onde si die’ vanto nella sua scrittura. Come, un tempo, Basilio aveva rifiutato a Lodovico II il titolo d’imperatore, parimente faceva anche adesso Niceforo, il quale pretendeva che Ottone fosse appellato soltanto col nome di «Riga». Il Greco teneva sè pur sempre in conto di solo imperatore romano, e Liudprando era messo in non lieve temenza allorquando giungeva a Bisanzio una lettera di Giovanni XIII, la quale, fosse audacia o ignoranza, era fregiata colla soprascritta: «all’Imperatore dei Greci.» Mentre sedevano un dì alla mensa, cui Niceforo, sempre con aria di sprezzo mantenuta ad ostentazione, aveva fatto grazia di invitare il messaggiero di Ottone, il Principe gli rimproverava che coloro, i quali in Italia allora si nominavano romani, altro non erano che barbari, ossiano longobardi. I veri Romani, gli rispondeva allora il Longobardo, derivano da Romolo fratricida e da una gente di predoni; ma noi altri, Longobardi, Sassoni, Franchi, Lorenesi, Bavari, Svevi, Borgognoni, disprezziamo i Romani siffattamente, che se vogliamo far grave onta ai nemici nostri, semplicemente gli appelliamo [452] «romani», avvegnaddio con questo solo nome comprendiamo tutto ciò che v’ha di ignobile, di vile, di avaro, di scostumato e di mendace[470]. Sorridevano a quelle parole i Greci, perchè odiavan Roma caduta; e poichè sperare non potevano di torla dalle mani dei Barbari, dichiaravano all’ambasciatore che Costantino aveva condotto con sè a Bisanzio il senato ed i cavalieri romani, e che in Roma non aveva lasciato altro che la feccia della plebaglia.
Allorchè poi Liudprando ebbe chiesto la mano di Teofania per il figliuolo di Ottone, gli fu risposto: Rendete ciò che per diritto è nostro, ed avrete ciò che bramate; restituiteci Ravenna e Roma e tutte le terre che di lì si stendono fino alle nostre province: se poi il signor tuo vuol conchiudere alleanza senza parentela, renda a Roma la libertà. E, obbiettando il Longobardo che Ottone aveva reso la Chiesa più ricca di quello che stata era un tempo, laddove Bisanzio non restituiva i patrimonî incamerati, il ministro imperiale gli rispondeva ghignando: farebbelo l’Imperatore, non appena che potesse governare Roma e il Vescovado di Roma a suo [453] talento[471]. Liudprando non giunse al suo intento; il Vescovo vanaglorioso non ebbe dai Greci astuti che beffe e mali tratti; e, dopo innumerevoli dispiaceri, che egli descrisse con arguzia più briosa di quella che avesse usato a sopportarli, fu lieto di partirsi di Bisanzio sulla fine dell’anno 968.
Non seguiremo Ottone nei suoi viaggi in Italia: lo troviamo ora nelle Calabrie, ora a Ravenna, ora a Pavia; indi, nel Natale del 970, a Roma. La Città sopportava adesso il giogo imperiale senza contrarietà, e, duranti alcuni anni che successero all’orribile giudizio di sangue di cui dicemmo, la sua storia non registra avvenimento di sorta. Però, degno è di nota un Diploma di Giovanni XIII, che concerne una celebre città del Lazio. L’antichissima Preneste, distante ventiquattro miglia da Roma, donde ad occhio nudo si scorge disegnarsi sull’azzurra pendice dei monti, serbava allora tuttavia il suo nome e le ruine della magnificenza antica[472]. Leggende di poeti e fatti della storia decoravano di grande splendore la vecchia città dei Siculi. Ivi il giovane Mario s’era ucciso gettandosi sulla punta della sua spada; [454] Silla aveva ridotto la città in ruina sopra i cadaveri dei suoi abitatori e dipoi v’avea edificato lo splendido tempio della Fortuna; di lì Fulvia aveva scagliato disfida ad Ottaviano, e in compagnia di lei era stata Livia, primamente nemica, indi sposa dell’Augusto. Un tempo l’aria balsamica di Preneste era stata medicina alle dissolutezze di Tiberio; gli Imperatori, i poeti (che fanno tutti la corte alla fortuna), Ovidio, Orazio, Virgilio avevano amato dilettamente quella città, coronata di allori e sacra alla felicità. Nell’epoca della barbarie era decaduta; i suoi templi, le sue basiliche, i suoi teatri erano crollati, o duravano ruinosi, e, come in Roma, i ruderi ammonticchiati seppellivano le bellissime opere di tre epoche dell’antichità[473]. Preneste era diventato uno dei sette vescovati suffraganei di Roma, sotto la protezione del santo giovine Agapito, che ivi aveva sofferto martirio addì 28 di Agosto dell’anno 274, e che oggidì ancora è venerato da patrono della città in quel duomo costruito sulle reliquie del tempio della Fortuna. Giovanni adesso, nel Novembre del 970, dava la città, a titolo di enfiteusi, a Stefania senatrice; per un censo annuo di dieci solidi d’oro, Preneste doveva appartenere [455] a lei, ai figli e ai nipoti suoi; indi tornar doveva alla Chiesa. Il documento ci offre un esempio delle infeudazioni, che a quella età erano usate nel territorio romano[474].
Più tardi troveremo ancora i nepoti di Stefania nel possedimento di Palestrina, e colla storia del secolo undecimo avremo a farvi ritorno ancora più spesso, per motivo delle guerre di famiglia.
Ciò che Ottone imperatore non avea ottenuto da Niceforo conseguiva egli dal suo successore. Giusto un anno dopo che era partito con vergogna di Bisanzio, il maligno Liudprando poteva allietarsi alla notizia che il [456] valoroso Greco era caduto sotto i colpi di pugnali assassini. Giovanni Zimisce, che aveva guidato gli uccisori dentro al palazzo, saliva al trono di Bisanzio nel giorno di Natale dell’anno 969; con amiche cortesie accoglieva l’ambasceria che Ottone gli mandava a fargli sue gratulazioni; e la figlia di Romano il giovane veniva fidanzata ad Ottone II. Nella sua giovinezza, questa Principessa era sopravvissuta alle tragedie orribili che avevano funestato le sue case paterne; aveva veduto il padre morire di un veleno che la madre di lei gli aveva mesciuto; aveva veduto passare la madre fra le braccia di Niceforo, e di queste in quelle dell’assassino di lui, Zimisce, il quale allora si era pigliata la corona sozza di sangue, e aveva relegato la sua druda in una solitudine. Teofania, sospirando, aveva detto addio alle spiagge del Bosforo; di gran cuore si allontanava ella dai delitti di Bisanzio, ma, avvezza al lusso, alla lingua ed alle arti culte dell’Oriente, partiva con animo dubbioso per il Settentrione, ove andava a condurre sua vita in mezzo ai ferrei uomini di guerra della Sassonia, in città cui il clima e la manchevole cultura davano impronta di barbarie.
La sposa imperiale veniva coll’accompagnatura di Gerone, arcivescovo di Colonia, di due Vescovi e di Conti e Duchi molti; scendeva a terra nelle Puglie, e, addì 14 di Aprile dell’anno 972, entrava in Roma, dove l’imperatore e il suo fidanzato la accoglievano con grandissima allegrezza. Il giovine Cesare toccava i diciassette anni d’età; aveva aspetto di adolescente, ma persona piena di eleganza; era educato elettamente, e chiudeva in petto spiriti arditi e bell’ingegno; in corpicciuolo [457] minuto albergava anima di eroe[475]: la giovine sposa era donna arguta e leggiadra. I Romani miravano con occhio curioso quella coppia, alle cui mani l’eroe Ottone, che andava invecchiando, affidava adesso l’avvenire dell’Impero e della Città. Addì 14 di Aprile Giovanni XIII coronò Teofania a imperatrice, e in pari tempo ne benedì le nozze, innanzi ad un’assemblea di maggiorenti di Germania, d’Italia e di Roma: indi si celebrarono feste splendidissime[476]. Mentre adesso, per la prima volta, un Imperatore dell’Occidente sposava una Principessa bizantina, sembrava che si pacificasse l’odio dell’Oriente contro al Settentrione; ma il vanitoso splendore di quegli sponsali non recò alcun profitto vero: frutto ne fu un fanciullo di portentosa natura, il quale amò tutto ciò che sapeva di greco e di romano con passione quasi d’infermo, si vestì del fasto brillante della terra materna, vi dimenticò il suo proprio paese paterno, e giovane si buttò al malaticcio, e giovane morì. Come le feste nuziali ebbero avuto fine, la famiglia imperiale abbandonò Roma, per tornare ad Alemagna: tosto dopo moriva Giovanni XIII, nel giorno 6 Settembre del 972[477].
Ebbe a successore Benedetto VI, figlio di Ildebrando monaco di origine germanica, divenuto poi romano: il nuovo Papa era stato primamente diacono nella Regione [458] ottava, che non è più denotata col nome di Forum Romanum, ma con quello di sub Capitolio. A cagione della lontananza degli Imperatori la sua confermazione sofferse ritardo, laonde fu ordinato soltanto ai 19 di Gennaio dell’anno 973[478]. L’esaltamento di lui aveva cagionato divisioni, chè, ad onta della perdita del loro diritto elettivo, i Romani continuavano a levare dei candidati al pontificato. La fazione imperiale aveva proposto Benedetto, ma il partito nazionale aveva votato fin d’allora per Franco, figliuolo di Ferruccio; tuttavia Benedetto VI diventò papa, perocchè la temenza del braccio poderoso del vecchio Imperatore tenesse in freno Roma finchè egli visse. Sennonchè, il grande Principe moriva addì 7 di Maggio dell’anno 973, dopo di aver reso la Germania signora di Europa; allora immantinente i Romani cospiravano contro il Papa, e s’affrettavano di porre il loro candidato in vece sua. La giovinezza di Ottone II, la sua presenza in Germania (dov’eragli necessario di farsi prima forte nella signoria), financo le promesse dei capitani bizantini che erano nell’Italia meridionale, davano ai Romani coraggio. Sembrava adesso essere venuto per loro il momento di recuperare i diritti antichi, massime forse di conseguire nuovamente libertà dalla soggezione straniera.
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Alla testa dei parteggianti nazionali era allora la potente famiglia dei Crescenzî. Similmente come gli antenati di Alberico gli avi di questi romani si celano nell’oscurità; peraltro romani di antica stirpe eran dessi, chè il nome Crescenzio e Crescente s’ode già al tempo degli Imperatori, sebbene di poco innanzi al secolo terzo. Per la prima volta in un Placito di Lodovico III, nell’anno 901, fu citato il nome di un Crescenzio; indi questo stesso nome rilevammo all’età del grande Alberico; vedemmo poi Crescenzio «dal cavallo marmoreo» intervenire nel Sinodo di Novembre, al tempo di Ottone I; e nei libri di Farfa trovammo registrato che Teodoranda, figlia di quell’uomo, aveva sposato Benedetto, nipote di Giovanni XIII: un Giovanni, certamente figlio del Crescenzio istesso, aveva capitanato il moto di reazione dell’anno 966.
Il soprannome a caballo marmoreo è uno dei più notevoli di Roma. Il cavallo di marmo, onde era attinto, significava i due cavalli colossali e i loro domatori, quelle due celebri opere d’arte di Roma imperiale, le quali allora (al pari delle tre statue dei Costantini che oggidì stanno nella piazza del Campidoglio) s’erigevano tuttavia sul Quirinale, innanzi alle terme di Costantino; e, probabilmente fin da quel tempo, avevan dessi dato origine alla tradizione strana che trovasi registrata nei Mirabilia. Gli indotti pellegrini miravano attoniti quei giganti tutto nudi; e poichè sui loro piedestalli leggevano scritti i nomi dei più grandi scultori di Atene, questi nomi riferivano ai domatori stessi di cavalli, e narravano così: «Un dì vennero a Tiberio imperatore due giovani filosofi Prassitele e Fidia; li guardò egli e disse [460] loro meravigliando: Perchè ne andate all’ingiro così nudi? Ed eglino risposero: Perchè innanzi a noi tutto è nudo e manifesto, e il mondo teniamo dammen che nulla; anzi, tutto ciò che nelle tue stanze, nel più cupo della notte, tu puoi consigliar teco stesso, parola per parola, a te ripeteremo. Tiberio lor disse: Se lo farete, darovvi io tutto ciò che possiate chiedere. Ed eglino: Oro non vogliamo, ma soltanto un monumento. Quando dunque al dì seguente gli ebbero veramente svelato i suoi più riposti pensieri egli fece fare ad essi la loro «Memoria», cioè i corsieri nudi che percuotono colla zampa il suolo, simboli dei dominatori potenti del mondo: però, verrà un Re poderoso che monterà in groppa ai corsieri, ossia che domerà la forza dei Principi del mondo. E inoltre fece fare gli uomini mezzo nudi che stanno presso ai cavalli con braccia alzate e con pugni stretti, avvegnaddio narrino quel che ha da venire, e come eglino stessi sono nudi, così anche tutte le scienze innanzi a loro sono aperte. La donna cinta dal serpente, che ivi siede e tiene a sè davanti una coppa, significa la Chiesa che da molte scritture è circondata; ma niuno può comprendere il senso di quelle se prima non siasi bagnato nella coppa.» Quest’è la leggenda poetica dei Caballi marmorei, laonde sembra che allora, vicino ai domatori dei cavalli, fosse collocata anche la statua di una Igea, col serpente che s’abbeverava ad una coppa; e questo al popolo, con significato arguto e leggiadro, pareva simbolo della Chiesa[479].
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Crescenzio dunque, dal luogo di sua dimora, fu chiamato con quel soprannome; e di esso si fregiarono altri Romani anche in tempo posteriore[480]. Molti ricevevano appellazione dai loro quartieri, e, poichè questi spesso si denotavano da’ monumenti, i Romani del secolo decimo compaiono con siffatti nomi, che bellamente suonano al nostro orecchio e invaghiscono la nostra fantasia, poichè ne richiamano ricordanza delle opere artistiche di Roma antica, la cui notizia talvolta è associata soltanto a queste nominazioni di uomini romani. Così incontriamo: Romano e Gregorio a Campo Martio, Giovanni de Campo Rotundo, Sergio de Palatio, Benedetto a Macello sub Tempio Marcelli (dal mercato di vettovaglie che era posto sotto al teatro di Marcello), Duranto a Via Lata, Ildebrando a Septem Viis, Graziano a Balneo Micino (dal piccolo bagno oppure dal bagno di Micino), Giovanni a sancto Angelo, Franco a sancto Eustachio, [462] Riccardo a sancto Petro in Vincula, Pietro de Cannapara, Bonizo de Colossus, Andrea de Petro, che era appellato dal vicoletto del Colosseo[481]. Da cosiffatti soprannomi ebbero qua e là origine vere nominazioni famigliari di case nobili, per esempio di Santo Eustachio o Santo Stazio; ma il popolo chiamava omai alcune persone altresì da loro attributi o qualità, onde ne sorgevano poi dei veri nomi proprî. Di questa guisa troviamo: Crescenzio Cinquedenti, Adriano Collotorto, Benedetto Boccapecora, Giovanni Centoporci, Leone Cortabraca[482]. Parimenti, durava il consueto modo di denotare il figlio dal nome del padre o da quello della madre, di maniera che, per esempio, v’avevano: Stefano de Imiza, Leone de Calo Johannes, Azone de Orlando, Benedetto de Abbatissa, Giovanni de Presbytero, Crescenzio de Theodora.
Nel secolo decimo, il nome di Crescenzio era ormai sì frequente, come quelli femminili di Stefania, di Teodora, [463] di Marozia[483]. Mentre l’uno era detto «dal cavallo marmoreo», erano chiamati gli altri: de Bonizo, de Roizo, de Duranti, Raynerii, Crescenzio Cannulus, Crescenzio Stelluto, sub Janiculo, de Polla ossia Musca Pullo, de Flumine, de Imperio, a Puteo de Proba (dal pozzo di Proba) e Squassa Casata (dalla casa crollata)[484]. È cosa assai contraria a probabilità, che Crescenzio «dal cavallo di marmo» fosse la stessa persona di Crescenzio de Theodora, come ora s’appellava il capo dei ribelli romani. Nella Cronica di Farfa, questi soprannomi non vanno fra loro confusi; ivi si parla soltanto di Crescenzio a Caballo marmoreo, ma il capo dei Romani sollevati contro a Benedetto altrove è appellato soltanto Crescenzio de Theodora, ed, a quel tempo, chi scriveva si atteneva con grande precisione a siffatti soprannomi. Gli è altresì un ozioso studio di fantasia voler cercare in quella Teodora la famosa Senatrice dello stesso nome, e di dare Giovanni X per padre a Crescenzio figlio di lei: nessun documento infatti ne fa parola. Però, ad un’illustre stirpe patrizia apparteneva egli, e senza dubbio discendeva da quel Crescenzio, [464] di cui femmo cenno fra i grandi del tempo di Lodovico III. Era famiglia che possedeva ricchi beni nella Sabina, e, già nell’anno 967, viene detto che Crescenzio era conte e rettore del territorio Sabinate[485].
Crescenzio, o in forma abbreviata, Cencio de Theodora, destò in Roma una rivolta; i Romani s’impadronirono di Benedetto VI, lo gettarono in castel Sant’Angelo, e quivi lo strangolarono nel Luglio del 974, mentre alla cattedra di Pietro elevavano un diacono, figlio di Ferruccio, con nome di Bonifacio VII[486]. Il [465] Papa immesso con quest’opera violenta, è detto uomo romano, ma ignota ne è la stirpe. Poichè egli aveva eziandio soprannome di Franco, lo si volle far discendere dalla famiglia così chiamata, che forse era d’origine franca, ed in documenti del secolo decimo viene nominata frequenti volte[487]. Bonifacio si fece sgabello del corpo vivo o agonizzante di Benedetto, e salì al trono pontificio. I suoi contemporanei lo dipingono siccome un «mostro», e dicono che egli si coperse del sangue del suo predecessore[488]. Sventuratamente, gli avvenimenti [466] di Roma ci sono fatti conoscere soltanto dalle scarsissime notizie di secoli posteriori; e appena ci vien dato l’annuncio dell’esaltamento di Bonifacio, che udiamo anche della sua fuga. Balzato del trono dopo un mese e dodici giorni, egli insaccava il tesoro della Chiesa, e andava a Costantinopoli, dove, alla paro di altri pretendenti, trovava ricovero. Questo suo luogo di rifugio fa credere che la elevazione di lui al pontificato si fosse associata ad un intendimento politico di Bisanzio, il quale, propriamente allora, cercava di soppiantare l’influenza tedesca anche in Salerno: e la cacciata dell’Antipapa non poteva essere altro che opera del partito tedesco, il quale trionfava nuovamente in Roma, e il cui capo, nel mezzogiorno, era pur sempre il valoroso Pandolfo «testa di ferro»[489].
Anche Crescenzio de Theodora scompare dalla scena della storia. Sembra che egli non l’abbia fatta da patrizio; dopo che il partito avversario ebbe vinto, egli visse tranquillo in Roma stessa. Infatti, nell’anno 977, un documento dice che Crescenzio, illustrissimo uomo, appellato de Theodora, è pacifico fittavolo di un castello in prossimità di Velletri[490]. Un’altra scrittura dei 15 di Ottobre 989, si riferisce a lui, che era già morto, e lo chiama Console e Duce d’altro tempo, sposo [467] dell’illustre Sergia, e padre di Giovanni e di Crescenzio[491]. Finalmente, e ciò s’acconcia all’indole di quell’età, crediamo di ravvisarlo monaco in una cella del convento di santo Alessio, dove passò alcuni anni supplicando dai Santi «il perdono delle sue scelleraggini», fino a che morì addì 7 di Luglio 984. «Qui riposa», dice un epitaffio di quella chiesa, «l’insigne Crescenzio, esimio cittadino romano e duca magno; da grandi genitori ebbe nascimento, egli, prole grande ed egregia; Giovanni padre e Teodora madre dettero a lui splendore. Cristo, amorevole salvatore delle anime, a sè lo avvinse, così che in pia e lunga lassitudine d’ogni speranza terrena, rinunciò al mondo, si prostrò sulla soglia del santo martire Bonifacio, e, vestito abito monacale, quivi si die’ in braccio al Signore. Con donativi e con dovizia di terre arricchì questo tempio. O tu che leggi, prega per lui, affinchè consegua finalmente venia delle sue scelleratezze. Morì nel giorno 7 di Luglio l’anno dell’incarnazione del Signore 984»[492].
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Dopo la fuga di Bonifacio, la elezione pontificia diventò difficile; un sant’uomo, Majolo di Cluny, cui Ottone II offerse la tiara, la rifiutò; finalmente, Benedetto VII, fin a quell’ora vescovo di Sutri, fu fatto papa nell’Ottobre dell’anno 974. Vien detto, ma non se ne può dar prova, che egli fosse nipote e discendente di [469] Alberico[493]. Il novello Pontefice condannava in un Concilio il reo Bonifacio, e dava per tal guisa incominciamento ad un governo di valente energia. Nove anni si mantenne in quello, quantunque Ottone ne restasse più di cinque lontano d’Italia; laonde convien dire che il partito avverso fosse tenuto sotto il morso della fazione tedesca; ad ogni modo, oscurità ci nasconde in che condizioni fossero allora le cose[494].
Silenzio ricopre anche i fatti di Benedetto VII; sappiamo soltanto che egli favorì zelantemente la riforma di Cluny, e diede opera alla restaurazione di chiese e di conventi. Nel chiostro dell’abazia di santa Scolastica a Subiaco una pietra, segnata con rilievo di rozzi caratteri, serba tuttavia un’iscrizione, la quale dice che questo Papa, ai 4 Dicembre del 981, consecrò la nuova chiesa del convento[495]. Rinnovava egli eziandio il monastero [470] dei santi Bonifacio ed Alessio sul monte Aventino, che in quell’età diventò il più illustre di Roma. Sebbene da secoli la Città fosse zeppa di conventi, questi non avevano raggiunto la importanza ottenuta dalle Abazie d’Italia, di Germania e di Francia. In antico il monastero fondato da Gregorio I sul Celio era stato insigne quale seminario dei missionarî di Inghilterra; e quella veneranda Abazia dei santi Andrea e Gregorio durava tuttavia in vita, mentre altre molte erano perite: rilevammo già le cure che Alberico aveva rivolto alla loro restaurazione. Adesso, alla fine del secolo decimo, principiava a fiorire il convento di san Bonifacio sull’Aventino, e tosto diventava istituto delle missioni per i paesi Slavi.
Antica era la chiesa di quel Santo, avvegnachè narri la tradizione che Eufemiano, a’ tempi di Onorio imperatore, cedesse per la sua edificazione i palazzi che in quel luogo possedeva. Figlio di quel Senatore, era stato Alessio eroe di una fra le più belle leggende che mettano in pregio l’abnegazione cristiana. Il giovinetto illustre disertava le sale splendenti di luce dei doppieri e affollate di ospiti convitati alle sue nozze: invece di stringere fra le braccia la sposa, le rivolgeva un umile predicozzo, in cui dimostrava la vanità di tutte le umane cose; indi, coperto di un manto modesto, pellegrinava ai più remoti deserti della terra. Dopo molti anni tornava, pari ad Ulisse, accattando; senza esser conosciuto per chi era si accovacciava sotto la scala delle sue case paterne, dalla quale saliva e scendeva la caterva dei famigli beffeggiatori. Ivi accovacciato viveva sedici anni, trattato e cibato come un cane, e alla [471] fine vi moriva sempre tacendo, da vero eroe; ma una scrittura, in cui narrava i casi della sua vita, e che teneva serrata nella mano irrigidita dalla morte, svelava chi fosse, e un coro di voci angeliche facevano manifesta la grandezza sua e la sua origine. Il morto figliuolo del Senatore fu tratto fuori dal suo coviglio di sotto alla scala, e coll’accorrenza di tutta Roma fu sepolto splendidamente in san Pietro per opera del Papa e dell’Imperatore[496]. Più tardi lo si associò, come santo, a Bonifacio; ma soltanto dopo la fine del secolo decimo i due nomi andarono uniti, avvegnaddio, in epitaffî del tempo di Benedetto VII, non si trovi che il solo titolo di Bonifacio. Probabile è che un convento già esistesse presso alla chiesa antica (era una diaconia); ambidue però decaddero, finchè quel Papa, nell’anno 977, ne li cedette a Sergio metropolita greco. Fuggente dagli Arabi, questi era venuto dal suo vescovato di Damasco a Roma; fondava adesso il convento di san Bonifacio e ne diventava primo abate. Quantunque il monastero serbasse la regola di Benedetto, tuttavia vivevano in esso [472] anche dei frati basiliani in unione ai latini; e può darsi che Sergio preferisse questa chiesa ad ogni altra, poichè era stata fondazione greca: infatti quel luogo appellavasi Blachernae; oltracciò san Bonifacio stesso aveva trovato morte in Tarso e, come dicono i loro nomi, greci erano stati Eufemiano e la moglie sua Aglae e il figliuol loro Alessio. Qui visse dunque Sergio di Damasco fino all’anno 981; indi, abate del convento diventò Leone, e tosto il nuovo chiostro fu ricetto di alcuni illustri uomini, dei quali avremo ancora opportunità di discorrere[497].
Tuttavolta, Benedetto VII non potè sempre in buona pace attendere a cure di chiostri e ad ornamento di chiese. Se possedessimo notizie chiare di quel tempo, lo vedremmo cimentarsi a lotta contro il partito ostile, e forse lo vedremmo costretto a fuggire. Ai motivi che obligavano Ottone II a muovere con una spedizione su Roma ben si associavano anche querimonie ferventi del Papa, che lo pregava di liberarlo dalla mano dei suoi oppressori[498]. Ottone veniva in Italia per mandare a compimento i disegni del suo gran padre; caduto Berengario, caduti i figli di lui, distribuiti i maggiori Vescovati e le maggiori Contee dell’Italia superiore fra [473] gli aderenti della casa di Sassonia, la sola Italia meridionale offeriva un campo d’imprese al genio che ne accoglieva l’animo giovanile dell’Imperatore. Infatti, Roma e Italia tremavano pur sempre di paura dei Saraceni; quantunque Guglielmo di Provenza avesse distrutto, nell’anno 972, il covo di quei ladroni a Frassineto, tuttavolta i loro correligionarî continuavano le loro scorrerie brigantesche venendo di Sicilia, e disertavano le Calabrie, dandovi il sacco. Oltracciò, trattavasi di combattere i Greci che aspiravano a restituire sotto il proprio dominio Capua e Benevento perdute; volevansi ridurre le Puglie e le Calabrie sotto allo scettro tedesco; volevasi finalmente conquistare la Sicilia. Agitato dal fervido desiderio di condurre a compimento tai degni propositi Ottone II scendeva nell’autunno dell’anno 980; celebrava le feste natalizie a Ravenna, dove forse s’incontrava col Papa; e, non prima della Pasqua del 981, giungeva a Roma. Con lui erano Adelaide sua madre, la sua sposa Teofania, Matilde abbadessa di Quedlinburg sorella sua, Ugo Capeto duca di Francia, re Corrado di Borgogna, e molti altri Principi e signori[499].
Nessun Cronista contemporaneo narra che Ottone punisse i ribelli dell’anno 974; soltanto in alcune notizie di tempi posteriori si favoleggia che, a modo di un Caracalla, traditorescamente raccogliesse a convito i Romani sulla scalea del san Pietro, e facesse, duranti le mense, mozzar la testa ad alcuni, ordinando agli altri [474] che continuassero a banchettare: è una leggenda che, oggidì ancora, trova luogo qua e colà presso alcuni Storiografi italiani, i quali, secondo a quella, tessono il loro racconto[500]. Il giovine Imperatore, alla cui collera, giusto allora, Crescenzio scampava nascondendosi sotto il saio monastico, lasciava Roma, nel mese di Giugno o in quello di Luglio, per volgere i suoi passi all’Italia meridionale: ivi i Greci (Basilio II e Costantino IX, fratelli di Teofania, dominavano allora sopra Bisanzio) andavano apprestandosi in arme per respingerlo, e così parimenti facevano i Saraceni governati da Abul-Kasem di Palermo. Infausto esito ebbero le battaglie combattute da Ottone in quelle province, nelle quali l’Impero orientale, quello occidentale e l’Islamismo, già da tempo sì lungo, andavano fra loro pugnando. Guadagnata e riperduta, addì 13 del Luglio 982, la giornata di Stilo, in cui il fiore della nobiltà di Germania e d’Italia cadde mietuto sotto la scimitarra dei Saraceni, salvatosi dalla nave greca, che fuggitivo lo aveva portato a Rossano, Ottone se ne tornò a Capua[501]. I suoi disegni [475] si sciolsero in fumo, Bisanzio trionfò; e, se avessero saputo far loro vantaggio della grande vittoria riportata dall’Islamismo, fors’è che i Greci avrebbero potuto restaurare i loro Esarchi a Ravenna e riporre i loro Papi a Roma. I maggiorenti dell’Impero, con grande mestizia, attorniarono Ottone, nel Giugno dell’anno 983, a Verona, dove s’era bandita una adunanza universale. Colà il fanciulletto Ottone (III) fu eletto re di Alemagna e d’Italia; indi l’Imperatore mosse nuovamente in gran fretta verso l’Italia meridionale, per provvedere a una nuova campagna; e venne a Roma, dove la morte di Benedetto VII (che trapassato era nel Settembre o nell’Ottobre del 983) reclamava la sua presenza[502].
[476]
A succeditore del Pontefice Ottone elevò Pietro di Pavia, cancelliere dell’Impero, che prese nome di Giovanni XIV; ma l’aveva fatto appena, che egli stesso infermò e venne in fin di vita. Le angustie degli ultimi tempi avevano roso il suo animo; la sua fibra non era costruita di saldo acciaio come quella del padre suo; la sua anima giovanile s’alzava a volo sull’ale della fantasia, non su quelle della volontà robusta e calma. Ottone II parve e sparì, rapidamente come una meteora; e la breve esistenza di lui e del figliuol suo forma un contrasto strano nel fondo del quadro in cui si disegna la vita lunga e gagliarda di Ottone I, che sorpassa quei due giovani di tutta la sua maschia statura di eroe. Il giovane Imperatore raccolse in Roma, attorno al suo letto di morte, gli amici e i compagni; dispensò i suoi tesori alle chiese, ai poveri, a sua madre, a Matilde sua unica sorella, e ai suoi guerrieri, che per amore di lui avevano abbandonato le terre natìe; in presenza dei Vescovi e dei Cardinali si confessò al Papa addolorato, ricevette l’assoluzione delle sue peccata, e morì nel palazzo imperiale presso al san Pietro, addì 7 di Dicembre del 983, nell’anno vigesimo ottavo di sua età[503].
Solo Imperatore di stirpe germanica che morisse in Roma e che vi fosse tumulato, ebbe sepoltura dal lato [477] orientale del «paradiso» del san Pietro, a sinistra di chi v’entra: il suo cadavere fu chiuso in un sarcofago antico, adorno di figure che rappresentavano un console e la sua donna. Similmente alle belle colonne dei templi anche le vecchie urne dei Romani avevano la sorte di andar per Roma peregrinando; e, parimenti come esso, imperatore di nazione germanica, s’era ornato in vita dei titoli e delle forme dell’antichità, così entro al sarcofago dell’antichità nascondeva sè stesso in morte. Infisso nella parete, fu collocato sopra la tomba di Ottone un musaico; raffigurava il Redentore in atto di benedire, nel mezzo di san Pietro e di san Paolo. Questo quadro mirabile, che oggidì vedesi nelle grotte del Vaticano, fitto nel muro, è monumento dell’arte di allora; la sua fattura, quantunque cattiva, è tuttavia migliore di quella del tempo di Giovanni VII; l’espressione della testa del Cristo, adorna di capelli lunghi e neri, è piena di dignità; difettosi sono il disegno e i lumeggiamenti, massime nei due Apostoli, uno dei quali, Pietro, reca in mano un gruppo di tre chiavi. Fu senza dubbio Teofania che fece comporre il musaico, e allogarlo sopra l’arca pagana che chiudeva la salma dello sposo suo. Per un periodo di sette secoli i pellegrini alemanni poterono sostare, commossi a pietà, innanzi a quel sepolcro imperiale, monumento della grandiosa storia della nazione tedesca; ma, finalmente, la nuova edificazione della basilica, avvenuta a’ tempi di Paolo V, distrusse la tomba veneranda. Si estrasse il cadavere dell’Imperatore, presente un notaio, il quale coi suoi proprî occhi riscontrò esser provato che corrispondeva alla corporatura minuta di Ottone II. A [478] lui non fu pur concesso il sarcofago antico, chè questo, con turpe profanazione, fu abbandonato ai cuochi del Quirinale perchè lo adoperassero a funzioni vili di serbatoio d’acqua; e le ceneri dell’Imperatore si deposero in un’altra arca di marmo, che bruttamente si coprì di stucco. In questo stato, il suo sepolcro mirasi ancora oggidì nelle grotte del Vaticano, dove Ottone II dorme il sonno della morte in vicinanza di Gregorio V congiunto suo, nella tragica assemblea di Papi riposanti, simili a mummie, nei loro avelli; colà ei dorme in mezzo all’ombra fantastica e oscura di quella catacomba massima del mondo, cui l’uomo di cuore non traversa senza sentirsi alitare in fronte il fiato della storia[504].
[479]
Accosto alla tomba di Ottone Giovanni XIV poteva trarre il pronostico della prossima fine anche di sè. Infatti, i Romani si sentivano adesso liberi del freno di un Imperatore temuto; erede di questo era un coronato bambino di tre anni, sotto la tutela di una femmina, ed esposto al pericolo delle armi di un ambizioso parente, che in Germania si prendeva titolo di re; perciò anzi Teofania aveva lasciato in gran fretta Roma. Si faceva allora sentir viva la richiesta di avere a papa un uomo romano; e il pretendente del papato (viveva egli tuttavia) capitava a Roma in tempo massimamente propizio.
Da più che nove anni il figlio di Ferruccio era vissuto nel suo esilio di Bisanzio, e sempre, come Sergio III in antico, aveva inteso i suoi cupidi sguardi al trono di san Pietro. Aveva contribuito la sua parte a far conchiudere la lega fra’ Greci e Saraceni, aveva udito con compiacimento la disfatta dell’Imperatore, ne aveva sentito con gioia la morte. Ora veniva egli a Roma; trovava bensì la cattedra di Pietro occupata dal Vescovo di Pavia, ma i suoi aderenti gli si schieravano tutti all’intorno; e i suoi tesori, ossia l’oro bizantino, gli procacciavano amici nuovi. Bonifacio, nella sua partenza [480] di Bisanzio, ne era stato accompagnato coi migliori desiderî; Greci gli avevano fatto corteo, e può supporsi che un patto si fosse conchiuso fra lui e la corte di Bisanzio: soltanto, che la mancanza dei documenti ci lascia anche qui all’oscuro, e la storia di Roma ci compare più confusa che mai.
Presta e orribile fu la fine di Giovanni XIV. Caduto in potere di Ferruccio, lottò quattro mesi colla fame nelle segrete del castel Sant’Angelo, finchè morì di quella tortura, oppure di veleno[505]. La rivoluzione dev’essere accaduta intorno alla Pasqua dell’anno 984; per conseguenza, la morte di Giovanni avveniva nell’estate di quello stesso anno. Bonifacio, il quale certo lo aveva fatto deporre per opera di un Sinodo, non aveva mai cessato di tenere sè in conto di pontefice legittimo; ed invero, dopo il suo ritorno, egli contò la sua êra sempre [481] dall’anno 974[506]. Per un periodo di undici mesi dev’egli aver seduto sulla sedia di san Pietro, ma di quel tempo nulla ci è noto. La narrazione, per cui di passaggio vien detto, che egli aveva fatto svellere gli occhi a Giovanni cardinale, ci dà a sospettare che altri eccessi ancora di crudeltà commettesse la sua ira, coltivata con sì lunghi anni di esilio. Però, anch’egli era diventato uomo straniero fra i Romani, e la sua presta caduta ci ammaestra che s’era fatto molesto eziandio al suo partito. Questa fazione non s’inspirava così tanto a devozione bizantina, quanto a sensi di nazione romana; era quella che in addietro aveva obbedito a Crescenzio, e adesso era capitaneggiata dal figliuolo di lui: laonde sbalzò del trono il tiranno Pontefice, poichè voleva essa, a tutto profitto di sè, impadronirsi del reggimento cittadino, or che ne le si offrivano circostanze tanto fauste di cose. Bonifacio VII morì, non v’ha dubbio, di violenta morte. Il suo cadavere fu dato in balìa alle più feroci turpezze, fu trascinato per le vie, e finalmente gettato innanzi alla statua equestre di Marco Aurelio: così il monumento di uno fra i più generosi Imperatori di Roma, servì ripetute volte da patibolo in tempi di rivolta. Sul mattino successivo alcuni preti o famigliari del Papa ne raccolsero il corpo, e gli diedero sepoltura cristiana. Questa fine sortì, nell’estate dell’anno 985, l’ambizione di Bonifacio VII, dopochè egli in [482] undici anni di tempo aveva sbalzato di seggio due Papi e fattili morire nel castello di Sant’Angelo[507].
In mezzo a condizioni di cose che ci sono ignote saliva adesso alla cattedra pontificia Giovanni XV, abitatore del quartiere detto Gallina Alba, che la Notitia osserva, essere stato situato nella sesta Regione, Alta Semita[508]. Suo padre era Leone prete; la famiglia ci [483] è sconosciuta, ma dev’essere stata avversa alla casa dei Crescenzî, e aderente di Germania ossia dell’Impero: infatti, l’esaltazione di Giovanni XV non potè avvenire che in onta alla parte nazionale, e quindi per opera della fazione tedesca. Aveva fama di uomo erudito, e si dice anche aver compilato dei libri: tanto più fortemente doveva essergli ostile la zotichezza del clero romano, che egli disprezzava e da cui era odiato; ed invero Giovanni cercò di dare le cariche più importanti a’ suoi aderenti ed a’ suoi congiunti, affine di reprimere la potenza della nobiltà romana, al cui gremio appartenevano i Cardinali ed i Giudici della Città[509]. Però, dopo il ritorno o dopo la morte di Bonifacio, Giovanni Crescenzio (che bene era figliuolo di quel Crescenzio primo onde dicemmo) aveva tratto a sè il reggimento temporale. Il celebre uomo romano, che Cronisti di tempi posteriori appellano col nome di Numentanus (perocchè a lui debba avere appartenuto il sabinate Numentum, odierna Mentana) [484] intendeva a rinnovare la potenza di Alberico, e per alcuni anni gli arrise la sorte di essere signore di Roma. D’allora in poi lo troviamo a capo della parte nazionale, ma non, come fu Alberico, rivestito del titolo di «Principe e Senatore di tutti i Romani.» Non v’è documento alcuno che lo denoti per tale; soltanto che, nell’anno 985 dopo la morte di Bonifacio, aveva assunto titolo di Patricius[510]. Tanto poteva osare egli di fare, perciocchè allora non vi fosse imperatore alcuno; di quella maniera esprimeva bensì di possedere la podestà temporale in Roma, ma dimostrava di non tenere sè stesso in conto di principe independente. Italia non moveva più sforzo alcuno per far conquista della sua autonomia; nessun Re indigeno era eletto, nessuno di straniero si invocava. I Vescovati, divenuti potenti dopo di Guido e di Lamberto, più potenti ancora per privilegî [485] dei due Ottoni, parevano quasi altrettanti Stati nello Stato; reggevano l’equilibrio di contro ai Conti, e nutrivano sentimenti favorevoli all’Impero, in quello stesso tempo che nessun animo gagliardo si trovava nemmeno fra i maggiorenti. Così, morto Ottone II, il paese italico, privo di qualsiasi forza, si condannava di nuovo al giogo straniero, poichè tranquillamente continuava a riverire i diritti di un fanciullo sassone, e a rivolgere i suoi sguardi alla nazione tedesca, che, per ragione di sua potenza politica, doveva necessariamente imperare sopra di questa contrada.
Soltanto l’atteggiamento dei Romani faceva impensierire la reggente Teofania, e perciò affrettava ella di muovere a Roma, dove la chiamava il Papa premuto d’angustie. Venne nell’anno 989 in Italia, e questa terra, altre volte sì irrequieta, obbedì a lei, donna di Grecia, in quello stesso momento che l’Impero orientale (stranezza di caso) era governato dai fratelli suoi, i quali continuavano a pretendere ai loro diritti di legittimità sopra Roma e su Italia. Il Patrizio non le chiuse in faccia le porte di Roma; non si ode che le venisse opposta contrarietà alcuna; si parla invece solamente dell’obbedienza che i Romani professavano alla donna, vedova dell’imperatore e madre del bambino che era destinato alla corona imperiale. Sennonchè, siffatta soggezione non si spiega a sufficienza, nemmanco se si accolga per vero che la parte tedesca fosse in Roma assai forte: si può chiarire soltanto per ragione di un patto che Teofania, ancor prima, dovesse aver conchiuso coi Romani e con Crescenzio, ed in cui avesse investito quest’ultimo della luogotenenza, con qualità di Patrizio. [486] Ella reputava che l’Imperium non s’era estinto colla morte del suo sposo, e teneva per fermo che il dominio su Roma era retaggio del figliuol suo: donna di elevato intelletto, dietro cui pareva che s’alzasse, sorreggendola, l’ombra del grande Ottone, dominava da imperatrice; nè Roma ardiva più di ricordare quei tempi nei quali i Papi avevano protestato, sè essere quelli che concedevano l’Imperium. Il reggimento imperiale di una femmina non aveva nell’Occidente riscontro di esempî, ma Teofania, da vera bizantina, si ricordò dei casi di Irene e di Teodora, e pertanto non volle essere stata in addietro coronata per mera apparenza. Arditamente si comportò da Imperatrix, anzi da Imperator; esercitò pienamente la podestà imperiale così a Ravenna che a Roma; tenne personalmente dei Placiti, e in suo proprio nome fece eseguire sentenze giudiziarie[511]. Ci è lecito tenere per fermo che ella facesse giurare i Romani di riverire la podestà del figliuol suo, e di rispettare tutti i diritti imperiali a lui riserbati, che ella in suo nome esercitava; [487] e sotto queste condizioni crediamo che ella confermasse Crescenzio nel patriziato in qualità di luogotenente.
Celebrò ella le feste di Natale in Roma, ancor prima di lasciar la Città, nella primavera dell’anno 990. Onorò la memoria dello sposo suo con elemosine e con messe mortuarie; e i conforti che un Santo le dava fecero scorrere con più calma dolcezza le lacrime di lei[512]. In quel tempo infatti trovavasi in Roma Adalberto, vescovo di Praga, l’uomo che dappoi esercitò influenza grandissima sul figlio di Teofania. In Adalberto, che più tardi diventò martire celebre, l’indole vagabonda dell’uomo slavo si associava al fervore dei Santi romani de’ tempi passati. Il Cristianesimo, giusto allora, s’era insinuato fra gli Slavi, e Adalberto fu secondo vescovo di Praga: costretto a vivere fra i Boemi, sentiva repugnanza della loro rozzezza di costume, e, invece di dar opera a diffondere fra loro la civiltà, si struggeva del desiderio delle terre del mezzogiorno e del sole che le scalda. Contravveniva alla legge, abbandonando il suo Vescovato che gli riusciva di peso molesto, e volle peregrinare a Roma, risoluto di muovere indi anche a Gerusalemme. Venuto a Roma, Teofania lo regalava di una moneta perchè gli servisse di viatico; egli la prendeva, la dispensava fra i poverelli, e moveva a monte Cassino: un’interna irrequietezza dell’animo e una vocazione che gli parlava al cuore con molteplici impulsi lo spingevano ad andare presso il Santo greco, che era allora il più insigne delle [488] Calabrie. Questo meraviglioso eremita era appellato con nome Nilo, il più acconcio che potesse portare un uomo dedito al misticismo; patriarca delle solitudini selvagge, ei viveva coi suoi pii discepoli nell’Italia meridionale, le cui province andava percorrendo da apostolo. È soltanto a stento, che gli uomini dei dì nostri giungono a comprendere la tempra di nature pari a quella di santo Nilo, e l’ordine del mondo che li circonda, li trae facilmente a porle in derisione come altrettante sconciature: solamente chi studia con calma riflessione l’indole dei tempi e i varî bisogni di loro riverisce in quei monaci e in que’ Santi singolari i veri ed efficaci benefattori di una stirpe barbarica. Nilo andava coperto di una nera pelle di capra, ispida la barba, a piè e a capo ignudi, e si nutriva ad ogni due o tre giorni di un tozzo di pane: da quest’uomo il fuggente Slavo fu accolto con gioia ed ospitato. Nilo però lo sconsigliava dall’idea di peregrinare a Gerusalemme, e lo rimandava a Roma presso a Leone abate di san Bonifacio. In questo convento Adalberto vestì l’abito monastico intorno alla Pasqua dell’anno 990, e visse alcuni anni. Erane abate Leone il Semplice, e accanto a lui splendevano per virtù di eloquenza o di silenzio Giovanni il Savio, Teodosio il Tacito, Giovanni l’Innocente. Chi intendeva di greco vi trovava consorzio anche di frati basiliani, Gregorio abate, Giovanni il Buono, Strato il Semplice. Nel tempo stesso dunque che Roma risonava dello strepito delle fazioni quei santi uomini sedevano sui ruderi dell’Aventino, in vista della piramide di Cestio e di monte Testaccio, e coltivavano disegni entusiasti di andare a convertire remoti paesi pagani, o di spargere il loro sangue in servigio [489] di Cristo. L’ambizione di Crescenzio mirava forse a eguagliare la gloria degli antichi eroi romani; l’ambizione di Adalberto si accontentava di raggiungere l’esemplare degli antichi Martiri romani. Però egli era costretto di abbandonare i silenzî del chiostro. L’Arcivescovo di Magonza reclamava ch’ei tornasse, e un Sinodo romano gli comandava di partire per Praga. Adalberto lasciò Roma, soffocando i sospiri; tuttavia, appena s’era egli restituito alla sua selvaggia terra natia, che non vi potè far nulla; per la seconda volta fuggì di Praga, e nell’anno 995 ricomparve nel convento di san Bonifacio.
[491]
Il Papato mostravasi in quel tempo disceso all’avvilimento estremo; non soltanto in Roma, ma anche di fuori, la venerazione alla cattedra di Pietro s’era soffocata sotto a’ pontificati di uomini carichi di reità. Dimostrazione notevole ne dà il celebre Sinodo che tenevasi a Reims nell’anno 991. Arnolfo, arcivescovo di questa prima metropoli di Francia, l’aveva data traditorescamente in mano di Carlo duca di Lorena suo zio, laonde per comandamento di Ugo Capeto, usurpatore del trono dei Carolingi in Francia, era tratto davanti al giudizio di Vescovi congregati insieme. Un prete si faceva a chiedere che la causa fosse sottoposta al giudizio supremo [492] ecclesiastico, al Papa; ma, a quella proposta, Arnolfo vescovo di Orleans si levava tutto acceso di sprezzo, e dava questa descrizione del Papato di Roma: «O Roma degna di miserazione,» diceva l’oratore, «tu nel silenzio del passato diffondesti fra i nostri avi il lume dei Padri ecclesiastici, ma la nostra età presente oscurasti con sì orrida tenebra, che di essa avranno sentore anche i tempi futuri. Altra volta di là vennero a noi i Leoni magnifici, i grandi Gregorî: che dovrò dire di Gelasio e di Innocenzo, i quali per sapienza ed eloquio superarono i filosofi tutti del mondo? Ma che cosa a questi tempi non vedemmo mai? Vedemmo Giovanni, soprannominato Ottaviano, avvoltolarsi nel lezzo delle passioni, e congiurare financo contro ad Ottone, che coronato aveva. Ei fu cacciato, e Leone, un neofito, fu fatto papa. Ottone imperatore partì di Roma; vi tornò Ottaviano, ne gettò fuori Leone, mozzò il naso, le dita della destra e la lingua a Giovanni diacono; con libidine di sangue trucidò molti ottimati di Roma, e indi a poco morì. In vece di lui i Romani posero Benedetto grammatico; non molto andò peraltro, che Leone il neofito, coll’Imperatore suo, gli mosse contro, lo assediò, lo prese, lo depose e lo mandò ad Alemagna in eterno esilio. A Ottone imperatore succedette Ottone pure imperatore, il quale al nostro tempo eccelse su tutti i Principi per virtù di arme, di consiglio e di scienza. Ma in Roma, alla cattedra di Pietro salì un mostro abbominevole, ancor sozzo del sangue dell’antecessor suo, Bonifacio, dico, che superò i delitti di tutti i mortali. Discacciato e condannato da un grande Sinodo, tornò, Ottone morto, a Roma; precipitò dal culmine massimo della Città un [493] uomo illustre, Pietro papa, dapprima vescovo di Pavia; fecelo ad onta di promessi giuramenti, lo depose e lo assassinò, dopo tormento spaventevole di prigionia. Dove sta scritto mai che la moltitudine innumerevole dei preti di Dio, sparsi sull’orbe terrestre, ornati di sapienza e di meriti, debba essere soggetta a mostri cosiffatti, vitupero del mondo, privi di qualsiasi scienza divina ed umana?» E l’animoso oratore chiedeva indi ai Vescovi raccolti (che ascoltavano, alcuni atterriti, altri contenti, un discorso tanto insolito a udirsi), chiedeva che nome dovesse darsi al Papa, il quale in manto di porpora e d’oro sedeva sulla cattedra di san Pietro. «Se carità», diceva, «non nutre in cuore, ed è gonfio soltanto di scienza ampollosa, desso è l’Anticristo che siede in trono, nel tempio di Dio, e come un dio si pompeggia agli sguardi della moltitudine. Ma se gli mancano amore cristiano e scienza nel tempio di Dio non è che un idolo, da cui veramente debbonsi aspettare responsi, quali potrebbe pronunciare una muta pietra.» Ed accertava che in Belgio e in Alemagna buona copia v’era di Vescovi insigni, al cui giudizio avrebbesi potuto sottoporre l’affare di Reims, piuttosto che appellarne al foro spirituale di quella Città, in cui adesso ogni cosa era venale a chi sapeva comprarla, dove le sentenze erano misurate a peso d’oro[513].
[494]
Questa era la orazione catilinaria scagliata contro al Papato del secolo decimo. I popoli l’ascoltarono e tacquero. Roma udilla e non ne tremò, avvegnaddio questo grande istituto avesse piantato radice così salda nelle necessità degli uomini, che non lo scotevano quelle condizioni di dissoluzione, le quali avrebbero mandato a rotoli financo dei reami. Agli inimici interiori, alla corruttela ecclesiastica che non sapeva più di modestia, alla nobiltà riottosa della Città, all’Impero, s’erano consociati anche i Sinodi provinciali. Da dopo dei Carolingi i Vescovi erano diventati quasi principi independenti nei loro territorî forniti d’immunità; lo Stato era riposto in mano di loro, perocchè, come maggiorenti primi dell’Impero, fossero essi i guidatori dei negozî politici, e per cultura e per accortezza diplomatica superassero tutti i baroni temporali. In quell’età pertanto l’Episcopato combatteva il Papato con armi formidabili, laonde s’era resa possibile la vittoria dei Sinodi, anzi la separazione della Chiesa gallica. Presto però udremo in qual maniera Roma rispondesse alle accuse di Reims; dipoi, quel Papato che s’era coperto di tanta onta troveremo novellamente con Vescovi, con Principi e con Re genuflessi a’ suoi piedi.
La Storia ecclesiastica, allorchè scrive del pontificato di Giovanni XV, ha bell’agio d’introdurvi la narrazione [495] di molte cose degne di nota, come, ad esempio, della controversia avvenuta per ragione della cattedra di Reims; ma lo Storico della città di Roma, condannato, contro voglia, a tacere delle condizioni delle sue cose interiori, saluta la prossima fine del secolo decimo, similmente ad un viandante che sta per uscire di un orrido deserto: e questo tocca quasi la fine colla vita di quel Papa. Scrittori venuti in tempi più tardi registrano, all’anno 993, un grande incendio della Città; tuttavia noi non sappiamo nemmanco se siffatta tradizione si sorregga a fondamento storico[514].
Procelloso fu l’ultimo tempo di Giovanni XV; questo Papa tornò odiato ai Romani per cagione del suo nepotismo e della sua avarizia; laonde puossi credere che, partita Teofania, e finalmente lei morta addì 15 di Giugno dell’anno 991, Crescenzio raccogliesse del tutto in mano sua le briglie del reggimento cittadino. Nel secondo Sinodo di Reims, avvenuto nel 995, i Vescovi francesi si lagnavano, che gli ambasciatori di loro e di re Ugo fossero stati accolti in modo non degno da Giovanni XV, a cagione, credevasi, che non avevano recato donativi a Crescenzio: perciò i legati sarebbero tornati indietro senza averne avuto risposta, e i Vescovi con grande stizza dicevano, che in Roma [496] nessuna persona più otteneva ascolto, se Crescenzio «tiranno» non accondiscendeva, per mercede d’oro, ad assolvere od a condannare[515]. Giovanni era benanco costretto, nell’anno 995, a ricoverarsi in Tuscia presso ad Ugo margravio, e di lì moveva instanza al giovane Ottone affinchè movesse con un’impresa su Roma. La novella ch’ei marciava contro ad essi indusse i Romani a richiamare il Papa nuovamente nella Città; gli fecero accoglienze onorevoli e con lui si rappattumarono[516]. Ma egli non visse tanto da veder venire il liberatore suo, poichè moriva nel Marzo o nell’Aprile dell’anno 996[517].
[497]
Con grande apparato di soldatesche e con accompagnatura di Vescovi e Signori molti il giovine Ottone III scendeva dalle Alpi nella primavera del 996, e celebrava le feste di Pasqua a Pavia; colà soltanto udiva della morte di Giovanni. A Ravenna incontrava alcuni legati romani recantigli lettere della nobiltà, in cui lo si accertava che i Romani avevano desiderio della sua venuta; dicevano porli in imbarazzo la morte del Papa, bramare di udire quale fosse il voler suo rispetto alla elezione del Pontefice[518]. La paura era operatrice di questa sommessione: lo stesso Crescenzio non aveva la potenza nè il genio di Alberico; nel breve tempo in cui, per vero dire in circostanze meno fauste, resse la patria sua, egli ha apparenza soltanto di capo di parte, non di principe; e, se ci fossero state conservate monete pontificie del suo tempo, fra quelle non ne troveremmo pur una che fosse fregiata del suo nome[519]. Il Patrizio era costretto a rispettare nel nipote di Ottone I i diritti di [498] elezione pontificia che quest’ultimo si aveva usurpato; e quegli, che tuttavia era un ragazzo, disponeva adesso a capriccio suo della tiara, dappoichè l’avo di lui aveva ricevuto la corona imperiale dalle mani di un Papa, ragazzo anch’egli.
Ottone III decise, che il Pontificato sarebbe toccato a Bruno, cugino e cappellano suo: questo prete era figliuolo di Ottone, margravio di Verona, e, per via di Liutgarde sua ava, nipote di Ottone I: aveva dai ventitre ai ventiquattro anni, ed era fornito di buona cultura mondana; possedeva insigni doti di mente, animo severo e risoluto, ma indole focosa, come alla giovinezza sua si conveniva[520]. Concordi gli ottimati tedeschi e italiani che stavano attorno a lui a Ravenna, Ottone fece che Villigi di Magonza e Ildebaldo di Worms accompagnassero il Papa designato a Roma, dove gli fu fatto orrevole ricevimento. Le apparenze furono salve per via di una cosiddetta elezione, e, nel dì 3 di Maggio 996, salì alla cattedra di Pietro il primo Pontefice che scendesse di una pura famiglia tedesca: ebbe nome di Gregorio V[521]. Tale fu dunque la conseguenza del decadimento profondo del Papato, che un prete tedesco, per volontà di un tedesco Imperatore, ricevette la corona pontificia. Causa le più spaventevoli condizioni delle cose sue, Roma aveva dimostrato che [499] nessun Papa poteva più esser trascelto degnamente del suo seno; coloro che nutrivano intendimento del bene, in Italia, in Francia e in Germania, inneggiarono pertanto alla esaltazione di Bruno, come ad arra di salute della Chiesa; l’ordine di Cluny plaudì con gioia all’amico suo; d’ogni parte sperossi che un Papa di sangue imperiale avrebbe recato salvamento alla Chiesa, e l’avrebbe strappata allo scisma ed al precipizio. Mormorarono soltanto i Romani; infatti anche la sedia apostolica cascava in mano della casa di Sassonia, e l’Impero tedesco conseguiva una vittoria che superava tutto ciò che financo Ottone il grande aveva conseguito; era un fatto di natura così inudita, che distruggeva ogni specie di tradizione. Il tedesco Bruno abrogava quella riprovevole consuetudine, tacitamente elevata a legge, per cui non altri che uomini romani erano saliti alla cattedra di Pietro. Ed invero, da dopo di Zaccaria uomo siro, in duecento cinquant’anni di tempo, due soli Papi, di quarantasette, non erano stati nativi di Roma o dello Stato ecclesiastico; di essi l’uno fu Bonifacio VI, di Tuscia, l’altro Giovanni XIV, pavese. Il sentimento nazionale dei Romani doveva pertanto risentire adesso un’offesa acerba; avrebbero eglino preferito di vedere sul trono pontificio un mostro, purchè soltanto fosse stato uomo romano, anzichè un santo che fosse stato sassone. Tuttavolta l’idea del Papato assunse, dopo di Gregorio V, dimensioni maggiori: si affrancò essa dalle barriere locali della Città e della sua aristocrazia, e strinse nuovamente rapporti universali col mondo. Il grande principio, giusta il quale non si badava a nazione cui il Papa appartenesse, sgorgava dallo spirito [500] istesso del Cristianesimo, che allarga l’idea di nazione in quella di tutta la gente umana. Cotale principio si commisurava perfettamente al concetto di Capo della Chiesa universale; a quello il Papato andava debitore, in parte, del suo dominio mondiale; e quantunque, colla esaltazione di Bruno, o posteriormente a lui, non venisse mai eretto ad autorità di legge, pure, dopo qualche interruzione, si foggiò da sè medesimo per ragione di conseguenze, perocchè i grandi risultamenti delle cose del mondo fossero più potenti delle voci dei Romani, i quali incessantemente chiedevano un Papa di loro gente. Durante il medio evo, quanto fu lungo, alla cattedra apostolica salirono uomini romani, italiani, tedeschi, greci, francesi, inglesi, spagnuoli, fino a che, insieme col termine della signoria pontificia universale, quel principio si spense; e la consuetudine, di nuovo eretta tacitamente a legge, di non levare più alla sedia pontificia chi non fosse uomo italiano, dimostrò chiaramente che il Papato s’era rimpicciolito entro ad angusti confini[522].
Come il cugino suo fu posto sul trono di pontefice, Ottone III venne a Roma per prendersi la corona imperiale dalle mani di lui che aveva eletto a papa. Fu accolto con grandi solennità nella Città, e coronato in san Pietro addì 21 Maggio; con ciò ebbe fine la podestà patrizia di Crescenzio. Dopo tredici anni dacchè s’era spento il titolo d’imperatore Roma rivide entro le [501] sue mura un novello Augusto, e, con lui, un Papa nuovo[523]. Quegli si struggeva del desiderio di rinnovare l’Impero di Carlo magno, se non pur quello di Trajano; questi, accanto a lui, vagheggiava di riformare, nuovo Gregorio magno, il Papato, e di elevarlo a potere universale; intendimenti che nell’intimo criterio si osteggiavano fra sè. Giovani entrambi, poichè l’uno aveva ventitre anni, l’altro quindici appena, congiunti di sangue, pieni d’ingegno e belli, quei due Tedeschi offrivano, dentro della vecchia Roma, uno spettacolo strano a chi ve li mirava seduti ai culmini sublimi del potere, cui uomo mortale potesse mai giungere. I Romani per fermo guardavano di mal occhio le teste bionde di quei giovanetti sassoni, che erano venuti a dominare la loro Città, e con essa tutta Cristianità; nè l’età acerba di quegli stranieri poteva, presso di loro, accaparrarsi reverenza. Allorchè eglino, Imperatore e Papa, in quegli splendidi giorni, si saranno trovati soli e senza alcun testimonio nelle stanze del Laterano, giovanilmente accesi d’entusiasmo, si saranno forse gettati l’uno nelle braccia dell’altro, e si avranno giurato amicizia eterna, e proposto disegni fanatici di dominare insieme sul mondo, o di portar la felicità in mezzo alla gente umana. Però il mondo è materia troppo difficile e poderosa perchè ragazzi di spiriti bollenti possano maneggiarla: quattro mesi appena durava il sogno di quegli entusiasmi romani; di lì a tre [502] anni il Papa giovine e bello non viveva più; di lì a sei l’Imperatore giovine e bello non viveva più[524].
Addì 25 di Maggio del 997 Ottone e Gregorio raccolsero in san Pietro un Sinodo delle due nazioni; anche questo, similmente ad altri Concilî avvenuti in tempi anteriori, ebbe veri caratteri di corte giudiziaria. Dopochè s’era fatto papa un uomo della stirpe imperiale tornava necessario che la Città, avvezza al tumulto, fosse incatenata dalle forze unite delle due podestà, affinchè non opponesse contrarietà ai disegni di restaurazione dell’Impero universale. I Romani ribellatisi, che avevano discacciato Giovanni XV, furono citati innanzi a quello; [503] sennonchè la loro sottomissione a questo Papa, che eglino avevano riaccolto nella Città, e la loro soggezione ai voleri di Ottone, dalle cui mani ne avevano ricevuto il successore, resero mite il giudizio. La maestà del giovine idealista era inaccessibile alla temenza, e non discendeva ai partiti odiosi che questa consiglia. Neppure un Romano fu condannato a morte; soltanto alcuni caporioni del popolo, fra’ quali Crescenzio, furono puniti con perpetuo esilio. Però, l’animo generoso di Gregorio V, non assuefatto al regno, ebbe sgomento financo di questo castigo, e, affine di guadagnarsi Roma colla mitezza, ottenne dal giovane Imperatore, parimente inchinevole a perdonanza, che fosse pronunciata assoluzione completa. Crescenzio prestò giuramento di sudditanza, e rimase a Roma in qualità di uomo privato; tuttavolta, se quella trascuraggine, contraria alla ragione politica, fece onore al cuore di Gregorio e di Ottone, non ne fece altrettanto al loro intelletto, e abbastanza presto eglino ne pagarono la pena[525].
[504]
Un uomo ribelle sfuggì alla sorte di andare esule in mezzo ai Barbari, ciò che i Romani, ancor nel secolo decimo, reputavano punizione pari alla morte: quel temuto destino toccò invece ad un Santo. Adalberto, reclamato dal Duca di Boemia e dal Vescovo di Magonza, fu, ancora una volta, costretto di tornare al suo Vescovado; nè la venerazione fanatica che gli prestava il giovine Imperatore bastò a salvarlo da quella ordinanza crudele. Abbandonò egli Roma per sempre nell’estate dell’anno 996; accompagnato da Gaudenzio, fido fratello suo, e spargendo copiose lagrime, mosse nuovamente i passi al barbarico settentrione. Però la sua anima non trovava colà nido di patria, parimenti come nol trovava Ottone amico suo, di cui, sotto la tonaca monastica, egli ricopiava in sorprendente guisa l’indole poetica. Entrambi, il Sassone ed il Boemo, amarono Roma con ardore profondo e fatale, e tutti e due di quell’amore morirono. Adalberto odiava il suo Vescovato della barbarica Praga; e, dopo di aver soggiornato qualche tempo a Magonza, indi a Tours, venerato dai Principi come Santo, bramoso di morte si cacciò in mezzo ai Prussiani feroci; e il destino, che aveva invidiato al fervido sognatore la sua vita silenziosa sull’Aventino benedetto di sole, lo condannò a morire martire sulla costa di Bernstein, attristata di nebbie; ivi perì egli sotto i colpi di quei Prussiani, «cui è dio il ventre, compagna fino alla morte l’avarizia»[526]. Adalberto trovò [505] la morte da lui anelata, addì 23 di Aprile del 997: Boleslao, duca di Polonia, riscattò il suo corpo con pari peso d’oro, e gli diede sepoltura nel duomo di Gnesen, dove «l’Apostolo dei Polacchi» ricevette suoi primi onori di culto; ed oggidì ancora lo si venera in Roma, non quale missionario dei Prussiani, diventati eretici, ma dei Polacchi cattolici, perocchè la sua festa si celebri ancora ad ogni anno nella chiesa di san Stanislao de’ Polacchi. Memoria di lui si serbò nel convento di san Bonifazio; il suo esempio accese la fantasia di quei monaci; e dall’Abazia di monte Aventino, fatta colonia di martiri, alcuni apostoli audaci si spinsero nelle terre selvagge degli Slavi. Fra essi splendettero: Gaudenzio, primo vescovo della chiesa di Gnesen consecrata al fratel suo; Anastasio, che con cinque altri frati seguì Adalberto in Boemia, diventò amico e consigliero di Stefano primo re degli Ungheri, e morì primo arcivescovo dei Magiari a Kolocza; finalmente Bonifacio, parente di Ottone III, che nell’anno 996 vestì cocolla in Roma, e dappoi andò predicando le dottrine del Vangelo in mezzo ai Prussiani ed ai Russi.
Frattanto, anche Ottone III partiva di Roma, sulla fine del Maggio. Dopo di avere ivi costituito il suo tribunale, e pacificato la Città concedendo amnistia, tornava egli a Germania. Nessuno Storico nota in qual modo egli tutelasse di contro ai Romani la sicurezza di Gregorio, [506] che abbandonava a sè solo. A quell’età ignoto era, per buona ventura, il trovato di eserciti permanenti, coi quali i Re tenessero città e province avvinte ai loro ceppi; vi suppliva soltanto la fedeltà dei vassalli, alle cui mani erano, in pari tempo, affidati gli officî più cospicui, massime nelle cose di giustizia. Seppure, fin d’allora, Ottone creasse patrizio un uomo a lui devoto, un altro ne nominasse prefetto, e del novero di aderenti di dubbia fede eleggesse i giudici, siffatti provvedimenti ancor non bastavano. La sua lontananza dava ai Romani segno di sollevazione: la parte nazionale faceva un altro tentativo disperato di scuotere il giogo dei Tedeschi, e i suoi sforzi rivolti a spezzare quelle sbarre fatali, entro cui il principio del Papato e dell’Impero teneva serrata la Città, ben si meritano che ne consideriamo i fatti colla massima sollecitudine.
Dacchè è mondo la ragione individuale combatte contro il sistema, giacchè il diritto di quella (sebbene a valore storico sia meno ampio del diritto di questo) è però più primigenio. Nella vecchia Roma republicana le lunghe lotte dei plebei contro alla nobiltà mostrano uno spettacolo degno di ammirazione; furon quelle rivoluzioni sane e robuste del corpo politico, e da esse ebbe origine la grandezza di Roma, fino a che si giunse alla parificazione degli elementi contrarî, e la democrazia ebbe dato posto all’Impero. Sotto la dominazione dei Cesari Roma non lottò più, perocchè si fossero cancellati i contrapposti civici, e tutto si riducesse soltanto a rivolte di palazzo e di pretoriani. Dopo secoli lunghi troviamo adesso Roma papale e imperiale nuovamente agitata da fazioni combattentisi; aristocratici, cittadini, milizie pugnano [507] continuamente contro Impero e Papato, e a loro soccorso evocano fuori dei sepolcri dell’antichità, omai diventati cosa di mito, le ombre di consoli, di tribuni e di senatori, che durante il medio evo, quanto è lungo, pajono vagolare per entro a Roma. L’Impero, cui tendono ad abbattere, non è già il formidabile despotismo dei Cesari antichi; è un sistema ideale, teocratico. La signoria territoriale del Papa, cui fanno guerra, parimenti come l’altro, è un reggimento assai differente da regno assoluto; è privo di potenza, di energia, di mezzi; tutta la sua fortezza è riposta in un principio morale che abbraccia il mondo quant’è vasto. Tuttavolta, gli è per principio siffatto che Roma videsi condannata eternamente a sagrificare le sue libertà cittadine e le glorie civili alla grandezza e all’independenza del suo sacerdote sommo. La natura che stimola l’uomo a sviluppare le sue forze entro allo Stato ed alla società; l’ambizione e il desiderio di gloria, speranze sempre dolci, se anche siano vane, delle anime energiche, che spronano l’uomo a conquistarsi luogo eminente, trovavano in Roma contrarietà acerba di fronte ad uno Stato in cui le forze terrene erano incatenate senza moto, e non v’avevano che preti, i quali ottenessero lustro. Per poco che gli ottimati romani guardassero allo splendore dei Conti o dei Principi delle altre città italiane, quali erano Venezia, Milano e Benevento, o per poco che, più tardi, i cittadini di Roma mirassero alla libertà e alla potenza della gente loro pari nelle democrazie del settentrione o del mezzodì, dovevano eglino ad ogni maniera alzar le pugna contro al cielo o contro al suo vicario, perocchè in Roma, città sacerdotale, fossero condannati ad eterna [508] morte di cose politiche e civili: e tanto più acerbamente dovevano farlo, le quante volte ricordavano ciò che i loro grandi avi, i Romani antichi, erano stati. Poichè Roma, per un corso di secoli, ebbe tentato di sostenere il diritto della sua individualità contro ai grandi sistemi mondiali, ne ebbero origine i più sorprendenti contrapposti: gli Imperatori romani di nazione tedesca davano nome di loro vassalli a paesi ed a Re, ne pacificavano le controversie, ne ricevevano gli omaggi, disponevano dei loro diademi; eppure erano costretti di pugnare per le vie di Roma contro a quegli aristocratici, e, spesso, la plebe romana gli ebbe assaliti e scacciati con vitupero: i Papi dettavano leggi al mondo, e Re di terre remote tremavano ad una sola parola di loro; eppure i Romani innumerevoli volte li cacciarono fuori della Città, o schiamazzando li trascinarono prigionieri nelle loro torri. Sennonchè, in ultima fine, i Romani sventurati soccombettero sempre sotto alla forza del sistema; ed innanzi alla rilevanza che questo tiene nella storia del mondo le loro tragiche lotte e i loro conati assunsero, spesse volte, sembianza di sogni fantastici e di imprese avventurose.
Del rimanente, non ci cureremo più oltre di confutare coloro, che su’ patriotti romani, quai furono Alberico, Crescenzio e loro seguaci, imprimono il marchio di tiranni o di rei, per ciò che non porsero servilmente i polsi in balìa degli Imperatori e dei Papi. Virtù santa è l’amore di patria, nè può separarsi da quel concetto sommamente morale dell’uomo, che è la libertà. L’odio nazionale dei Romani contro agli stranieri, la loro avversione contro al governo dei preti, diedero spiegazione [509] in ogni tempo della ragione che gli inspirava, poichè questa si fondava nella natura vera delle cose. Tuttavia, noi non vestiremo la persona di un Romano del secolo decimo coll’abito dei demagoghi greci, nè colla toga di Bruto o col fantastico mantello di Cola di Rienzo; Crescenzio fu uomo che non ebbe idee di progresso, nè si perdette in utopie; ei fu un Romano ardito e amatore della patria, che visse nell’età massimamente barbarica della sua Città. La inscrizione funeraria di lui ne celebra la bellezza del volto, e dice che ebbe decoro di illustri natali: pari ad Alberico, intese a impadronirsi del potere temporale, il quale, come affermano ancora i Romani d’oggidì, è una palla di piombo appesa ai piedi apostolici del Papa, e dal cielo, dominio che niuno gli contende, lo strascina giù basso in una regione che a lui dovrebbe essere affatto ignota.
Crescenzio, coi suoi aderenti, congiurò alla caduta del Papa tedesco. Il popolo trovava forse motivo a lagnarsi, che uomini stranieri e imperiti delle leggi romane amministrassero la giustizia, e a giudici nominassero persone che non toccavano stipendio dallo Stato, e perciò erano corruttibili e partigiane. Se nelle città non romane questo rimprovero rifletteva i Comites che eleggevano mali giudici, in Roma può darsi che si mormorasse della parzialità dei Judices dativi, ossia di cose criminali, i quali punivano molti Romani di carcere, di confisca e di bando[527]. Le rivoluzioni precedenti avevano [510] reso necessario un governo severo; molti ottimati romani saranno per certo stati espulsi dai loro officî, in quello che nelle più alte cariche dell’amministrazione e da giudici saranno stati messi uomini che parteggiavano decisamente per l’Impero; Gregorio V medesimo non fu mondo del rimprovero che dispensasse officî a prezzo di denaro. Mentre il Papa tedesco si circondava di gente tedesca e di suoi creati, e deliberava di introdurre nella impura Roma la vita rigidamente modesta di Cluny, anzi, ancor meglio, di operarvi una riforma ecclesiastica, pareva ai Romani che il nuovo ordine di cose massimamente non fosse che una signoria violenta di stranieri, degna di odio.
Scoppiò una sollevazione; e il Papa ne ebbe salvamento, fuggendo a precipizio nel giorno 29 di Settembre 996. Fa meraviglia che Gregorio non avesse reso a sè sicuro il castello di Sant’Angelo, oppure, se l’avea fatto, che i suoi partigiani non vi opponessero resistenza: e sì, quando Ottone era venuto a torsi la corona, aveva pur dovuto avvenire che si sottraesse alla balìa dei nobili la sola rocca forte esistente in Roma. Sebbene parecchie volte fosse capitato in mano degli ottimati romani, il castello non era però di proprietà privata; monumento dei più cospicui di Roma, apparteneva anzi allo Stato; [511] più tardi, i Papi lo tennero in conto di loro speciale possedimento, a somiglianza della città Leonina, opera propria di essi, e in tale rispetto lo ebbero i Romani. Ma poichè, in questo tempo, i Pontefici non avevano loro residenza in Vaticano, il castel Sant’Angelo non profittava loro come luogo di rifugio, e nel Laterano, che non era munito, stavano esposti senza difesa ad ogni repentino assalimento. Crescenzio si riprese dunque il castello, e lo empiè di gente d’arme.
Frattanto, l’espulso Gregorio moveva in gran fretta all’Italia settentrionale, ove aveva già indetto un Concilio che doveva raccogliersi a Pavia. Qui, sull’incominciamento dell’anno 997, promulgò statuizioni di vario genere sopra argomenti che riflettevano la Chiesa di Germania e quella di Francia; significò ai Principi ed ai Vescovi che, da quel momento in poi, avrebbero dovuto piegare la fronte innanzi alla primazia romana, e che Roma avrebbe sostenuto con tutta l’energia i principî posti dalle Decretali Isidoriane contro le decisioni dei Sinodi provinciali. Riguardo alla cacciata sua, mostrò una calma piena di dignità, e con temperanza di linguaggio richiese i Vescovi tedeschi che confermassero la scomunica pronunciata contro all’invasore e predatore della Chiesa: così avvenne[528]. Mentre il [512] Papa espulso lo metteva al bando fuor della comunanza dei fedeli il ribelle audace dava opera a ordinare in Roma il suo effimero dominio, innanzi che Ottone tornasse: certo è che Gregorio aveva chiamato l’Imperatore per via di pressantissime lettere.
Lui fuggito, s’era compiuta una rivoluzione universale nelle cose di governo; cacciati i Judices che erano in carica, si ponevano uomini nazionali a vece di loro; Crescenzio nuovamente si appellava Patrizio o Console dei Romani, e, convinto di sua propria debolezza, cercava di farsi alleato Bisanzio. Nè la corte di Grecia era stata estranea al rivolgimento occorso in Roma; ce lo fanno comprendere questi avvenimenti. Prima ancora che Ottone III prendesse la corona d’imperatore, aveva egli spedito un messaggio a Costantinopoli per chiedervi, come il padre suo, la mano di una principessa greca. A capo dell’ambascieria era stato Giovanni, vescovo di Piacenza, greco calabrese da Rossano, per nome Filagato. Sorto da infimo stato, doveva questi le sue fortune al favore di Teofania; educato nelle arti greche, facondo, destro, era venuto poverissimo alla corte di lei, presso cui facevano ressa molti uomini di sua nazione. Il cortigiano protetto salì presto in potenza, ottenne l’Abazia di Nonantula, la ricchissima d’Italia, indi, durante la reggenza di Teofania, fece suo il vescovato di Piacenza, che, benanco, a pro di lui, fu eretto da Giovanni XV ad arcivescovato, e separato dalla metropoli di Ravenna[529]. Mezzano di [513] sponsali, nell’anno 995 era stato mandato a Bisanzio; colà aveva negoziato lungo tempo in quella corte, e con gran malcontento aveva visto deluse le speranze della sua ambizione, perciocchè a papa fosse stato eletto Gregorio V. Nella primavera del 997 tornava a Roma, e poichè non prendeva il cammino di Ravenna, dev’essere che la mutazione delle cose lo seducesse a rimanervi, oppure che Crescenzio stesso ve lo invitasse. Deciso di combattere per la tirannia o di morire, il Patrizio anteponeva riverire la supremazia di Bisanzio, anzi che sopportare il giogo odiato dei Sassoni. Accolse dunque Filagato con grandi dimostrazioni d’amicizia, e per una ragguardevole moneta gli offerse la corona di pontefice. Il favorito di Teofania, colmato di beni dagli Ottoni, avvinto di doveri spirituali verso l’Imperatore ed il Papa (aveva tenuto a battesimo Ottone III e Gregorio V) non sentì voce di coscienza, si buttò dietro le spalle ogni dovere di fedeltà, tradì i benefattori suoi, e, nel Maggio dell’anno 997, prese la tiara dalle mani di Crescenzio, con nome di Giovanni XVI. Conchiuse un trattato coi Romani che lo sollevarono ad antipapa; lasciò il potere temporale a Crescenzio [514] e alla nobiltà, ma chiese che si riconoscesse l’autorità suprema di Bisanzio, senza il cui soccorso capiva di non potere stare ben fermo in sella[530].
Se un uomo di spiriti arditi fosse seduto a quel tempo sul trono di Bisanzio, bene avrebbe osato di venire alle armi per prendersi Roma. Ma Basilio e Costantino, per un corso di anni lungo fuor del consueto, trascinarono [515] il peso del loro regno senza lode di gloria; e Italia, svezzata dal sistema di governo bizantino, fu, per buona sorte, salvata da una nuova invasione del despotismo greco. Nessun esercito mosse dalle Calabrie a Roma, nè flotta alcuna comparve alla foce del Tevere, perlochè il greco Filagato presto si pentì di non aver prestato ascolto agli ammonimenti di Nilo, santo compaesano suo. Per il predone della sua cattedra, Gregorio V non aveva che disprezzo, e tutti i Vescovi d’Italia, di Alemagna e di Francia scagliarono l’anatema sul capo del falso Greco. Lui, tuttavolta, i Romani onoravano per papa, dappoichè il partito imperiale fosse imbrigliato dal terrore che gli mettevano gli usurpatori; anche la Campagna obbediva a lui; sui monti Sabinati poi avevano stanza i congiunti di Crescenzio, Benedetto conte, sposo di Teodoranda, e i loro figli Giovanni e Crescenzio, che profittavano della signoria del cugino per impadronirsi dei beni del convento imperiale di Farfa. Abate di questo era allora Ugo, uomo che più tardi diventò, per suoi meriti, illustre, ma che non avea avuto peritanza di comprare per denaro da papa Gregorio la dignità di abate: ed invero, s’erano così scardinate le fondamenta del giusto, che nessuna maniera di guadagni era reputata obbrobriosa; tutto era venale; e poichè mancava una più alta meta cui indirizzare la vita, non s’aveva estimazione che del possedimento di signorie, e dei mezzi di spassarsela in piaceri[531].
[516]
Frattanto, gli usurpatori potevano dire a sè medesimi che gli apparati di loro difesa erano insufficienti, e Ottone III scendeva dalle Alpi sulla fine dell’anno 997; tanto tempo lo avevano tenuto in faccenda le guerre cogli Slavi in Alemagna. A Pavia trovava il cugino Gregorio che venivalo ad incontrare in aspetto di profugo, condotto per mano dal vecchio Margravio di Verona, padre suo. Celebrate le feste di Natale a Pavia, mossero a Cremona, poi a Ravenna, poi a Roma; e, se ancor viveva, Benedetto monaco, dal suo Soratte, avrà veduto passare le loro soldatesche accese di furore, e avrà pianto con lamenti nuovi la sorte di Roma sventurata.
Allorchè Ottone III, sulla fine di Febbrajo del 998, s’ebbe trovato innanzi alla Città, ne vide spalancate le porte, indifese le mura; soltanto il castel Sant’Angelo era presidiato da Crescenzio e dalle sue genti, che da quella rocca, ossia da quel sepolcro, intendevano disfidare la morte[532]. Qui fu che il popolo romano dimostrò [517] veramente di meritare i suoi destini; non avea desso pur bisogno di ricordarsi della difesa della Città avvenuta ai giorni di Belisario; bastava che pensasse al tempo di Alberico, per dire a sè stesso che anche adesso poteva ottenersi una pari vittoria. Ma i Romani erano smembrati da fazioni, e una gran parte del clero e dei nobili parteggiava per l’Impero. Atterrito, Filagato fuggì nella Campagna; ivi, forse nella fatale Astura, si celò entro una torre, aspettando di ricoverarsi per mare o per terra fra’ Greci. Però, cavalleggieri imperiali lo colsero; con furore barbarico mozzarono al falso Papa il naso, la lingua, le orecchie, gli strapparono gli occhi, e trascinatolo a Roma, gettarono l’infelice nella cella di un convento[533]. Ottone entrò nella Città senza impedimento, intimò a Crescenzio di posare le armi, e, poichè ne ricevette una risposta insolente, ordinò che il castello si prendesse d’assalto. Tranquillamente pose [518] tribunale in Laterano, e promulgò scritture a favore di conventi e di chiese, nel tempo medesimo che il Papa faceva medicare alcun tratto di tempo le piaghe di Filagato. Nel mese di Marzo congregò egli in Laterano un Concilio; ivi la persona mutilata dell’Antipapa, che metteva ribrezzo a mirarla, si presentò agli sguardi dei Vescovi: tanta miseria avrebbe impietosito anco dei Saraceni. Filagato fu deposto di tutte le sue dignità; maltrattandolo, gli strapparono di dosso le vesti pontificali, coperto delle quali era stato costretto a comparire; lo posero cavalcioni, a rovescio, di un asino scabbioso, come un tempo erasi fatto di Pietro prefetto, e, mentre un araldo lo precedeva gridando, quegli esser Giovanni che aveva osato far le parti di Papa, lo trassero per le vie di Roma fra le urla del popolo; indi egli sparve dietro la porta di un carcere[534]. Non v’ha cosa che dipinga più al vivo le condizioni morali degli uomini, di quello che sia il modo onde eglino ricompensano le loro virtù e castigano le loro colpe: e dacchè abbiamo registrato alcuni vivissimi esempli dell’ultima specie, egli è facile giudicare di che fatta fosse lo stato sociale del secolo decimo. Se sia vero che allora venisse a Roma l’abate Nilo affine di salvare il suo gramo compatriotta, quest’azione ne onora la memoria. La sua biografia, inzeppata di fole, narra su di ciò, che quel vecchio quasi novantenne, movesse a Roma [519] per chieder la grazia di Filagato; però i desiderî del Santo non ottennero ascolto, e, quando il protetto suo ebbe sofferto la punizione crudele, Nilo partì coll’animo acceso di collera, non senza aver vaticinato al Papa e all’Imperatore l’ira del cielo, che un dì o l’altro immancabilmente avrebbe colpito i loro cuori impietrati[535].
Avevano spazzato via l’Antipapa, ma il vero capitano della rivolta resisteva tuttavia in castel Sant’Angelo. Quivi era chiuso Crescenzio senza speranza di salute, nemmanco di fuga, che egli sembra aver disdegnato. Roma abbandonato lo aveva, chè il popolo tosto lo rinnegava, e la faceva da spettatore muto di una fra le più sanguinose tragedie della sua città, in quello che i Romani aderenti all’Impero si associavano ai Tedeschi per assalire la rocca; nè a Crescenzio davano ajuto i Baroni della Campagna, dove i suoi cugini, attendendo nella Sabina l’esito degli eventi, si rimpiattavano nei loro covi di predoni; nessun altro rimedio egli scorgeva fuorchè nelle spade dei suoi fidi amici, i quali s’erano chiusi dentro con lui, con lui preparati a morire. Infatti, sebbene fosse a prevedersi la sua fine inevitabile, i suoi nol tradivano; ed anzi la caduta di lui, che avveniva dopo una breve ma valorosa difesa, sublimò la gloria del suo nome, che il popolo, per tempo lungo, associò a quello del castel Sant’Angelo. Questo celebre sepolcro imperiale, per sè medesimo saldo come un torrione, nel corso delle età [520] era diventato una vera fortezza, e, già ai tempi di Carlo Magno, lungo le mura che da esso dechinano fino al fiume, contavansi sei torri e centosessantaquattro merli: oltracciò Crescenzio ne aveva accresciuto i fortificamenti[536]. Il sepolcro tenevasi in conto di inespugnabile; può darsi che si fosse conservata fama della difesa che ivi dentro avevano sostenuto i Greci: era stampata nella ricordanza di tutti la fuga che di là aveva preso re Ugo, e viveva la memoria che esso era stato castello dell’invitto Alberico; segnatamente dai Goti in poi, quel monumento aveva avuto il vanto di non venir conquistato mai. Crescenzio respinse trionfalmente alcuni assalimenti, e Ottone fu costretto di far assediare il sepolcro con tutte le regole dell’arte bellica.
Diede l’incarico dell’assedio a Eccardo margravio di Misnia, e questi, tosto dopo la Domenica in Albis, montò all’assalto. Crescenzio virilmente si sostenne qualche tempo, ma le grandi torri di legno e gli arnesi di guerra che i Tedeschi s’erano costruiti, scrollarono la rocca, e insieme la fede che non potesse esser presa. Il modo onde finiva Crescenzio, è sepolto in mezzo a racconti di leggenda. Narrassi financo che, disperando di opporre più a lungo resistenza, entrasse tutto incappucciato [521] nel palazzo di Ottone, e, gettandosi a’ suoi piedi, lo implorasse a mercè. «Perchè», avrebbe allor detto il giovane Imperatore a’ suoi, «perchè lasciaste che il Principe dei Romani, ordinatore di Imperatori e di Papi, e facitore di leggi, entrasse nelle case dei Sassoni? Riconducetelo sul trono della sua eccellenza, fino a che gli abbiamo apprestato accoglienze convenevoli al grado suo»: Crescenzio, tornato al castello, vi si sarebbe difeso prodemente, ma finalmente, quello era preso di scalata, ed allora l’Imperatore ordinava che il Romano si precipitasse dai merli innanzi agli occhi di tutti, acciocchè i Romani forse non dicessero, che egli aveva loro rapito il loro principe con gran segretume[537]. Un’altra leggenda racconta che Crescenzio fosse preso mentre fuggiva, e, messo dalla rovescia a cavallo di un asino, fosse tratto per le vie di Roma, mutilato membro a membro, e in ultima impiccato fuor della Città[538]. Nè mancarono voci che attribuirono la caduta di lui al più obbrobrioso spergiuro di Ottone. Dicevasi, che, per mezzo di Tammo suo cavaliere fidato, gli avesse promesso sicurtà, e che poi facesse giustiziare, come reo di maestà, lui che gli si era dato in balìa. La verosimiglianza di questo spergiuro raccomandavasi al fatto che Tammo [522] andò monaco, e che Ottone si esercitò in opere di penitenza; però nulla v’ha che ne dia certezza; la resistenza di Crescenzio era disperata, e niente v’era che costringesse l’Imperatore a comperare la caduta del castel Sant’Angelo con un tradimento così contrario alla buona cavalleria[539]. Tuttavolta, può aver fondamento la credenza che il Console dei Romani fosse costretto a dedizione, sia che si arrendesse a discrezione, sia che, coperto di ferite, abbassasse le armi innanzi a promesse dei capitani, che l’Imperatore dappoi non confermasse. La barbarie di quel secolo non ha diritto a mitezza nostra di giudizio; nè possono biasimarsi gli Italiani se dubitano dell’onestà di nemici inferociti, eglino pure avvezzi a parecchie infrazioni di patti. Crescenzio, che primamente era stato graziato dall’Imperatore, aveva rotto il suo giuramento, cacciato il [523] Papa, sollevato l’Antipapa, negoziato con Bisanzio: perciò sapeva per fermo di esser condannato a morire.
Il castello fu preso di assalto addì 29 di Aprile dell’anno 998; Crescenzio, come reo di alto tradimento, fu decapitato sui merli del Sant’Angelo, il suo corpo ne fu precipitato in basso, e finalmente appeso ad un patibolo eretto su Monte Mario[540]. I Cronisti italiani narrano che prima gli si strappavano gli occhi, gli si mutilavano le membra, e, involto in una pelle di vacca, lo si strascinava per i chiassi fangosi della Città: nè saremo noi che faremo il menomo tentativo di revocare in dubbio queste barbarità, per salvare di qualche poco l’onore di quel tempo brutale, e neppur dubiteremo [524] che siffatta crudeltà offendesse di troppo i nervi di Ottone III e di Gregorio V, di loro che avevano tollerato in santa pace le efferatezze ond’era stato trattato l’Antipapa. I Romani non potevano mirare che con isguardi di odio e di disperazione al patibolo di Monte Mario; di quest’altura, donde scendevano i pellegrini nordici, che si eleva, da sopra di ponte Molle, quasi monumento storico del santo romano Impero della nazione tedesca. Appiè dell’alta e bella collina, da cui pellegrini e guerrieri, quando venivano, godevano per la prima volta la vista ammaliatrice di Roma eterna, era situato il campo di Nerone, dove stava attendato l’esercito imperiale: ivi erano appesi Crescenzio e dodici Romani, capitani regionali di Roma, giustiziati con lui, trofei terribili di Germania, ossia dell’aborrita dominazione straniera che pesava su Roma: e i capitani sassoni avevano di che vociare, dicendosi l’un l’altro per beffa, che adesso il Console magno aveva agio di guardare in basso al vicino castel Sant’Angelo, luogo di suo dominio. Da quel dì i Tedeschi battezzarono il colle con nome derivato dall’avvenimento loro propizio; ne è appellato, dicono, Mons Gaudii, monte di gioia; i Romani, afflitti, lo hanno invece chiamato Mons Malus, monte di dolore[541]. [525] Allorquando in quei giorni, dal 29 al 30 di Aprile di quell’anno, i pellegrini saranno passati innanzi ai patiboli dei Romani, avranno sospeso il canto di loro inni, raccapricciando alla vista del luogo ove avevano sofferto supplizio gli audaci campioni della libertà romana, e, tremando, avranno affrettato il passo in mezzo alle soldatesche giubilanti dei Sassoni, che celebravano nel campo di Nerone il loro trionfo. Un Cronista ci descrive la grama sposa di Crescenzio fra gli abbracci di armigeri brutali cui era data in balìa, ma non è che un’invenzione dell’odio nazionale romano: presto Stefania, in tutt’altra figura, doveva far mostra da amante del vincitore di suo marito[542]. Con maggiore somiglianza [526] di vero noi crediamo vedere la matrona infelice chiedere in grazia a Ottone imperatore la salma del giustiziato, e, accompagnata in secreto da mesti amici, darle sepoltura cristiana sopra un’altra collina, in vicinanza di Roma. Se i Romani avevano motivo di attribuire la morte del loro eroe ad un’infrazione di fede, gli è per proposito che a luogo di sua tomba eleggevano sul Gianicolo la chiesa di san Pancrazio, da tempo antico guardiano delle promesse e vendicatore dello spergiuro.
Roma pianse a lungo l’illustre e bella persona di Crescenzio[543]; nè è senza ragione che da allora in poi fin molto giù nel secolo undecimo il nome di Crescenzio si ritrovi così meravigliosamente frequente nei documenti della Città; lo si impose a’ figli di parecchie famiglie, manifestamente a ricordanza dello sventurato campione della libertà di Roma. Sulla tomba di lui si pose un epitaffio che ci fu conservato: è uno dei migliori e più notevoli del medio evo romano; in esso alita lo spirito melanconico delle età passate, quello spirito che si diffonde dal mondo delle ruine di Roma:
«Verme, o uomo, putredine, cenere sei; non cercar case d’oro; in quest’angusta cassa starai racchiuso. Colui che resse tutta Roma felicemente, or in queste strettezze è raccolto, povero e piccino. Bello di persona, fu Crescenzio dominatore e duca, nato di stirpe inclita. [527] A’ suoi tempi, potente fu la terra che il Tevere bagna, e tornò chetamente a dritto del Pontefice. Avvegnaddio la fortuna abbia torto a giro la sua vita, e lo abbia condannato a tetra fine. Chiunque sei che respiri aure di vita spargi un lamento sulla sorte di lui; rammenta che pari a lui tu sei»[544].
[529]
Il giudizio cruento pronunciato da Ottone, più terribile ancora della sentenza data, tempo prima, dall’avo suo, fe’ tremare la Città per ogni vena; e il giovane Imperatore, con animo soddisfatto, notò uno dei suoi Diplomi per la data del giorno in cui s’era giustiziato Crescenzio: credeva egli di avere a sè incatenato Roma per sempre[545]. Anche i congiunti di Crescenzio avevano previsto le conseguenze del trionfo imperiale; finchè era stato potente avevano fatto causa comune con lui, per crescere di dominio nel Sabinate, ma dalla sua caduta s’erano accortamente tenuti in disparte. Nel territorio della provincia romana non alitò mai sentimento di nazione; fuor di [530] Roma Romani non v’erano, nè v’aveva unità che associasse fra loro le classi degli abitatori del contado, divisi per ragione di stirpe e di legge. Nelle città di provincia, in cui la costituzione curiale romana s’era da lunghissimo tempo estinta, appena adesso incominciava, la prima volta, a formarsi una cittadinanza libera; per lo contrario, sulla moltitudine dei coloni e delle persone che stavano in dipendenza altrui, emergevano colla violenza e da soli, i Baroni, i Vescovi, gli Abati. Tutti costoro cupidamente chiedevano possessi di città provinciali e di castella, e i Papi di qua e di là concedevano di quelle terre a famiglie cospicue, o a Vescovati, o a conventi. Il feudalismo andava estendendosi nella Campagna; alcuni signori toglievano padronanza di distretti intieri, e l’ordinamento baronale di natura laica e clericale poneva, da dopo la metà del secolo decimo, salde radici nel territorio romano, per durare, maleficio dell’agricoltura, fino ai dì nostri.
Al secolo undecimo, nelle più prossime vicinanze di Roma troveremo Tusculum e Preneste da sedi maggiori della signoria feudale; sulla fine del secolo decimo vediamo invece imperare nella Sabina la famiglia di Benedetto conte, congiunta per cognazione a Crescenzio. Quel potente uomo aveva sua dimora nel castello di Arci; s’era impadronito di molte terre di Farfa, e i suoi figliuoli, Giovanni e Crescenzio, rubavano a mano ardita al paro di lui. Benedetto strappava a sè perfino la città vescovile di Cere o Agylla, quell’antichissima etrusca che allora non peranco s’appellava Caere vetus (oggidì Cervetri). La caduta di Crescenzio metteva gravi pensieri in capo a quei signorazzi; Giovanni conte restituiva [531] tosto la metà di una terra che aveva rapito a Farfa, e l’Abate allora investivagli in feudo «di terzo genere» l’altra metà, col castello Trabuco, del cui possesso fra loro si contendeva[546]. Però, altre proprietà del monastero, ed eziandio della Chiesa romana, rimanevano ancora in mano di Benedetto, in quello che Ugo abate s’affrettava a chiederne a Roma giustizia. Il giovane Crescenzio, fratello di Giovanni, andava allora da spensierato nella Città, tuttavia atterrita del supplizio dello zio suo; e forse con quell’atto di impavida sicurezza voleva darsi l’aria di non essersi frammischiato negli affari del suo congiunto: sennonchè l’Imperatore e il Papa se lo pigliavano, e tenevanlo in ostaggio. Benedetto, padre di lui, veniva, ciò stante, a Roma; con formalità giudiziarie restituiva Cere al Papa, ma l’aveva fatto appena, che correva a quel castello e vi si afforzava. Se subito dopo il supplizio di Crescenzio, un Barone della Campagna, parente suo, ardiva sfidare a quel modo l’Imperatore ed il Papa, ei si può di leggieri giudicare di che qualità fosse il fondamento della signoria di questi in Roma. Era essa e rimase soltanto cosa di breve momento; e gli Imperatori, che si gloriavano d’essere successori di Augusto, vedevansi costretti sempre, ogni qual volta venivano in persona nelle terre romane, ad assediare colle loro genti d’arme piccoli manieri baronali. Il vincitore di Roma dovette [532] muovere con soldatesche a cacciar Benedetto fuor di Cere; lo accompagnarono il Papa e l’Abate e lo seguì Crescenzio prigioniero. Sulle prime il padre irrise alla minaccia che gli si impiccherebbe il figliuolo, però quando dalle mura del castello vide che cogli occhi bendati lo si trascinava al patibolo scese a dedizione. Cedette Cere al Papa, e ne ebbe restituito il figliuolo; allora Imperatore, Papa e Abate tornarono a Roma per andarne poi nella Sabina, dove offersero a Benedetto una scritta d’investitura di terzo genere, che quegli peraltro rifiutò: e quantunque, alla fine, giurasse di rinunciare alle sue illegittime pretese, i suoi figli si burlarono della promessa, e non fecero che peggiori violenze al convento di Farfa[547].
L’Imperatore e il Papa vollero metter briglia all’arroganza dei tirannelli Sabinati, e perciò cercarono di mantenere in integro stato i possedimenti di Farfa. Abbiamo in addietro descritto le condizioni di questo monastero celebre; diamo adesso un’altra occhiata alla sua storia. Morto Campo, l’Abazia fu concessa, nell’anno 966, in commenda a Leone, abate di sant’Andrea sul Soratte; e questo non fece che accrescere le intemperanze di vita dei monaci. Indi abate fu Giovanni, crapulone sfrenato; Ottone lo depose, e gli diè Adamo a succeditore. [533] L’Abazia ne fu smembrata in due, chè, Ottone morto, Giovanni la fece da padrone dei beni situati nella Sabina, nel territorio Tusco e in quello Spoletino, mentre Adamo tenevasi in signoria nella marca di Fermo. Soltanto Ottone III, venuto a Farfa nell’anno 996, riunì i dominî del convento sotto a Giovanni abate, alla soggezione di cui, per lo meno, confermò con un Diploma tutta intiera la estensione dei beni dell’Abazia[548]. Giovanni passava di vita nel 997, e allora Ugo, contrariamente alle statuizioni canoniche, comperava da Gregorio V la dignità di abate. Quell’uomo, irrequieto e operoso, era entrato a sedici anni nel convento di Monte Amiata, e adesso, a ventiquattro, impugnava il bastone pastorale di Farfa per imperarvi lunghi anni gloriosamente, e per compilarvi libri preziosi in cui descrisse i casi della sua età[549]. Ottone III lo depose come intruso, e diede ad un altro l’Abazia, ma le instanze dei monaci e l’ingegno dell’uomo deposto trovarono grazia appo di lui, per guisa che, addì 22 di Febbraio dell’anno 998, ripose in dignità Ugo, e rinnovò altresì l’antica legge di Farfa, giusta la quale l’Abate, liberamente eletto dai frati, doveva essere confermato primamente dall’Imperatore, patrono del convento, indi ordinato dal Papa[550].
[534]
La ristorazione di Ugo fu del resto assai salutifera all’Abazia, chè quegli allora severamente vi introdusse la riforma cluniacense, e curò con opera instancabile la rivendicazione dei beni monastici. Perciò lo troviamo parecchie volte a Roma comparire innanzi al tribunale imperiale, armato dei suoi bravi diplomi; e ogni volta lo vediamo uscire vittorioso di liti, i cui documenti leggiamo ancora con grande sollecitudine, perocchè ci offrano diritta notizia degli ordini, coi quali s’amministrava in Roma a quei dì la giustizia. A buon dritto pertanto lo Storico può far suo pro di uno di quei litigî giudiziarî, e produrlo come un quadro in cui sono impresse a vivi caratteri le condizioni del tempo. L’età che descriviamo selvaggia era e violenta, ma s’addolciva a umanità per via della maestà, di cui la legge si circondava. Al dì d’oggi, Papi e Re terrebbero per contrario alla loro dignità, se si esigesse che scendessero in persona nelle aule di un tribunale civile per risolvere dei piati di ordine privato: da lunga pezza il concetto della podestà regia è uscito della cerchia di un’opera immediata e personale, e si tramutò in un’astrazione impotente; ma in quei tempi, ancora mezzo patriarcali per costume, la maestà giudiziaria era tenuta in conto di opera sublime e santissima della podestà di dominio. Dopo di Carlo magno gli Imperatori sedettero moltissime volte in Roma sullo scanno di giudice; quei giudizî col [535] proceder del tempo divennero per verità più rari, e sotto agli Ottoni troviamo soltanto alcuni Placita romani, che si associavano in ispecialità alla ragione dell’Imperium.
Addì 8 di Aprile del 998 l’Abate di Farfa fu citato in giudizio a Roma dai preti di santo Eustachio, i quali pretendevano alla restituzione di due chiese pertinenti a Farfa, ch’erano quelle di santa Maria e di san Benedetto nelle terme di Alessandro, ed affermavano che il convento ne aveva loro pagato un censo. Il tribunale ordinario romano, costituito di Judices imperiali e pontificî, si raccolse fuor delle porte del san Pietro, presso a santa Maria in Turri. A suo vicario e a presidente del collegio giudiziario l’Imperatore elesse l’arcidiacono del palazzo imperiale, e nominò a suo assessore Giovanni, prefetto della Città e conte palatino; da parte del Papa furono aggiunti, in qualità di assessori, due giudici palatini, il primo defensore e l’arcario, oltre a tre Judices dativi. Ugo abate rifiutò di appigliarsi al diritto romano e di valersi di un avvocato romano, perocchè Farfa fosse stata sempre retta colla legge dei Longobardi; e, siccome era uomo germanico, accampò il suo diritto d’origine, in Roma, dove riconosciuto era da dopo della Costituzione di Lotario. Il presidente era uomo impetuoso; lo prese per la cocolla e se lo trasse a sedere vicino a sè[551]; ma [536] Ugo, col beneplacito dell’Imperatore, volle tornare a Farfa per andarvi a levare il suo avvocato longobardo, e, tre dì dopo, comparve, accompagnato da Uberto, patrocinatore del convento. Dimostrò allora che l’Abate di Farfa non soleva acconciarsi al diritto romano; produsse un Diploma di Lotario e la confermazione di Pasquale papa, giusta i quali il suo monastero, al paro di altri chiostri dell’Impero franco, non poteva esser giudicato che colla legge dei Longobardi, e protestò esser pronto a giurare l’autenticità dei documenti, oppure a provarla con duello e con testimonî. La parte avversaria respinse la prova, e tentò di impedire che fosse fatta applicazione del diritto longobardico, ma il presidente la costrinse ad assoggettarvisi. Quindi ai preti attori fu dato un avvocato romano, Benedetto figlio di Stefano a Macello sub Templo Marcelli, e quegli formulò tosto la domanda contro all’Abate. Poichè però non v’erano giudici longobardi, il presidente se la cavò sommariamente; nominò giudice lo stesso Uberto avvocato del convento, facendogli giurare sugli Evangelî che avrebbe giudicato con giustizia; e poichè l’Abate alzava gran gridìo, dicendo che veniva così privato di patrocinio, gli fu subito eletto per difensore un uomo della Sabina. Questi, interamente ignaro del diritto, non seppe di che parte incominciare a rispondere; laonde fu concesso ad Uberto, diventato adesso giudice, ossia assessore, di dargliene primamente spiegazione. Il giudice longobardo volle, conformemente alla sua legge, che la parte convenuta giurasse il fatto, che Farfa da quarant’anni si trovava in possesso delle chiese; però i preti cercarono di scansare quel giuramento, volendo provare, [537] secondo il giure romano, che, nello spazio di quarant’anni, avevano eglino riscosso censo da Farfa. I testimonî, assunti disgiuntamente l’uno dall’altro, caddero in contraddizione fra loro, e furono trovati in falso; e poichè i preti avevano rifiutato l’indetto giuramento di verità, la loro azione fu rejetta, ed eglino condannati a rilasciare al convento le chiese controverse[552]. Giusta le forme che il rito giudiziario ordinava, si procedette così: si tolse dalle mani della parte soccombente la scrittura che conteneva l’oggetto della domanda (in caso di falso, le si toglieva il documento falsificato); un giudice trafisse in croce la scritta col coltello, e così lacerata la consegnò alla parte vittoriosa, affinchè la conservasse come documento, e, in caso di bisogno, potesse allegarla a favor suo. In pari tempo che ciò fu fatto, si divietò la riproduzione della domanda sotto pena del pagamento di dieci libbre d’oro, le quali sarebbero ricadute per una metà al palazzo imperiale e per l’altra metà a beneficio del convento[553]. Però, la massima instabilità in cui trovavansi le cose politiche e civili faceva sì che gli stessi processi si ripetessero [538] innumerevoli volte; anzi, per quasi un secolo si prolungavano con pertinacia incredibile le quante volte i contendenti speravano di condurre a buon fine le loro maliziose pretensioni, perchè li favorissero circostanze più prospere, o corruzione di giudici, o mutamento di Principi[554]. Gli atti della causa notevole onde dicemmo si raccolsero indi in un documento, che fu sottoscritto dai giudici e dagli avvocati, e consegnato all’Abate; gli è precisamente quello che ancora leggiamo nei Regesti di Farfa, e giova a provarci quanto ingenue e brevi fossero le forme delle procedure giudiziarie romane a quell’età, ma altresì di quanto la varietà dei diritti speciali le rendesse difficili e confuse. La incertezza del diritto non aveva limite; tutte le porte erano aperte al raggiro e alla corrutela, e può imaginarsi qual fatta di protezione la legge concedesse ai cittadini poveri od ai coloni.
Il Placito romano ci offre opportunità di associarvi alcune considerazioni sugli ordini giudiziarî, com’erano [539] costituiti in Roma al tempo di Ottone III. A proposito della lite, di cui dicemmo, trovammo due classi di giudici; i palatini e i dativi. I primi abbiamo conosciuto fin dal secolo ottavo come sette ministri pontificî: rinnovato l’Impero, continuarono eglino ad essere il magistrato ordinario di giustizia del Papa nelle cose civili. Allorchè poi il Laterano assunse forma eziandio di Palatinato imperiale i Judices palatini ebbero funzione altresì di giudici imperiali, e in qualità di assessori pronuncianti sentenza poterono essere adoperati così dall’Imperatore che dal Pontefice. Le attenenze speciali per cui l’Imperatore era signore supremo di Roma, e il Papa erane signore territoriale, educarono la strana miscela delle due podestà, ond’esse furono rappresentate in comune nelle cose di giustizia. Il Primicerius e il Secundicerius, l’Arcarius e il Saccellarius, il Protoscriniarius, il Primus defensor e l’Adminiculator furono in pari tempo rivestiti della dignità di officiali imperiali. Passati erano i tempi in cui questi ministri pontificî avevano tiranneggiato su Roma, chè la gerarchia antica di officiali era stata distrutta dai Carolingi e dai Papi; però i Judices palatini, sotto il praesidium del Primicerio, durarono da primo collegio dei magistrati di Roma. Eran dessi che regolavano anche l’elezione pontificia; presiedevano essi alle ceremonie della coronazione dell’Imperatore, cui stavano intorno, e, per così dire, ordinavano, parimenti come i sette Vescovi lateranensi ordinavano il Pontefice. Il Primicerio e il Secondicerio facevano da cancellieri dell’Impero, e, a quel modo che conducevano il Papa nelle processioni, medesimamente, nelle occasioni di festa, stavano ai fianchi [540] dell’Imperatore[555]. Dacchè poi formavano il supremo consesso giudiziario permanente del duplice Palatinato, i sette Palatini avevano anche nome di Judices ordinarii. Non avevano perduto la competenza giudiziaria loro propria in nessuna delle rivoluzioni di Roma; ed infatti notammo che Alberico usò di loro sì, come facevano l’Imperatore e il Papa. Per lo contrario, i Duces di altra volta erano stati privati della loro autorità di giudici. Nella Costituzione data da Lotario nell’anno 824 sono ancora messi accanto dei Judices, ma, ai tempi degli Ottoni, non possedono più siffatta qualità. Fin dall’età di Carlo magno, per vero, gli ordinamenti romani in fatto di giustizia avevano sofferto mutazioni parecchie; l’autorità giudiziaria di officiali militari e civili, che anticamente, durante il periodo bizantino, avevano tenuto la supremazia, spariva al tempo dei Franchi, e dava luogo al più libero moto delle istituzioni germaniche che si svolsero nello Scabinato: infatti, dopo la prima metà del secolo decimo, troviamo anche in Roma i Judices dativi, e assai spesso ve li incontriamo in documenti posteriori all’anno 961, dopochè di loro s’ebbe fatto nome a Ravenna, intorno all’838.
L’essere proprio di questi Dativi non è venuto [541] ancora affatto in chiaro; secondo che il nome loro dice, erano «costituiti», in qualità di assessori[556], per volontà delle supreme podestà di giustizia, dell’Imperatore, del Papa, del Patricius, oppure, nelle città di provincia, del Comes. A ragione si tennero in conto di istituto germanico, e si paragonarono agli Scabini, assessori franchi permanenti, che, sotto l’influenza del Conte, erano eletti fra gli uomini, possessori di liberi allodî, del «Gau» ossia territorio giurisdizionale, affinchè sedessero in tribunale come periti di diritto, e pronunciassero sentenza[557]. Da alcuni documenti si ritrae che nell’Italia superiore i Dativi erano nominati per città; in esse facevano da giudici, e il titolo si associava al loro nome, anco dopo ch’erano morti[558]. Per riguardo a Roma peraltro non può darsi prova che si scegliessero per coelezione del popolo; anzi compaiono sempre «dati» dall’Imperatore [542] e dal Papa, e sì poco in qualità di assessori del comune cittadino (com’erano nell’Italia settentrionale), che talvolta potevano benanco essere denotati per giudici palatini[559]. In officio di Dativi vedonsi i sommi dignitarî laici; troviamo infatti Teofilatto «console e Dativus Judex»; Giovanni, prefetto, conte palatino e Dativus Judex; laddove molti altri Dativi si presentano senza che siano insigniti di dignità di diversa maniera: con tal nome di Dativus Judex si appellò anche Uberto avvocato del convento di Farfa, non appena che fu chiamato a fare da giudice sentenziante[560].
La magistratura giudiziaria di Roma era pertanto composta degli Ordinarii e dei Dativi. Di regola, non però sempre, sotto al giudice presidente si riunivano tanti Ordinarii e Dativi quanti occorrevano a formare il numero di sette, mentre un numero indeterminato di ottimati (nobiles viri), simili ai liberi ossiano boni [543] homines dei Franchi, assistevano al giudizio (adstare, circumstare, resedere)[561]. Come veri giudici romani gli Ordinarii e i Dativi insieme erano appellati: Judices Romani o Romanorum; chiamavansi: per grazia di Dio, Giudici del sacro romano Impero (Dei Gratia sacri Romani Imperii Judex). Ei pare che al tempo degli Ottoni la nomina del Dativus fosse associata ad una ceremonia solenne. «Quando è a costituirsi il Giudice», così dice la formula di quell’età, «deve il Primicerio condurlo all’Imperatore. L’Imperatore gli dice: Avverti, o Primicerio, che egli non sia schiavo dell’uomo, nè povero, affinchè non nuoca all’anima mia con corruzione. Al Giudice dica l’Imperatore: Bada, in tutti i casi, di non ledere la legge del nostro santissimo predecessore Giustiniano. E quegli: Maledizione eterna cada su me se io lo faccia. Indi l’Imperatore deve fargli giurare che in nessun caso offenderà la legge; poi lo vesta del mantello, e gli assetti il fermaglio a destra, e gli chiuda a sinistra il mantello, in segno che gli deve essere aperto il libro della legge e chiuso il falso testimonio. E gli dia in mano i Codici, e dica: secondo questo libro giudica [544] Roma, e la città Leonina e il mondo tutto; indi con un bacio lo congedi»[562].
La frase orgogliosa, se pure ridicola, che il Giudice romano dovesse giudicare secondo il Codice giustinianeo, oltre che la città Leonina, anche l’orbe delle terre, s’attagliava al concetto, ora nuovamente ravvivato, che Roma fosse città capitale del mondo; e già l’età di Ottone III lo esprimeva in quel noto verso leonino: Roma caput mundi regit orbis frena rotundi. Ristoravasi a quei dì anche lo splendore del diritto civile romano; e i Romani si compiacevano tutto quanti allorquando vedevano uomini franchi o longobardi impetrare il privilegio di potersi porre sotto la protezione del giure romano. Allora erano fatti cittadini romani con pompa solenne: «Se taluno», dice la formula, «brama di diventare romano, ei deve umilemente mandare all’Imperatore alcuni suoi fedeli, e pregarlo che lo accolga sotto il diritto romano, e gli conceda di venire inscritto nel registro dei cittadini romani. Se l’Imperatore vi acconsenta, deesi procedere così: sieda egli coi suoi nobili giudici e mastri; [545] due Giudici gli vanno innanzi a capo chino e dicono: Imperatore nostro, cos’è che comanda il tuo altissimo imperio? E l’Imperatore: Che il numero dei Romani si accresca, e che l’uomo da voi oggi annunciatomi, sia posto sotto al giure romano»[563].
Poichè i Judices palatini erano preti, e perciò non potevano pronunciare sentenze di sangue, necessario era che in Roma vi avessero tribunali criminali permanenti. Per verità, il noto frammento «quot sunt genera judicum» non fa cenno del Prefetto, che ancora esisteva, e neppure dei Judices dativi; esso specifica soltanto i Palatini e i Consules, i quali sono ripartiti per giurisdizione di territorio, eleggono i Pedanei, puniscono i rei secondo la legge, e, a misura del delitto, pronunciano sentenza[564]. In essi noi ravvisiamo veri giudici criminali permanenti, or detti Consoli, non più Duces, ed i cui giudici subalterni ricevono nome di Pedanei. I loro «Giudicati», che in Roma certamente si dividevano per regioni, dipendevano dall’autorità del Prefetto della Città, avvegnachè sia difficile che quei Consoli facessero da giudici soltanto fuor di Roma, e che i «Giudicati» fossero [546] tribunali posti in luoghi da Roma diversi. Peraltro, un documento dato da Velletri nell’anno 997 dimostra che i giudici dei territorî provinciali avevano nome di Consoli: in quella carta un Abate manda ad un castello datogli in investitura dei giudici monastici in cose civili, con titolo di Consules[565]. Ad ogni modo confessiamo, che la nostra scienza degli ordini giudiziarî della Città a questo periodo di tempo è assai difettiva; dai documenti assai poco profitto abbiam tratto, e gli Storici moderni del diritto romano nel medio evo, ristretti a siffatte scritture e a quell’imperfetto frammento, pur rimproverandosi i reciproci errori, vanno tutti tentoni nel bujo[566]. Se così incompletamente ci è noto l’ordinamento giudiziario di Roma, avviene pur lo stesso per ciò che riflette le città fuor di Roma. Erano esse tuttavia amministrate da Duces, da Comites, da Vicecomites ed anche da Gastaldi e da Missi apostolici, i quali, alla loro volta, eleggevano i loro Judices. I Duces antichi compaiono a questa età assai rari; manifestamente eglino erano stati soppiantati dai Conti franchi, i quali adesso emergono dappertutto, così che i [547] Ducati antichi si tramutano in Comitati[567]. Anche i Tribuni di un tempo cessarono di essere rettori di piccole città; sol di rado viene a galla il loro titolo; qua e là è semplicemente cosa d’onore, oppure significa vera qualità di officiali municipali e di giudici di terre minori[568].
[548]
Molto dicemmo dei giudici palatini romani, ma l’essere vero del Palatinato imperiale di Roma, a questo tempo, è in qualche parte involto di oscurità. Nell’origine s’era inteso ad unirlo col Palazzo pontificio, ma ben tosto, come voleva la natura delle cose, ne fu separato. Esso aveva uno stato di corte suo proprio, redditi suoi proprî. Da dopo di Carlo gli Imperatori avevano posto loro dimore presso al san Pietro, e talvolta tenevano stanza in Laterano, avvegnachè non possedessero una vera loro residenza nella Città. Ottone I s’era costruito un palazzo a Ravenna, ma non avea pensato di far cosa pari anche in Roma, e sembra che soltanto Ottone III, ideasse, per primo, di erigere un castello imperiale a Roma: l’avrebbe piantato sull’antico palazzo dei Cesari, se non ne lo avesse impedito la gran moltitudine di rovine. Prendeva egli sua residenza sul monte Aventino, in vicinanza di san Bonifacio, forse [549] in un palazzo antico[569]; ivi si circondava della pompa ceremoniale bizantina, e costituiva molte dignità palatine, con nomi che sapevano di suono straniero, e alla cui testa era posto il Magister Palatii Imperialis[570]. Una guardia imperiale, composta soltanto di nobiluomini cospicui, romani e tedeschi, vegliava intorno alla sua persona. La Graphia tenne nota della forma adoperata quando taluno era accolto fra i cavalieri della guardia: il Tribuno consegna al Miles gli sproni, il Dictator la corazza, il Capiductor la lancia e lo scudo, il Magister Militiae gli stinieri di ferro, il Caesar l’elmetto crestato, l’Imperator gli porge la cintura ornata di segnacolo, la spada, l’anello, la collana e i bracciali. Chiaro è che qui si mescolavano insieme costumanze bizantine e romane. La milizia imperiale era divisa in due coorti di cinquecento cinquantacinque uomini per una; ognuna era comandata da un Comes, ma a capo di entrambe stava il Conte Palatino imperiale, il quale «era locato sopra di tutti i Conti [550] del mondo, ed incaricato della cura del Palazzo»[571]. Al tempo di Ottone III, per la prima volta, è nominato il Comes sacrosancti Palatii Lateranensis; nell’anno 1001 era investito di cotale dignità il romano Pietro, e, nel 998, sembra che la tenesse Giovanni prefetto, poichè in quel Placito farfense, onde dicemmo, ei si sottoscrive: Comes palatii; però anche allora v’avevano Conti parecchi del Palatinato[572]. Quell’officio eziandio aveva spettato alla corte pontificia; da essa indi era passato nella corte imperiale; e nei secoli successivi Imperatori e Papi ne distribuivano il titolo, così che la dignità alla fine perdeva qualsiasi rilevanza. Non può credersi che, nel tempo onde parliamo, l’officio mancasse di giurisdizione corrispondente; è piuttosto probabile che fosse tribunale di appello in cose riguardanti il tesoro imperiale.
Nè puossi dubitare che un fisco imperiale esistesse in Roma, avvegnaddio l’Imperatore possedesse ivi diritto a regalìe di varia maniera. È cosa naturale che conventi, quali erano Farfa e sant’Andrea sul Soratte, pagassero imposta al tesoro del loro patrono; ma, anche senza di questo, si nota che esistevano dominî di altra [551] natura[573]. Allorquando Lodovico Imperatore, nell’anno 874, costituì la dotazione al suo convento Casa aurea, nuovamente fondato, vi donò tutte le entrate che egli possedeva a Roma, nella Campagna, nella Romagna, nello Spoletino, a Camerino e in Tuscia[574]. Che in quei redditi poi si dovessero raccogliere soltanto diritti fiscali lo dimostra in ogni modo la irrilevanza dei patrimonî posseduti dall’Imperatore in Roma e nel territorio romano: però s’ignora massimamente di che fatta proventi l’Imperatore ritraesse da Roma. All’età dei Carolingi era debito di mandare al palazzo di Pavia un dono annuale di dieci libbre d’oro, di cento d’argento e di dieci finissimi pallî; in pari tempo, il Missus imperiale era mantenuto a spese della Camera apostolica[575]. Del resto non s’ode di alcun balzello che Roma [552] pagasse; soltanto che la metà delle ammende in cose civili (ammontavano di consueto a dieci libbre d’oro) erano versate a beneficio del Palatium imperiale. Il reddito poteva non esserne tenue, a causa del gran numero delle liti, ma era incerto; similmente altri redditi erano cosa del momento: così avveniva del Foderum, della Parata, del Mansionaticum, ossiano oblighi di mantenere cavalli e soldati, di restaurare strade e ponti, di dar quartiere all’esercito. Le quante volte l’Imperatore veniva a Roma il suo esercito e la sua corte erano spesati dalla Città, e cel sappiamo da ciò che, un tempo, Ottone I avea allontanato le sue soldatesche per non gravare Roma soverchiamente. L’obligo del Foderum si estendeva a tutte le città d’Italia, dalle quali l’Imperatore passava, e non era piccolo peso per il paese[576].
La Camera apostolica, per lo contrario, aveva natura diversa. Il tesoro pontificio (in origine era il Vestiarium) fu anch’esso a quest’epoca chiamato Palatium; ad esso si pagavano le imposte e i redditi dei beni ecclesiastici, che in generale comprendevansi nei concetti di dationes (dazî), tributa, servitia, functiones, pensiones. Nelle specialità i titoli delle imposte erano innumerevoli, perocchè [553] i nomi dei dazî e dei balzelli che affliggevano i ponti, le vie, le porte, i prati, i boschi, i mercati, i fiumi, i lidi, i porti ed altro, formano un registro lungo, che chiarisce i caratteri barbarici della economia publica di quell’età[577]. Gli Actionarii percepivano la moneta che proveniva da tutti i possedimenti della Chiesa, e in Roma stessa troviamo la Camera pontificia essere altresì padrona di balzelli, che erano imposti sulle rive dei fiumi, sulle porte delle città, e, di qua e di colà, su’ ponti[578]. Non sappiamo in modo alcuno che si riscotessero in Roma gabelle dirette o tributi, e dubitiamo affatto che il Fisco pontificio esigesse dai Romani liberi testatico o imposta fondiaria. Era arte politica del Papato di non vessare Roma con gravezze; ma non vi si avrà, per lo contrario, fatto difetto di spillare quelle percezioni che erano conosciute con titolo di doni, di collette, di decime, di consuetudini. Per quanto grande possa parerci la barbarie di quell’età, essa era ancor lungi dal [554] sistema dissanguatore sorto nelle monarchie dei tempi posteriori: il concetto della sovranità era significato massimamente nella podestà giudiziaria suprema, e tutte le altre prestazioni dei sudditi riposavano in un patto o contratto, per cui eglino pagavano emolumento di tutto ciò che apparteneva allo Stato ed era da loro usato a profitto proprio. Perciò, le rendite effettive della Chiesa consistevano nei suoi molti patrimonî, e la Camera poteva professar diritto soltanto su ciò che le apparteneva a titolo di census. Invece, al Fisco pontificio erano devolute le multe, le composizioni e le sostanze eziandio di chi moriva senza eredi[579]. Anche la zecca era tuttavia una regalìa esclusiva del Palazzo pontificio, dacchè non altri che i Papi avevano diritto di batter moneta.
Ma i proventi del Laterano s’erano diminuiti di molto. La restaurazione dello Stato ecclesiastico, avvenuta per opera di Ottone I, non riparava alle conseguenze della grande rivoluzione, che i possedimenti papali avevano subìto omai da più che settant’anni. Laddove, ai tempi di Adriano I e di Leone III, i patrimonî erano stati fiorenti, dopo il decadimento dell’Impero avevano essi sofferto un saccheggio di mille maniere. [555] La confusione nelle cose di amministrazione usciva fuor d’ogni limite; parecchie volte il Laterano era rubato e devastato, il suo archivio distrutto, i rettori dei patrimonî abbandonati a sè stessi, senza alcuno che li proteggesse. I coloni, sopraffatti d’angherie, non pagavano più le tasse di mercede; i fittavoli nobili si rifiutavano di soddisfare i censi, o negavano di esserne debitori. I Pontefici poi erano trascinati al bisogno di cedere altrui beni e diritti di fiscalità; e l’ordinamento feudale germanico, a combatter cui Roma s’era lungamente dibattuta, faceva invasione da tutte le parti. Dominî senza numero, alienati per astuzia o per violenza, diventavano patrimonî ereditarî, e i Papi ne facevano scialaquo di dono a nepoti o a partigiani, cui andavano debitori della tiara. Necessità gli obligava a lasciarsi sfuggire di mano qualche bel possedimento per cavarne denaro pagato con moneta pronta; indi, tanto per salvare alla Camera il diritto di proprietà, vi imponevano soltanto un censo annuale di valore sì tenue, che diventava risibile cosa. Più ancora, le guerre, gli Ungheri, i Saraceni, avevano colato a fondo la proprietà di san Pietro. La più parte dei dominî era ridotta al nulla, e i Pontefici vedevansi costretti a concedere borgate intiere a Vescovi o a Baroni, perchè le difendessero e le ripopolassero. Le esenzioni ottenevano il sopravvento anche nel territorio romano. Regalie antichissime erano prodigate a Vescovi e ad Abati sempre in maggior numero, ed eglino, del paro che la nobiltà, prendevano possesso di città. Questo rilevammo avvenire a Subiaco ed a Porto, ma più sorpresa ci desta trovare che Gregorio V cedeva in perpetuo le contee di Comacchio e [556] di Cesena, e la stessa Ravenna e il suo territorio, a quell’Arcivescovo, con tutti i tributi publici e col diritto di batter moneta; Ottone vi aggiungeva eziandio la Potestas o Jurisdictio. Di siffatta maniera i Papi rinunciavano a quella proprietà, sopra cui avevano vigilato sì lungo tempo, e con cure sì fervide[580]. Anche Abati e Vescovi davano loro beni a signori potenti, che allor diventavano loro vassalli o Milites; così vivevano sicuri di vedere quelle terre difese contro ai Saraceni od altri nemici. Concedevano a loro città perchè le munissero di fortificamenti, terre selvatichite perchè vi piantassero colonie; e in tal modo, nel secolo decimo, sorgevano per la Campagna di Roma castella e torri molte. Sebbene simili contratti avessero pur sempre indole di enfiteusi, la cosa presto mutava, dacchè il feudalismo veniva incalzando ognor più, e di già nell’anno 977 si rinviene un contratto di natura feudale. Giovanni, abate di santo Andrea in Selci, vicino Velletri, investiva il celebre Crescenzio de Theodora del castrum vetus, coll’obligo espresso, che «farebbe guerra e pace secondo il comandamento del Papa e degli Abati del monastero». Notevoli ne sono poi i patti accessorî. Il convento vi si riserva il diritto di tenere presidio ad una porta del castello, di mandare nella terra fittata suoi Consoli (giudici), e suoi Viceconti (prevosti), perchè vigilino sui privilegî del chiostro, percepiscano il censo, e giudichino nelle controversie civili; Crescenzio [557] invece ne consegue il diritto di giustizia criminale e la capitananza della soldatesca. Il censo consisteva in frutti naturali, fra’ quali noveravasi un quarto del prodotto del vino; e nel dì festivo di santo Andrea dovevano essere forniti un paio di torce e un mezzo sestaro di olio. Quantunque anche questo contratto abbia sempre sembianza di una locazione di terza maniera, nondimeno l’obligo del servizio di armi vi attribuisce impronta feudale[581]. Cotale scrittura è il primo [558] documento romano di siffatta natura che ci sia noto; ma, poco tempo dopo, una carta eretta nell’anno 1000 ci dimostra che il sistema dei Beneficia aveva ottenuto riconoscimento pieno della Chiesa romana.
In essa carta Silvestro II concede la città e il comitato di Terracina a Dauferio longobardo ed ai suoi discendenti, e gli impone obligo di prestazioni militari, nelle quali precisamente consisteva il carattere essenziale del vassallaggio feudale. Opera tale avevano partorito pertanto le guerre di fazioni ed i Saraceni: il reggimento dei beni della Chiesa, tenuto in origine da’ Suddiaconi, si cambiava in un sistema di locazioni private, e questo, di per sè stesso, si trasformava nell’ordinamento del possesso feudale. Trascorsa la prima metà del secolo decimo, il grande patrimonio di san Pietro era occupato d’ogni parte da Milites, i quali fervidamente intendevano a tramutare in possedimento ereditario famigliare ciò che avevano conseguito dalla Chiesa soltanto in via temporanea[582].
[559]
Torniamo alla storia. Prima che cominciasse l’estate dell’anno 998 Ottone partiva di Roma per andare nell’Italia settentrionale, ma di già nel Novembre era anche di ritorno nella Città, per assistervi ad un Concilio; indi, sospinto da irrequietudine interiore sempre crescente, moveva pellegrino nell’Italia meridionale. La morte di martirio incontrata da Adalberto aveva scosso la sua anima fanatica per ogni fibra; le insinuazioni dei monaci di Ravenna, gli ammonimenti di santo Nilo avevano atterrito la sua coscienza, perocchè lo crucciasse il pensiero che troppo crudele fosse stata la punizione inflitta ai ribelli romani: pertanto deliberava di imprendere un pellegrinaggio. Se sia vero che partisse di Roma a piè nudi ben dava egli ragione alla voce, che lo affannasse il rimorso della fede mancata a Crescenzio; e, sebbene la superstizione fosse abituata a vedere atti di cotale umiliazione, può darsi che se ne diminuisse la reverenza verso l’Imperatore, che a quelle opere si assoggettava[583]. Ottone pellegrinò a monte Gargano, [560] promontorio selvaggio che s’eleva sul mare di Puglia, dove era eretta una chiesa antica, dedicata all’arcangelo san Michele. Santità operosa di miracoli, lontananza di sito, solitudine magnifica di natura, rendevano il luogo, meta frequentatissima dei pellegrinaggi di quell’età, così che il Gargano nell’Occidente corrispondeva a ciò che il monte Athos o Hagionoro era pei Cristiani d’Oriente. Ottone visitò in prima Monte Cassino, dove era vissuto Adalberto, indi orò sulla tomba di san Bartolomeo a Benevento, finalmente salì a piè scalzi il santo monte. Rimase colà, fra i monaci salmeggianti, in abito di penitente, mortificando lo spirito e la carne, e di quell’altezza gettò sguardi desiosi alla Grecia e all’Oriente, e andò sognando della remota Gerusalemme: nel suo ritorno visitò santo Nilo. L’eremita viveva allora con altri uomini fanatici nella campagna di Gaeta, vero nomade, sotto a tende «splendide di povertà». Però, l’occhio di Ottone non altro discerneva in esse che «le capanne di Israello», e venutone appena in vista, si gettò giù di cavallo, corse a prostrarsi appiè del vecchio seguace di Macario, lo condusse nella cappella del convento, e, Davide contrito, si immerse ivi nella preghiera. Invano egli sollecitò Nilo ad andare a Roma, e gli promise qualunque grazia che potesse bramare; il patriarca, che non bisognava di cosa alcuna, fece soltanto voti per la salute spirituale del giovane Imperatore; e Ottone, piangendo amaramente, depose la sua aurea corona fra le mani di santo Nilo, e, in mezzo a benedizioni, se ne accomiatò per volgere il suo cammino a Roma[584].
[561]
Giusto allora Roma era in festa perocchè fosse morto il giovane papa Gregorio. L’energico Tedesco, odiato acerbamente dai Romani, moriva di repente sul principio di Febbraio dell’anno 999, probabilmente di veleno: così il supplizio di Crescenzio era vendicato sul Pontefice, cui massimamente se ne poteva dar colpa[585]. Alla nuova di quella morte Ottone, atterrito, correva a Roma; per lo meno sappiam questo, che egli si trovava colà addì 7 di Maggio: nè i Romani tentavano di sollevare al papato un uomo di loro elezione, ma accoglievano con silente rabbia il succeditore di Gregorio, che l’Imperatore loro imponeva. Fu quegli Gerberto, un genio che in guisa mirabile precorreva splendidamente il suo tempo.
Gerberto era nato nel mezzogiorno di Francia, di basso stato. Monaco in Aurillac, s’era dato con fervore allo studio delle matematiche, che allora gli Arabi avevano [562] messo in fiore, e in Reims apparava le filosofiche discipline con tale risultato di valentìa, che più tardi induceva a meraviglia la Francia, di colà insegnando. Ottone I aveva fatto conoscenza di lui in Italia, e, compreso di ammirazione del suo ingegno, lo colmava di favori; Ottone II dappoi gli dava la ricca abazia di Bobbio. Però Gerberto s’era partito assai presto di qua, perchè vi soffriva persecuzione continua; tornava a Reims, indi recavasi alla corte tedesca, dove metteva a pro la sua maestria di adulare la famiglia imperiale. Diventò precettore di Ottone III, e, dopo di aver vissuto qualche tempo in Reims, ascese nell’anno 991 alla cattedra arcivescovile di quella città per protezione di Ugo Capeto, del cui figliuolo parimente era stato maestro. Nel Concilio, che pronunciava la deposizione (contraria ai canoni) di Arnolfo predecessor suo, Gerberto aveva riversato nei suoi protocolli sinodali le audacie dei Vescovi di Francia; ma, nel Sinodo di Mouson dell’anno 955, essendo stato costretto da Leone di san Bonifacio, legato del Papa, a scendere dal seggio di Reims, Gerberto tornava alla corte di Ottone III, e, di lì a tre anni, diventava arcivescovo di Ravenna.
Questa celebre città splendeva allora, grazie alle virtù di un Santo, dello splendore di Cluny; chè, mentre l’Italia meridionale si riempieva del grido di santo Nilo, la rinomanza di un Ravennate risonava per tutto il settentrione della penisola. Romualdo, discendente dei duchi Traversara, dopo una vita agitata, s’era fatto, nell’anno 925, eremita; aveva introdotta riforma nel chiostro di santo Apollinare di Classe, indi s’era nuovamente ritirato in una solitudine delle terre venete, e, in [563] sull’anno 971, aveva fondato una congregazione di eremiti nell’isola di Pereo presso Ravenna: d’allora in poi questo chiostro diventò un insigne seminario di anacoreti, chè Romualdo non costituiva già monasteri, come Odone aveva fatto, ma piantava romitaggi che presto si diffondevano per l’Italia. Una novella estasi di misticismo si apprendeva in quel tempo alla gente umana; la brama del martirio antico si ridestava; gli uomini ricchi tornavano a donare i loro beni alla Chiesa; Principi andavano peregrinando e si assoggettavano a penitenze; Pietro Orseolo, doge, e Gradenigo e Mauroceno, nobili veneziani, facevano vita di solitarî come Romualdo loro maestro; e sulle montagne, e dentro alle caverne, e sulle spiagge del mare, e fra le foreste, ponevano loro dimora nuovi eremiti, siccome ai tempi di Antonio egiziano[586].
Erano pure i due strani contrapposti, Romualdo e Gerberto, tutti e due a Ravenna. Questi, maestro di astuzie e di sofismi, perito diplomatico, erudito grande e matematico di genio, doveva mirare con isguardo di compassione l’eremita, che a stento riusciva a compitare il salterio, e che cercava nella solitaria selvatichezza di un mistico stato di natura la più alta missione dello spirito umano. Eppure, appiè di Romualdo s’inginocchiavano [564] Principi del più illustre stato, attendendo con umiltà ai suoi discorsi; ed Ottone III stesso, che, ammiratore del genio del suo maestro, gli scriveva lettere coll’indirizzo: «al sapientissimo Gerberto, coronato nelle tre classi della filosofia», Ottone stesso si prostrava in pari tempo innanzi all’eremita ignorante, ne baciava con reverenza il lembo della tonaca, e si stendeva penitente sul suo giaciglio di giunchi. Gerberto sedette un solo anno sulla cattedra di Ravenna, chè Ottone ne lo chiamava al pontificato, splendida prova che la istruzione di un sì grande maestro non era stata sterile di frutto[587].
La elezione di lui recò onore a Ottone, ma umiliò Roma, perocchè il genio del novello Pontefice, il quale, tempo prima, aveva scagliato tanto pungenti censure contro alla barbarica ignoranza dei suoi predecessori, facesse sì che la tenebra di Roma comparisse ancor più oscura. Addì 2 di Aprile dell’anno 999 Gerberto fu ordinato, ed egli arditamente si impose il nome di quel Pontefice che era onorato con venerazione santissima, ed era omai diventato persona di mito. Silvestro II faceva pensare [565] che in Ottone dovesse rivivere un Costantino secondo; nè la scelta di quel nome era fatta senza motivo: amicizia e gratitudine univano maestro e discepolo, e la associazione del Papato e dell’Impero, cui Ottone aveva mirato di ottenere per via di Gregorio cugino suo, doveva adesso giungere a buon fine sotto di Silvestro II. Chi poneva fede nella donazione di Costantino poteva per verità susurrare all’orecchio dell’Imperatore, che il nome di Silvestro significava restaurazione dello Stato ecclesiastico e donazioni nuove; e l’arguzia dei Romani avrebbe potuto ricordare ad Ottone, che, appunto dopo di quella donazione, Costantino aveva abdicato Roma per sempre a favore del Papa, e s’era ritirato umilmente in un canto d’Europa, sulle rive del Bosforo. Ottone, per lo contrario, voleva fare di Roma la sede dell’Impero e diventare nuovo Trajano di una nuova monarchia universale. Innanzi ai suoi occhi si agitava l’idea di Carlo, ma il giovane immaturo di consiglio non era capace di formarsi l’idea di un sistema politico tale, che si acconciasse allo stato dell’Occidente germanico-romano. La sua educazione di greco costume lo aveva allontanato dal mondo nordico; invece di considerare, sì come Carlo aveva fatto, che Roma, decaduta per sempre nell’ordine politico, doveva essere soltanto fonte di un titolo e sede della Chiesa da lui dominata; invece di raffermare piuttosto in Alemagna il centro di gravità dell’Impero, Ottone intendeva a rialzare nuovamente Roma al grado di residenza imperiale, senza neppur pensare che in tal caso avrebbesi dovuto primamente sbassare la Chiesa alle proporzioni di un patriarcato (come era avvenuto di quella bizantina), e spendere in [566] siffatto còmpito lotte senza fine. Nella sua mente si confondevano, sovrapponendosi l’uno sull’altro, i limiti della Chiesa con quelli dello Stato, e insieme coi principî monarchici si andavano in lui mescolando le ricordanze degli istituti antichi di Roma aristocratica e di quella democratica. La potenza di Germania aveva risollevato il Papato dalla ruina e vinto ancor una volta Roma, ed egli credeva in buona fede di avere incatenato a sè quella nobiltà, che cercava, con pensieri più pratici di quello che fossero gli intendimenti suoi, di restringere la cerchia del reggimento di Roma alla misura entro cui Alberico s’era tenuto. Dopo di avere appeso a’ patiboli gli uomini che avevano lottato per dare a Roma una grandezza tanto modesta, pareva ad Ottone di avere eguagliato Augusto vincitore di Azio, e la sua fantasia ardente allargava le dimensioni di Roma ruinata a quelle dell’orbe mondiale. Con pompa artificiosa faceva egli dunque risorgere il titolo della Republica antica, e perfino discorreva di accrescere la potenza del popolo romano, e parlava di Senato. Davasi, a preferenza d’altro, nome d’Imperatore dei Romani, ed ancora quello di Console del Senato e del Popolo di Roma, e, se più lungamente avesse vissuto, avrebbe restaurato il Senato[588]. Nessun documento dice che [567] questo ei facesse, ma non mettiamo pur dubbio che egli desse ai Romani una specie di costituzione cittadina, poichè le forze della nobiltà erano diventate troppo grandi, ed egli aveva duopo di conciliarla a sè. In un tempo, nel quale i diritti di corporazione si andavano ordinando in modo deciso, in cui la podestà dei Principi non si cingeva in guisa alcuna di forme despotiche, era impossibile che Roma restasse priva di una sua propria costituzione municipale. L’architettura delle sue cime era composta dall’Imperatore o dal Papa, ma i diritti fondamentali della corporazione cittadina erano guarentiti per ragione di patto.
Ottone, a questa età, traeva in moda le forme pedantesche della corte greca; saltando di là dell’abisso che il tempo aveva spalancato, e che, per buona ventura, separava Roma da Bisanzio, cominciò a vestire col fasto usato da Diocleziano; e questa fu cosa che gli attirò addosso il biasimo dei suoi concittadini nutriti a idee di serietà. L’Imperatore, dice un Cronista tedesco, desiderava rinnovare i costumi antichi dei Romani, che in parte erano andati in dissuetudine, e molte cose fece che variamente furono giudicate: soleva sedere da solo ad una mensa di figura semicircolare, sopra un trono che superava di altezza gli altri[589]. L’amore passionato che Ottone aveva per il grecume era alimentato da Gerberto. Il Principe, avido di addottrinarsi, [568] aveva fatto fervidi inviti a quest’ultimo, prima che diventasse papa, affinchè lo istruisse nelle lettere classiche e nelle matematiche, ma Gerberto rispondeva, non comprendere per qual fatta di mistero divino avvenisse, che Ottone fosse greco di nascita, romano di podestà imperatoria, e quasi erede dei tesori della sapienza greca e di quella romana: in tal modo si sciupava coll’adulazione la natura del giovane fornito di ingegno[590]. Affine di piacergli i cortigiani affettavano forme che sapessero di greco; financo cavalieri giganti di Germania, fior di gente onesta, cominciavano a biascicare quella lingua, parimente come a tutte le corti alemanne del secolo decimottavo e del nostro tempo, si balbettava e si balbetta il francese: tanto antica è quella miserevole smania dei Tedeschi di adulterare la propria natura coll’orpello degli stranieri. Oggidì ancora, in alcune ingiallite carte giudiziarie, troviamo le sottoscrizioni di giudici tedeschi di Ottone, dai nomi di Sigfredo e di Gualtiero, composte a caratteri greci, giusto come era Stato costume di farlo a Roma e a Ravenna nei tempi bizantini, quando benanco usavasi scrivere frasi intiere di latino a lettere greche[591].
[569]
Ottone studiò i costumi della corte di Bisanzio, con cui egli, figliuolo di una donna greca, intendeva imparentarsi per via di matrimonio; e, per uso di lui, fu allora compilato un formulario latino, che in parte attinge alle Origines di Isidoro, in parte concorda col Libro ceremoniale di Costantino Porfirogeneto. Le dignità bizantine vi sono commentate con dottrina d’antiquario, e sono messe in applicazione a Roma; vi si enumera e vi si spiega la foggia delle vestimenta fantastiche dell’Imperatore, e vi si descrivono le sue dieci corone, tutte diverse una dall’altra. Erano di ellera, di olivo, di pioppo, di quercia, di alloro; v’aveva fra esse la mitra di Giano e dei Re trojani, il frigium trojano di Paride, la corona ferrea simboleggiante che Pompeo, Giulio, Ottaviano, Trajano avevano domato il mondo colla spada; v’era la corona di penne di pavone, e finalmente quella d’oro seminata di gemme, che Diocleziano aveva tolto a imitazione dal Re di Persia, e su cui leggevasi scritto all’ingiro: Roma caput mundi regit orbis frena rotundi[592].
[570]
Tutto ivi è notato, cavalli, armi, istrumenti di musica, financo gli eunuchi, e vi sono registrate le diverse maniere di trionfo. «A nessuna dignità, a nessuna podestà, a nessun’anima vivente nel mondo romano, neppure all’eccelso monocrate, è lecito salire il Campidoglio di Saturno, capo del mondo, se non in vestimento di abiti bianchi. Quando poi il monocrate vuol ascendere al Campidoglio deve prima vestire nello spogliatoio (Mutatorium) di Giulio Cesare la porpora bianca, indi, circondato di musici d’ogni maniera, andare all’aureo Campidoglio, mentre a lui si acclama in lingua ebrea, in greco e in latino. Colà tutti devono inchinarsi innanzi ad esso tre volte, prostrandosi fino al suolo, e, per la salute del monocrate, alzare preci a Dio, che lo ha posto a capo del mondo romano»[593]. Però Ottone di queste magnificenze antiquate doveva tenersi pago a leggerle nel Libro ceremoniale; ad ogni modo, se più a lungo avesse vissuto in Roma, e se avesse menato una donna di Grecia per moglie, non v’ha dubbio ch’egli avrebbe introdotto tutta la pompa della corte bizantina, e avrebbe celebrato trionfi e dato giuochi nel circo. Le sue fantasie [571] contribuivano di molto ad alimentare il borioso concetto in cui i Romani tenevano la Città eterna, capitale del mondo. Può darsi che cervelli bollenti si confortassero della libertà civile perduta, pensando che Ungheri, Polacchi, Spagnuoli settentrionali e la stessa Alemagna sarebbero province romane, ed eglino ne farebbero da proconsoli; benanco può darsi che gli aristocratici ignoranti, i quali conoscevano il greco soltanto di udito, non ridessero, neppur eglino, gran che delle fanciullaggini di un Greco sassone, il quale lusingava il loro orgoglio nazionale; onde avidamente facevano ressa a torsi le cariche della corte e della milizia, che Ottone loro offriva. Se anche non si legge che egli creasse dei Tribuni della plebe, dei Consoli, dei Dittatori e dei Senatori, v’avevano però alla corte di lui degli officî chiamati con nomi superbamente sonanti, e, parimente come a Bisanzio, vi si trovavano Protovestiarî, Protoscriniarî, Logoteti, Archilogoteti, Protospatarî. Gregorio di Tusculum portava il titolo nuovo di Prefetto della flotta. In mezzo al decadimento dello Stato ecclesiastico aveva cessato di esistere in Ostia il quartiere navale pontificio; ma adesso Ottone III, ravvolgendo nel suo animo disegni arditi contro a Sicilia, pensava alla creazione di una marineria romana, e, coll’elezione di un ammiraglio, precorreva alla realtà vera delle cose[594].
[572]
Più importante era l’officio del Patricius, che sembra essere stato rinnovato da lui, affine di blandire le idee dei Romani, pei quali quel titolo era fornito di tanto grande importanza. Tratto tratto se ne fregiavano ottimati romani, forse soltanto come segno di onore che i primi Ottoni avevano concesso, ad esempio di Bisanzio[595]. Ottone III vi diede rilevanza nuova, e della ceremonia solenne usata per la nomina del Patrizio tien nota la Graphia. Il Protospatario e il Prefetto conducono all’Imperatore il futuro Patrizio, il quale gli bacia le piante, le ginocchia e la bocca, e bacia tutti i Romani circostanti che gli danno il benvenuto; indi l’Imperatore lo nomina suo ausiliario, suo giudice e suo difensore nelle cose riguardanti le chiese ed i poveri, lo veste del mantello, gli mette l’anello nel dito indice, e ne adorna il capo dell’aureo serto[596]. Vien detto che Ziazo fosse primo patrizio al tempo di Ottone[597]; sull’incominciare poi del secolo undecimo troviamo Giovanni essere «Patrizio della città di Roma», e quivi, nel suo proprio palazzo, egli tiene un Placito; allato di lui, come giudice, sta Crescenzio prefetto della Città, ma quell’altro occupa il primo luogo[598]. L’officio però rinserrava dentro [573] di sè l’attrattiva alla rivolta, chè quei maggiorenti romani, i quali combatterono la podestà pontificia e la imperiale, sempre s’appellarono con nome di Patrizio; laonde, più tardi, lo si ricacciò nell’ombra, per via della dignità cresciuta al Prefetto. Anche di questa carica sembra che Ottone III abbia rialzato la importanza. All’età dei Carolingi di Prefetto della Città non si ha vestigio; tornammo con esso ad imbatterci negli anni 955 e 965 e, presto dopo, lo stato di lui guadagnò di considerazione. Egli faceva veramente da vicario della podestà imperiale, era insignito di aquila e di spada, ed amministrava la giustizia criminale nella Città e nel suo territorio. In pari tempo aveva incarico di avvocato ordinario della Chiesa, con podestà giudiziaria.
Frattanto Silvestro II dimostrava con quali spiriti intendesse fare da papa. Roberto re francese era costretto a rinunciare ad un matrimonio contratto contrariamente ai canoni; sul ribelle lombardo Arduino pronunciavasi [574] scomunica; i Vescovi erano sermoneggiati per iscritto, che il nuovo Papa aveva risoluto di castigare senza misericordia la simonia e l’immodestia di vita, affinchè l’officio vescovile nuovamente si rialzasse, puro di ogni macchia, al di sopra della podestà regia, che era tanto inferiore al primo, di quanto il piombo triviale è vinto dallo splendore dell’oro[599]. Silvestro trovava in Ottone il sostegno più volonteroso, per ciò che si trattava di condurre a buon fine la riforma ecclesiastica, cui Gregorio V s’era sforzato di operare; e di lui il Papa abbisognava per giungere a questo scopo generoso, e per raffermare sè medesimo in Roma. Deliberato di fondare una nuova signoria mondiale del Papato, Silvestro trovava accosto a sè un Imperatore giovine, desioso di gloria, compreso del concetto della grandezza antica, e fervido di speranze che da sè incominciasse una nuova êra per l’Impero. I rapporti che si stringevano fra il maestro, esperto delle cose del mondo, e il suo discepolo, inspirato a idee di romanzo, sono in altissimo grado degni di considerazione, avvegnachè in fondo i loro intendimenti si osteggiassero. Ottone III ben comprendeva sè essere l’Imperatore, ricordava aver egli creato due Papi, e tornargli necessario di battere le vie dell’avo suo, cui la Chiesa aveva prestato obbedienza senza esitare. Queste teorie Ottone proclamò, allorchè fece al Papa graziosa donazione di otto contee, sulle quali la Chiesa vantava pretese. L’Imperatore protestava [575] in questa occasione, che Roma era capo del mondo, che la Chiesa romana era madre della Cristianità, ma che i Papi medesimi avevano rimpicciolito il loro splendore, disperdendo beni ecclesiastici per farne quattrini. Oltracciò diceva, che nella confusione degli ordini giuridici alcuni Papi, col pretesto della donazione falsa di Costantino, avevano usurpato alcune parti dell’Impero, e che si era fabbricata una donazione di Carlo il Calvo, falsa tanto quanto la prima. A siffatte finzioni non dava egli che sprezzo, ma al suo precettore, che aveva creato papa, donava i comitati di Pesaro, di Fano, di Sinigaglia, di Ancona, di Fossombrone, di Cagli, di Jesi e di Osimo. Quella protesta significava la coscienza della maestà imperatoria che Ottone accoglieva nell’animo, e Silvestro doveva sentirne temenza[600].
Nel suo grande intelletto il Pontefice sorrideva dei [576] sogni dorati del giovinetto generoso, ma ben si guardava dal dissiparli; infatti, allorchè Ottone ebbe alzato il suo maestro al seggio pontificio, sperò egli di avere trovato in questo chi secondasse le sue idee, e soltanto la morte lo premunì da veder ciò che gli sarebbe stato dolorosissima delusione. Silvestro invece aveva in mente di educare a suo pro il giovine idealista, e di restaurare col mezzo suo lo Stato della Chiesa. Approvava il proposito che l’Imperatore ponesse in Roma stabile residenza, perciocchè questa eragli arra di quiete, e poneva impedimento a’ tumulti ribelli. Adulava Ottone in tutte le maniere; diceva lui essere monarca del mondo, cui obbedivano Italia e Alemagna e Francia e le terre degli Slavi, e chiamavalo più savio dei Greci, lui uomo di greca origine: così scaldava la fantasia del giovine Principe, che in pari tempo correva le vie dell’antichità e quelle del monachismo.
Quantunque per eletta cultura si alzasse al di sopra della sua età, tuttavia anche Silvestro II ne divideva parecchie tendenze, perchè di quel tempo era anch’egli figliuolo: e merita che si noti, essere partita da lui la prima esortazione alla Cristianità, perchè liberasse Gerusalemme dalle mani degli Infedeli[601]. La Chiesa e l’Impero celebravano allora novelli trionfi: Sarmati convertiti compensavano la perdita della Bulgaria; Polonia si assoggettava a Roma; gli Ungheri [577] feroci, che poco tempo prima erano stati i più formidabili devastatori d’Italia, domati dappoi dalle armi tedesche, sottoponevano sè stessi al culto romano, e accoglievano istituti germanici nelle cose di Chiesa e di Stato. Anastasio, ossia Astarico, ambasciatore del loro savio principe Stefano, veniva a Silvestro acciocchè questi desse ricompensa alla conversione dell’Ungheria, accordandole dignità regia. Il Papa, con gran gioia, metteva una corona nelle mani del legato; e sebbene per verità ciò avvenisse col beneplacito di Ottone, il quale concedeva il reame ad uno sperato vassallo dell’Impero, tuttavia l’Ungherese otteneva in Roma, per opera del Pontefice, la consecrazione: v’aveva dunque ogni apparenza che la dignità regia derivasse dalla podestà della Chiesa, e il Pontefice, il quale già possedeva il diritto di coronare l’Imperatore, accordava per la prima volta il diadema anche ad un Principe straniero, come se fosse stato un dono di san Pietro[602]. D’allora in poi la Città albergò entro di sè eziandio dei Magiari pacifici, pei quali Stefano fondava una casa di pellegrini presso al san Pietro, nel tempo stesso che costituiva un seminario ungherese di preti, quello che oggidì è riunito al Collegium Germanicum. Ancora a’ nostri giorni il primo Re ungherese è venerato nella sua chiesa di santo Stefano degli Ungari, che sta in vicinanza al san Pietro, nel luogo dove anticamente era la casa di quei pellegrini; [578] però la chiesa degli Ungheresi è quella di santo Stefano in Piscinula nella Regione detta Parione, in cui deve avere esistito l’antica Collegiata dedicata a Stefano protomartire.
La conversione dell’Ungheria era opera della missione di Adalberto, che Ottone cominciò a divinizzare come patrono suo. Portava egli grande affetto al convento dell’Aventino dove il Santo aveva vissuto; ne confermava e ne accresceva i beni, e, affinchè se ne facesse un pallio di altare, vi donava perfino il manto usato nella sua coronazione, tutto adorno di figure dell’Apocalisse[603]. In un edificio prossimo a questo convento stabiliva il suo castello imperiale, e di là, «dal Palazzo del Monastero», datava alcune delle sue scritture[604]. Non v’aveva a quel tempo alcun altro colle di Roma che fosse così animato di vita, come era quel monte Aventino, oggidì tanto deserto; oltre ai conventi di santa Maria, di san Bonifazio ed al castello imperiale, [579] pieni di santi uomini e di abitatori illustri v’avevano molti bei palagî, e reputavasi che l’aria, ivi in ispecialità, spirasse balsami di salute[605].
In quello che Ottone, a foggia dell’antichità romana, si imponeva, per nomi di trionfo, appellazione di Italicus, di Saxonicus, di Romanus, con mistica umiltà sè stesso chiamava servo di Gesù Cristo e degli Apostoli; e reputava sua missione eccellente essere quella di far rifiorire la Chiesa di Dio, in società coll’Impero e colla Republica del popolo romano[606]. Inspirato a idee cotali, contraddicendo a sè stesso, s’immergeva tratto tratto in opere di mortificazione monastica. Grecia e Roma sollevavano l’anima sua alle spere dell’idealità, ma i frati la cingevano coi loro lacci e la annebbiavano. Deposto il manto d’Imperatore, si copriva di veste di cilicio, e insieme con Franco, giovine vescovo di [580] Worms, si stava rinchiuso quattordici giorni entro una cella di romito in san Clemente in Roma; risensato, moveva nell’estate a Benevento, indi passava a nuove mortificazioni a Subiaco nel convento di san Benedetto[607]. Tosto dopo andava a Farfa, accompagnato dal Papa, da maggiorenti romani e da Ugo di Tuscia favorito suo; poi, preso dalla brama di tornarsene in Alemagna, sembra che a Farfa desse assetto al reggimento d’Italia per il tempo che ne sarebbe rimasto lontano, e pare che a suo vicerè nominasse Ugo[608]. Turbato per la morte di Matilde zia sua, e per quella immatura di Franco, che trapassava di vita in Roma, ancor mesto della fine di Gregorio V, l’Imperatore malato e inquieto di animo, partiva di Roma nel Dicembre dell’anno 999: presto gli giungeva novella eziandio della morte dell’imperatrice Adelaide. Le cose di Germania lo chiamavano in quel paese; s’avvicinava l’anno 1000 temuto, ed egli aveva fatto voto di peregrinare alla tomba di Adalberto. Prendeva seco parecchi romani, e conduceva anche Ziazo patrizio e alcuni Cardinali, mentre che Silvestro restava, con gravi cure, a Roma. Il Papa gli mandava dietro una lettera per indurlo a ritornare, ma Ottone gli rispondeva: T’amo di reverente affetto; [581] però necessità mi costringe ad andare, e l’aria d’Italia è nociva alla mia fibra. Parto soltanto col corpo, ma lo spirito rimarrà a te sempre vicino; a tua difesa poi lascio i Principi d’Italia[609].
Il vincitore di Crescenzio, il ristoratore del Papato, il rinnovatore dell’Impero, il pellegrino del Gargano fu salutato, meraviglia del mondo, dai popoli d’oltralpe, stupefatti a vederlo. Dalle feste di Regensburg ei passava rapidamente a Gnesen: e colà, circondato dai Sarmati dalle lunghe chiome, mentre orava sulla tomba di Adalberto, il suo pensiero con fervido desiderio volava alla santa, all’aurea Roma, all’Aventino benedetto di sole, alla piccola isola Tiberina, dove aveva comandato che si rizzasse una basilica ad onore di Adalberto. Fondava a Gnesen un Arcivescovato, indi proseguiva il suo cammino ad Aquisgrana, alla Roma alemanna. Nella Cripta di quel duomo riposava Carlo, il grande fondatore dell’Impero di nazione germanica, quel desso cui il giovane fanatico intendeva di rendersi eguale. Ed Ottone non si faceva riguardo di rompere la porta della tomba, e di entrare nella camera sepolcrale; che se il gran Carlo si fosse svegliato del suo sonno, avrebbe guardato con occhio di compassione il giovine invasore, e, sgridandolo, lo avrebbe biasimato, che, per cupidigia della falsa Roma, lasciasse in abbandono e traesse in vie non nazionali quella gagliarda Alemagna, cui i re Enrico e Ottone I avevano conquistato unità dentro, e podestà fuori, sui Romani e sugli Slavi[610].
[582]
Bramosia di riveder Roma richiamava Ottone in Italia, omai nel Giugno dell’anno 1000. Il millesimo dell’êra cristiana aveva avuto incominciamento, ed era progredito nel suo cammino senza che il mondo inabissasse. Il secolo undecimo s’iniziava, gravido di mistero, nella storia; la gente umana lo aveva atteso con angustia mortale, come di nessun altro secolo prima o dopo di esso v’ebbe aspettazione. Gli uomini credevano che sarebbe venuto, demonio orrendo, imboccando la tromba del giudizio finale, ed agitando la fiaccola dell’incendio universale: venne invece tutto mitezza, e involto in un fitto velame; scoperta indi la faccia, si mostrò agli occhi dei popoli in figura di Sibilla profetica, la quale nel suo vase di Pandora teneva celate le meraviglie di una cultura nuova. Acconciamente disse uno Scrittore ecclesiastico, che, durante il secolo decimo, Cristo aveva dormito nella sua Chiesa, e che all’undecimo si era desto del suo sonno. Dell’oscurità di quello conforta la vista di questo che sorge, e già in esso s’ergono in bello aspetto due persone, che sul suo primo albore spariscono dentro il sepolcro; Gerberto, il Papa, il mago, il sapiente divinatore delle crociate, e il giovine imperatore Ottone III, che sognava il dominio di un novello Impero mondiale.
Ottone passò in Lombardia la stagione estiva, ma Silvestro con fervide instanze lo richiamò a Roma: quivi infatti risorgeva lo spirito di ribellione, la Sabina gettava disfida al Papa, il quale, andatovi per difendere i diritti della Chiesa, era in Orta minacciato con un [583] sollevamento, e costretto a fuggirsi a Roma[611]. Ottone, che primamente aveva avuto nuova, da Gregorio di Tusculum, dello stato minaccioso della Città, mosse a Roma nell’Ottobre, a capo di un esercito, seguito da Vescovi tedeschi, e dai duchi Enrico di Baviera, Ottone della Lotaringia inferiore, e Ugo di Tuscia. La sua venuta tenne in freno i Romani, che l’assenza di lui aveva incorato a tumultuare.
L’Imperatore pose stanza nel suo castello sull’Aventino, deliberato di fissare per sempre dimora in Roma. Allora fe’ consecrare la basilica di santo Adalberto, per ministero del Vescovo di Porto, sotto la cui giurisdizione stava l’isola Tiberina. Ottone sarebbe stato beato di erigere templi, in ogni canto del mondo, al martire divinizzato, nell’istesso modo che Adriano aveva fatto ad Antinoo favorito suo, da lui riposto tra i numi. Gli fondava un convento in Ravenna, una chiesa in Aquisgrana, e la basilica a Roma, dove raccoglieva in custodia un braccio del Santo. Andò avidamente a cerca di reliquie per fornirne questa chiesa; domandò Benevento che gli consegnasse il cadavere di san Bartolomeo, ma gli atterriti Beneventani lo ingannarono, dicesi, dandogli invece le ossa di san Paolino di Nola, e Ottone le trasse a Roma, e le seppellì, quali avanzi dell’apostolo Bartolomeo, nella basilica: risaputa poi la pia ciurmeria, voleva sulle prime vendicarsene contro Benevento, ma poi non ne fece più [584] altro[612]. La chiesa dell’isola Tiberina fu allora appellata «dei santi Adalberto e Paolino», ma l’origine barbara fece sì che il Boemo, accolto nel culto religioso della Città, non diventasse mai famigliare in Roma. I Romani andarono affermando, che nella basilica era sepolto Bartolomeo apostolo, e da lui la nomarono; e, allorquando Pasquale II la restaurò nell’anno 1113, di santo Adalberto non fec’egli più menzione in quei suoi versi, che ancora possono leggersi sulla porta d’ingresso[613]. Pertanto, nell’isola dedicata in antico a Esculapio fu fabbricata la chiesa onde diciamo, e lo fu forse colle ruine del tempio di lui: così Esculapio, figlio degli Dei, ebbe per successore il santo barbaro Woiteco ossia Adalberto. [585] Oggidì, quando dai giardini del convento si scende ai margini del fiume, vi si mirano ancora gli avanzi delle mura di travertino, che anticamente avevano dato all’isola la figura di una nave rostrata; e tuttora si discerne il simulacro in pietra del caduceo, e si rammenta che da quel sacro serpente di Epidauro l’isola ebbe nome di Insula serpentis Epidaurii[614]. Può darsi che Ottone affidasse a quanto v’aveva di artisti migliori, l’incarico di decorare la sua basilica. Dessa è unico monumento di lui in Roma, quantunque rimutata sia dalla forma antica; chè soltanto la torre e le quattordici colonne antiche di granito derivano dal tempo suo. Con gratissimo diletto l’uomo tedesco si sofferma nella tranquilla piazza che s’apre davanti a quella pittoresca chiesa del medio evo, dove, nel bel mezzo del Tevere, con Roma da una banda ed il Transtevere dall’altra, può in quiete dar libero il volo alle sue meditazioni: oppure, dal piccolo giardino del convento, dove gli aranci frondeggiano vicino ai melanconici giunchi del fiume, egli solleva lo sguardo al prossimo Aventino, coperto delle severe ruine del suo castello, ed evoca alla mente i tempi in cui Ottone III dalla soglia del suo palazzo affisava con senso di religiosa pietà la basilica di Adalberto.
[586]
Addì 4 di Gennaio dell’anno 1001 Ottone dava il benvenuto a Bernuardo, vescovo di Hildesheim, maestro suo, e lo albergava in vicinanza al suo palazzo. Tosto dopo era costretto di correre alle armi per castigare la piccola città di Tibur. Fra le città della provincia romana le più considerevoli erano allora Preneste, Tusculum e Tibur; un feudo la prima dei figli di Stefania senatrice, la seconda dominata dai discendenti di Alberico, Tibur fornita di una tal quale libertà municipale. Omai la città era detta Tibori o Tivori, donde poi derivò il nome di Tivoli[615]. Racconti di leggenda, casi di storia, bellezza di natura, avevano resa Tivoli illustre. Alba Longa era stata madre di Roma, e del peperino dei suoi monti erano stati edificati i gravi monumenti della Città republicana; ma i Tivolesi ben potevano celebrare a loro gloria, che della gialla pietra dei loro colli erano sorti gli immensi edificî di Roma imperiale e pontificia. Nomi splendidi dell’età di Augusto erano associati alle ruine delle lor ville, fra le quali si [587] additano quelle di Mecenate, di Orazio e di Cicerone, di Varo, di Cassio e di Bruto, dei Pisoni, di Sallustio e di Marziale[616]. Le sue belle grotte, traverso le quali l’Anio precipita rumoreggiando, sono illeggiadrite di racconti di sirene e di Nettuno; gli avanzi dei suoi delubri acquistano vaghezza dai nomi di Ercole, di Vesta, e di quella albunica Sibilla, che in una visione ebbe svelato a Ottaviano la nascita di Cristo; e tuttodì, a’ piedi d’incantevoli boschetti di olivi, destano nell’animo meraviglia i ruderi della villa di Adriano, massima delle case di delizia che fosse in Occidente. Quantunque di quei luoghi si fosse tolto tanto numero di statue, di musaici e di marmi preziosi, pure al tempo di Ottone erane tuttavia grandissima la copia. In mezzo a rovine di portici antichi, coperte di alberi di alloro e di lentischi, o sotterrate fra’ rottami, s’alzavano ritti o giacevano supini, obliati dagli uomini, l’Antinoo del Campidoglio, la Flora, i Fauni, i Centauri capitolini, la Cerere, l’Iside, l’Arpocrate, il rilievo dell’Antinoo di villa Albani, il musaico dei piccioni di Soso, e tante altre opere d’arte, che empiono in oggi i musei di Roma e di altri siti[617]. Goti, Longobardi, Arabi avevano devastato Tivoli, e la città somigliava a Roma nel suo duplice aspetto: reliquie di mura e di templi, [588] avanzi dell’acquedotto Claudiano, un anfiteatro, fontane parecchie, statue sparse qua e colà duravano tuttavia in piedi; alcune strade erano denotate con nomi antichi, e, nel tempo istesso, templi s’erano tramutati in chiese e in conventi, e torrioni medioevali si erano edificati. In carte tivolesi del secolo decimo leggiamo ancora questi nomi: Forum, Vicus Patricii, Porta major e oscura, posterula de Vesta, porta Adriana castrum vetus, pons Lucanus, dove la tomba dei Plauti aveva preso forma di un castello a ponte, siccome era avvenuto in Roma del sepolcro di Adriano[618].
Quantunque in Tivoli, come a Porto e in Aricia, dei Comites e dei Gastaldi, o prevosti, vegliassero a guardia dei diritti della Chiesa romana, sembra che quei cittadini avessero conservato sentimento d’independenza. Il loro Vescovo aveva ottenuto esenzione dal banno del Conte, e, poichè non troviamo che ivi esistessero famiglie nobili di cospicuo grado, può darsi che Tivoli, a preferenza di tutte le altre terre romane, godesse, sotto la protezione vescovile, di un ordinamento [589] municipale, fornito di maggior libertà[619]. Le esenzioni allentavano l’obbligo di sudditanza delle città, le quali cominciavano a costituirsi isolate; e Roma vedevasi ricondotta ai tempi della sua infanzia, quando, indottavi da acerbe gelosie, aveva mosso guerra alle terre della Campania. I Tivolesi, che accampavano i loro diritti di esenzione, avevano trucidato Mazzolino duce, che Ottone, così pare, vi aveva spedito da governator suo. L’Imperatore cinse d’assedio la città e minacciò di smantellarla; si difese essa, ma presto le mancò il cuore, e Silvestro e Bernuardo la indussero a sottomettersi. Mezzo nudi, recando in mano una spada ed un fascio di verghe, i cittadini più notabili si presentarono a Ottone e gli chiesero perdonanza; egli fe’ grazia alla città, e s’accontentò a far atterrare un tratto delle mura e a prendere ostaggi[620]. Di questa maniera l’Imperatore si considerava, in modo assoluto, principe della provincia romana, chè il Papa, signore territoriale di Tivoli, la faceva soltanto da intercessore, e chiedeva che alla città si perdonasse. Questa mitezza fe’ invelenire i Romani; dell’odio sanguinoso che nutrivano per Tivoli si potrebbe dubitare, se la storia non ne confermasse la verità: infatti, anche nell’anno 1142, il perdono che parimente era concesso [590] a quella città, dava motivo ad un grande rivolgimento. Le fantasie di Ottone avevano scaldato l’orgoglio dei Romani; già pensavano essi alla restaurazione dei diritti del Senato, e movevano pretese al dominio altresì delle terre circonvicine. D’allora in poi i pretendenti alla podestà di governo, Papa, Imperatore, Città, vennero a continue lotte fra loro.
Agli ultimi tempi di Ottone III gli ottimati romani parteggiavano per l’Imperatore: poichè questi intendeva di risiedere a Roma, eglino avevano afferrato le sue idee, intese a dare nuova grandezza al popolo romano, e ciò facevano per mettersi essi nel luogo della signoria pontificia. Fors’è che l’Imperatore aveva loro promesso i beni di Tivoli; ma il Papa impediva che la città si distruggesse, poichè pensava a salvarne il possedimento a beneficio proprio di sè. I Romani si videro giocati; il loro odio contro il giogo dei Sassoni tolse dall’affare di Tivoli opportunità propizia ad erompere; si sollevarono con grande furore, serrarono le porte, uccisero alcuni imperiali, e cinsero d’assedio il palazzo dell’Aventino. L’Imperatore, che vi stava rinchiuso da tre giorni, era ridotto all’idea di aprirsi un varco per congiungersi ai suoi soldati; e già il vescovo Bernuardo, dopo di aver dispensata l’eucaristia a tutti quei fedeli, prendeva in mano la lancia santa, e deliberava di precedere a quelli che stavano per tentare la sortita. Ma, frattanto, di fuora dalle porte, Enrico e Ugo duchi venivano a trattative coi Romani, e a quelli e a Bernuardo riusciva fatto di acchetare i ribelli. Costoro si ritirarono allora dall’Aventino, lasciarono che Enrico ed Ugo entrassero in città, e nel [591] dì successivo vennero pacificamente innanzi al palazzo, ad un’adunanza cui Ottone gli aveva invitati[621]. L’Imperatore dall’alto di una torre tenne loro discorso; delusione e dolore davano al giovine sventurato una facondia bollente: «Siete voi», diceva, «siete voi quelli che io chiamava i miei Romani? quelli per amore di cui abbandonai patria e parenti? Per affetto vostro ho sparso il sangue dei miei Sassoni e di ogni schiatta Tedeschi, e il mio proprio: voi ho guidato fino alle terre più remote dell’Impero nostro, là dove neppure i vostri padri, quando dominavano il mondo, avevano posto il piede. I nomi vostri e la vostra gloria voleva io trarre fino all’estremo dell’orbe; eravate voi i miei figliuoli prediletti; per voi io mi sofferiva l’odio e la gelosia di tutti gli altri. E voi adesso, in compenso, vi separate dal padre vostro; avete scannato crudelmente i miei fedeli, e me cacciato dal vostro seno: eppure no, non poteste farlo, chè quelli i quali io abbraccio con amore di padre non possono essere sbanditi dal mio cuore. Conosco ben io chi furono i capi della rivolta, e d’un volger d’occhi potrei segnare coloro i quali audacemente sostengono gli sguardi che tutti ficcano loro in viso; e perfino i miei più fidi, la cui innocenza mi rende beato, sono condannati a starsi silenziosi in mezzo ai rei, e a perdersi nell’incognito, in mezzo a loro: in verità orribile cosa è questa!» La voce tremante di Ottone, nel cui petto l’amore di Roma soffocava gli [592] sdegni, la faccia scolorata e bella dell’Imperatore, che portava segnati in fronte i solchi del dolore, esercitarono una grande efficacia: rimasero silenziosi tutti, molti piansero, indi un grido si levò. Afferrati i caporioni della sedizione, Benilone e un altro, gli strascinarono su per la scala della torre, e, mezzo morti, li gettarono ai piedi dell’Imperatore[622].
Il dolore limava la vita di Ottone; vedendo distrutti i suoi disegni, s’immerse in una mestizia desolata, e, come in antico era avvenuto di Teodorico, anch’egli, in quella Roma amata di sì caldo affetto, tornò a trovarsi uomo straniero fra gente straniera. Quantunque i Romani avessero deposto le armi, la Città era pur sempre piena di tumulto. Gregorio di Tusculum con animo ingrato sommoveva il popolo; vociferavasi di un disegno, per cui si mirava a sorprendere l’Imperatore e a impadronirsi di lui, dappoichè la sua scarsa soldatesca stava in parte a quartieri fuor della Città. Enrico, Ugo, Bernuardo lo sollecitarono a porsi rapidamente in salvo, e lo sventurato uscì insieme col Papa della Città, che era il giorno 16 di Febbraio dell’anno 1001. La sua partenza somigliò ad una fuga, ed infatti molti Alemanni [593] rimasero addietro, e furono tenuti dai Romani in ostaggio. Per il fatto, Roma tornava ad essere independente, e sembra che il governo venisse in mano di Gregorio di Tusculum, nipote del celebre Alberico, la cui casa Ottone aveva restituita a splendore[623].
Ottone volse i suoi passi al settentrione, e spedì a Germania Bernuardo ed Enrico, perchè ne raccogliessero milizie fresche: egli poi andò al convento di Classe, in vicinanza a Ravenna, e vi celebrò le feste di Pasqua. Sebbene la sua fuga di Roma avesse dovuto parergli il più aspro pellegrinaggio di tutta la sua vita, tuttavia tornò a indossare abito di penitente. Romualdo cercò avidamente di impadronirsi di quell’anima scrollata di speranze, tentò di inchiodarla, trofeo massimo di sue vittorie, in un convento, e di far vedere al mondo un Imperatore coperto della tonaca, onde aveva di già vestito un Doge. Però, la mente di Ottone, che spaziava nelle idealità, poteva bensì smarrirsi per qualche settimana in mezzo ai misteri del monacato, ma non seppellirvisi dentro in perpetuo. Buttato via il saio del penitente, visitò in secreto Venezia, dove Pier Orseolo II, figlio di quel Doge che s’era fatto frate, gli mostrò le magnificenze della giovane regina dei mari, [594] i frutti delle sue virtù di governo, e la saviezza pratica del suo reggimento. Radunato dappoi il suo esercito, Ottone mosse, sbuffante vendetta, contro a Roma. Tuttavolta, non abbiamo nuova che assalisse la Città; lo troviamo ai 4 di Giugno in vicinanza al san Paolo, ai 19 di Luglio nei monti Albani, ai 25 e ai 31 di Luglio a Paterno[624]. Creder non possiamo che egli non sarebbe entrato in Roma, se avesse trovato aperte le porte. Scarso esercito aveva, poichè stava ancora aspettando le soldatesche riposate di Eriberto arcivescovo di Colonia; e i Romani che, presi di paura, avevano messo in libertà i prigionieri tedeschi, dovevano preferire l’estrema distretta di un assedio, piuttosto che venire ad una resa, le cui conseguenze gli avrebbero ridotti alle sorti istesse di Crescenzio. L’Imperatore or compariva innanzi a Roma, or devastava col ferro e col fuoco la Campagna, dove, in ogni castello, si annidavano nemici suoi; ed egli stesso in persona, dal suo maggior quartiere che aveva posto a Paterno, presso al Soratte, in vicinanza di Civita Castellana, andava e tornava, fino a che la infedeltà dei Principi dell’Italia meridionale lo chiamava colà. Andò a Salerno, assediò e prese Benevento, e, quasi che lo agitasse un’irrequietezza presaga di morte, corse di nuovo, nell’autunno, a Pavia, indi a Ravenna per farvi orazioni e penitenze[625]. Se torni [595] a Roma, così l’ammoniva santo Romualdo, non rivedrai più Ravenna: e disse il vero. Il giovine si staccò dal profeta di mal augurio, e mosse verso Roma; celebrò a Todi le sue ultime feste di Natale, e vi tenne insieme col Papa un Concilio, che si occupò di cose di Germania.
Sorse l’anno 1002. Accasciato alla notizia che il malcontento covava fra i popoli tedeschi, i quali minacciavano di porre un Principe, ispirato a sensi germanici, nel luogo del loro Re che viveva oblioso di loro in Italia, scoraggiato per lo indugiare delle milizie ausiliarie, infermo lo spirito di affanni e malato di febbre, il giovine visionario si trascinò nel mese di Gennaio a castel Paterno, dove comandava Tammo conte, fratello di Bernuardo, e dove Ziazo patrizio, venuto di Pavia con soldatesche, gli si era congiunto. Dai merli di Paterno Ottone poteva discorrere collo sguardo sulla grande pianura di Roma, dove il padre suo dormiva l’ultimo sonno nell’atrio del san Pietro. Ai suoi occhi illusi dalle imagini febbrili sembrava che la Campagna, che Italia tutta ardesse, come una sola fiamma, dell’incendio della rivoluzione; e l’Imperatore, che aveva sognato di rinnovare il dominio mondiale dei Romani, si vedeva ridotto a morire entro un piccolo castello, dove minacciato era dalla fame e dalla oltracotanza dei suoi vassalli romani. Durò tuttavia fino a veder arrivare Eriberto con soldatesche, indi andò fiaccando; ricevette la comunione dalle mani di Silvestro, e spirò fra le braccia [596] dei suoi amici piangenti, addì 23 di Gennaio dell’anno 1002, che non ne aveva ancora ventidue.
La morte di Ottone, al paro della sua vita, diventò ben presto argomento di leggenda. Narrossi che la vedova di Crescenzio, nuova Medea, lo ammaliasse coi suoi vezzi, e che, sotto pretesto di portar medicina alla malattia di lui, lo involgesse in una pelle di cervo preparata con veleni, o che gli mescesse tossico in un beveraggio, od altrimenti che gli ponesse in dito un anello avvelenato, e vendicasse così il marito suo. Morendo, l’Imperatore aveva espresso desiderio di esser sepolto ad Aquisgrana vicino a Carlo magno: vivente aveva sprezzato Alemagna, morente tornava all’amore dei suoi padri. La fine di Ottone e il viaggio che il suo cadavere fece attraverso Italia compongono una commovente tragedia, la quale dimostra la inanità delle menti umane che si travagliano intorno a disegni di mortali cose; meglio, neppur gli antichi ebbero poetato cotale verità nella persona d’Icaro. Nel tempo istesso che Arnolfo, arcivescovo di Milano e legato di Ottone, solcava le onde del mar Jonio col vascello che gli conduceva di Grecia la Principessa a lui fidanzata e tanto ardentemente attesa, i Tedeschi movevano per Tuscia in rapida fuga, seco traendo la bara in cui giaceva morto il fidanzato. I suoi fedeli, i Vescovi di Liegi e di Colonia, di Augusta e di Costanza, Ottone duca della bassa Lotaringia ed altri maggiorenti, tennero celata quella morte, finchè ebbero raccolte insieme le loro soldatesche; allora soltanto mossero con marcia palese. I prodi Tedeschi in battaglie serrate circondarono il mesto corteo, e s’aprirono il passo colla spada. Di tal guisa, quell’Imperatore, [597] che aveva amato Roma con tanto ardore di affetto, era portato cadavere in mezzo a feroci grida di guerra, fra le turbe dei Romani che andavano scorrazzando intorno al feretro; di tal guisa era condotto morto, lungo quei campi che, orgoglioso e lieto, altri dì aveva percorso alla testa dei suoi eserciti, quando gli sorrideva tutto un poema di propositi arditi.
Lo storico o il tragedo potrebbero scorgere cogli occhi della mente molte ombre de’ tempi trascorsi vagolare intorno al feretro di Ottone III; e potrebbe loro eziandio parere di vedere, accorrenti dalle età venture, le persone del romano Cola di Rienzo e del giovine Corradino. L’occhio dell’uomo tedesco a queste ricordanze si velerà di tristezza, e l’animo suo sarà punto di amore della patria, la quale, fino al dì d’oggi, ha sacrificato tanti e sì cari capi all’Italia straniera. Non sarà sempre giustizia che egli accusi di arti traditrici questa terra dominata dalla gente tedesca, avvegnachè, se lo facesse, dimenticherebbe che nessun sentimento è più potente di quello che stimola le nazioni a conseguire independenza. A miglior ragione dovrà egli deplorare, ombra di sua nazione, l’amore che la invaghì di stranieri paesi; e la storia di Ottone III ben gliene offre opportunità. È pur vero; i Tedeschi risentono un’attraenza idealistica al mezzogiorno. Altri popoli, per desiderio politico, si sono volti ai paesi di fuori; i Greci ebbero piantato loro colonie in tre parti del mondo; i Romani conquistarono mezzo l’universo fra torrenti di sangue; gli Inglesi ancora oggidì dominano paesi remoti della terra; gli Spagnuoli, i Francesi, i Russi, per pari brama di signoria, furono e sono spinti ad [598] uscire delle loro frontiere. Sola e ostinata conquista dei Tedeschi fu Italia, questa terra della storia, della bellezza, della poesia, che ripetute volte li chiamò a sè; e la conquistarono non per sottoporla a tirannide, ma per suscitarla dal suo letargo di morte, per rianimarla, per rinnovarla. La virtù del sentimento religioso, propria intimamente dei Tedeschi, ne li creò proteggitori della Chiesa romana, e con vincoli di necessità gli avvinse a Roma. Desiderio fervido di scienza gli attrasse ai tesori dell’antichità, e siffatto impulso renderà ad essi eternamente diletta la terra d’Italia e Roma. Combinazioni politiche educarono l’idea dell’Impero, e di essa fecero colonna i Tedeschi: ed è appunto a cagione di quelle due forme della storia degli uomini, quali furono la Chiesa universale e l’Impero, che i Tedeschi hanno indebolito il principio di loro propria nazione, mentre, ai loro confini, Francia, unita in concentramento, diventava capace di un despotismo nazionale, gretto ma energico. I Re tedeschi, per un corso di secoli, guidarono i loro popoli di là dalle Alpi, fino a Roma, a morirvi per un dogma politico e religioso; e questo fu che rese Alemagna la prima nazione del mondo, onde, indirizzata sempre ai beni eccellenti dell’umanità, riuscì ad essa di farsi centro del lavorio spirituale di Europa. A Roma, per opera degli Ottoni suoi, restaurò la associazione delle età e le correnti dei tempi, sciolse i suggelli che serravano le tombe dell’antichità, associò la civiltà del mondo antico a quella del mondo cristiano, maritò l’indole romanesca con quella germanica, ne procreò il grande svolgimento della cultura moderna, rialzò la Chiesa dal suo decadimento [599] profondo, e vi istillò lo spirito della riforma. Germania si lasciò attrarre da Roma, come da una calamita intellettuale; però, i nepoti di quei Re sassoni, che avevano trasportato a Roma il centro di gravità della storia di loro patria, hanno, con più sodo intelletto, nuovamente svincolato Alemagna da Roma, non appena che il progresso dei tempi lo ebbe comandato.
Comunque si sia, Ottone III rimane sempre uno dei più mirabili simboli dell’indole tedesca. Infatti, quantunque ei volesse essere greco oppur romano, quell’Imperatore fu tedesco dal capo alle piante. Capace, sì meravigliosamente, di trasformarsi di Trajano in frate, financo quei suoi contrapposti sono perfettamente tedeschi, avvegnachè l’uomo germanico possa, con pari amore, comprendere il bello dell’antichità classica e il mondo fatato del medio evo cristiano. Sennonchè, questa duplice natura ebbe in Ottone III un senso più profondo ancora. In vero le grandi potenze che allora agitavano o foggiavano il mondo, Alemagna, Roma, l’Oriente greco, l’Oriente arabo, influirono tutte ad un tempo sull’animo suo; ed il secolo decimo, cui egli pose termine, fe’ presentire, per opera di lui e di Gerberto, che la cultura di Europa rinascerebbe a vita nuova sotto l’influenza dell’antichità e dell’Oriente. Non la sapienza di Carlomagno, non l’eroismo severo di Ottone I potevasi richiedere da un Principe, che giunse alla fine del suo regno in un’età, nella quale i Re che vi danno principio sono immaturi al governo; nella quale gli stessi uomini della comune cittadinanza non sono peranco adatti ai più semplici doveri della vita. Laonde è cosa affatto naturale, che Ottone III, salito alla più alta [600] cima della grandezza umana, sia stato pari ad un giovinetto, il quale, abbarbagliato dal sole, non vede più dove sia posta la terra; e l’imagine commovente di questo idealista pieno d’ingegno, avido di scienza, ispirato a pietà, entusiasta di ogni grande cosa, trova bellissimo luogo nel panteon della nazione tedesca. Vero Fetonte della sua storia, cadde morto sulle rive del Tevere; ornato dei fiori delle rozze leggende medioevali, pianto dalla patria, ebbe sepoltura presso a Carlo magno, e conseguì lode di bello e portentoso fanciullo imperatore, meraviglia del mondo: «Mirabilia mundi»[626].
[601]
Dedicheremo l’ultimo capitolo di questo libro a esaminare lo stato in cui trovavasi la cultura dello spirito nel secolo decimo, e vi porremo termine, dando un’occhiata alla configurazione della Città. Nessun tempo aveva visto in Roma una barbarie parimente grande; le ragioni storiche omai ne conosciamo, le conseguenze non ci desteranno sorpresa. All’età dei Borgia e dei Medici, la corruttela morale di Roma si inorpellò di una cultura classica esteriore, ed i vizî della Chiesa si nascosero sotto arazzi raffaelleschi; il secolo decimo, per lo contrario, non conobbe che cosa fosse apparenza di bello. Il ritratto di Giovanni XII [602] sarebbe, nel fondo, tanto differente da quello di Alessandro VI succeditore suo, quanto il secolo decimo lo fu dal decimoquinto; eppure ambidue, per più di un rispetto, tal qual poco si rassomigliano. La gente della età onde diciamo aveva fronte di bronzo; si svelava nuda e feroce, quale in fatto era. I vizî più sfrenati poneva accanto ad una superstizione crassa, la quale, se ottener poteva perdonanza al tempo di Gregorio I, ci spaventa adesso sì, come manifesto regresso della stirpe umana. All’epoca di Carlo un raggio di poesia era sceso ad illuminare l’Occidente, che lottava per riconquistarsi la vecchia civiltà; vi si scrivevano versi, si coltivava la pittura, si tiravano su edificî, si studiava, e, con assiduo lavoro, si trascrivevano in bei caratteri opere antiche. Ma l’Impero di Carlo cadde; irruppero Saraceni, Normanni, Ungheri; il Papato si tramutò in una baronia romana; la scienza e l’arte minacciarono di spegnersi, e l’Occidente, franto in pezzi, ricadde nel culto della materia. Il grado della vita civile dei popoli può misurarsi da ciò che gli uomini, nelle sfere più eccelse, bramano, credono e onorano. Ora, puossi agevolmente giudicare di che fatta fosse la religione di uomini, i quali pensavano che l’angelo Michele cantasse in paradiso ogni domenica la messa, o che si proponevano di mandare degli assassini alle spalle di santo Romualdo, il quale aveva minacciato di partire d’Italia, perchè, dicevano, franca la spesa di conservarlo in paese, se non altro come reliquia preziosissima.
Benchè grande fosse in tutta Italia la ignoranza del clero, di quel clero che esser doveva maestro de’ popoli, la ignoranza dei preti romani giungeva a tale, che tutti ne [603] meravigliavano nel modo più grave[627]. A Reims i Vescovi di Gallia schernivano al modo onde era in Roma trattata la cultura dello spirito, e dicevano con tutta serietà: «A Roma non v’ha al presente quasi alcuno che abbia apparato quelle scienze, senza di cui, sta scritto, un uomo è appena capace di far da portinajo: or, con qual fronte oserà farsi dottore di discipline chi non le ha imparate? Per verità, se se ne faccia paragone col Vescovo romano, l’ignoranza può in certo qual modo tollerarsi appo gli altri preti; ma nel Vescovo di Roma non si può sofferire, perocchè sia egli che deve giudicare della fede, del tenore di vita e della disciplina del clero, anzi di tutta la Chiesa cattolica.» Ma Roma, per bocca di Leone abate di san Bonifacio e legato apostolico, si difendeva da quelle invettive, e pronunciava queste testuali parole: «I Vicarii di Pietro, e i discepoli di lui», così diceva l’amico di santo Adalberto, «non vogliono andare a scuola da Platone, nè da Virgilio, nè da Terenzio, nè dall’altro pecorame dei filosofi, che, a volo superbo, s’alzano in aria come gli augelli, e s’immergono nel mare profondo come i pesci, e come le pecore, tratto tratto fermandosi, pascolano nel campo. E per questo voi dite che coloro, i quali non ingrassano in questi poeticumi, non valgono neppure a far l’officio di portinaio? Ma io dico a voi, che questa asserzione è bugia. Infatti, san Pietro nulla ne sapeva di siffatte cose, eppure fu [604] posto da portinajo del cielo, avvegnaddio propriamente il Signore gli abbia detto: a te darò le chiavi del regno celeste. Per la qual cosa i suoi vicarî e i discepoli suoi sono eruditi nelle dottrine apostoliche ed evangeliche; non si azzimano della pompa dell’eloquio, ma si adornano del senso e dell’intelletto della parola. Sta scritto: Dio, nel mondo elegge i semplici per umiliare i potenti. E da che è mondo, Iddio scelse non i filosofi e gli oratori, ma gli illetterati e gli indotti»[628]. In questa audace maniera, Roma, nel secolo decimo, si confessava qual era; la Chiesa romana, senza arrossirne, faceva professione della sua ignoranza nelle umane scienze, anzi del suo disprezzo per la filosofia: con tutta compostezza rinnegava san Paolo, l’erudito dottore delle genti, e mostrava che le chiavi del cielo erano podestà di san Pietro, ignorante pescatore: così, le dotte armi dei culti Vescovi di Gallia e di Germania si spezzavano all’urto del marmo di san Pietro, rozzo sì, ma saldo come rupe.
[605]
Insieme coi monasteri di Roma, entro ai quali i Benedettini avevano, per un tratto di tempo, coltivato le scienze, decaddero eziandio le scuole. Quantunque ancora durasse in vita, doveva esser discesa assai in basso anche quella scuola di canto posta presso al Laterano, la quale, da dopo di Gregorio magno, poteva considerarsi che in Roma fosse università unica, dove essenzialmente si attendeva alla cultura della mente. Perite erano le biblioteche, i frati dispersi, o, se v’erano, non lavoravano più; e se pur fra loro trovavasi taluno di letterato, il difetto di carta rendeva difficile l’opera del copiare. Dopochè l’Egitto, patria antica del papiro, era caduto in mano degli Arabi, Italia aveva sopportato grande penuria di carta, ed a questa circostanza, il Muratori, con buona ragione, attribuisce una parte della barbarie intellettuale del secolo decimo. Il comporre codici costava a esorbitanza[629]; laonde in tutta Italia si profittava di altri già scritti in pergamena; se ne raschiavano i caratteri primitivi per tornarvi a scrivere; ed è a questi palinsesti che noi tanto spesso abbiamo dovuto la perdita e la ricuperazione di molte opere dell’antichità. Il frate ignorante raschiava i libri di Livio, di Cicerone, di Aristotele, e sulle carte, da cui s’era cancellata la vecchia sapienza, trascriveva antifonarî o [606] storie di Santi. Così, i codici degli antichi si trasformavano parimente come i loro templi; la dea che aveva abitato una magione magnifica di colonnati, ne sloggiava per cedere il posto ad un Martire; le idee divine di Platone dovevano sbrattare della pergamena, per far largo ad un messale. Però, non udiamo che in Roma a quel tempo esistessero biblioteche, nè che vi fervesse operosità di copisti; in Germania ed in Francia con fatica indicibile si raccoglievano biblioteche; in Roma si sperdevano i codici[630].
Il clero rozzo restringeva la sua dottrina alla intelligenza del Simbolo, del Vangelo e delle Epistole, se pur, massime, avrà saputo leggerli e decifrarli. Le matematiche, l’astronomia, la fisica non davano segno di vita, e la cultura classica si raggomitolava nel rachitico concetto della «grammatica.» Un’età, le cui scritture non erano altro che una continua storpiatura delle regole grammaticali, e la cui stessa lingua volgare sorgeva dalla dissoluzione completa di tutte le leggi del latino, sentiva per verità bisogno, in altissimo grado, di quella scienza. Anche in Roma essa aveva allora insegnamento, chè talvolta ci avveniamo nel titolo di [607] «Grammaticus», ond’era fregiato Leone VIII[631]. La instabilità di tutte le cose, le continue guerre di fazioni, i rivolgimenti, non permettevano che in Roma prosperassero istituti di lettere, sempre dato che a cura di essi si pensasse. Per lo contrario, non si può dubitare che una scuola romana di diritto durasse anche in questo periodo, nel quale la lex romana conseguiva novello splendore, ed al giudice romano con ceremonia solenne si affidava il Codice di Giustiniano, affinchè con esso giudicasse Roma, il Transtevere e l’orbe delle terre. Tuttavolta, quantunque la Graphia descriva minuziosamente quella ed altre formalità della corte di Ottone, e parli di eunuchi, di musicanti, di cavalieri e di parecchie specie di officiali di corte, non fa motto di dottori di leggi, come non ne fa di scolastici e di grammatici. Essa, invece, fa menzione del teatro, come di magnificenza, che alla corte non poteva mancare.
Il gusto dei sollazzi teatrali, che un tempo aveva avuto in Roma tanto grande dominio, cominciò (ed è cosa degna di considerazione) a rivivere nell’età dei Carolingi, per via delle feste cristiane. I giuochi scenici, condannati dalla Chiesa come invenzione del diavolo, s’erano conservati in tutti i paesi. Terenzio era noto dappertutto, dove la classica antichità aveva culto; e Rosvita [608] di Gandersheim scriveva i suoi drammi latini, ossiano «Moralità», precisamente allo scopo di torre il pagano Terenzio dalle mani delle monache. Ancora oggidì, la Vaticana possiede, celebrato tesoro suo, un codice di Terenzio del secolo nono, le cui miniature grandemente espressive ed imitate dall’arte classica, rappresentano scene tratte dalle commedie di quel Poeta: però, lo scrittore del codice, Rodgario, com’egli appella sè medesimo, manifesta origine non di Roma, ma di Francia, dove può darsi che quell’opera si componesse. È cosa di fatto che, al secolo decimo, si davano rappresentazioni teatrali nell’Italia settentrionale. In quell’età, nella quale tante espressioni greche venivano in uso, gli attori avevano nome di «Thymelici», perlochè la Thymele antica della scena di Sofocle e di Euripide, in un tempo tardo e barbarico che non aveva più contezza de’ tragici, prestava il suo nome ai commedianti. Attone di Vercelli biasimava la vaghezza che i preti avevano per le scene teatrali, e gli ammoniva di levarsi di mensa non appena che entrassero i Thymelici: per tal guisa egli ci ammaestra, che, alla stessa maniera dei banchetti antichi, usavasi spassare i convitati con giuochi di mimi, e ci informa che nelle feste nuziali si davano rappresentazioni teatrali: massimamente poi egli ne fa conoscere che di cosiffatti spettacoli era costumanza, e che specialmente darne si soleva nella ottava di Pasqua[632]. I fatti della Passione ed altre storie bibliche [609] si recitavano in tutti i paesi durante la settimana di Pasqua, e, senza dubbio, erano conditi di sali burleschi a gusto del popolo; ma, oltre ad essi, in occasioni solenni, si rappresentavano anche spettacoli di argomento profano. Poichè si può dare dimostrazione che, a questo tempo, erano di voga nell’Italia settentrionale, giova credere alla possibilità che essi lo fossero anche in Roma. Per verità dubitiamo che ivi si recitassero commedie di Terenzio e di Plauto; e forse la vicinanza delle case dei Santi avrebbe impedito che ciò avvenisse (anche come lusso di corte) nel palazzo di Ottone III. Non udiamo parola di giuochi dell’anfiteatro, nè delle cacce di animali, rinnovate in tempi più tardi; e dei gladiatori e dei venatores durava la ricordanza soltanto come di cosa antica. Tuttavolta in Roma v’erano, senza dubbio, mimi, cantori, danzatori e comici; e noi pensiamo che essi, non soltanto dessero rappresentazioni in chiese e in palazzi; ma tal fiata lo facessero anche dentro del Colosseo, o nelle ruine di qualche teatro, come sogliono fare anche oggidì nell’arena di Verona, o nel mausoleo di Augusto a Roma. La Graphia ha dedicato due paragrafi ai sollazzi teatrali, e quelle sue considerazioni sugli spettacoli di Roma sono le sole in cui ci si incontri, da Cassiodoro in poi. Poeti, comedianti, tragici, [610] scena, orchestra, istrioni, saltatori e gladiatori, tutto questo vi si registra; e l’espressione di «Thymelici», allora veramente venuta in uso, dimostra, per lo meno, che quello onde parla la Graphia era qualche cosa più che ricordanza di antiquario[633]. Nè opinione troppo temeraria affermiamo se diciamo che alle corti di Ugo, di Marozia e di Alberico si rappresentavano scene mitologiche: allorquando Giovanni XII, con capriccio faceto, faceva brindisi a Venere e ad Apollo, può darsi che la sua fantasia si fosse accesa in aver visto dei comici, a qualche festa nel Laterano, rappresentare di quelle persone pagane.
Per ciò che concerneva la letteratura classica, i Romani avevano sempre, se non altro, il vantaggio che quella era vecchia proprietà di loro, e che la lingua volgare ad essi ne agevolava l’intelligenza. Mentre la cognizione degli antichi, in Francia e, massime, in Alemagna, era conquista laboriosa dei soli addottrinati, ed il popolo non vi prendeva parte alcuna, ai Romani del secolo decimo invece non costava sforzi ancor troppo gravi l’intendere la lingua degli avi, se [611] anche il senso ne era divenuto difficile alle loro menti. Le scritture e i documenti del secolo decimo dimostrano per fermo che il linguaggio volgare aveva fatto un gran passo innanzi verso la formazione dell’idioma italiano, e financo, per la prima volta, troviamo in Roma fatta menzione del volgare, come di vera lingua posta accanto al latino. La inscrizione funeraria di Gregorio V celebra di lui, che sapeva in tre lingue ammaestrare alla pietà i popoli, in tedesco, in latino ed in volgare, ossia in italiano[634]. La lingua volgare era divenuta universale; la parlavano anche i dotti, e sembra che Giovanni XII, da ottimate romano, non sapesse esprimersi per bene che in italiano. Il latino spariva dall’uso; rimaneva soltanto lingua del culto, delle lettere [612] e della giurisprudenza; e i pochi scrittori di quella età lottavano faticosamente contro il volgare, che traeva in errore la loro penna, perciocchè avesse tanto prossima attenenza col latino[635]. Giusto per questo, la intelligenza dei poeti antichi riusciva tanto facile agli Italiani, laonde, sebbene Orazio, Virgilio e Stazio non si recitassero più nel foro di Trajano, i grammatici gli spiegavano nelle loro scuole, per quanto queste povere fossero.
Dopochè, sotto ai Carolingi, le scienze erano risorte, la cognizione dei poeti antichi divenuta era elemento indispensabile della cultura letteraria, e le scuole fondate, eziandio in Italia, da quei Principi, davano a cotale studio sostegno. Sulla fine del secolo decimo un caso stranissimo occorso a Ravenna destava gran chiasso, e dimostrava il fervore con cui alcuni uomini attendevano a siffatta scienza. Vilgardo, scolastico, s’era innamorato con tanto ardore di Virgilio, di Orazio e di Giovenale, che questi poeti ei vedeva in sogno comparirgli e promettergli vita immortale: e poichè proclamava che le loro dottrine avevano la forza di tanti articoli di fede, veniva accusato di paganesimo e citato davanti al tribunale ecclesiastico. Germania era assai addentro in cotali studî eleganti. Per verità, Ottone I parlava appena il latino, ma il figliuolo e il nepote di lui conoscevano a fondo la letteratura antica; e l’arcivescovo Brunone, fratello [613] suo, un Mecenate sassone, rinnovava benanco la scuola palatina di Carlo, e raccoglieva altresì grammatici greci intorno a sè. Fra le donne di Roma una sola, Imiza, ci apparisce essere stata matrona culta di quel tempo, perciocchè troviamo alcune lettere di Gerberto indiritte a lei; ma le dame più illustri erano literae nesciae, non sapevano di scritto; laddove in Alemagna, la bella Edvige di Svevia, in compagnia di Eccardo monaco, leggeva Virgilio ed Orazio. Nelle scuole delle monache di Gardersheim e di Quedlinburg nobili fanciulle erano annoiate dai loro educatori collo studio dei classici, che ad esse riuscivano inintelligibili, e, mentre loro restava ignota la storia e la geografia della loro terra patria, le si faceva domestiche colle più favolose confinazioni d’Italia, insegnate sulla fede di Virgilio. Rosvita, monaca tedesca, scriveva versi epici e drammi in latino; e Adelaide e Teofania, per classica cultura, potevano misurarsi con Amalasunta, regina dei Goti, o con Adelberga, principessa longobarda. Per tal guisa Roma dalla sua famigliarità colla lingua classica non ritraeva profitto alcuno, e la società romana stavasi molto al di sotto della cultura di Germania e di Francia. In quello che Ottone III si proponeva di restaurare l’impero del filosofo Marco Aurelio i Romani credevano che la statua equestre di questo Principe rappresentasse un contadino che, in antico, aveva sorpreso e imprigionato un Re, mentre questi badava ai bisogni del ventre. Però, se il favoleggiare è sempre privilegio poetico del popolo ignorante, la storia della letteratura deve scagliare a buon diritto le sue accuse contro la zotichezza di Roma, perocchè quella dimostri che, in tutto il secolo [614] decimo, nessun uomo d’ingegno letterario emerge in mezzo ai Romani[636].
In Lombardia splendevano alcuni insigni stranieri, come era Raterio di Verona, un errante Liegese che doveva la sua educazione alla scuola monastica di Laubes, o vi tenevano luogo ragguardevole uomini longobardi, fra i quali erano, ad esempio, Attone di Vercelli, il Panegirista di Berengario e Liudprando di Cremona. Danno tutti prova di una dottrina scolastica e pedantesca, e le loro prose e le loro poesie sono adorne di frammenti di classici, che, incastonati ivi dentro, fanno lo stesso effetto delle cornici e delle colonne, allogate ad innesto nelle chiese e nei palazzi del medio evo. I medesimi caratteri scoprimmo già in Giovanni Diacono, biografo di Gregorio, e li troviamo eziandio in alcuni scrittori romani del secolo decimo: pari natura di quella che è visibile nell’Impero di Ottone III, il quale avidamente accoglieva titoli, abiti, idee, brandelli dell’Impero romano, e gli innetteva nel suo Stato medioevale, dove avevano l’apparenza di piastricci classici appiccicati, che conservavano pur sempre indole straniera all’ordine nuovo delle cose. Il vestimento di cui si copriva quel tempo, era di panni rozzi, abbelliti di galloni e di disegni antichi. Da dopo di Carlo si andavano adoperando, con fervore [615] passionato, citazioni di frasi di Virgilio o di Stazio; e l’arte di verseggiare, a’ tempi dell’Apologista di Berengario, era diventata così comune, che nell’esordio del suo poema quegli domanda venia di comporlo, sebbene nessuno a quei suoi giorni vada più a cerca di poesie, se già gli stessi uomini rustici dettino versi al paro che i cittadini[637]. Tuttavolta, in Roma, adesso come già prima, non si coprivano di distici che le urne dei morti o le porte e le tribune delle chiese; in mezzo a quelli molti ne troviamo di orrendamente barbarici, di gonfî, di esagerati; pochi di mediocri, come segnatamente sono gli epitaffî che si riferiscono ai Crescenzî. Dappertutto si scorge la tendenza alla copia, alla fioritura; e il concetto del pensiero è rozzo, pesante, e misticamente oscuro come quella età. Probabilmente, autori di siffatti versi erano allora laici ossiano grammatici, anzichè monaci.
Il lume della cultura umana però non può spegnersi più. Non la caduta dell’Impero romano, non la [616] ripetuta devastazione portata da’ Barbari migranti, non il primo furore pio del Cristianesimo, hanno potuto estinguere il fuoco sacro di Grecia. Talvolta, la cultura sembra scorrere attraverso canali sotterranei, celati sotto il piano della storia, ma alla fine, allorchè meno sel suppone, essa appare in un luogo o nell’altro alla luce del giorno, e, fattasi manifesta a guisa di fonte che spruzza con alto getto, abbevera, un dopo l’altro, una moltitudine di intelletti. Quando più pareva che il lavorio di Carlo, nell’ordine della cultura, si fosse sepolto sotto di una barbarie nuova, la Germania e la remota Inghilterra si facevano, tutto ad un tratto, centri di nuova vita della scienza, e di Francia aveva origine la riformazione del monacato.
Lo stesso Odone di Cluny non fu un semplice santo, come era Romualdo; fu eziandio un erudito uomo, che a Reims aveva studiato filosofia, grammatica, musica e arte poetica. Perciò, lorquando riformò i conventi romani, ei dev’essersi anche preso sollecitudine di rinnovare la scienza ecclesiastica; avvegnachè studio e scuola sieno doveri del chiostro, che, insieme colla modestia claustrale, ottengono restaurazione. Per verità, non sappiamo che i Papi di quell’età promulgassero, in riferimento alle scuole conventuali e parrocchiali, dei decreti simili a quelli che Raterio e Attone bandivano per le terre lombarde; tuttavia, ci giova supporre che di cotali ne dessero i Papi migliori vissuti al tempo di Alberico. Lente, lente, le scienze tornavano ai conventi romani; e già vedemmo segnalarsene uno, posto sul monte Aventino, congregazione di monaci pii. Quei fanatici uomini, dai soprannomi di «Semplice» o di «Tacito», [617] invero non contraddicevano, per erudizione loro propria, all’audace apologia che, dal punto di vista del diritto divino di Roma, il loro abate, Leone il Semplice, faceva della ignoranza; nondimeno eglino influivano ad affrettare il tempo in cui sarebbe avvenuto, che i monaci attendessero a più serie occupazioni.
Negli ultimi trent’anni del secolo decimo si squarcia omai la tenebra spaventosa di Roma. Un uomo tedesco ed un francese pongono termine finalmente alla serie oscura dei Papi di quel periodo, e mondano il Laterano dalla barbarie accumulatavi da lungo tempo. Se l’erudito Gregorio V avesse regnato più a lungo e con maggior quiete, egli avrebbe indiritto le sue riforme anche alla cultura scientifica: ciò ancor meglio può dirsi di Silvestro II. Gerberto splende in Roma come una face solitaria in mezzo a notte buja; sembrò che i Romani, avvezzi per lungo tempo all’oscurità, restassero abbarbagliati della sua luce. Pertanto, cosa abbastanza sorprendente, il secolo della massima ignoranza si chiude con uno splendidissimo genio, con quello stesso Silvestro che, da profeta, spalanca le porte del secolo undecimo, vaticinando le crociate. Roma, per fermo, non ha altro onore che quello di avergli servito, durante alcuni torbidi anni, da sede dei suoi studî, i quali nella Città non trovarono accordo di eco alcuna. Infatti, quel savio visse da solitario in Roma, là dove non capivasi iota delle matematiche e dell’algebra, da lui apparate nelle Spagne arabe; dove l’astronomia e le fisiche non avevano maestri nè discepoli; dove la dialettica si restringeva a qualche esercitazione di grammatica. Lorquando i Romani avranno mirato il loro vecchio Pontefice, che da [618] una torre del Laterano, fatta sua specula, contemplava le stelle, o quando lo avranno veduto nelle sue stanze, circondato da pergamene, inteso a tracciare figure geometriche, o ad abbozzare di sua mano un orologio solare, od a studiare sopra una sfera astronomica cerchiata di cuoio di cavallo, i Romani, forse fin d’allora, avranno creduto che egli stesse a patto col diavolo[638]. Sembrava che un novello Tolomeo portasse la tiara, e la persona di Silvestro II, come quella di un dottore Faust, è omai indice di un periodo novello del medio evo, del periodo scolastico, che sgombra a Platone e ad Aristotele una signoria nuova.
Silvestro però conseguì intelligenza della filosofia greca (ed è cosa che può tornare ad onoranza di Roma), per la mediazione di uno fra gli ultimi Romani. Quando dicemmo dell’età dei Goti, descrivemmo la vita e la morte di Boezio; ora, dopo un cinquecento anni, la sua persona si solleva come un’ombra dal sepolcro, e ci ricompare davanti, a mostrarci che i posteri segnarono con lui l’ottima delle conciliazioni, avvegnachè le opere sue abbiano meditato, e ne abbiano ricavato sempre ammaestramento. Lo studio di esse s’era ridestato nella età dei Carolingi; il suo libro «della Consolazione della filosofia» [619] correva per le mani di tutti; le sue traduzioni ed i suoi compendî di scrittore di Aristotele e di Platone erano ancor lette; e quelli, al paro delle sue versioni di Archimede, di Euclide, e di Nicomaco, matematici greci, avevano valso ad acquistargli, presso Silvestro, massima reverenza. In mezzo alla tenebra del secolo decimo Boezio risplendeva come stella di grandezza prima; lo si studiava con fervore pari a quello, onde applicavasi la mente alle opere di Terenzio o di Virgilio. Perfino si ravvisa che all’esemplare della «Consolazione» Liudprando modellava le sue scritture, avvegnachè questi, al paro dell’antico Romano, sia vago di mescolare dei versi nella sua prosa: Alfredo il grande volgarizzò il libro «della Consolazione» in anglo-sassone; ancor più tardi Tommaso d’Aquino ne scrisse un commento; e lo sventurato filosofo, ultimo dei Romani, continuò ad essere maestro e conforto di tutto il medio evo. L’intelletto versatile di Silvestro riuniva, al paro di Boezio, l’ingegno del teologo, del matematico, del musicante, del filosofo e del poeta; perciò egli onorò il suo maestro dedicandogli una poesia laudatoria; ed è degno di nota a sapersi, che l’invito gliene venne fatto da Ottone III. Quello stesso Imperatore, il quale con fede superstiziosa toglieva da Benevento il cadavere di Bartolomeo, e devotamente seppelliva a Roma, nella sua basilica, un braccio di Adalberto, erigeva al filosofo Boezio un monumento di marmo in Pavia: per esso sembra che Gerberto abbia scritto quella poesia pregiabile assai[639].
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La città di Roma non può vantare che sieno parti suoi quei versi, nè gli scritti matematici, teologici e filosofici di Gerberto; però, il secolo decimo non è affatto sprovveduto di componimenti. Valore letterario essi non hanno, ma, come documenti di quest’epoca oscura, sono preziosi, e di molte notizie lo Storico va a loro debitore. La storiografia italiana, anche nel secolo decimo, dava vita ad alcune opere; nell’Italia settentrionale Liudprando scriveva i suoi libri coloriti di tinte poetiche; Venezia componeva la sua storia antichissima, opera pregevole del diacono Giovanni, ministro di Pier Orseolo II; nella Campania si compilava quella Continuazione della Storia dei Longobardi di Paolo Diacono, che va conosciuta sotto nome di Cronica dell’Anonimo Salernitano. Anche in Roma, e nelle sue vicinanze, avevano origine alcuni scritti storici. Una Cronica vera, nei tempi ottoniani, dettava Benedetto dal suo convento di santo Andrea sul monte Soratte. Il frate ignorante era sedotto a farlo dall’esempio di quei Cronisti nella cui lettura s’era immerso, e tanto più fortemente lo era, dacchè vedeva agitarsi innanzi a’ suoi proprî occhi [621] tanto bollore di avvenimenti: perciò intese a comporre una Cronica universale, di cui compilò la prima parte raccogliendone le notizie da altre scritture parecchie, sia che la biblioteca del suo convento gli offerisse opportunità di consultare Anastasio, Beda, Paolo Diacono, Eginardo ed alcuni Cronisti di Alemagna e d’Italia, sia che altrimenti egli ne leggesse i libri a Farfa ed a Roma. Pei tempi vicini a lui egli si giovò non soltanto della continuazione di Anastasio, ma eziandio di tutte quelle narrazioni che erano giunte al suo orecchio, avvegnaddio di pochi fatti egli fosse stato testimonio di veduta. Anche là dove scrive da contemporaneo i suoi racconti hanno un valore dubbioso, e per certo sono spesso attinti a fonti non pure; tuttavolta deploriamo che egli non abbia descritto i casi della caduta di Crescenzio. Se mancanza assoluta di conseguenza logica di pensiero e bruttezza orrenda di lingua possano a buona ragione essere tenuti a indici della barbarie più profonda, la Cronica di Benedetto fa prova dell’estremo decadimento, cui era potuto giungere l’idioma di Cesare e di Cicerone. Per somiglianza di stile, assai presso gli vengono soltanto la Cronica del prete Andrea da Bergamo, compilazione del secolo nono, e carte molte di questa età; però delle centinaja di documenti che noi abbiamo letto pochi giungono a quell’eccesso di barbarismi che in Benedetto si trova. La lingua volgare d’Italia sorse essenzialmente da ciò, che si abbandonarono le desinenze latine dei verbi e dei casi, onde ebbe nascimento l’articolo, non già per imitazione della lingua germanica, ma per necessità intrinseca; chè, senza di esso, i casi non avrebbero potuto distinguersi [622] più. Se Benedetto avesse scritto italianamente sì come avrà egli parlato, il suo libro sarebbe diventato un monumento preziosissimo della lingua volgare di quell’età; ma egli volle invece scriver latino, e perciò compose un’assurda sconciatura. Pertanto, al filologo che investiga le origini della lingua italiana la sua Cronica presta minor servigio di quello che facciano altre scritture, massime documenti di quel tempo; ad ogni modo, essa saprà dargli ammaestramento, che le leggi della lingua si associano nel modo più intimo con quelle del pensiero, e che la ruina delle une partorisce quella delle altre. La lingua latina, divenuta sforzo di arte (sì come esser doveva in Benedetto), ricadeva quasi in forme puerili; somiglia a quei busti conservati in Campidoglio, che sono opere dell’ultimo tempo imperiale di Roma, quando la statuaria non era dappiù che arte di vasajo; o somiglia a quelle sculture ornamentali di chiese cristiane, che sono opere del secolo decimo e dell’undecimo, nelle quali ogni foglia ed ogni figura ha perduto il suo contorno naturale, parimente come la parola latina aveva perduto la sua flessione.
Benedetto fece suo pro del trattato di un suo contemporaneo, partigiano dell’Impero, che è intitolato: «Della podestà imperatoria nella città di Roma». Questo scritto mirabile di piccola mole, celebra con gran fervore l’Imperium dei Carolingi, mostra qual fosse la loro podestà imperatoria su di Roma, e lamenta il suo decadimento avvenuto colla coronazione di Carlo il Calvo. L’Autore cade in parecchi errori là dove parla delle condizioni di Roma a’ tempi prima di Carlo magno, ed anche altrove desta dubbiezze parecchie. Barbarica [623] è la composizione scucita dei concetti, però, come lingua, può leggersi: difficile cosa è che l’autor suo fosse uomo romano; piuttosto era longobardo, e forse scriveva dal convento imperiale di Farfa o dal monte Soratte, ancor prima che l’Impero fosse rinnovato da Ottone I[640]. Se mai abbia avuto origine in Farfa, ben è la sola opera di cui questo chiostro, ridotto a così grave disordine, possa far mostra in tutto il secolo decimo; soltanto dopo che l’ordine vi sarà restaurato nell’undecimo, noi ne loderemo le cure date da Ugo abate alle lettere, e la grande operosità di frate Gregorio di Catina.
In Roma la storiografia s’era fatta muta. Alla fine del secolo nono vedemmo che Giovanni scriveva della vita di Gregorio I, e trovammo che Anastasio traduceva scrittori greci e raccoglieva le Vitae Paparum, che da lui hanno nome. A que’ due lavori corrispondono, nel secolo decimo, alcune scritture più fiacche di simil genere. Il prezioso «Libro Pontificale», il quale, nella forma che ci è nota, termina colla Biografia di Stefano V, ebbe chi vi diede in Roma continuazione. Nel modo istesso con cui quella grande collezione aveva avuto origine da notizie raccolte in calendarî e in annali, parimente formavansi brevi Tavole dei Papi di quell’arida età, e vanno sotto nome di Cataloghi. Si conservarono in manoscritti parecchi; la lingua ne è barbarica, e la loro compilazione non contiene vestigia di senso storico. [624] Poichè non v’era più a dire cosa alcuna di edificî e di doni votivi, quelle compilazioni non facevano che registrare brevemente i nomi, la stirpe e il tempo di governo dei Papi, aggiungendovi scarsissimi appunti di singoli avvenimenti. Nulla dimostra sì chiaramente la barbarie in cui era caduta Roma nel secolo decimo più di quello che lo faccia questa Continuazione del celebre «Libro Pontificale», il quale ora ritorna alla scarsità dei suoi primi incominciamenti[641].
Alla Biografia di Gregorio fa riscontro adesso quella di santo Adalberto. Tosto dopo la morte di lui un monaco del convento di san Bonifacio scriveva, per desiderio di Ottone, la vita del Martire: si crede che autore di quel libricciuolo sia stato l’abate Giovanni Cannapario; e di tal maniera l’opera letteraria più importante che si componesse in Roma nel secolo decimo è la Biografia di un Santo slavo. La scrittura non ha fiore di mente storica, ma è opportuna a dar contezza di quell’età, avvegnaddio al suo compilatore fossero conosciuti gli uomini che allora andavano per la maggiore. Anch’egli si mostra compreso delle idee che Ottone III accoglieva sulla grandezza di Roma, e nel fervore del suo còmpito, s’eleva talvolta a voli arditi, come aveva fatto Giovanni Diacono, nella Vita di Gregorio. Di Giovanni, lo scrittore per fermo non eguaglia il sapere; tuttavolta la sua lingua non è cattiva, e sebbene spesso si travolga [625] in ampollosità bibliche, essa la vince di gran lunga sulla prolissità fraseggiante di santo Brunone di Querfurt, il quale, nell’anno 1004, ampliò quella medesima Biografia di Adalberto[642].
Sollecitudine maggiore che tutte quelle scritture desta in noi una specie di letteratura, la quale, dapprincipio ebbe origine locale in Roma, e proprietà sua rimase anche dopo, sebbene pur vi prendessero parte scrittori stranieri: vogliamo dire dei libri che prendono a còmpito di descrivere i monumenti, i santuarî e la grande antichità della Città. Lorquando i pellegrini venivano nell’eterna, nell’aurea Roma, eglino trovavano, nelle Scuole degli stranieri, alcuni uomini del loro paese che facevano ad essi da condottieri, attraverso quel mondo enigmatico di meraviglie, dove antico era omai diventato eziandio il Cristianesimo: oltracciò, non difettavano nemmeno di libri di notizie, che loro servivano, con brevi appunti, di guida. Alcuni pellegrini, franchi o tedeschi, appo i quali, da dopo di Alcuino, s’erano risvegliati l’amore e lo studio delle antichità romane, incominciarono a fare osservazione di Roma coll’occhio dell’antiquario e dello [626] storico; compilarono registri delle cose della Città, degne a vedersi, e li diffusero poi nelle loro terre settentrionali. Siffatte Descrizioni furono i precursori delle odierne «Guide» di Roma, e parimenti come si vedono oggidì forestieri di tutte le nazioni andarvi all’ingiro, tenendo in mano di quei grossi volumi, così, nel medio evo, miravansi i pellegrini avvolgersi per le vie di Roma, seguendo il filo di alcune scarse notizie, che erano scritte sopra piccolissimi fogli di pergamena. Quei «Regionarî», detti anche «Grafie» o «Mirabilia», non erano così estesi, nè così nojosi come sono le nostre «Guide»; e di buon grado noi permuteremmo per sempre queste con quelli, se ci fosse ancora concesso di vedere i molti monumenti, che ai nostri antenati ignoranti era dato di affisare.
Il duplice carattere della Città segnava la sua impronta su quelle scritture, perocchè in esse dovesse tenersi nota così di Roma antica, che di Roma cristiana. Di quella offerivano descrizione, nel maggior fondamento, la Notitia e il Curiosum; di questa, i Cataloghi delle «Stazioni», dei cimiteri, delle chiese, i quali del continuo erano compilati ad uso dei pellegrini. Vi si aggiungevano leggende di Santi o di chiese, tradizioni che ponevano Roma pagana in associazione col Cristianesimo, e vi si accumulavano benanco notizie della corte pontificia e di quella imperiale. Di tal guisa, poco a poco, ebbero origine le «Grafie» e i «Mirabilia» della città di Roma.
La letteratura descrittiva della Città, cresciuta oggidì tanto, che se ne potrebbero empiere gli scaffali di una biblioteca, cominciò (lo abbiamo veduto) cogli indici [627] officiali delle Regioni, dei quali ci siamo giovati per iscrivere del secolo quinto. Duranti quattro secoli interi dappoi non ci avvenimmo più in alcuna scrittura di questa specie, e, soltanto all’età di Carlo, insieme col risorgimento di Roma e della scienza classica, incominciarono ad aver vita nuova di quei registri. Un pellegrino, che forse fu discepolo di Alcuino, dettò degli appunti sui cimiteri e sulle chiese di Roma; ed un altro, sconosciuto di nome, compose quelle notizie che vanno sotto il titolo dell’Anonimo di Einsiedeln: in questo convento trovolle il Mabillon, e, per primo, le publicò[643]. La loro compilazione rimonta alla fine del secolo ottavo od al principio del nono, prima che fosse edificata la città Leonina. In un paio di fogli, scritti a due colonne, l’Anonimo vi registra, senza darne descrizione, i nomi dei monumenti, che potevano vedersi dalla destra e dalla sinistra mano di chi percorreva le vie della Città fino alle porte; e v’aggiunge ottanta epigrafi trascritte da monumenti e da chiese, anche fuori di Roma. Con ciò ha incominciamento la scienza della epigrafia; e questa prima e breve collezione di inscrizioni antiche, opera di un culto pellegrino nordico, rimane, fino ai primi anni del secolo decimoquinto, la sola di cui abbiamo contezza[644]. I «Regionarî» antichi prendevano nota soltanto [628] di Roma pagana, ma l’Anonimo registra e gli edificî antichi e quelli cristiani, e così traccia, in un contorno topografico, i caratteri che si aveva la Città a’ tempi di Carlo magno. Da uomo erudito, attribuisce tuttavia ai monumenti i nomi usati dalla Notitia, e perfino disdegna di dire Colisaeus a vece di Amphiteathrum; peraltro denota alcune ruine colla voce popolare di Palatium, sebbene di palazzi non fossero ruderi[645]. Parimente, nelle inscrizioni, all’arco di Tito dà nome di VII Lucernarum, onde il popolo lo aveva battezzato dalla figura scolpitavi del candelabro a sette braccia. L’Anonimo vide e tenne conto della massima parte delle terme, di cui erano tuttavia grandiosi gli avanzi; al foro Romano ed a quello di Trajano impone egli i loro veri nomi, ma gli altri sorpassa in silenzio. Vide ancora il circo Flaminio e quello Massimo ed il teatro di Pompeo; presso il Campidoglio registrò tuttavia [629] la inscrizione della statua equestre di Costantino, nè gli scappò d’occhio, senza notarlo, l’Umbilicus Romae. Passeggiò ancora sotto i portici a colonnami della via Lata; vide l’acquedotto della Vergine e quello di Claudio, il Nymphaeum Alexandri, ed il Septizonium, e ne fece avvertenza coi loro nomi che ancor perduravano; scrisse a taccuino i nomi antichi di porte e di vie, e da un registro officiale desunse il numero di tutte le torri, dei merli, delle porte di sortita e delle feritoie, che v’avevano nelle restaurate mura di Aureliano[646]. In lui orma non v’ha di favole, e quel secco Catalogo ci palesa che il suo compilatore era uno scolastico erudito, cui la Notitia era ben conosciuta. Oltre a questa, dovettero servire di base al suo lavoro altri elementi officiali, che papa Adriano, od altrimenti Leone III, aveva fatto molto probabilmente raccogliere. Forse, fin d’allora eransi compilati dei piani, ossiano delle carte topografiche della Città, sui quali può darsi che venissero tracciate le vie principali ed i monumenti maggiori; se non si fossero compiuti di simiglianti studî, non sapremmo per lo meno comprendere come si avesse potuto comporre quelle mense preziose, fregiate dei disegni di Roma e di Costantinopoli, che Carlo magno aveva ricevuto in dono, probabilmente dal Papa e da Irene imperatrice. Ove non avesse avuto soccorso di siffatti documenti officiali, un pellegrino nordico, massimamente, non avrebbe potuto conoscere e descrivere Roma; nè è difficile che, oltre [630] a quelli, lo sovvenisse di ajuto qualche grammatico romano, di mezzana sapienza[647].
Frattanto, la tradizione, genio leggiadro che incomincia a porre sua stanza nei monumenti appena che diventano deserti, aveva già da lungo tempo tessute le sue fila attorno alle meraviglie di Roma, e divulgato fra il popolo molte istorie e molti nomi. Ogni dì più che i Romani si dilungavano dall’antichità, tanto più affaccendata era la tradizione a coprire del suo velo i monumenti pagani, in quello che la leggenda operava similmente colle chiese cristiane. Entrambi, muse del popolo, sono sorelle gemelle; e la duplice natura di Roma spesso le congiunge in meravigliosa associazione. Intorno al mille molte tradizioni locali dovevano omai essersi raffermate in Roma, laonde non stemmo dubbiosi di considerare la tradizione del «Cavallo di marmo» e quella del «Caballus» di Marco Aurelio, come appartenenti a questa età. Un’altra favola può dar prova, che nel secolo decimo, anzi ancor prima, s’erano composte molte di quelle tradizioni, che noi troviamo registrate nei Mirabilia, compilati più tardi. L’Anonimo di Salerno, che scrisse intorno al 980, narra che gli antichi Romani avevano eretto nel Campidoglio settanta statue di bronzo, in onore [631] dei popoli tutti. A ciascuna di esse, dic’egli, si era inscritto sul petto il nome del popolo che rappresentava, ed a ciascuna s’era appeso al collo un campanello: dì e notte i sacerdoti, dandosi il cambio, ne vegliavano a guardia. Quando si ribellava una provincia dell’Impero la statua si agitava tutta, il campanello sonava e i preti ne davano avvertimento all’Imperatore. Però, il Cronista racconta che, da tempo, quelle statue erano state trasportate a Bisanzio, e che Alessandro, figlio di Basilio imperatore e fratello di Leone il Savio, le aveva fatte vestire di abiti di seta in segno di venerazione; perlochè, una notte, san Pietro gli compariva innanzi, e con gran collera gli diceva: «Principe dei Romani son io!» Al mattino dopo l’Imperatore era morto[648].
[632]
Meravigliosa cosa è questo nesso che intercede fra una tradizione locale di Roma e la cronologia bizantina; tuttavolta questa favola istessa ricompare, senza riferimento a Bisanzio, in una Descrizione della città di Roma, in quello che si vuol dare chiarimento dell’edificazione del Panteon. Eccone la narrazione: A’ tempi in cui Agrippa, prefetto dell’Impero romano, aveva soggiogato Svevi, Sassoni ed altri popoli occidentali, ed era ritornato in patria, squillò il campanello che pendeva dalla statua dell’Impero persiano: era questa collocata nel tempio di Giove e della Moneta sul Campidoglio. I Senatori affidarono pertanto ad Agrippa l’incarico della guerra di Persia, ma egli chiese una dilazione di tre giorni. La terza notte, quando, dopo smaniare lungo di pensieri, aveva preso sonno, una donna gli apparve e disse: Che hai, Agrippa? tu sei in gran cure. Rispos’egli: Sì, o signora. Ed ella: Confortati, prometti di edificarmi un tempio come io ti mostrerò, ed io ti annuncierò se vincerai. Egli soggiunse: Lo farò, o signora. La donna gli mostrò in visione la forma di un tempio, ed egli le chiese: Signora, chi sei? Ed ella: Io sono Cibele, madre degli Dei; sacrifica a Nettuno dio del mare, ed egli ti ajuterà: fa consecrare ad onore di Nettuno e di me questo tempio, perocchè noi saremo con te, e vincerai. Agrippa s’alzò di letto tutto giulivo, e narrò la cosa al Senato, e partì con una grande armata [633] e con cinque legioni, e vinse tutti i Persiani, e li ridusse nuovamente sotto il tributo dei Romani. Reduce in patria, edificò il tempio, lo fece consecrare a Cibele, madre degli Dei, a Nettuno e a tutti i demonî, e gli impose nome di Panteon. Ad onoranza di questa Cibele ei fe’ fare una statua dorata, che collocò alla sommità del tempio, sopra il forame della cupola, e lo coperse di un mirabile tetto di bronzo dorato. Sulle cime poi del tempio venivano posti due tori di bronzo dorato[649].
Tale è la narrazione contenuta nel notevole libro intitolato Graphia aureae urbis Romae, ossia Descrizione dell’aurea città di Roma, che, nella serie di questa letteratura, succede per noi alle notizie di Einsiedeln. Può darsi che all’età degli Ottoni, e forse omai dal tempo di Alberico, avesse origine una nuova Descrizione della Città, e che, in corrispondenza alla restaurazione del dominio secolare di Roma, vi si tenesse nota soltanto dei monumenti pagani, nel tempo medesimo che, ad uso dei pellegrini, v’avevano libri che raccoglievano le notizie delle «Stazioni» delle chiese e dei cimiteri. Un qualche Scolastico, che aveva conoscenza degli antichi, componeva [634] un registro dei monumenti di Roma, e vi aggiungeva il racconto di tradizioni popolari. Egli non seguiva più la divisione regionale osservata dalla Notitia; e laddove l’Anonimo di Einsiedeln aveva conservato i vecchi nomi, quegli invece, tratto tratto, adoperava le appellazioni popolari, secondo la loro origine volgare. I significati di Palatium, di Templum, di Theatrum, di Circus, perdevano presso di lui la loro severa distinzione, chè allora il popolo chiamava con nome di Palatium tutte le grandi ruine dei templi ed i Fora, e di regola appellava Theatrum le ruine di terme e del Circo. Cotale Descrizione della Città, che or subentrava in vece della Notitia antica e del Curiosum, oppure che ampliava quelle due scritture, forse veniva compilata ancor prima del secolo decimo. A Benedetto di Soratte fu precisamente nota, avvegnachè egli abbia tratta la enumerazione delle torri e delle castella di Roma da una Descrizione della Città, che dev’essere stata la forma prima della Graphia[650]. [635] Però, sotto questo titolo, nel secolo decimoterzo una ne andò celebre, che è citata come libro «assai autentico» dal milanese Galvano Fiamma. Fu lungo tempo conosciuta nella biblioteca Laurenziana come codice del secolo decimoterzo o del decimoquarto, ma non se ne trasse profitto alcuno, e soltanto nell’anno 1850 venne data alle stampe[651]. Ebbe essa subìto, nel corso degli anni, parecchie revisioni, finchè ottenne la forma che si vede nel codice fiorentino. I due limiti estremi di tempo riconoscibili della sua compilazione sono l’età degli Ottoni e la prima metà del secolo duodecimo, perocchè vi sia fatta menzione del sepolcro di Anastasio IV, morto nell’anno 1154. Al tempo di Ottone II o a quello di Ottone III si fanno rimontare quei paragrafi aggiuntivi, che trattano delle ceremonie di corte, della nomina del Patrizio e del Giudice, e dell’accoglimento delle persone nella cittadinanza romana; e il titolo del libro corrisponde alla leggenda Aurea Roma, che di già al tempo di Ottone III era impressa sopra suggelli imperiali. Altresì, le nominazioni date ai monumenti la fanno risalire al tempo anteriore del grande incendio, che scoppiava durante la presa di Roma fatta da Roberto Guiscardo.
[636]
Sta nella natura di cotali libri che essi diano occasione di continue aggiunte; pertanto la Graphia contiene parti diverse che derivano da tempi varî. Essa incomincia narrando, secondo la tradizione, che Noè fondava, non lungi da Roma, una città appellata dal suo nome, e che Giano, figliuolo di lui, Japeto e Camese edificavano sul monte Palatino la città di Gianicolo, e nel Transtevere il palazzo Gianicolo[652]. Giano dimorava sul Palatino, e dappoi, con Nemrod ossia Saturno (evirato da Giove suo figlio), erigeva la città di Saturnia sul Campidoglio[653]. Indi, re Italo, coi Siracusani, costrusse, presso al fiume Albula o Tibris, la città di pari nome; ed altri Re, Hemiles, Tiberis, Evandro, Coriba, Glauco Enea, Aventino, altre città innalzarono, finchè, quattrocento trentatre anni dopo la caduta di Troja, nel giorno 17 di Aprile, Romolo le cinse tutte quante di muro, e vi diè nome di Roma: allora, non soltanto tutti gli Itali, ma quasi tutti i nobili uomini di tutto il mondo, vennero con loro donne e con loro fanciulli ad abitarvi[654]. Il nesso in cui si pone [637] il Noè dell’antico Testamento colla fondazione di Roma, dà prova della maestria di combinazioni che possiede la tradizione; del resto, non potremmo fare che inutili tentativi, se volessimo determinare il tempo in cui quella tradizione sia sorta. Più tardi, nei secoli decimoterzo e decimoquarto, libri parecchi andarono tessendo le favole della origine prima di Roma; ed ebbero vita il Liber Imperialis, il Rumuleon, la Fiorita d’Italia, la Historia Trojana et Romana. Queste tradizioni vennero massimamente in fiore allorchè le città italiche incominciarono a ottenere le loro libertà, chè ognuna bramò ornarsi del pregio di antiche genealogie[655].
Fra le tradizioni raccolte nella Graphia certo è una [638] delle più antiche quella della sepoltura di Giulio Cesare. Narravasi fra il popolo, che le sue ceneri fossero racchiuse nella palla d’oro collocata sulla cima dell’obelisco Vaticano. Con grande stupore si additava il pomo d’oro posto a quella sommità, cui nessun predone aveva saputo giunger mai; e si diceva ch’era guernito di gemme, e che recava scritto questo bell’epitaffio: «Cesare, grande fosti come il mondo; adesso ti chiude una tomba angusta». E raccontavasi che lo si aveva sepolto in quell’altezza, affinchè anche in morte gli restasse suddito il mondo, qualmente a lui, vivo, era stato. Perciò l’obelisco fu chiamato Memoria od anche Sepulcrum Caesaris, parimente come la tomba di Adriano appellavasi Memoria: e questa parola ha per Roma un grande significato, perocchè tutto ivi parlasse memorie. Così denotato, trovasi l’obelisco in una Bolla di Leone IX, dell’anno 1053, dove, nel tempo istesso, è chiamato eziandio Agulia, come anche oggidì in italiano si addomandano guglie gli obelischi. Tuttavia, può darsi che il nome di Agulia, da antichissimo tempo, si fosse tramutato nella bocca del popolo in quello di Julia, e che questo potesse indi dare origine a siffatta tradizione del grande Giulio Cesare, per guisa che qui dalla parola avesse derivazione il mito: e ciò tanto più a ragione, che sul basamento dell’obelisco leggevasi l’iscrizione Divo Caesari[656].
[639]
Fra le tradizioni locali, che sono registrate nella Graphia o nei Mirabilia, appena ve n’ha una (compresa altresì quella della Sibilla e di Ottaviano), che non possa essere sorta dapprima del mille; però noi preferiamo di dire di cotali tradizioni ai luoghi dove ce ne sarà offerta più acconcia opportunità[657].
[640]
È nostro intendimento di comporre una piccola «Grafia» di Roma, tale qual era nel secolo decimo: la vogliamo trarre non già da quei libri di favole, bensì da documenti; ma per verità riuscirà essa così irregolare, come lo sono i Mirabilia, avvegnaddio siamo privi di un condottiero che ci guidi attraverso il labirinto di Roma. Abbiamo tentato di abbozzare questa descrizione, seguendo la divisione delle Regioni, sennonchè, a comporla, i documenti non ci soccorsero che incompletamente. È cosa meravigliosa che continuamente rimanga visibile un ripartimento regionale, quando i sette distretti ecclesiastici sono scomparsi dal nostro sguardo; nondimeno, quello non s’accordava più allo scompartimento di Augusto, e può darsi che le alterazioni ne fossero avvenute in epoche parecchie. Nei secoli decimo e undecimo la città vera di Roma contava dodici Regioni; probabilmente il Transtevere formava la decimaterza. Erano denotate per numeri rispettivi, ma avevano eziandio un nome loro proprio.
Delle dodici Regioni, che emergono da documenti di Roma del secolo decimo e dell’undecimo non possiamo determinare il luogo in cui erano situate quelle X e XI[658].
[641]
La Regione I comprendeva l’Aventino, e per Marmorata e Ripa Graeca si stendeva giù fino al fiume; dai magazzini di granaglia che ivi erano aveva, anche adesso, nome di Horrea[659].
La Regione II racchiudeva il Celio e una parte del Palatino fino all’Aventino. Come compresi in essa sono registrati i IV Coronati, la Forma Claudia, il Circus Maximus, il Septizonium, e la Porta Metrovia o Metrobi, innanzi alla quale erano situati i prata Decii o Decenniae[660].
La Regione III si trova denotata dalla Porta Maggiore, dalla santa Croce, dall’Aqua Claudia (che scorreva attraverso due Regioni), dal convento di santo Vito e di santa Lucia Renati, dal santo Pastore, e dall’Arcus Pietatis. Comprendeva quindi alcuni luoghi, che avevano spettato alla Regione V di Augusto, detta Esquiliae[661].
[642]
La Regione IV è, in un documento, determinata dal Campus s. Agathae; forse fronteggiava con S. Agatha in Suburra (che faceva parte della Regione VII) e comprendeva il Quirinale e il Viminale[662].
Entro la Regione V si racchiudeva una parte del Campo di Marte: ed in essa erano situati il mausoleo di Augusto, la colonna Antonina, la via Lata, il san Silvestro in Capite, la Posterula s. Agathae al Tevere, ed eziandio il Pincio e la porta di san Valentino (del Popolo). Il suo territorio aveva nel tempo antico appartenuto in parte alla Regione IX, appellata Circus Flaminius, in parte alla Regione VII, detta Via Lata[663].
Della Regione VI parlano pochi documenti soltanto, e ne risulta che vi capivano i giardini di Sallustio e quel territorio che oggidì forma il quartiere di Trevi[664].
[643]
La VII Regione a quest’età viene denotata dalla S. Agatha super Suburram, dalla colonna di Trajano e dal Campus Kaloleonis che vi era confinante[665].
La Regione VIII nel secolo decimo appellavasi Sub Capitolio, come nei Cataloghi dei Papi parecchie volte è chiamata; per conseguenza il Forum Romanum antico aveva conservato il numero regionale onde era stato contrassegnato nel vecchio tempo.
La IX Regione era il distretto che raccoglieva dentro di sè il santo Eustachio, la Navona, il Panteon, le terme di Alessandro, il san Lorenzo in Lucina. Comprendeva il vero Campo di Marte, e quindi chiudeva nei suoi [644] confini l’antica Regione IX, detta Circus Flaminius, da cui avevano avuto origine due Regioni. Volle il caso che, propriamente per questa Regione del secolo decimo, si conservasse la maggior copia dei documenti: questi, assai di frequente ci tengono parola di un luogo appellato ad Scorticlarios o in Scorticlam, il quale dava il nome all’intiero distretto. Era esso il quartiere dei conciatori di cuoi; oggidì è situato presso il fiume, nella Regola, ma allora trovavasi posto in vicinanza alle terme di Alessandro, presso al Tevere[666].
In nessun documento di quella età incontrammo parola della Regione X e di quella XI; però la XII Regione compare in un Diploma, col nome antico di Piscina Publica, il quale pertanto non aveva subìto mutazione di sorta[667].
Parimente, come s’erano conservati i nomi della Via Lata, del Caput Africae e della Suburra, così altre vie [645] antiche dovevano essere ancora note in Roma; però la parte maggiore di esse era omai denominata da chiese, altre eranlo da monumenti notabili: lo abbiamo già veduto a proposito del Colosseo, del teatro di Marcello, e dei Colossi di marmo. Spesso, nei documenti, a esprimere le vie di Roma animate di maggior moto, si usa l’espressione Via publica o communis; e già nel secolo decimo esisteva una Via Pontificalis, la quale, passando dal Campo di Marte, conduceva al san Pietro[668]. Queste strade irregolari del primo medio evo, di cui alcune erano ancora le antiche, altre erano aperte in mezzo a cumuli di rottami ed a rovine, dovevano offrire una veduta tetra e bizzarra insieme. La tortuosità, la strettezza di esse e l’aspetto rozzo delle case ci avrebbero messo repugnanza, ma la pittoresca architettura ci avrebbe reso insieme meravigliati. Come nella massima parte è anche oggidì, ogni casa di Roma aveva un poggiuolo di pietra; porte e finestre erano arcuate a foggia romana; le cornici, rilevate a teste acute di mattoni; i tetti, il più di frequente, coperti di embrici di legno; le muraglie si componevano di terra cotta senza intonaco di calce. Di consueto, le case erano fornite di solaio, perlochè tanto sovente ci incontriamo nella espressione di casa solorata. Erano di uso universale, e si mantennero lungo tempo anche in Roma i vestiboli, che in tutta Italia si denotavano colla parola tedesca «Laubia», e posavano sopra pilastri o su colonne antiche. [646] Ei conviene oggidì andar girando per Transtevere, o nel quartiere chiamato «Pigna» e in quello detto «Parione», per farci un’idea degli ultimi avanzi di quella architettura medioevale. Non possediamo alcuna descrizione autentica di un palazzo romano quale allor fosse, e quella, casualmente conservataci, di un palazzo che esisteva a Spoleto, ci risospinge ai tempi antichi, o, per lo meno, all’età bizantina. Vi si distinguevano dodici parti, così appellate: il Proaulium ed il Salutatorium; il Consistorium, dove si radunavano i convitati prima del pranzo e dove si dava l’acqua alle mani; il Trichorus ossia sala da mangiare; lo Zetas hiemalis, camera riscaldata per l’inverno; lo Zetas estivalis, salotto fresco per l’estate; l’Epicastorium (meglio Epidicasterium), sala ove si trattavano i negozî: v’erano inoltre triclinii da più che tre letti, terme, un ginnasio o luogo destinato al giuoco, le cucine, il Columbum da cui si riversava l’acqua alle cucine, l’ippodromo, e gli Arcus deambulatorii, porticati a colonne, con cui era messo in comunicazione anche lo scrigno[669].
Sebbene divenuti irreconoscibili per causa di decadimento e di trasformazioni, può darsi che, ancora nel secolo decimo, si fossero conservati alcuni dei palazzi antichi, che avevano, un tempo, appartenuto alle ricche famiglie [647] dei Ceteghi, dei Massimi, dei Gracchi e degli Anicii. Ed invero, perchè mai non dovevano aver durato un cinquecento anni quelle case private, costruite di pietre inconsumabili, sì come s’era conservato un tempio od un arco trionfale? Altri palazzi, dalla forma di castella, erano sorti a nuovo, e sempre sulle fondamenta di edificî antichi. Se ci fosse dato di aver dinanzi agli occhi il palazzo di Marozia sull’Aventino, quello di Alberico presso ai santi Apostoli, la casa dei Crescenzî, il castello imperiale di Ottone III, ne vedremmo fabbriche costruite a muraglie di mattoni rossi, ornate in modo mirabile di mensole e di cornici antiche, e forate a finestre arcuate romane, con loro piccole colonne, parimente come ne offre un esemplare l’architettura della così detta «Casa di Crescenzio», la quale è il più vecchio edificio privato del medio evo che in Roma si conosca. I monumenti antichi prestavano i più begli ornati così a chiese, come a’ palazzi; e se, oggidì ancora, ci fermiamo ammirati nei luoghi più antichi di Roma, mirando tante colonne, spesso magnifiche, di stile corinzio od ionio, che, infisse nel muro, sostengono, in funzione di pilastri, le più povere case, si può di leggieri imaginare, qualmente, nel secolo decimo, quasi tutte le case della Città fossero tirate su colle reliquie dell’antichità. Se potessimo varcare la soglia del palazzo di Alberico, nelle sue camere fatte a volta secondo il costume romano, saremmo certi di trovare parecchi pavimenti antichi di musaico, vi vedremmo antichi vasi e stoviglie, ma a mala pena una statua; ci fermeremmo attoniti a mirare, lavori di quel tempo, i lectuli ossiano lettucci di riposo, fregiati di disegni d’oro, e coperti dei broccati e delle sete di [648] Oriente, quali adornavano le abitazioni dei Vescovi, ed erano oggetto delle censure di Raterio. La fantasia si accende pensando alle decorazioni di queste stanze fornite di suppellettili pesanti, sculte in oro, di sedie che ancora traevano all’antica forma, di candelabri di bronzo, di scansie sulle quali non istavano adagiati codici di scritture, ma si schieravano in mostra bicchieri d’oro preziosi (Scyphi), o coppe d’argento, o conchiglie ridotte a recipienti da bere (Conchae): però, la mente giunge a indovinare tutto quello che ciò fosse, soltanto per gli indizî che ritrae dai musaici e dalle miniature di quell’età, i quali ci fanno conoscere che la moda del lusso toglieva essenzialmente a prestito da Bisanzio le forme fantastiche, la varietà dei colori che imitavano l’arabesco, e il gusto degli ornati di musaico.
In quell’epoca la copia degli edificî antichi era ancor grande assai. Il più degli archi trionfali, dei portici, dei teatri, delle terme, dei templi durava tuttavia in ruine magnifiche, e ad ogni piè sospinto mostrava alla generazione vivente le grandezze delle età passate, la piccolezza del tempo che correva. E questo solo carattere antico, che domina su Roma, pone in chiaro, durante l’intiero medio evo, molti fatti storici. Da dopo di Totila nessun nemico aveva più recato guasto a Roma, ma neppure v’era stato un solo Imperatore od un sol Papa intento più a vigilare sui monumenti e a proteggerli. Già Carlo magno aveva trasportato colonne e sculture di Roma ad Aquisgrana, e i Papi, i quali dapprima avevano tenuto i maggiori monumenti di Roma in conto di proprietà dello Stato, bentosto non avevano più sentimento, nè tempo, nè potenza di darsi [649] cura della loro esistenza. Roma fu abbandonata al sacco dei Romani: i preti trascinavano colonne e marmi nelle loro chiese; i nobili e gli stessi Abati piantavano torri sopra vecchi monumenti magnifici; i cittadini rizzavano nelle terme e nel circo le loro botteghe di lavoro, le loro fucine, le loro officine da canapa, i loro filatoi[670]. Quando il pescatore del Tevere, quando il macellaio ed il fornaio esponevano in vendita al buon mercato, le loro derrate lungo i ponti, o presso il teatro di Marcello, la mercanzia era sdraiata in mostra sopra bellissime tavole di marmo, che, forse, anticamente avevano servito, nel teatro o nel circo, da sedili ai padroni del mondo, a Cesare, a Marc’Antonio, ad Augusto, a tanti e a tanti Consoli e Senatori. I bei sarcofaghi degli eroi andavano all’ingiro, come avviene anche adesso, in funzione di tini d’acqua, di mastelli da lavandaia, di truogoli da porci; probabilmente la panchina del calzolaio e la tavola del sarto erano state nè più nè meno che il cippo di un Romano illustre, o una lamina d’alabastro, su cui, in antico, qualche nobile matrona romana aveva disteso le minuterie della sua acconciatura. Seppure Roma nel secolo decimo non possedesse più che poche statue di bronzo, assai grande doveva essere pur sempre il numero di quelle di marmo. In tutte le piazze, in tutte le vie, l’occhio s’imbatteva in capi d’arte della vecchia Roma, caduti o mutilati; nè peranco i portici, i teatri, le terme erano così ridotti in cumuli di ruine, che molte delle loro decorazioni di statuaria [650] ne fossero sparite. Il Romano del tempo di Ottone III mirava ancora, per certo, emergere sopra il suolo il gruppo del Nilo nel Minervium, ed era ancora oggetto di sua conoscenza il gruppo del Laocoonte nelle terme di Tito, e, forse tuttavia, la Venere medicea nel portico di Ottavia. Migliaia di statue degli Imperatori e di grandi Romani stavano ancora ritte o giacevano alla scoperta sul terreno; molte dipinture antiche vedevansi ancora ai loro luoghi sulle pareti. Ma il senso di queste opere dell’arte bella era così ammutito, che neppure uno scrittore di quell’età spendeva per esse una sola parola. Che più? i Romani imbarbariti tenevano i più preziosi monumenti dei loro antenati in conto soltanto di materiali da lavoro; li segavano per trarne il bel marmo onde componevano il pavimento delle loro chiese e delle loro case, o li facevano in polvere affine di cavarne calce. Da secoli Roma era pari ad una grande fossa da calce, nella quale si cacciavano dentro nobilissimi marmi per trarne cemento: nè senza una grande ragione in Diplomi del secolo decimo e dell’undecimo si trova di frequente sparso il nome di Calcarius, fornaciaio, il quale non deve già attribuirsi a persone che attendessero al lavoro delle fosse di calce, ma a chi ne possedeva in Roma o vi dimorava presso[671]. Da secoli dunque i [651] Romani saccheggiavano e devastavano la vecchia Roma, la facevano in pezzi, la foravano, la abbruciavano, la trasformavano; nè la finivano mai.
Voglia il lettore accompagnarci in una breve scorsa per Roma, qual essa era a’ tempi di Ottone, o piuttosto voglia soltanto venire con noi in cerca di alcuni fra i luoghi più celebri della Città. Muoviamo anzi tutto al Palatino. I palagî imperiali vedevansi ancora in loro ruine colossali, ed erano pieni di obliate opere d’arte di ogni maniera. In quel labirinto, nel quale a mala pena si metteva piede per temenza degli spiriti, parecchie camere erano ancora fornite dei loro preziosi intonachi di marmo; e, perfino a’ tempi di Innocenzo X, vi si discopriva una sala adorna di tappeti d’oro, e stanze, le cui pareti erano coperte di finissime lamine d’argento e di piastre di piombo[672]. Non altro che rada poteva essere [652] allora la popolazione del colle Palatino, chè, su di esso, poche e piccole chiese soltanto erano state costruite: una era quella di santa Maria in Pallara (Palatio), ovvero di san Sebastiano in Palladio, eretta nel luogo in cui ergevasi in antico il Palladium, là dove vuolsi che quel Santo sia stato ucciso, nel tempio di Eliogabalo; un’altra era la chiesa di santa Lucia in Septa solis o Septem viis, che già a’ tempi di Leone III si elevava presso al Septizonium[673]. Questo edificio magnifico di Severo nel medio evo aveva nome di Septemzodium, di Septodium, di Septisolium, di Septemsolia, e benanco di Sedem Solis, sede del sole, ed era situato all’estremo del Palatino verso mezzodì e quasi di fronte al san Gregorio. L’Anonimo di Einsiedeln lo notò con nome di Septizonium, e, nell’anno 975, con esso ci incontriamo in un documento degno di considerazione. Lo si appellava allora Templum [653] Septem solia major, per distinguerlo da un monumento ignoto, che era in vicinanza. Questo aveva nome di Septem solia minor, e Stefano, figlio di Ildebrando, console e duce, lo donava a Giovanni abate di san Gregorio, affinchè a suo piacimento ne usasse, o lo atterrasse, secondo che meglio potesse far mestieri alla fortezza del convento. In quei tempi di guerre di partito sorgevano in Roma torri e rocche, non soltanto della nobiltà, ma anche dei conventi; molti monumenti erano caduti in possedimento dei privati cittadini, ed erano adoperati in cotale uso; ed il grande Septizonium dipendeva in proprietà da quel monastero, e già lo si aveva trasformato in rocca. I frati di san Gregorio possedevano allora anche l’arco trionfale di Costantino, che per certo era stato elevato a tanta altezza da comporne una torre: così il loro convento s’era munito tutto all’intorno, dietro la trincea di monumenti antichi. Nella detta carta si contiene parola così dell’Arcus triumphalis, come del Circus (Maximus), sebbene non altro che nominarli si faccia, e ne rileviamo che quell’illustre romano Stefano possedeva una parte dei palazzi imperiali, della quale notava, specialmente sopra tutto il resto, un portico con trentotto cripte, ossiano camere edificate a volta[674]. Ignoriamo quale aspetto [654] avesse allora il Circus Maximus; i due obelischi erano omai ridotti in rottami, ma ancora, da un capo e dall’altro, era avvertito dalla Graphia esistere due archi di trionfo: neppure sappiamo cosa fosse del Colosseo, il quale non peranco erasi tramutato in fortezza; ma con buon fondamento imaginiamo, che questi edificî cadenti in polvere, conservassero ancora la massima parte delle loro muraglie di cinta esterna, ed i loro ordini di sedili.
Il tempio di Venere e di Roma, massimamente decaduto, appellavasi omai Templum Concordiae et Pietatis come gliene dà nome la Graphia; le sue colonne gigantesche di un sol pezzo di granito azzurro duravano ancora intatte da qualsiasi danno, ed offrivano una vista mirabile. Per la via Sacra, camminando sopra il selciato antico, e passando dall’arco dei «sette candelabri,» si andava al Foro, dove la piccola collina detta Velia aveva tuttavia una discesa assai profonda, perocchè il Foro non fosse coperto di cumulo tanto grande di ruine come oggidì è. Tutt’all’intorno, spettacolo di distruzione grandiosa, stavano templi, portici, basiliche; e il Romano, fatto uomo barbaro, moveva il piede in quel suo museo nazionale, attraversando ruderi innumerevoli di colonne, di architravi e di figure di marmo: la orrenda ruina, il deserto di cui s’era impadronita la leggenda, la mesta magnificenza dovevano ispirare nell’animo di lui sentimenti di commozione indicibile. Se un qualche antiquario romano, successore ignorante di Varrone, avrà [655] accompagnato Ottone III in questa peregrinazione, quegli, con meravigliosa mescolanza di nomi veri e di nomi falsi, gli sarà venuto accennando i monumenti antichi. Gli avrà egli additato il Templum Fatale, l’arco di Giano presso a santa Martina, un Templum Refugii vicino a sant’Adriano, e con giusto nome gli avrà indicato il tempio della Concordia, presso a santo Sergio. Questo edificio celebre, dove un tempo Cicerone aveva tenuto le sue tonanti orazioni, fu, per qualche tratto di tempo, conservato in vita, mercè di una chiesa; indi andò in ruina: e quella l’Anonimo di Einsiedeln vide collocata frammezzo al tempio ed all’arco di Severo, che probabilmente le serviva di campanile. Oltre che a Sergio, dedicata era la chiesa anche a Bacco, un Santo il quale, sebbene stranamente emerga da quel luogo di antico paganesimo, non era straniero in Roma, dove, fra’ Santi, torniamo a trovare nomi di dei e di eroi: così è di quelli di santo Achilleo, di san Quirino, di san Dionisio, di santo Ippolito, di santo Ermete; così avveniva anche di santo Bacco[675].
L’Archeologo del secolo decimo, mostrandoci gli avanzi della basilica Julia o di uno dei santuarî di Vesta, ce gli avrebbe scambiati per il tempio del terribile Catilina, e lì presso ci avrebbe fatto vedere la chiesa di sant’Antonio, nel sito dove oggi s’eleva santa Maria Liberatrice, quella che salva dai tormenti dell’inferno. [656] Ei ci avrebbe detto con gran serietà, che questo luogo diabolico, nomato Infernus, era il Lacus Curtius, entro la cui voragine, in antico, si era gettato il generoso Romano per salvare la patria; e ci avrebbe aggiunto, che ivi, in una caverna del Palatino chiusa con porte di bronzo, forse nel Lupercale antico, erasi appiattato un drago, che Silvestro aveva ucciso[676]. Presso alla carcere Mamertina, la Privata Mamertini del medio evo, ei ci avrebbe additato la statua del dio fluviale, celebre sotto nome di Marforio, che ivi rimase illesa per un corso di secoli; e ci avrebbe affermato che essa era un simulacro di Marte[677]. La via Sacra e la sua continuazione, [657] Clivus Capitolinus o via dei Trionfatori, facendoci passare lungo i templi di Saturno e di Vespasiano, ci avrebbe condotto al Campidoglio, in mezzo a ruine innumerevoli della magnificenza antica. Chi potrebbe enunciare quello che fosse la vista grandiosa e tragica che esso allora offriva! Cassiodoro, per l’ultimo, aveva detto, il Campidoglio essere massima meraviglia di Roma, e rilevammo che nel secolo ottavo lo si notava come primo miracolo del mondo. Tuttavia, da tempo lungo, non udimmo più, neppure una fiata, ripetersi il suo nome: sparito era dalla storia di Roma, e soltanto la Graphia narra, che le sue mura mirabili erano composte di vetro e d’oro, ma non lo descrive[678]. Di già, intorno all’anno 882, [658] si menziona il convento di santa Maria in Capitolio; però non si fa ancor motto della chiesa in Ara Coeli che ivi esiste, sebbene, probabilmente, a quell’età essa fosse omai edificata[679].
Profondo silenzio cela lo stato in cui fossero i Fora imperiali, ad eccezione di quello di Trajano; ma anche esso era a quest’ora ridotto a tanta ruina, che i documenti, i quali ne tengono discorso, parlano delle petrae che ivi si ammonticchiavano. Il nome della odierna via «Magnanapoli», che dal Quirinale conduce al Trajano, ebbe origine fin da quella età[680]. Dall’altro lato, era [659] posto il Campus Caloleonis, oggidì storpiato nel nome di «Carleone», ch’era così appellato dal palazzo di un ottimate romano del tempo di Alberico[681]. Sopra ai ruderi delle biblioteche e delle basiliche Ulpie s’alzava ancora la magnifica colonna di Trajano, gigante che non aveva sofferto crollo. Vicino ad essa era la chiesa S. Nicolai sub columpnam Trajanam; costruita dei materiali del Foro, aveva certamente contribuito di assai alla sua ruina: essa apparteneva alla giurisdizione ecclesiastica dei santi Apostoli, e di questa basilica bene era proprietà eziandio la colonia Trajana[682].
Anche la sua bella gemella, la colonna di Marco Aurelio, ergevasi parimenti come s’erge oggidì. Nell’anno 955 Agapito II la confermava in proprietà del convento di san Silvestro in Capite, e, sette anni più tardi, Giovanni XII rinnovava il Diploma. «Noi confermiamo in integrum», vi è detto, «la grande colonna di marmo che da Antonino si appella, così come vedesi, con sue sculture, colla chiesa di santo Andrea che sta a’ suoi piedi, e col territorio che la attornia, in quel modo ch’essa d’ogni parte è circondata di via publica, in questa città di Roma»[683]. Se ne rileva, che pur [660] sempre, dall’intorno esisteva una piazza sgombra, e che, vicino, vi si era edificata una piccola chiesa; il nano accanto al gigante. Siffatte cappelle erano botteghe di guardiani; dentro, i monaci vi facevano di sentinella, ed a loro andiamo debitori della conservazione di quelle illustri opere mirabili, dominatrici solitarie dei ruderi della storia, sulle quali, nell’azzurro del cielo, si disegnano le statue di san Pietro e di san Paolo: simboli della duplice signoria di Roma sul mondo, quei simulacri non potevano trovare luogo più acconcio delle colonne dei due Imperatori, i quali professarono una filosofia che per prima sgombrò le vie del Cristianesimo. I pellegrini avevano facilità di salire sulle colonne per loro interne scale a chiocciola, sì come oggidì ancora si suol fare, per godere di lassù la vista stupenda di Roma. Ai monaci poi avranno per ciò messo in mano qualche moneta; per lo meno, la inscrizione dell’anno 1119 (la quale può leggersi nel portico di santo Silvestro) nota, che i pellegrini presentavano di loro offerte la chiesa di santo Andrea presso la colonna di Marco Aurelio, donde il monastero costumava affittarle, come reddito considerevole. Desta grandissima meraviglia che cosa somigliante avvenisse anche nell’antichità. Infatti, tosto dopo dell’erezione della colonna, Adrasto, liberto dell’imperatore [661] Settimio Severo, si era costruito, nell’anno 193, una casa in quelle vicinanze, per vegliarne a custodia, ossia per torne denaro a chi vi saliva sopra; ed invero in escavi dell’anno 1777 erano trovate in quelle località due inscrizioni in marmo, che Adrasto aveva fatto collocare nella sua casa di guardia; ed esse parlano di quell’usanza[684]. Anche la colonna che, in antico, Marco Aurelio e Lucio Vero avevano innalzato ad onore del loro padre Antonino Pio, era situata in prossimità dell’odierno monte Citorio. Aveva soltanto cinquanta piedi di altezza ed era di rosso granito; però non ne fa cenno l’Anonimo di Einsiedeln, nè la Graphia, nè i Mirabilia, perlochè, forse, nel secolo nono era di già crollata[685].
Nel secolo decimo il Campo di Marte, già appellato Campo Marzo, presentava il magnifico aspetto di una città di marmo caduta in rovina. Degli edifizî degli Antonini esistevano tuttavia grandi avanzi di basiliche o di templi, come oggidì ancora ce ne offre un saggio il frontone a colonne della Dogana: si pensi un po’ all’estensione che correva dal Panteon al mausoleo di Augusto, si pensi a quelle grandi ruine delle terme di Agrippa e di Alessandro, dello Stadium di Domiziano [662] e dell’Odeum, che si seguivano tutte le une presso alle altre; si richiamino alla imaginazione gl’innumerevoli portici che attraversavano questo campo, venendo dalla via Lata, da porta Flaminia, dal ponte di Adriano; e si avrà innanzi alla mente la vista di una città meravigliosa smantellata, mezzo sepolta nel fango e nella polvere. Ivi, appiattati sotto le oscure volte dei ruderi, abitavano uomini meschini, che vi avevano posto covo, come altrettanti trogloditi; altri, avevano povere case posate sulle ruine, come tanti nidi di rondini. Allora, nell’antico Campo di Marte si piantavano cavoli e viti in mezzo a’ frammenti di edificî; strette viuzze si aprivano di qua e di là, e conducevano a chiese che, ruinate esse stesse, erano state costruite di rovine, e davano ai chiassuoli origine e nome. Tratto tratto dai ruderi s’alzava qualche oscura torre, rocca munita di un qualche Romano che si chiamava con nome di Console o di Giudice. Il mausoleo di Augusto non era peranco stato tramutato in fortezza; poichè era stato ricoperto di terriccio e piantato di alberi, la sua figura, simile a quella di un colle, gli acquistava nominazione di monte, e nel secolo decimo lo si appellava Mons Agustus, che in volgare si smozzò nel nome di Austa, ovvero di L’austa. Una bella tradizione narrava, che l’imperatore Ottaviano aveva fatto trasportare un corbello pieno di terra da ogni provincia dell’Impero, e che ivi l’aveva riversata, affine, quasi, di poter riposare nella terra di tutto il mondo, che dominato aveva. Ad imitazione di quel che s’era fatto nel sepolcro di Adriano, anche sulla cima del mausoleo di Augusto si era edificata una cappella all’arcangelo Michele: lo abbiamo scoperto da quegli [663] stessi Diplomi di Agapito II e di Giovanni XII, che confermano anche questo sepolcro in proprietà del convento di san Silvestro[686]. Presso alla tomba era posta allora la chiesa di santa Maria o Martina in Augusta, che più tardi fu tramutata nell’ospitale di san Giacomo degli Incurabili: tutto all’intorno erano vigneti e campi pertinenti al detto monastero. La muraglia della Città, ruinosa e coperta di sterpi, si prolungava lungo l’odierna Ripetta fino al ponte di Adriano, ed era interrotta da due porte del fiume, quelle di sant’Agata e della Pigna[687]. L’odierna porta del Popolo era pur sempre [664] chiamata Flaminia, come la appella la Graphia, ma altresì era omai detta S. Valentini, dalla chiesa che è posta fuori della porta. Dove sta oggi la bella piazza del Popolo era terreno coltivato a campo e a giardino, similmente di ciò che avveniva a quell’età del Mons Pinzi, sopra il quale esisteva una chiesa di san Felice. Massimamente, tutto il Campo di Marte era traversato di vigneti e di orti. Il magnifico Stadium di Domiziano giaceva in rovinaccio; l’Anonimo di Einsiedeln erroneamente lo chiama «Circus Flaminius dove è santa Agnese», e per tale lo appella dall’antica Regione di questo nome cui l’edificio apparteneva; però, nel secolo decimo chiamavasi, con linguaggio popolare, Agonis da Agon, ossia Circus Agonalis. Poichè dunque questo luogo si denominava in Agona, ne derivò la dizione ’n Agona, finalmente quella di Navona, onde è denotata oggidì la maggiore e bellissima delle piazze popolari di Roma[688].
Dei materiali del Circo, già ancora a’ tempi prima, erano state edificate parecchie chiese: da un lato, la Diaconia di santa Agnese in Agone, perocchè ivi la leggenda della Santa s’avesse composto la scena; dall’altro, la parrocchia di santo Apollinare, fondata probabilmente sui ruderi di un tempio d’Apollo, che era stato cacciato [665] in bando dal suo santo omonimo, primo vescovo di Ravenna[689]. Similmente ad altri conventi e ad altre basiliche di Roma, che poco a poco s’erano impadroniti del suolo della Città e dei suoi monumenti, la chiesa di santo Eustachio aveva in questa Regione dei possedimenti; e financo la remota Farfa vi aveva proprietà di campi, di case, di giardini e di cripte dello Stadio caduto o delle prossime terme di Alessandro Severo. In vicinanza a questi distrutti bagni appartenevano alla Badia tre piccole chiese, quelle di santa Maria, di san Benedetto e di san Salvatore, a cagione delle quali aveva essa sostenuto continue controversie coi preti di santo Eustachio: e precisamente al documento di questa lite noi andiamo debitori della cognizione topografica della Regione in Agone, ossia in Scorticlariis[690]. Santa Maria farfense si dice essere l’odierna chiesa di san Luigi dei Francesi; la cappella di san Benedetto perì; san Salvatore conservò il nome ed il luogo, coll’addiettivo in Thermis. Qui dunque, accanto allo Stadium di Domiziano, stavano le terme di Nerone, ampliate da Alessandro Severo, e si stendevano da santo Eustachio fino a santo Apollinare[691]. Dei loro ruderi fu edificato il quartiere [666] odierno, in cui s’accolgono il santo Eustachio, il palazzo Madama, quello Giustiniani, le Poste, il san Luigi: ed ancora in tempi più tardi ivi si trovavano avanzi magnifici di portici, di archi, di colonne, di ornati.
Voleva la tradizione che la chiesa di santo Eustachio, appellata in Platana (forse da un platano che fioriva colà), fosse stata edificata in un palazzo delle terme di Alessandro. La sua fondazione deve risalire ad un tempo assai remoto, perocchè ancor sotto di Gregorio I fosse una Diaconia. Formava, nel medio evo, il punto di mezzo di un quartiere; e di tal guisa diede nome alla Regione, ed altresì ad una celebre famiglia di nobili. Mirabile è la leggenda del Santo. Il suo nome pagano era quello di Placido; amico e generale di Trajano aveva vinto i Daci e gli Ebrei, ed era tornato a Roma in trionfo. Un dì, mentre era alla caccia, inseguiva egli un cervo fra Tivoli e Preneste; l’animale, fuggendogli davanti, si gettò sul monte Vulturello (presso a Guadagnolo), e Placido, che correva sulle sue orme, vide tutt’a un tratto sfolgorare fra le corna il volto del Cristo, che gli ordinava di tornare a Roma e di torvi battesimo. Placido assunse il nome cristiano di Eustachio, fe’ battezzare la moglie sua con quello di Trojana Teopista, e i figli appellò Agapito e Teopisto. Per volere celeste fu ridotto povero come Giobbe, ed allora emigrò nei deserti d’Egitto. Dei marinari gli rapirono la moglie; un leone ed un lupo gli portarono via i suoi figliuoli, ed egli si pose ad officî servili presso un signore egiziano. Frattanto, Trajano involto in guerre coi Persiani, mandò pel mondo, quant’era vasto, in cerca del suo eroe Placido, e, finalmente, due centurioni lo riconobbero alla cicatrice di una ferita, che un tempo aveva [667] riportato in battaglia. Vestirono di abiti magnifici lui reluttante, e lo trassero a Roma, dove giunto, trovava che Adriano era succeduto sul trono dell’amico suo. Prese la capitananza della guerra contro ai Persiani; ritrovò per propizia ventura moglie e figliuoli, e, compiuta l’impresa, tornò a Roma coronato di allori. Decretavagli il Senato un arco trionfale, ma il segreto cristiano rifiutava di offrire a Giove il sacrificio della vittoria, e confessava arditamente la sua fede. Egli fu condannato coi suoi a morire; e, poichè i leoni dell’arena si accovacciavano nella polvere innanzi a loro, i martiri furono gettati entro ad un toro di bronzo arroventato; e quando il carnefice aperse la macchina affreddata, Eustachio, la sua donna e i suoi figliuoli trovaronsi morti, ma i loro corpi apparvero agli occhi di tutti belli e senza offesa. I cristiani diedero ad essi sepoltura nelle case del morto; molti Romani presero battesimo, e Adriano, amaramente pentito, bevve il veleno in Cuma[692].
Eustachio ha per Roma un altra ragione d’importanza, chè egli diventò l’eroe di una genealogia delle [668] più stravaganti. Fin dal secolo duodecimo si compiacquero i Romani di far derivare la loro nobiltà dal tempo antico; i loro alberi genealogici germogliarono tutt’a un tratto sul Palatino, dal celebre lauro di Augusto, o crebbero nei giardini di Mecenate e di Pompeo, degli Scipioni e dei Massimi. Poichè fu detto che la famiglia dei Conti di Tusculum si fosse tramutata in quella dei Conti di sant’Eustachio, la si fece, con ardita fantasia, discendere da quell’Ottavio Mamilio di Tusculum, che era caduto nella battaglia combattuta presso il lago Regillo. Da quello si volle che derivassero gli Ottavî, e da Ottaviano imperatore si fe’ venire il senatore Agapito Ottavio, padre di Placido Eustachio. Alla famiglia stessa avrebbe appartenuto però anche Tertullo, padre di quel santo Placido che era stato scolare di Benedetto, e la loro casa, dicevasi, dai tempi di Mamilio in poi aveva pur sempre posseduto Tusculum, finchè Tertullo lo donava al convento di Subiaco. Naturalmente si volle che Tertullo fosse stato eziandio cugino di Giustiniano imperatore; e naturalmente dalla famiglia degli Ottavî si fecero discendere altresì il grande papa Gregorio e la stirpe Anicia. Per queste anella, dal favoleggiato Ottavio Mamilio derivarono non soltanto i Conti di Tusculum, ma eziandio i Pierleoni, i Conti di Segni, di Pola, di Valmontone, ed i Frangipani, che diedero origine a casa d’Austria[693].
Dall’altro lato del Panteon l’Anonimo di Einsiedeln [669] trovava omai il convento di santa Maria nel Minervium, che vuol dire edificato nelle ruine del tempio antico di Minerva; ed ancora la Graphia registra: «Presso il Panteon è il tempio di Minerva Calcidia». Non lungi di là era eretto un arco trionfale che si attribuiva a Camillo, e perciò il luogo era anche denominato Camigliano. Ivi pure una via assai antica era chiamata «ai due amanti», donde, eziandio un convento esistente colà era detto di san Salvatore ad duos amantes[694]. Di fianco era situato l’Iseum, e nelle sue ruine duravano tuttavia i bellissimi gruppi del Nilo e del Tevere, che possono in oggi vedersi nel Vaticano: con bella ventura sfuggirono essi alla distruzione, parimente come fu del Marforio.
Facciamo nota anche di un altro arco trionfale che s’ergeva nel territorio di san Marco, e che nel medio evo è menzionato di frequente. Appellato era «della mano di carne», arcus manus carneae, e stava all’ingresso dell’odierna via detta «Macello de’ corvi», il cui nome, bene o male, fu considerato essere storpiatura di manus carnea. Probabilmente, si mirava colà l’imagine di una mano, segnacolo di una coorte, e la tradizione narrava che fosse quella la mano del carnefice, converso in pietra, [670] che aveva martoriato la pia Lucina al tempo di Diocleziano[695].
Nulla sappiamo dello stato in cui si trovava il teatro di Pompeo, ma ancor lo si denota con nome di Theatrum oppure di Templum. Le sue ruine, come quelle di altri antichi edificî di questo quartiere, erano ancora così considerevolmente grandi, che tutto il sito all’intorno era, nel secolo decimo, chiamato «Parione», quel nome onde oggidì s’appella la Regione VI ivi posta: lo si contrassegnava altresì per via di una grande urna antica, che ivi istesso balzava all’occhio del popolo[696]. Del Circus [671] Flaminius si fa ancora menzione fugace, e più tardi torna a galla, con nome di «aureo castello»: il teatro di Marcello porta ancora in alcuni documenti il suo nome antico, sebbene potesse darsi che il popolo omai lo chiamasse anche di Antonino: lungo i margini del fiume poi ci imbattiamo in luoghi a noi noti, nella Ripa Graeca, davanti a santa Maria in Cosmedin e nella Marmorata antica[697].
Un importante documento dell’anno 1018, dato per il vescovato di Porto (la cui giurisdizione si estendeva allora di là dell’isola Tiberina e del Transtevere) ci ha conservato i nomi di alcuni ponti del Tevere, come erano allora chiamati. Poichè quella carta delimita nei suoi confini la diocesi di Porto, la sua descrizione prende partenza «dal ponte rotto, donde l’acqua scorre, dalle mura della città transtiberina, da porta Settimiana, da porta san Pancrazio»; indi percorre la Campagna oltre il fiume Arrone, procede al mare di là dal faro, poi torna indietro «per lo mezzo del gran fiume, a Roma, al ponte rotto presso Marmorata, al ponte di santa Maria, al ponte degli Ebrei in mezzo del fiume, e, dirittamente in mezzo di questo, al predetto ponte rotto, che è il più prossimo alle chiese cattoliche di Transtevere, di santa Maria, di san Crisogono e di santa Cecilia, al convento di san Pancrazio e dei santi Cosma e Damiano». Quindi si rileva, che l’odierno ponte Sisto era allora un ponte abbattuto, avvegnachè da esso s’incominci la descrizione, e la si [672] prosegua lungo il muro transtiberino per porta Settimiana: se ne ritrae che un secondo ponte ruinato esisteva presso alla Marmorata, la quale, visibile anche adesso sotto all’Aventino, era nel medio evo appellata col nome Probi oppure Theodosii in Riparmea (ripa marmorea): l’odierno ponte Rotto, il quale attualmente è sostenuto a catene, era chiamato allora di santa Maria, da una chiesa che ivi s’ergeva: finalmente, il ponte odierno «quattro Capi» (altra volta appellato Fabricii), si chiamava degli Ebrei, perocchè gli Israeliti fin d’allora vi abitassero in vicinanza[698].
Presso al ponte Palatino si elevano, l’un vicino all’altro, tre mirabili edificî di Roma; il cosiddetto tempio della Fortuna Virile, la elegante rotonda della così appellata Vesta, e la mutilata torre a ponte che si addimanda casa di Pilato, oppure di Crescenzio, ed anche di Cola di Rienzo. Il primo tempio, che è un pseudo periptero di stile jonio, ben conservato, di forma severa e leggiadra, deriva certo ancora da’ tempi della Republica. Questo santuario della Fortuna virile di Servio Tullo, come si credette esser bene appellarlo, era stato tramutato [673] in chiesa, e tradizione suona che lo fosse di già sotto a Giovanni VIII: ivi dentro si adagiò più tardi Maria, cortigiana egiziana, una bella peccatrice, che nel deserto aveva fatto penitenza della sua vita licenziosa; e il tempio porta oggidì il suo nome, di santa Maria Egiziaca. Anche il grazioso tempio di Vesta, che vi è dirimpetto, e che, in età più tarda del medio evo, fu appellato tempio della Sibilla, si cambiò in chiesa; quando, non sappiamo: lo si chiama san Stefano delle Carrozze, oppure, da una sacra imagine, santa Maria del Sole[699]. Della cosiddetta Casa di Pilato ci occuperemo più tardi. Tutti e tre quei monumenti, aggruppati col ponte e colla santa Maria in Cosmedin, rendono il sito uno dei più vaghi di Roma.
Quest’è la nostra piccola «Grafia» della Città nel secolo decimo. Ne caviamo la conchiusione, che allora il Campo di Marte era coperto fittamente di edificî, che i colli Quirinale, Viminale, Esquilino continuavano ad essere abitati, e che vasti territorî lungo le mura della Città erano messi a cultura e a vigneti, come sono oggidì. Il Celio, dove durava per un corso di secoli una strada antica detta Caput Africae, ed il monte Aventino appaiono massimamente coperti di edificî e traversati di vie; abitato era [674] il territorio circostante al Foro; la Suburra continuava ad esistere. Il quartiere più splendido era quello della Via Lata. Anche allora doveva essere assai densamente popolato il Transtevere; e Leone IV colla edificazione della città Leonina, del cosiddetto «Porticus di san Pietro», aveva fondato una nuova colonia cittadina nel borgo Vaticano.
FINE DEL VOLUME TERZO.
[675]
| LIBRO QUINTO. | |
| LA CITTÀ DI ROMA DURANTE L’ETÀ DEI CAROLINGI, FINO ALL’ANNO 900. | |
| Capitolo primo. — § 1. Novello stato che la città di Roma tiene nel mondo. — Relazioni dell’Imperatore e del Papa con Roma. — Leone va un’altra volta a Carlo. — Ardulfo di Northumberland viene a Roma | Facc. 3 |
| § 2. Pipino muore nell’anno 810. — Bernardo, re d’Italia. — Lodovico I è coronato in Aquisgrana, socio nell’Impero dei Romani. — Muore Carlo magno. — Valore di lui nella storia del mondo. — Mancanza di tradizioni locali di lui nella città di Roma | 20 |
| § 3. Avvengono tumulti in Roma. — Bernardo è mandato a Roma per procedervi a inquisizione. — Leone III muore nell’anno 816. — Edificî di Leone in Roma. — Caratteri dell’architettura e dell’arte di quell’età. — Chiese titolari e conventi celebri di Roma in quell’epoca | 28 |
| § 4. Stefano IV, papa. — Egli va a Lodovico. — Presto muore. — Elezione e ordinazione precipitosa di Pasquale I. — Il falso diploma di Lodovico | 41 |
| [676] | |
| Capitolo secondo. — § 1. Lotario è fatto socio nell’Impero. — Ribellione e fine di Bernardo re. — Lotario diventa re d’Italia. — È coronato in Roma. — Vi pone tribunale imperiale di giustizia. — Lite del monastero di Farfa. — Supplizio violento di maggiorenti romani. — Pasquale evita il giudizio dell’Imperatore. — Muore | 49 |
| § 2. Pasquale edifica le chiese di santa Cecilia in Transtevere, di santa Prassede sul monte Esquilino, di santa Maria in Domnica sul Celio | 60 |
| § 3. Eugenio II è fatto papa. — Lotario viene a Roma. — Sua Costituzione dell’anno 824. — Eugenio muore nell’Agosto dell’827 | 69 |
| § 4. Valentino I, papa. — Gregorio IV, papa. — I Saraceni s’avanzano nel mar Mediterraneo. — Fondano loro dominazione in Sicilia. — Gregorio IV edifica Nuova Ostia. — Decadimento della monarchia di Carlo. — Muore Lodovico il Pio. — Lotario regna solo imperatore. — Divisione dell’Impero a Verdun nell’anno 843 | 80 |
| § 5. Fervore per il possedimento di reliquie. — Salme di Santi. — Loro traslazioni. — Caratteri dei pellegrinaggi di quell’età. — Gregorio IV riedifica la basilica di san Marco. — Restaura l’Aqua Sabbatina. — Costruisce la villa pontificia «del Dragone . — Muore nell’anno 844 | 90 |
| Capitolo terzo. — § 1. Sergio II papa (844-847). — Re Lodovico viene a Roma. — Sua incoronazione; dissensi di lui col Pontefice e coi Romani. — Siconolfo viene a Roma. — I Saraceni assalgono e saccheggiano il san Pietro e il san Paolo. — Sergio II muore nell’anno 847 | 105 |
| § 2. Leone IV è fatto papa. — Incendio di Borgo. — Roma, Napoli, Amalfi e Gaeta fanno lega contro ai Saraceni. — Si vince in mare presso Ostia nell’anno 849. — Leone IV edifica la Civitas Leonina. — Sue mura e sue porte. — I distici collocati sulle porte maggiori | 117 |
| [677] | |
| § 3. Leone cinge Portus di mura, e ne affida il porto ad una colonia di Côrsi. — Edifica Leopoli in vicinanza a Centumcelle. — Civitavecchia. — Restaura Orta e Ameria. — Sue costruzioni di chiese in Roma. — Suoi doni votivi. — Ricchezza inesauribile del tesoro della Chiesa. — Frascati | 129 |
| § 4. Lodovico II è coronato imperatore. — Il cardinale Anastasio è deposto. — Etelvolfo e Alfredo in Roma. — Daniele, maestro de’ militi, è sottoposto a inquisizione in Roma, innanzi al tribunale di Lodovico II. — Leone IV muore nell’anno 855. — Favola della papessa Giovanna | 137 |
| Capitolo quarto. — § 1. Benedetto III è eletto papa. — Nascono tumulti in Roma a causa dell’elezione pontificia. — Invasione del cardinale Anastasio. — Fermezza de’ Romani contro ai legati imperiali. — Benedetto III è ordinato papa il dì 29 del Settembre 855. — Lodovico II, solo imperatore. — Rapporti di amicizia fra Roma e Bisanzio | 147 |
| § 2. Nicolò I è eletto papa. — Rende soggetto a sè l’Arcivescovo di Ravenna. — Scoppia lo scisma greco di Fozio. — Relazioni di Roma coi Bulgari. — Legati bulgari di re Bogori vengono a Roma. — Formoso va missionario in Bulgaria. — Roma tenta di farne una sua provincia ecclesiastica. — Costituzione data da Nicolò I ai Bulgari | 153 |
| § 3. Si contende a cagione di Gualdrada. — Nicolò condanna il Sinodo di Metz, e depone Guntero di Colonia e Teutgaudo di Treviri. — Lodovico II con grande ira viene a Roma. — Le sue soldatesche commettono eccessi di violenza nella Città. — Arroganza degli Arcivescovi tedeschi; fermezza e trionfo del Papa | 163 |
| § 4. Cure rivolte da Nicolò I alla città di Roma. — Restaura l’Aqua Tocia e la Trajana. — Fortifica nuovamente Ostia. — Pochi edificî e scarsi doni votivi di lui. — Condizioni delle scienze. — Editto [678] scolastico di Lotario, dell’anno 825. — Decreti di Eugenio II e di Leone IV intorno alle scuole delle parrocchie. — Monaci greci a Roma. — Biblioteche. — Codici. — Monete | 171 |
| § 5. Roma è immersa nella ignoranza. — I Romani sono superati dagli Arabi, dai Greci, dai Franchi e dai Tedeschi. — Soltanto il Papato ha suoi Cronisti. — Il Liber Pontificalis di Anastasio. — Sua origine e suoi caratteri. — Traduzioni di Anastasio dal greco. — Biografia di Gregorio magno, scritta da Giovanni Diacono | 182 |
| Capitolo quinto. — § 1. Principia la supremazia di Roma. — Lo Stato della Chiesa. — Decretali pseudo-Isidoriane. — Nicolò I muore nell’anno 867. — Adriano II è fatto papa. — Lamberto di Spoleto entra con violenza in Roma. — Nemici di Adriano dentro di Roma. — Delitti di Eleuterio e di Anastasio, e loro punizione | 189 |
| § 2. Rinnovansi le controversie a cagione di Gualdrada. — Spergiuro di Lotario. — Umiliazioni ch’ei soffre in Roma. — Sua presta morte. — Lodovico imperatore, nell’Italia meridionale. — Concetto dell’Imperium in quell’età. — Lettera di Lodovico all’Imperatore di Bisanzio. — Smacco che l’Impero riceve a Benevento. — Lodovico viene a Roma. — È coronato una seconda volta. — I Romani proclamano che Adalgiso di Benevento è tiranno e nemico della Republica | 199 |
| § 3. Giovanni VIII è fatto papa nell’anno 872. — Muore Lodovico II imperatore. — I figli di Lodovico di Germania e Carlo il Calvo si contendono il possedimento d’Italia. — Carlo il Calvo diventa imperatore nell’anno 875. — Decadimento dell’autorità imperatoria in Roma. — Carlo il Calvo è eletto re d’Italia. — Fazione tedesca in Roma. — Violenze della nobiltà. — Formoso di Porto è scomunicato | 210 |
| § 4. I Saraceni danno il guasto alla Campagna. — Giovanni [679] VIII scrive lettere di doglianza. — Lega dei Saraceni colle città marittime dell’Italia meridionale. — Splendida operosità di Giovanni VIII: arma una flotta, negozia coi Principi della bassa Italia, vince i Saraceni a Capo di Circe. — Condizioni dell’Italia meridionale. — Giovanni VIII edifica Giovannipoli in vicinanza al san Paolo | 219 |
| Capitolo sesto. — § 1. Relazioni difficili di Giovanni VIII con Lamberto e coll’Imperatore. — Il Papa conferma una seconda volta la dignità imperatoria di Carlo il Calvo. — Sinodi di Roma e di Ravenna nell’anno 877. — Decreti di Giovanni, riguardanti i patrimonî. — I beni della Camera pontificia. — Tentativi infruttuosi di resistenza alla feudalità. — Carlo il Calvo muore. — Trionfa la parte tedesca. — Comportamento minaccevole di Lamberto e dei fuorusciti. — Lamberto assale Roma e fa prigioniero il Papa. — Giovanni VIII fugge a Francia | 231 |
| § 2. Giovanni al Sinodo di Troyes. — Bosone duca, diventa favorito suo. — Lo accompagna in Lombardia. — Falliscono i suoi progetti. — Genio diplomatico di Giovanni VIII. — Carlo il Grosso è fatto re d’Italia, ed è altresì coronato imperatore a Roma, nell’anno 881. — Giovanni VIII muore. — Audacia de’ suoi disegni. — Sua indole | 242 |
| § 3. Marino I, papa. — Ripone nuovamente Formoso nel suo vescovato. — Rovescia Guido di Spoleto. — Adriano III, papa nell’anno 884. — Decreti a lui falsamente attribuiti. — Stefano V, papa. — Costume di saccheggiare le case patriarcali alla morte del Papa. — Lusso dei Vescovi. — Roma patisce di fame. — Carlo il Grosso è deposto. — Fine dell’Impero de’ Carolingi. — Missione incompiuta d’Italia. — Berengario e Guido combattono l’uno contro all’altro, per impadronirsi della corona. — Guido rinnovella l’Impero franco nell’anno 891. — Stefano V muore | 251 |
| [680] | |
| Capitolo settimo. — § 1. Formoso, papa nel Settembre dell’891. — Fazione di Arnolfo e fazione di Guido. — Sergio è candidato avverso a Formoso. — Questi chiede ad Arnolfo che muova su Roma. — Calata di Arnolfo in Italia. — Guido muore, e Lamberto gli succede nell’Impero. — Arnolfo viene contro a Roma. — Prende d’assalto la Città. — È coronato imperatore nell’Aprile dell’anno 896. — I Romani gli prestano giuramento di fedeltà. — Suo sventurato ritorno. — Formoso muore nel Maggio dell’anno 896 | 263 |
| § 2. Torbidi in Roma. — Bonifacio VI, papa. — Stefano VI, papa. — Sinodo «del cadavere ; giudizio dei morti pronunciato sopra Formoso. — Cade la basilica Lateranense. — Ragioni del delitto atroce. — Il Libellus di Ausilio. — La Invectiva in Romam. — Fine orribile di papa Stefano VI | 273 |
| § 3. Romano, papa. — Teodoro II, papa. — Questi dà sepoltura al cadavere di Formoso. — Morto Teodoro, Sergio tenta d’impadronirsi del Pontificato, ma è cacciato in bando. — Giovanni IX, papa nell’anno 898. — Ripone in onore la memoria di Formoso. — Decreto di lui concernente la consecrazione del Pontefice. — Sue cure per afforzare l’Impero di Lamberto. — Morte repentina di Lamberto. — Berengario, re d’Italia. — Calano in Italia gli Ungheri. — Sorge un pretendente in Lodovico di Provenza. — Giovanni IX muore nel Luglio dell’anno 900 | 281 |
| LIBRO SESTO. | |
| STORIA DELLA CITTÀ DI ROMA NEL SECOLO DECIMO. | |
| Capitolo primo. — § 1. Trapasso al secolo decimo. — Benedetto IV corona Lodovico di Provenza [681] a imperatore, nell’anno 901. — Gli ottimati più insigni di Roma a quell’età. — Leone V e Cristoforo, papi. — Sergio III è fatto papa. — Sue Bolle. — Riedifica la basilica Lateranense. — Anastasio III e Lando, papi | 295 |
| § 2. Giovanni X. — Sua vita prima. — Ottiene la tiara per favore della romana Teodora. — Teofilatto marito di lei, console e senatore dei Romani. — Alberico, uomo di nuove fortune. — Relazioni di lui con Marozia. — Teodora e Marozia | 305 |
| § 3. Guasti orribili dati dai Saraceni. — Distruzione di Farfa. — Subiaco. — I Saraceni s’appiattano a ruba in castella della Campagna. — Giovanni X offre a Berengario la corona imperiale. — Berengario entra in Roma, ed è coronato sul principio del Dicembre dell’anno 915 | 318 |
| § 4. S’imprende guerra contro a’ Saraceni. — Si combatte nella Sabina e nella Campagna. — Trattato di Giovanni X coi Principi dell’Italia inferiore. — I Saraceni sono disfatti sul Garigliano, nell’Agosto dell’anno 916. — Il Pontefice e Alberico tornano a Roma. — Cosa divenisse Alberico. — Berengario cade. — Conseguenze che ne avvengono in Roma. — Fine incerta di Alberico | 328 |
| § 5. Cacciata di Rodolfo di Borgogna. — Intrighi donneschi per elevare Ugo al trono. — Giovanni X conchiude un trattato con lui. — Marozia sposa Guido di Tuscia. — Giovanni X è travagliato in Roma di gravi difficoltà. — Pietro, fratello di lui, è discacciato. — Rivolgimento in Roma. — Pietro è trucidato. — Caduta e morte di Giovanni X | 340 |
| Capitolo secondo. § 1. Leone VI e Stefano VII, papi. — Il figliuolo di Marozia sale alla cattedra pontificia con nome di Giovanni XI. — Ugo re. — Marozia gli offre mano di sposa a Roma. — Loro sponsali. — Il castel Sant’Angelo. — Rivoluzione [682] in Roma. — Il giovine Alberico s’impadronisce del potere | 347 |
| § 2. Natura del rivolgimento avvenuto in Roma. — Alberico, Princeps atque Senator omnium Romanorum. — Concetto di questo titolo. — Il Senato. — Le Senatrices. — Fondamenta su cui posava il potere di Alberico. — L’aristocrazia. — Condizioni della cittadinanza romana. — Milizia cittadina. — Ordini di giustizia al tempo di Alberico | 357 |
| § 3. Temperanza d’animo di Alberico. — Ugo assedia Roma due volte. — Sposa sua figlia Alda ad Alberico. — Relazioni di questo con Bisanzio. — Leone VII, papa nell’anno 936. — Uno sguardo retrospettivo sull’importanza del monachismo benedettino. — Decadimento di esso. — Riformazione di Cluny. — Operosità di Alberico a quest’uopo. — Odone di Cluny viene a Roma. — Continua la storia di Farfa. — La provincia della Sabina | 369 |
| § 4. Stefano VIII, papa nel 939. — Alberico reprime un moto di rivolta. — Marino II, papa nel 942. — Ugo assedia nuovamente Roma. — Caduta di lui per opera di Berengario d’Ivrea. — Lotario, re d’Italia. — Pace fra Ugo ed Alberico. — Agapito II, papa nel 946. — Lotario muore. — Berengario, re d’Italia nel 950. — Gli Italiani chiamano Ottone magno. — Colpa d’Italia a chiamarsi addosso la dominazione straniera. — Alberico respinge Ottone da Roma. — Berengario diventa vassallo di Ottone. — Alberico muore nell’anno 954 | 387 |
| Capitolo terzo. — § 1. Ottaviano succede ad Alberto nella podestà. — È fatto papa nell’anno 955, con nome di Giovanni XII. — Suoi traviamenti giovanili. — Abbandona l’indirizzo politico del padre. — I Lombardi e Giovanni XII chiamano Ottone I. — Suo trattato col Papa e [683] suo giuramento. — È coronato imperatore a Roma, addì 2 Febbraio 962. — Indole del novello Impero romano di nazione tedesca | 401 |
| § 2. Privilegium di Ottone. — Giovanni e i Romani gli rendono omaggio. — Giovanni trovasi in condizioni irte di contrasti. — Cospira contro all’Imperatore. — Ricetta Adalberto in Roma. — Ottone torna a Roma; il Papa fugge. — L’Imperatore toglie ai Romani la libertà dell’elezione pontificia. — Sinodo tenuto nel mese di Novembre. — Giovanni XII è deposto. — Leone VIII. — Una rivolta dei Romani riesce a mal fine. — Ottone parte di Roma | 411 |
| § 3. Giovanni XII torna a Roma. — Leone VIII fugge. — È deposto in un Concilio. — Giovanni toglie vendetta dei suoi nemici. — Muore nel Maggio dell’anno 964. — I Romani eleggono Benedetto V. — Ottone riconduce Leone VIII a Roma. — Benedetto V è deposto e cacciato in esilio. — Il Papato è tenuto sotto la soggezione degli Imperatori tedeschi. — Privilegium di Leone VIII | 426 |
| § 4. Ottone torna in patria. — Leone VIII muore nella primavera dell’anno 965. — Giovanni XIII è fatto papa. — Famiglia di lui. — Egli si rende avversi i Romani. — E cacciato della Città. — Ottone muove contro a Roma. — Si accoglie nuovamente il Papa. — I ribelli sono puniti barbaramente. — Il Caballus Constantini. — Rimpianto a Roma caduta sotto ai Sassoni | 434 |
| Capitolo quarto. — § 1. Ottone II è coronato imperatore. — Liudprando va ambasciatore a Bisanzio. — Preneste, ossia Palestrina. — Questa celebre città è data a Stefania senatrice, nell’anno 970 | 447 |
| § 2. Teofania sposa Ottone II in Roma. — Benedetto VI, papa nel 973. — Muore Ottone il grande. — Commovimenti in Roma. — La famiglia [684] dei Crescenzî. — I Caballi marmorei. — Soprannomi romani a questo tempo. — Crescenzio de Theodora. — Cade Benedetto VI. — Esaltamento di Ferruccio, con nome di Bonifacio VII. — Repente fuga di lui. — Oscura fine di Crescenzio | 455 |
| § 3. Benedetto VII, papa nel 974. — Promuove la riforma di Cluny. — Restaura chiese e conventi. — Monastero dei santi Bonifacio e Alessio sull’Aventino. — Leggenda di sant’Alessio. — Spedizione di Ottone II in Italia. — Viene a Roma nella Pasqua dell’anno 981. — Sua sfortunata impresa nelle Calabrie. — Giovanni XIV è fatto papa. — Ottone II muore in Roma ai 7 Dicembre 983. — Sepolcro di lui in san Pietro | 468 |
| § 4. Ferruccio torna a Roma. — Fine orribile di Giovanni XIV. — Bonifacio VII regge col terrore. — Caduta di lui. — Giovanni XV, papa nell’anno 985. — Crescenzio s’impadronisce della podestà di patrizio. — Teofania viene a Roma come reggente dell’Impero. — Suo atteggiamento imperatorio. — Rimette la Città a quiete. — Santo Adalberto in Roma | 479 |
| Capitolo quinto. — § 1. Decadimento massimo del Papato. — Invettiva dei Vescovi di Gallia contro a Roma. — Atteggiamento ostile dei Sinodi provinciali. — Oscurità delle condizioni di Roma. — Crescenzio si prende la podestà temporale. — Giovanni XV fugge. — I Romani lo accolgono nuovamente. — Muore nell’anno 996. — Ottone III eleva Gregorio V al pontificato. — Il primo Pontefice tedesco. — Il Papato è soggetto all’Impero germanico. — Ottone III è coronato imperatore, addì 21 di Maggio del 996 | 491 |
| § 2. Condanna dei ribelli Romani. — Crescenzio riceve grazia. — Adalberto è costretto ad abbandonar Roma. — Incontra, volonteroso, morte di martire. — Ottone III parte di Roma. — Sollevazione dei Romani. — Mirabile lotta della Città contro al [685] Papato e all’Impero. — Crescenzio discaccia Gregorio V. — È scomunicato. — Mutazione di cose in Roma. — Crescenzio innalza alla sedia pontificia Filagato, con nome di Giovanni XVI | 502 |
| § 3. Dominazione di Crescenzio in Roma. — Ottone muove contro la Città. — Sorte orrenda dell’Antipapa. — Crescenzio si difende in castel Sant’Angelo. — Narrazioni varie della sua fine. — Mons Malus, ossia Monte Mario. — Inscrizione funeraria di Crescenzio | 514 |
| Capitolo sesto. — § 1. Conseguenze della caduta di Crescenzio. — Suoi parenti nella Sabina. — Ugo, abate di Farfa. — Condizioni di questo monastero imperiale. — Lite notevole sostenuta dall’Abate contro ai preti di santo Eustachio in Roma | 529 |
| § 2. Ordini giudiziarî in Roma. — I Judices palatini od ordinarii. — I Judices dativi. — Formula usata per la costituzione del giudice romano. — Formula usata nella concessione del diritto civile romano. — Giudici criminali. — Consoli e Comites, forniti di autorità giudiziaria nelle città di provincia | 538 |
| § 3. Il Palatinato imperiale in Roma. — Guardia imperiale. — Conte Palatino. — Fisco imperiale. — Palatinato e Camera pontificî. — Imposte. — I redditi del Laterano si sono diminuiti. — Dispersione dei beni ecclesiastici. — Esenzioni dei Vescovi. — La Chiesa romana riconosce, intorno al 1000, i contratti di feudo | 548 |
| § 4. Ottone III va in pellegrinaggio al monte Gargano. — Gregorio V muore nel Febbraio del 999. — Gerberto. — Santo Romualdo in Ravenna. — Gerberto è fatto papa, con nome di Silvestro II. — Idee fantastiche di Ottone III, in riferimento alla restaurazione dell’Impero romano. — Egli veste a foggia di Bisanzio. — Libro ceremoniale per la sua corte. — Il Patricius | 559 |
| § 5. Cominciamento del pontificato di Silvestro II. — Una [686] donazione di Ottone III. — Primo accenno delle crociate. — L’Ungheria diventa provincia della Chiesa romana. — Ottone III, nella sua dimora di monte Aventino. — Misticismo di lui. — Egli ritorna in Alemagna. — Viene nuovamente in Italia, nell’anno 1000. — Condizioni difficili di Silvestro II. — Basilica di santo Adalberto nell’isola Tiberina | 573 |
| § 6. Tibur, ossia Tivoli. — Sollevazione di questa città. — Ottone III e il Papa la assediano, e le concedono perdono. — Rivoluzione in Roma. — Condizioni disperate di Ottone. — Discorso ch’ei rivolge ai Romani. — Fugge di Roma. — Ultimo anno di sua vita. — Muore, addì 23 di Gennaio 1002 | 586 |
| Capitolo settimo. § 1. Barbarie del secolo decimo. — Superstizione. — Il clero romano manca di cultura. — Invettiva dei Vescovi di Gallia. — Risposta meravigliosa che ne ricevono da Roma. — Decadimento dei conventi e delle scuole di Roma. — La grammatica. — Vestigia di rappresentazioni teatrali. — La lingua volgare. — In Roma difetta qualsiasi ingegno letterario | 601 |
| § 2. Ritorno lento delle scienze. — Gregorio V. — Genio di Silvestro II, straniero in Roma. — Boezio. — Storiografia italiana nel secolo decimo. — Benedetto di Soratte. — Il Libellus de Imperatoria potestate in urbe Roma. — I Cataloghi dei Papi. — La Vita di santo Adalberto | 615 |
| § 3. Descrizioni della Città. — L’Anonimo di Einsiedeln. — Fecondità della tradizione e della leggenda in Roma. — Le statue sonanti del Campidoglio. — Tradizione dell’edificazione del Panteon. — La Graphia aureae urbis Romae. — La Memoria Julii Caesaris | 625 |
| § 4. Le Regioni della Città nel secolo decimo. — Le vie. — Architettura di quel tempo. — Descrizione di un palazzo. — Numero grande di grandi ruine. — Roma saccheggiata dai Romani | 640 |
| [687] | |
| § 5. Una scorsa per la Roma del tempo di Ottone III. — Il Palatino. — Il Septizonium. — Il Foro. — Santi Sergio e Bacco. — L’Infernus. — Marforio. — Il Campidoglio. — Santa Maria in Capitolio. — Il Campus Caloleonis. — La colonna di Trajano. — La colonna di Marco Aurelio. — Il campo Marzo. — Il Mons Augustus. — La Navona. — Chiese farfensi. — Santo Eustachio in Platana. — Leggenda di santo Eustachio. — Santa Maria in Minervio. — Camigliano. — Arcus manus carneae. — Parione. — Ponti del Tevere. — I templi della Fortuna Virile e di Vesta. — Conchiusione | 651 |
[689]
| VOLUME TERZO | |||||
| ERRATO | CORREGGI | ||||
| Pag. | |||||
| 10 | testo, | lin. | 12 e 13, | (chè tanta ne abbraccia il legame fondato da quell’ordinamento) | (chè tanta ne abbraccia questo volume terzo) |
| 38 | nota, | » | 11, | Angli | Angeli |
| 40 | testo, | » | 4, | Angone | Agone |
| 48 | nota, | » | 8, | apocrifo | apografo |
| 61 | testo, | » | 14, | di una | della |
| 85 | nota, | » | 3, | meridionali | orientali |
| 114 | testo, | » | 7, | chiamavano | credevano i |
| 115 | testo, | » | 5 e 6, | nella pianura | nei prati |
| 124 | testo, | » | 21, | Palati | Palatii |
| 180 | nota, | » | 17, | il Patronace | a Patronace |
| 238 | testo, | » | 23, | eterno nobile | Vostra Nobiltà |
| 329 | testo, | » | 28, | (romanamente Tuscia) | , della Tuscia romana |
| 414 | nota, | » | 7, | Annatin | Amiatin. |
| 422 | testo, | » | 12, | la eterna | la |
| 424 | testo, | » | 2, | ripa | salita |
| 440 | testo, | » | 25, | sull’ | presso l’ |
| 454 | testo, | » | 7, | del Tevere | di Tiberio |
| 464 | testo, | » | 1, | a’ tempi del gran Lodovico | fra i grandi del tempo di Lodovico |
| 472 | nota, | » | 1, | Nerni | Nerini |
| 483 | testo, | » | 5, | deve | si dice |
| 503 | testo, | » | 1, | al morto | a questo |
| 514 | nota, | » | 12, | secavit | necavit |
| 527 | nota, | » | 12, | recoles | recolens |
| 530 | testo, | » | 28, | Cere, e Agylla | Cere o Agylla. |
| 548 | nota, | » | 2, | soggetti ai | fra i |
| 562 | testo, | » | 17, | discorsi | protocolli |
| 575 | nota, | » | 8, | dato da | dato per |
| 583 | nota, | » | 3 e 4, | dice che la lettera è al tutto falsa | frantende al tutto la lettera |
| 586 | testo, | » | 14, | marmo | peperino |
| 614 | testo, | » | 4, | Vienna | Verona |
| 628 | testo, | » | 17, | dal Campidoglio | presso il Campidoglio |
| 642 | testo, | » | 1, | in un sol | in un |
| 646 | testo, | » | 2, | «Pigna e Parione» | «Pigna» e in quello detto «Parione» |
| 646 | testo, | » | 9, | Proalium | Proaulium |
| 654 | testo, | » | 21, | uomo selvaggio | uomo barbaro |
| [690] | |||||
| 656 | nota, | » | 4, | deve aver | si dice aver |
| 665 | testo, | » | 16, | deve | si dice |
| 671 | testo, | » | 5, | anche da quello di | anche di |
| 673 | testo, | » | 19, | popolosi | abitati |
| 673 | testo, | » | 19, | che le mura della Città erano messe | che vasti territorî lungo le mura della Città erano messi |
1. Roma appellavasi capo e rocca munita dell’Impero: così il Diacono Floro, nella sua Querela de divisione Imperii post mortem Ludovici Pii (Dom. Bonquet VII, 302), esclama:
O fortunatum, nosset sua si bona, regnum,
Cujus Roma arx est.
Ma nel fatto, Roma non era altro che il capo ideale dell’Impero: Carlo magno, per buona sorte dei Vescovi romani, lo ebbe costituito acefalo.
2. Il Muratori, ad a. 801, parla di «un magnifico palazzo,» che Carlo s’ebbe edificato in Roma; però nessun Cronista ne discorre. Del palazzo che era in vicinanza al san Pietro fanno menzione i Regesta Farf. n. 537: ad basil. b. Petri Ap. in palatio domni Karoli. Un diploma di Lodovico II, dell’anno 872 (Chron. Farf.), dice: Acta in civitate Roma, Palatio Imperatoris, che corrisponde coll’altra dizione: Actum apud S. Petrum. Il Libell. de Imp. Potest. dice chiaramente del Missus imperiale: morabatur quippe in palatio S. Petri.
3. Ordinatis deinde Romanis urbis et apostolici totiusque Italiae non tantum publicis, sed etiam ecclesiasticis et privatis rebus: nam tota hieme non aliud fecit imperator: Einhardi, Annal., ad a. 801.
4. Leggasi il Libellus de Imperatoria Potestate in Urbe Roma: Inventum est, ut omnes majores Romae essent imperiales homines, et ut suus missus omni tempore moraretur Romae. I documenti taciono dell’officio di Prefetto fino all’anno 995: se durante l’età dei Carolingi avesse cessato di esistere, è incerto.
5. Anastas., in Leone III, c. 31; Einhard. Ann., 801; Annal. Fuld.; Poeta Saxo etc. — Il Galletti, Inscr., I, 21, ha riferito erroneamente a Leone III la iscrizione che trovasi nel chiostro del san Paolo, nella quale Leone I parla della caduta e della restaurazione della basilica.
6. Anno consulatus autem nostri primo. I Carolingi indi in poi tennero nota anche dell’anno del postconsolato; ad esempio: Imp. Dnn. pp. Aug. Hludowico a Deo coronato magno pacifico Imp. anno sexto et PC. ejus anno sexto sed et Hlotario novo Imp. ejus filio anno tertio Ind. XII.
7. Ne darebbero conferma le lettere di Leone, se fossero giunte fino a noi le epistole di quell’anno. Delle sue dieci lettere (Cenni, Monum., tom. II) la prima appartiene all’anno 806; nelle successive si rivelano le lagnanze onde abbiamo detto. Del resto, il Poeta Saxo ne sa i motivi: Ecclesiae quoque pro caussis. Del viaggio del Papa parlano gli Annales Einh., Fuld., Amandi, Juvav., Lauriss.
8. Einh. Annal., ad a. 806. La divisio Imperii è compresa nei Capitular., Mon. Germ., III, 140. Il Muratori ne ha chiarito che Modena, Reggio, Parma e Piacenza appartenevano al reame d’Italia, e non già all’Esarcato di Ravenna.
9. Annal. Einh. e Fuld., ad a. 808. Le lettere quinta, sesta e settima di Leone, nel Cenni.
10. L’anno 812 si desume dagli Annal. Einh., da quelli Lauriss. min., e Xant.: l’anno 813 si ricava da quegli Annali stessi e dal Thegano, Vita Ludov.
11. Tunc jussit eum pater, ut propriis manibus elevasset coronam, quae erat super altare, et capiti suo imponeret. At ille jussionem implevit: Thegani, Vita, c. 6.
12. Ne lo dimostra il passo della lettera di Lodovico II, indiritta a Basilio imperatore, dove è detto: Qui nisi Romanorum Imperator essemus, utique nec Francorum. A Romanis enim hoc nomen et dignitatem assumsimus, apud quos profecto nimirum primo tantae culmen sublimitatis et appellationis effulsit, quocumque gentem et Urbem divinitus gubernandam, et matrem omnium Ecclesiarum Dei defendendam — suscepimus: Anon. Salern., c. 102.
13. Agnellus, Vita Martini, c. 2: Mensam argenteam unam absque ligno, habentem infra se anagliphte totam Romam, una eum tetragonis argenteis pedibus. — Eginh., Vita, in sulla fine: decrevit, ut una ex his, quae forma quadrangula, descriptionem urbis Constantinopolitanae continet Romam ad basilicam b. Petri ap. deferatur, et altera quae forma rotunda, Romanae urbis effigie decorata est, episcopio Ravennatis etc. conferatur. — Una terza mensa d’argento, ancor più bella, rappresentava l’universo mondo con figure di piccole dimensioni (minuta figuratione); era composta di tre dischi aderenti insieme, che probabilmente corrispondevano alle tre parti del mondo: me la imagino della forma di una foglia di trifoglio. Ex tribus orbibus connexa, dice Eginardo.
14. Pasquale III, antipapa a’ tempi di Alessandro III, cedette al desiderio dell’imperatore Barbarossa, e beatificò Carlo: quella canonizzazione ebbe conferma da Gregorio IX. Nella biblioteca municipale di Zurigo si conserva tuttavia il decreto di Eberardo vescovo di Costanza, dato a’ 22 del Febbraio 1272, in cui è ordinata la celebrazione della festività di Carlo.
15. Monum. Germ., V, p. 710 sgg., c. 30.
16. Annal. Fuld. a. 815: Romae quidam primores in necem Leonis Papae conspirantes interficiuntur. Con ciò si modifica quel tardus ad irascendum, che la Biografia di Leone III gli attribuisce; però si comprende la ragione del rigore. — Astron., Vita Ludov., c. 25: perlatum est Imperatori, quod Romanorum aliqui potentes contra Leonem apostolicum pravas inierint conjurationes, quos detractos atque convictos isdem apost. supplitio addixerit capitali, lege Romanorum in id conspirante. — Einh. Annal., a. 815.
17. Astronom. c. 26, sa di Domus cultae fondate da Leone III, delle quali Anastasio non fa menzione: Praedia omnia, quae illic domocultas appellant, et novi ab eodem apostolico instituta erant. Secondo gli Annal. Einh., queste ville erano situate in singularum civitatum territoriis. E vi è detto: Tunc Romam ire statuunt, et quae sibi erepta querebantur violenter auferre.
18. La Chiesa ne proclamò la santità, e riunì le ceneri di lui con quelle del primo, del secondo e del quarto Leone, i quali, eccezion fatta dal secondo, furono uomini cui ben s’addiceva nome di leone, e, per grandezza dei tempi, degni di ammirazione. Le loro ceneri, sepolte in un sarcofago degli antichi tempi cristiani, sono deposte nella cappella della Madonna detta «della colonna», sotto l’altare di Leone I. Vi sormonta il rilievo che è opera dell’Algardi; i loro nomi leggonsi scritti nel pavimento.
19. Siffatto mi sembra essere il carattere di tutte le chiese romane dell’età dei Carolingi, quali sono quelle di santa Maria in Cosmedin, di santa Francesca Romana, dei santi Nereo e Achilleo, la torre di santa Cecilia, la chiesa di santa Maria in Domnica, ecc.
20. Agnellus, Vita Martini, c. 1: Leo Romanae Ecclesiae et Urbis Antistes misit cubicularium suum nomine Chrysaphum et reliquos caementarios, restauravit tecta B. Apollinaris. — Nella Vita di Leone III si menziona per la prima volta che il Papa togliesse cura di basiliche di remoti paesi, ed è prova dell’ampliazione che assumevano i rapporti di Roma. Il Pontefice provvide a restaurare parecchie chiese a Velletri, a Preneste, ad Albano, a Porto, ad Ostia, a Tivoli, nella Sabina.
21. Anastas., Vita Leonis III, c. 65. — Il Rumohr, Studî sull’Italia I, 204, scambia la cappella battesimale del san Pietro col battisterio del Laterano.
22. Vita Leonis III, c. 27: Et in pavimento marmoreis exemplis stratis: in tal senso, durante questo periodo, deve spiegarsi la parola exempla che di frequente è adoperata. Vi erano presso il san Pietro edificî parecchi: Cum caeteris amplis aedificiis, tam in ascensu scalae, quamque post ipsum triclinium compte fecit. Penso che questo grande triclinio fosse nel palazzo di Carlo.
23. Fecit et ubi supra juxta columnam majorem balneum (c. 89). Il popolo diceva allora in suo linguaggio columna o columpna majore, e la parola agulia, venuta più tardi, o l’espressione sepulchrum Julii Caesaris, non si attribuivano ancora all’obelisco di Caligola.
24. Vita Leonis, c. 90: Hospitalem in loco qui Naumachia dicitur, e al c. 81: In hospitali Dominico ad Naumachiam. Secondo i Mirabilia e la Graphia, il sepulchrum Romuli si comprendeva nella Naumachia, laonde così dev’essere stato appellato l’intiero tratto di territorio che si stendeva fra il Vaticano e il Castel sant’Angelo. — Cod. Laurent. XXXV: In Naumachia est sepulcrum romuli et vocatur sci. petri. L’Anon. Magliab. (XXVIII, Cod. 53) così appella perfino la città Leonina: civitas quae dicitur in Almachia. La menzione più antica fatta della Naumachia è quella nella Biografia di Leone, per cui puossi ritenere che ivi fosse situato quel luogo.
25. Questa chiesa va debitrice della sua conservazione al Baronio, che da essa ebbe suo titolo cardinalizio. In una inscrizione ivi apposta, egli ammonì i posteri di non rimodernarla: un siffatto anatema sarebbe da scagliarsi contro ogni mala restaurazione. Dopo che il periodo del barocchismo ebbe cancellato i caratteri del medio evo, le chiese subirono un novello periodo di restaurazione, che potrebbe appellarsi dello stile da salotto. — Al c. 75 della Vita Leonis, quell’antico titolo presbiteriale è annoverato quale diaconia: errore che il Vignoli non corresse.
26. In ecclesia S. Agathe — imagine lignea, in qua depicta erat vultum ipsius martyra, dice Benedetto di Soratte, c. 31, parlando dell’anno 921; qui per certo devesi a preferenza reputare che fosse una pittura in tavola.
27. Occorre appena far avvertito il leggitore che a ciascuno di questi nomi va preposto l’addiettivo «Santo», o «Santa». Il Sinodo dell’anno 499 numera ventotto chiese titolari; all’età di Gregorio I, parimenti come a quella di Leone III, io ne contai ventiquattro; soltanto, invece della Emiliana, vi si sostituisce quella dei santi Apostoli. Giusta un codice del secolo decimoterzo, che io vidi nella Laurenziana (Plut. 89, Inter. Cod. 48), nel secolo duodecimo o nel decimoterzo vi avevano Titoli ventotto, che concordano col codice dell’archivio Lateranense riportato dal Crescimbeni nella Istoria di S. Giov. av. P. Latina, p. 369.
28. Reputa il Vignoli che sia la chiesa di santo Abbaciro in Septimo, ignota. Però essa non può esser altro che la diaconia di sant’Angelo in Piscaria, che esisteva di già ai tempi di Leone III.
29. Il codice fiorentino usa la dizione: Ynter Ymagines, e allude al gruppo di Orfeo.
30. Nel codice fiorentino trovansi di bel nuovo numerate tutte queste diaconie, ad eccezione di quelle dei santi Silvestro e Martino, della santa Maria a porta san Pietro e dell’altra in Adrianio: invece dell’Arcangelo vi si usa la denominazione Angeli, e si annovera anche la chiesa di san Nicolò in carcere Tulliano, la quale diaconia difetta nel codice del Crescimbeni. Contiene pertanto le diciotto diaconie sorte più tardi.
31. Con denotazione di monasteria quinque constituta juxta magnam Ecclesiam S. Petri, sono tutti enumerati nella bolla di Giovanni XIX, a. 1024, nel Bullar. Vatican., I, 17.
32. Il convento dei santi Andrea e Bartolomeo è oggidì il noto ospitale di questo nome. Del monastero dei santi Sergio e Bacco fa cenno la Vita Paschalis I (n. 442): Post formam aquaeductus Patriarchi Lateran. positum. Non trovo più menzione dell’antico convento dei Benedettini vicino al Laterano, che era restaurato ancora da Gregorio III.
33. Questo soprannome rinviensi in un diploma di Subiaco, n. 967, nel Codex Sublac., manoscritto che è nella biblioteca Sessoriana, CCXVII, p. 142.
34. Da quei due conventi si pare che in Roma esistevano a quell’età dei luoghi di romitaggio pei Côrsi e pei Sardi. Dalla Vita Leon. IV, n. 507, si rileva che il convento dei Côrsi era in prossimità di santo Sisto: Mon. Corsarum quod juxta basil. b. Sixti Martyris; e il Vignoli opina che fosse identico di quello di S. Caesarius in Palatio (n. 513, Vita Leon. IV): — n. 406, Vita Leon. III: In Oratorio S. Viti quod ponitur in Monast. quod appellatur de Sardas: — n. 499, Vita Leon. IV: vicus qui nuncupatur Sardorum. Questo stesso vico, al n. 541, vien detto situato al milliario ab urbe Roma trigesimo. Significa dunque che esisteva nella Campagna una colonia di Sardi.
35. Il Martinelli e il Vignoli lo pongono situato alle Carine; il secondo dei due Scrittori reputa che fosse la santa Maria Purificationis, in vicinanza del san Pietro ad vincula.
36. Incerto; lo si cita nel Muratori, Antiq. V, 772, e nel Bullar. Casin., II, const. 112 e 150.
37. Anche nell’Ordo Rom., XII (Mabillon, Mus. Ital., II, 206) è detto: Monasterio Tempoli. Il Torrigio, Historia della Imagine di Maria Vergine di S. Sisto e Domenico, Roma 1641, p. 31, crede che fosse situato nel Transtevere e altresì appellato: in Torre, ma questa opinione è contestata dal Mammachio, Annal. Ord. Praedicator., I, 557; secondo lui la santa Maria in Tempulo era in vicinanza della santa Balbina, nella via Appia.
38. Arnoldus de S. Emmerammo, lib. II, c. 54 (Mon. Germ. VI). Sulle venti abazie di Roma a’ tempi posteriori, vedasi l’Ordo Rom., XI, nel Mabillon II, 160.
39. Qui statim — jussit omnem populum Romanum fidelitatem cum juramento promittere Hludowico: Thegan. Vita Lud. c. 16, — prova della sovranità che l’Imperatore esercitava sopra di Roma. — Praemisit tamen legationem, quae super ordinatione ejus imperatori satisfaceret: Astron., Vita c. 26, — prova che di già Carlo pretendeva al diritto di approvare la elezione pontificia: peraltro non se n’era ancor costituita legge.
40. Astronom., c. 26; Thegan., c. 16, 17. Stefano avea portato con sè una corona preziosa, ed Ermoldo Nigello (II, v. 425) da poeta afferma che fosse quella di Costantino. Egli fa che Stefano acclami all’Imperatore ed ai suoi eredi: quique regat Francos necnon Romamque potentem, e dà notizia che Elisacario cancelliere ebbe rogato un documento in cui davasi confermazione imperiale ai privilegî della Chiesa. Secondo gli Annal. Einh., il Papa intraprese il suo viaggio sulla fine di Agosto.
41. Omnes exsules, qui illic captivitate tenebantur propter scelera et iniquitates suas, quas in S. Ecclesiam Rom., et erga Domnum Leonem Papam gesserunt, secum reduxit.
42. Ancor di recente, il Floss nello scritto: La elezione pontificia sotto gli Ottoni, 1858, ha attribuito a Stefano IV (V) il decreto di Stefano VII, locchè a mia persuasione è un errore.
43. Excusatoriam Imperatori misit epistolam: Einh. Annal. 817. — Legatos cum epistola apologetica et maximis imperatori misit muneribus, insinuans non se ambitione nec voluntate, sed cleri electione et populi adclamatione huic succubuisse potius quam insiluisse dignitati: Astron., Vita, c. 27.
44. Lo dice Astronomo con semplice linguaggio: Theodorus nomenculator — negotio peracto, et petitis impetratis super confirmatione scilicet pacti et amicitiae more praedecessorum suorum, reversus est. — Einh. Annal., a. 817: pactum, quod cum praecessoribus suis factum erat etiam secum fieri et firmari rogavit.
45. Patrimonium Beneventanum, et Salernitanum, et patrimon. Calabriae inferioris, et superioris, et patrimon. Neapolitanum: così il diploma. Durante la controversia delle imagini, Bisanzio s’aveva preso i dominî di Roma nell’Italia meridionale, dove i Franchi nulla possedevano. Il testamento di Carlo non fa neanche parola di Benevento. — Insulas Corsicam, Sardiniam, et Siciliam sub integritate. L’Ep. 4 di Leone III parla di una donazione di Corsica fatta da Carlo, ma ne è oscuro il concetto. Da quella lettera e dal diploma di Lodovico, i Pontefici derivarono le loro pretese sull’isola. In Sicilia ed in Sardegna, la Chiesa avea avuto anticamente degli estesi possedimenti, e di essi ripetute volte faceva reclamo appresso gli Imperatori greci. Nicolò I scrive a Michele: Calabritanum patrimon. et Siculum, quaeque nostrae ecclesiae concessa fuerunt — vestris concessionibus reddantur (Labbé, IX, 1296). Laonde quel Papa nulla sapeva della donazione di Lodovico, e si riferiva soltanto a chiedere i patrimonî che Roma aveva colà posseduto dai tempi di Gregorio I. Parimente i diplomi di Ottone I e di Enrico I, non sanno altro che del patrimonium Siciliae.
46. Del diploma di Lodovico fanno menzione per la prima volta il Chronic. Vulturnense, che appartiene alla fine del secolo undecimo (Mur. I, 2, 369), e Leo Ostiens. I, c. 16, che rimonta al principio del secolo duodecimo: concordano fra loro quasi parola per parola. Dicono che Lodovico avesse concesso a Pasquale il pactum constitutionis et confirmationis, ma non parlano nè di una donazione, nè del tenore del diploma. L’autografo non può essere fornito; apografo dev’essere quello conservato nell’archivio pontificio. Graziano inserì il diploma, abbreviandolo, nel Decret., Dist. 63, can. 30; Cencio lo introdusse nel Liber Censuum traendolo dal Cod. Vatic. 1984, che è del secolo undecimo, o da Albino (Cod. Vatic. 3057). La impostura dimostrarono il Pagi, ad a. 817, e il Muratori negli Annali, nella Dissert. 34, nella Piena esposiz. c. 4: il Beretta, Tab. Chor. VI, se ne giova soltanto nei riguardi della geografia, e determina che la finzione avvenisse nell’età di Gregorio VII, alla quale appartengono le falsificazioni dei Pacta dell’817, del 962 e del 1020, conservati soltanto in copie. Modernamente la questione fu discussa profondamente dal Ficker, nel secondo volume dei suoi Studî sulla storia dello Stato e della Chiesa d’Italia (Innsb. 1869), § 347 e segg. Egli accoglie opinione che di questi celebri diplomi si falsassero alcuni passi, non l’intiero. Vedasi anche il Sickel, Acta Karolinor., II, 381.
47. Thegan., c. 23. — Il Chron. Reginen. dice il vero: Bernhardus dolo capitur. Della sua tragica fine discorrono Astron., Vita, c. 30; Thegan., c. 22; Eginh., Annal., a. 817, 818. — Andreas presbyter dice concisamente: Hermengarda — oculos Bernardo avulsit.
48. Astron., Vita, c. 36; diadema imperiale cum nomine suscepit Augusti. — Annal. Einh.: et regni coronam et Imperatoris atque Augusti nomen accepit. — Annal. Fuld.: Hlotarius juvenis, rogante Paschale papa Romam veniens, ab eodem coronatur, et a populo Romano imperator Augustus appellatur. — V’hanno pertanto nei diplomi due epoche imperiali per Lotario, quella dell’anno 820 e questa dell’823. Dalla prima conta Pasquale stesso, in una bolla indiritta all’Arcivescovo di Ravenna: datum V Idus Julias per man. Sergii Biblioth. S. Sed. Ap., Imp. Dnn. pp. Hludovico a D. coronato magno pacifico Imp. anno sexto et po. ejus anno sexto sed et Hlotario novo Imp. ejus filio anno tertio Ind. XII (Marini, Pap. n. XI).
49. Fragment. Langob. Hist. (Murat. I, p. 2, 184): Paschalis, — potestatem, quam prisci Imperatores habuerant, ei super populum Romanum concessit.
50. Sub nostro privilegio, atque Mundiburdio consistat (Chron. Farf., Murat. II, 2, 364).
51. La bolla di Stefano IV, in data X kal. Febr., trovasi nel Chronic. Farf. e nel Galletti, del Primic., appendice n. I; la bolla di Pasquale è nel Chron. Farf., p. 372.
52. Diploma di Lotario dato da Cavillon (a. 840), nel Chron. Farf., p. 387. Il litigio si rinnovò nell’anno 829, ed anche stavolta ne andò a capo rotto il Papa: vedasi il placito nel Vatican. Regest. Farf., n. 285. I Missi di Lodovico furono Giuseppe vescovo e Leone conte: Missi ipsius Augusti singulorum hominum causas audiendas et deliberandas, et conjunxissemus Rome, residentibus nobis ibidem in judicio in palatio Lateranensi in praesentia domni Gregorii Papa. I Missi erano uomini a finibus Spoletanis, seu Romania; vedasi a che antichità risalga il nome di «Romagna.» La provincia dell’Emilia e Ravenna erano territorio pertinente a Roma, che i Longobardi non avevano conquistato: colà vigeva il diritto romano. In un diploma (a. 881) trovasi scritto: Possessiones tam in Longobardia, quam in Romania, sive in Tuscia, et in Ducatu Spoletano (Monumentor. Magni Farf. Chartarii Epitome del Fatteschi, Cod. Sessor. CCXVIII, n. 331).
53. Et hoc eis ob hoc contigisse, quod se in omnibus fideliter erga partes Hlotarii juvenis imperatoris agerent; erat et qui dicerent, vel jussu vel consilio Paschalis pont. rem fuisse perpetratam: Annal. Einh., a. 823. — Parimenti Astronomo, c. 37. — Che i Romani stessi fossero gli accusatori, lo dice Thegan., c. 30: Quandam insolentiam quam Romanus populus super Roman. pont. Paschalem dixit, imputantes ei, quod nonnullorum homicida fuisset. Vedasi di che stampa fossero ridotte omai a quel tempo le condizioni de’ Papi in mezzo a’ Romani.
54. La dizione degli Annal. Einh.: interfectores praedictorum hominum, quia de familia S. Petri erant, significa veramente che non si trattò di esecuzione d’una sentenza, chè altrimenti i Romani non avrebbero potuto dare al Papa dell’homicida.
55. Accusationi opponentes excusationem, et super vita imperatori offerentes examinationem: Astron., c. 37, Annal. Einh., a. 823.
56. Annal. Einh.: Legati — res gestae certitudinem adsequi non potuerunt, quia Paschalis pont. et se ab hujus facti communione cum magno episcoporum numero jurejurando purificavit, et interfectores praedictor. hominum, quia de familia S. Petri erant, summopere defendens, mortuos velut majestatis reo condemnavit, jure caesos pronuntiavit. — Più mitemente, ossia con miglior garbo diplomatico, si esprime Astronomo.
57. Imperator ergo natura misericordissimus, occisorum vindictam ultra persequi non valens, quamquam multum volens, ab inquisitione hujuscemodi cessandum existimavit, et eum responsis congruis missos Romanos absolvit: Astronom.
58. Thegan., c. 30. — Stando agli Annal. Einh., morì Pasquale nell’anno 824, pochi giorni dopo il ritorno dei suoi legati: il senso molesto dei loro messaggi affrettò la sua morte. Incerto è il mese: il Pagi accoglie per data il giorno 10 di Febbraio.
59. Il primo organo, da’ Greci venne tra i Franchi intorno all’anno 757. Gli Annali di Einhardo registrano all’anno 826, che un Giorgio, prete veneziano, il quale aveva appreso il secreto di costruire organi, ottenne impiego in Aquisgrana da Lodovico il Pio. La Diss. XXIV del Muratori illustra questo argomento.
60. Così in posa giacente la rappresenta nel marmo la vaghissima opera del Maderno, che è collocata nella chiesa della Santa.
61. Il sarcofago e il luogo della sepoltura si mostrano in quelle catacombe che devono tanta luce di illustrazioni agli studî del De Rossi: i condotti di piombo d’un bagno antico, vedonsi in una cappella della chiesa che la Santa ha nel Transtevere.
62. Anast., Vita Paschal., n. 437.
63. In vicinanza della chiesa, Pasquale ebbe edificato anche un convento in honorem martyrum Agathae et Ceciliae juxta ipsius ecclesiam, in loco qui dicitur colles (?) jacentes (Anastas., n. 438): pertanto può essere che quella figura di Santa incerta rappresenti santa Agata.
64.
Haec domus ampla micat variis fabricata metallis,
Olim quae fuerat confracta sub tempore prisco.
Condidit in melius Paschalis praesul opimus
Hanc aulam Domini firmans fundamine claro.
Aura gemmatis resonant haec Dyndima templis
Laetus amore Dei hic conjunxit corpora sancta
Caeciliae, et Sociis, rutilat hic flore juventus;
Quae prius in cryptis pausabant membra beata.
Roma resultat ovans semper ornata per aevum.
Dyndima significano massimamente istrumenti di musica, difficilmente organi. — Dei musaici parla il Ciampini, Vet. Mon., c. 27. — La storia della Santa scrissero Antonio Bossi: Laderchi Acta S. Caeciliae et Transtyb. Basilica (Roma 1722), e Giuseppe Bondini: Memorie storiche di S. Cecilia (Roma, 1855).
65.
Emicat aula pie variis decorata metallis
Praxedis Domino super aethra placentis honore,
Pontificis summi studio Paschalis, alumni
Sedis apostolicae, passim qui corpora condens,
Plurima Sanctorum subter haec maenia ponit,
Fretus ut his limen mereatur adire polorum.
66. Il Rumohr pone troppo soverchiamente in basso le opere del tempo di Pasquale. La loro fattura assai rozza, è pur sempre migliore di quella del tempo di Giovanni VII.
67. Si costumava con gran predilezione di porre, fuor delle chiese, di quelle anticaglie. Nell’atrio del san Pietro era collocata la pina di bronzo del mausoleo di Adriano; fuor del Panteon era la bella urna di porfido in cui è adesso sepolta nel Laterano la salma di Clemente XII; nell’atrio della santa Cecilia v’ha ancora un grande vase antico di marmo; uno di somigliante è nel cortile della chiesa dei santi Apostoli. Poichè nelle vicinanze di santa Maria in Domnica stava anticamente il campo degli stranieri, può darsi che da quello avesse origine l’antica nave votiva. La V Cohors vigilum stava presso alla villa Mattei. Vedi il De Rossi, Le Stazioni delle VII Coorti dei Vigili, Roma 1859, p. 27 ecc. — L’appellazione in Domnica deve, con massima semplicità d’interpretazione, spiegarsi dal giorno di «Domenica,» in cui è facile che ivi ai celebrasse officiatura festiva.
68. Anast., n. 432: Gentis Anglorum — omnis — habitatio, quae in eorum lingua burgus dicitur. Può darsi che questo incendio avvenisse a’ tempi di Leone IV.
69. Ut vice sua functus, ea quae rerum necessitas flagitare videbatur, cum novo pontifice populoque Romano statueret atque firmaret: Einh. Annal., a. 824.
70. Eugenio confortò questi giudici allorchè più tardi poterono tornare in patria: Romani judices, qui in Francia tenebantur captivi, reversi sunt, quos in parentum propria ingredi permisit, et eis non modicas res de Patriarchio Lateranensi praebuit: Vita Eugenii. — Astronom., c. 38: Reddendo quae injuste sublata erant, Hlotarius magnam populo Romano creavit laetitiam. — Einh. Annal., a. 824: Statum populi Romani jamdudum quorundam praesulum perversitatem depravatum — correxit. A petto di questi fatti è in verità cosa ridicola di voler negare che l’Imperatore esercitasse suprema signoria sopra di Roma.
71. La Constitutio Lotharii I trovasi nei Monum. Germ., III, 249, ed altrove in luoghi parecchi. Volumus etiam, ut Missi constituantur a Domno Apostolico et a nobis, qui annuatim nobis renunciant etc. Questi erano Missi ex latere imperatoris, come dice Astronom., c. 38, e già in uso ancor da tempo prima: di regola erano due, uno laico, l’altro prete; un Conte e un Abate, un Duce ed un Vescovo per i negozî dell’una e dell’altra specie. Sopravvegliavano i giudici dello Stato della Chiesa; in caso di bisogno li punivano, e massimamente facevano giustizia al popolo. Vedasi anche la Constitutio de Missis ablegandis in Hludovici et Hlotharii Capitul., a. 828, Mon. Germ., III, 328.
72. Volumus etiam et numerum et nomina scire, et singulis de ministerio sibi credito admonitionem facere: n. VIII dello Statuto.
73. Il paragrafo incomincia così: Volumus etiam, ut omnis Senatus et populus Romanus interrogetur, quali vult lege vivere, ut sub ea vivat. Il clero per la massima parte seguì il diritto romano (Capitul. Hludov. I: Ut omnis ordo ecclesiarum secundum Romanam legem vivant: Mon. Germ., III, 228). L’uso più antico di quella Costituzione trovo essersi fatto in un istromento del monastero di Farfa, a. 829, che leggesi nel Galletti, p. 184, là dove è detto: uterque secundum suam legem. Un diploma dell’anno 869 è sottoscritto così: Ego Gregorius filius Leonis de Civitate Roma, Legem vivens Romanam (Chron. Casaur. nel Muratori, Diss. XXII), e così devesi anche intendere la dizione: salva lege mea, usata nelle formule giuratorie dei Romani. Il più antico esempio di una sentenza a legge longobardica, pronunciata in Roma nel maggio dell’anno 813, trovasi in Carlo Troya, Della condizione dei Romani vinti da’ Longobardi, Napoli, 1841, tratta dal Galletti, del Vestar., p. 31-34.
74. Ancor nell’anno 939, Teoderanda, figlia di Graziano console, come moglie del franco Ingebaldo rettore della Sabina, passa sotto la legge dei Franchi: Quae modo professa est vivere in lege Salicha: Fatteschi, Serie ecc., n. LXI.
75. Qualiter Romanus fieri debeat. Tornerò più tardi su questa celebre formula.
76. Questo giuramento, aggiunto allo Statuto di Lotario, leggesi nei Mon. Germ., III, nel Muratori, nel Pagi, ecc. Il Cenni esclude il fatto, che si appoggia soltanto sopra il passo dell’incerto Fragment. Langob. Hist. (Muratori, II, p. 1, a. 825), dove, più sopra, è detto che Lotario nell’anno 825 venne per la seconda volta a Roma. Il Pagi afferma la cosa, il Muratori propende ad accoglierla, appoggiandosi alla espressa conferma della elezione di Gregorio IV: ma di ciò diremo in seguito.
77. Giacinto Gigli, che fu, intorno all’anno 1644, caporione di Campitello, scrive (Mtto. Sessorian. 334): «per autorità di Lothario Imperatore il Popolo Romano tornò alla creatione de’ Magistrati che furono Consoli, Prefetto et 12 Decarchoni nell’anno di Christo 825.» In questa ipotesi per fermo havvi qualche cosa di vero.
78. Anastas., Vita Eugen.: Hujus Pontificis tempore ubertas non modica totam non solum Romam, sed etiam pene totum invaserat orbem (affè che è un bel latino come se lo parlasse un Saraceno!) Maxima autem pax — nam ipse — pacis amicus. La Biografia di Eugenio si comprende in un sol paio di righe.
79. Sed non prius ordinatus est, quam legatus imp. Romam venit, et electionem populi, qualis esset, examinavit: Einh., Annal., a. 827. È il passo da cui si trae la probabilità che Lotario ordinasse quei rapporti con un suo decreto.
80. Leone III, ep. 4, scrive a Carlo: Littoraria nostra et vestra ab infestatione paganorum — tuta reddantur atque defensa. Il solo Einh., Annal. a. 813, parla della devastazione di Centumcelle. — Nell’anno 812 scriveva Leone III (ep. 8): ingressi sunt in insulam quandam, quae dicitur Isola majore, non longe a Neapolit. urbe miliaria XXX. Con questo nome si appellava fin d’allora in lingua volgare l’antica Aenaria. — La difesa di Corsica era stata affidata al conte Bonifacio di Lucca. — Di già Leone III adopera i nomi di Mauri, di Agareni (figli di Agar) e di Saraceni, quest’ultimo interpretato in varie guise e adottato dagli Italiani (Vedi il D’Herbelot a questo vocabolo).
81. Vedi la Storia dei Musulmani di Sicilia di Michele Amari (Firenze 1854), opera ricchissima di pregî, che al lume delle fonti arabiche corregge i perdonabili errori di Leone Africano, del Facello e del Martorana.
82. Così per lo meno in tempo più tardo, e ben anche allora. Ep. Hostientis qui debet consecrare et benedire Apostolicum prae omnibus aliis, dice Giovanni Diacono (Mabillon, Mus. It., II, 566), e dipoi enumera nella loro serie i Vescovi di santa Rufina, di Porto, di Albano, di Tusculum, di Sabina e di Preneste.
83. Vita Gregor. IV, n. 476: fecit — in praedicta civitate Ostiensi civitatem aliam a solo. — Tuttavolta, Nuova Ostia non fu edificata sul suolo dell’antica, ma in vicinanza. Similmente, intorno all’anno 841, furono abbandonate le ruine della vecchia Capua, e poco dopo sorse Capua la nuova. — Negli escavi di questi anni furono dissotterrati molti avanzi di Ostia antica, massimamente la via dei sepolcri: sembra che di quella terra classica sia per sorgere un’altra Pompei.
84. Eccone le precise parole: portis simul, ac seris, et catharactis — et desuper petrarias nobili arte composuit, et a foris — altiori fossato praecinxit, ne facilius muros contingere isti valerent.
85. La più profonda esposizione di questo rivolgimento dell’Impero franco è data da Ernesto Dümmler, Storia dello Impero dei Franchi orientali, Berlino, 1862.
86. Thegan., c. 42; Astron. c. 48; Si excommunicans adveniret, excommunicatus abiret. La Vita Walae, II, c. 16, narra che il Papa crucciavasi in grandi angustie, perocchè i Vescovi volevano deporlo (quod eundem apostolicum, quia non vocatus venerat, deponere deberent): perciò la fazione opposta lo confortava con proteste di devozione. Il Mansi, XIV, 521, ha una lettera di Gregorio ai Vescovi di Francia, in cui il Papa protesta che è memore del giuramento prestato all’Imperatore, ma che reputa dover suo di rimproverarlo di ciò che egli avea fatto contro l’unità e la pace della Chiesa. — Vedi il Gieseler, St. eccl. II, 1, 47. — Il Nithard, Hist., I, c. 4 dice espressamente che i figli ribellati guadagnarono alla loro causa il Pontefice: magnis precibus in supplementum suae voluntatis assumunt, e soggiunge: itineris poenitudine correptus tardius quam vellet Romam revertitur. Gli Annal. Bertin. narrano che Lotario lo aveva condotto con sè.
87. Il giuramento è riferito dal Nithard, III, 5. Il tedesco incomincia così: In Godes minna ind in thes christianes folches ind unser bedhero gehaltnissi, fon dhesemo dage frammordes, — voci belle della lingua bambina e ricche di vocali che nel suono si avvicinano al linguaggio romanesco. Il giuramento in francese principia: Pro Deo amur et pro christian poblo et nostro commun salvament, dist di in avant. — Neppur gli Italiani hanno un documento di loro «lingua volgare» di quel secolo, e nemmeno del secolo successivo.
88. Omnia regna Italiae cum ipsa Romana urbe, quae et modo ab omni sancta ecclesia propter praesentiam apostolorum Petri et Pauli speciali quodam veneratur privilegio, et quondam propter Romani nominis invictam potentiam orbis terrarum domina dicta fuerat: così Regino, abate di Prüm, nella sua Cronica (a. 842) esprime il concetto di Roma.
89. Ancor in tempi più tardi la satira dei Tedeschi ne sbeffeggiava Roma:
Truncasti vivos crudeli vulnere sanctos:
Vendere nunc horum mortua membra soles.
(Epigramma su Roma, nel Cod. Udalrici XXI.)
90. Per lo più erano i Franchi che facevano di tali ruberie; se fosse vissuto nel secolo nono o nel decimo, Napoleone avrebbe imposto a Roma un tributo di cadaveri. — I Cronisti raccontano dell’arrivo dei santi Marcellino e Pietro in Aquisgrana (Annal. Xant. e Astron., c. 41). Sigberto afferma che il corpo di santa Elena era deposto nella chiesa di questi Martiri, ma il Baronio, ad a. 849, dice che v’era un’antica controversia fra i Latini e i Greci sul suo possedimento: anche i Veneziani vi pretendevano. I Francesi sostenevano perfino di possedere la salma di Gregorio I e quella di san Benedetto.
91. Però non da molto tempo. Nell’anno 1635, il Bonfante publicò il suo Triumpho de los Sanctos del Reyno de Cerdena, che è una raccolta delle antichissime iscrizioni cristiane di Sardegna. In ogni luogo in cui egli trovò le sigle B. M. (Bene Merens), le spiegò per Beatus Martyr, e creò di tal guisa più di trecento Santi. Si sparse il grido di questo tesoro; la città di Piacenza volle averne una parte, e i Sardi magnanimamente le regalarono venti Martiri che essa andò a torsi con grandissima allegrezza. Perfino il Campi, storico della Chiesa di Piacenza, giubilò di un così prezioso favore della grazia divina, finchè quei morti subirono la sezione anatomica dalla ragione critica. Vedasi la Diss. 58 del Muratori.
92. Per averne un esempio, si legga la Translatio S. Alexandri nel Monum. Germ., II, e la Einhardi Hist. Translatt. SS. Marcell. et Petri, Act. SS. Juni, 2, p. 201. Nell’anno 836 si rubava a Ravenna il cadavere del vescovo Severo, e si trasportava dall’arcivescovo Otgero a Magonza.
93. Santi diventarono patroni di città. Roma levò san Pietro e san Paolo sulle sue colonne; Venezia inalberò il leone di san Marco, Genova san Giorgio. Marco compiè da morto il suo più splendido miracolo coll’edificazione della magnifica chiesa di Venezia che ebbe incominciamento nell’anno 976.
94. Leo Ostiens., I, c. 24. — Esaminai a Monte Cassino due codici di leggende (n. 139 e 149), che sono della fine del secolo undecimo: narrano della traslazione di san Bartolomeo a Lipari e a Benevento; ma rilevai che nulla dicono del fatto che il Santo, ai tempi del secondo e del terzo Ottone, fosse trasportato a Roma nell’isola Tiberina.
95. Anon. Salern., c. 49.
96. Già nell’anno 744, Bonifacio arcivescovo di Milano scrive a Cutberto di Canterbury affinchè il Sinodo voglia divietare a donne e a monache (velatis feminis) illud iter et frequentiam, quam ad Romam civitatem veniendo et redeundo faciunt quia magna ex parte pereunt, paucis remanentibus integris. Perpaucae enim sunt civitates in Longobardia, vel in Francia, aut in Gallia, in qua non sit adultera vel meretrix generis Anglorum: quod scandalum est, et turpitudo ejus Ecclesiae. — Il Sinodo di Friuli dell’anno 791 (Canon. XII) proibì alle monache di peregrinare a Roma. Vedasi la Diss. 58 del Muratori.
97. Fra le Formulae veteres, che sono aggiunte al formulario Marculfi Monachi (Parigi 1613), leggesi al Lib. V, 214, la Tractoria pro itinere peragendo, il passaporto del peccatore dato dal Vescovo ad un penitente: de hoc vid. facto quod instigante adversario — proprium filium suum, sive nepotem — interfecerit. Poichè l’assassino era costretto a peregrinare tanti e tanti anni (si numeravano), non gli si neghi mansionem et focum, panem et aquam: il pellegrinaggio pertanto era adesso subentrato al guidrigildo degli antichi Germani per i rei d’omicidio. — Gli ambasciatori in viaggio ricevevano un trattamento qualche poco migliore di quello dei penitenti. Vedi la Tractoria legatorum, p. 33, n. XI, e il lungo elenco delle vivande di loro mensa.
98. Già Carlo aveva bandito una legge per reprimere queste trufferie: Capitulare n. 45, da Aquisgrana, dell’anno 802: ut mangones et cociones et nudi homines qui cum ferro vadunt non sinantur vagari et deceptiones hominibus agere. Mon. Germ. III, 100. Muratori, XXIII Dissert., su questo argomento.
99. Nella tribuna erano scritti questi distici:
Vasta tholi firmo sistunt fundamine fulcra,
Quae Salamoniaco fulgent sub sidere ritu.
Haec tibi proque tuo perfecit praesul honore
Gregorius Marce eximio cui nomine Quartus.
Tu quoque posce Deum vivendi tempora longa
Donet, et ad coeli post funus sydera ducat.
100. Formam, quae Sabbatina nuncupatur, quae jam perplurimos annos contracta — videbatur — sicut a priscis fuerat aedificata temporibus, ita quoque eam — noviter aedificare — nisus fuit: Anastas. n. 467.
101. Anast. n. 478. Che fosse situata lungo la via Portuense, lo deduco dalle cure operose che il Papa rivolse al territorio del basso Tevere.
102. Anast. ibid: in curte, quae cognominatur Draconis, domum satis dignam etc. In qua tam ipse, quamque etiam futuri Pontifices cum omnibus, qui eis obsequuntur, quamdiu eis placuerit ibidem statiose immorari valeant. Le Domus cultae qui hanno appellazione di curtes — Il Nibby, Annal. de’ dintorni di Roma, I, 553, la cui narrazione deesi completare con questo passo, registra il fundus Draconis e le odierne tenute dette «Dragone» e «Dragoncello», in quelle terre circostanti.
103. Martino Polono favoleggia che egli si appellasse Os Porci e che perciò, primo dei Papi, cambiasse di nome. Fu soltanto Giovanni XII, che principiò a mutar nome.
104. Anast. in Sergio II, n. 484. Gli Annal. Bertin., ad a. 844, danno espressamente come motivo della venuta di Lodovico: ne deinceps decedente apostolico quisquam illic praeter sui (imperatoris) jussionem missorumque suorum praesentiam ordinetur antistes.
105. Pontifex a quibusdam audierat, quod in hanc famosissimam Urbem hospitalitatis causa introire voluissent, sed munitis clausisque portis, ut fieret minime concessit: Anast., n. 485. Non v’ha dubbio che esisteva un patto mercè cui non era permesso all’esercito imperiale di pigliar quartiere in Roma. Anche i Romani antichi non vollero tollerare che soldati ponessero alloggiamento nella Città.
106. Dacchè Lodovico era di già re dei Longobardi, la sua incoronazione non poteva essere dappiù che benedizione. «Non aveva il Papa alcun diritto per coronare un re d’Italia», osserva a questo punto assai giustamente il De Meo, Apparato cronolog., p. 90.
107. Quia si vultis, Domino Lothario magno Imperatori hoc sacramentum, ut faciant solummodo consentio, atque permitto. Non Hludovico ejus filio, ut hoc peragatur nec ego, nec omnis Romanorum nobilitas consensit: n. 487.
108. Tunc vero laeti omnes cum conjugibus, ac liberis. Senatus Populusq. Romanus (questi concetti come l’altro di Quiritum Principes diventano adesso frequenti) ingenti peste liberati, et jugo tyrannicae immanitatis redempti, sanct. Sergium Praesulem velut salutis auctorem ac restitutorem pacis venerabantur: n. 489. Qui il Lib. Pontific. interrompe le sue preziose notizie, e di nuovo non fa che registrare doni votivi.
109. Della resistenza opposta dalle Scuole di stranieri dice la Histor. Ignoti Cassin. (Cam. Peregrin. IX, e completamente nei Mon. Germ. V): Saraceni ingressi Romam, Oratorium totum devastaverunt b. Princ. Ap. Petri, beatique et Eccl. Pauli, multosq. ibidem peremerunt Saxones, aliosque quam plurimos utriusque sexus et aetatis. Mi riporto inoltre all’iscrizione del san Michiele in Sassia che può servire come tradizione, e di cui feci nota nel Vol. II, a pag. 486.
110. Anast., Vita Benedicti, n. 576, fa menzione di un pharum cantharum argenteum sedentem in pedibus quatuor a Saracenis ablatum. Anche dai Romani si perpetravano ladronecci. Al tempo di Pasquale I s’era rubata dal Laterano la croce d’oro di Carlo (Vita Leonis, n. 502). Può darsi che anche una parte dei tesori del san Pietro fosse custodita nello scrigno Lateranense, e che perciò sfuggisse ai predoni.
111. Un emiro cacciò la lancia nel volto del Salvatore che era dipinto nell’abside, e dalla ferita sgorgò sangue: così narra Benedetto da Soratte, c. 25, più di mille anni dopo. Egli fa che i Saraceni ballino loro ridde all’intorno dell’altar maggiore: veniente juxta altare barbari giro ballantes manibus.
112. Portas quas destruxerat Saracena progenies, argentoque nudarat: Anast., in Leone IV, n. 540. Ablatis cum ipso altari, quod tumbae memorati apost. principis superpositum fuerat, omnibus ornamentis atque thesauris: Annal. Bertin., a. 846.
113. Anast., in Bened. III, n. 568: Pauli ap. sepulcrum, quod a Saracenis destructum fuerat. — Si fa menzione chiaramente del saccheggio delle due basiliche in questi passi: Vita Leon. IV, n. 495: Ecclesiae b. Petri et Pauli a Saracenis funditus depredatae. — Joh. Diacon., Chron. Neap. (Muratori, I, p. 2, 315): Africani — Ecclesias apostolor. — deripuerunt. — Historiola Ignoti Cassin.: Annal. Farf. (Mon. Germ. XIII, 588); Leo Ostiensis, I, c. 27. — Gli Annal. Xant., a. 846, e gli Annal. Weissenb., a. 846, tacciono del san Paolo. Cosa meravigliosa è che il Lib. Pontif. se la cavi con un paio di parole su questi avvenimenti.
114. Bened., Chronic., c. 26: Guido batte i Saraceni a portas Sassie civitas Leoniana, e a pontes S. Petri: di certo a quel tempo non esisteva ancora la città Leonina. Della sconfitta di Lodovico dice: propter hoc populi Romani in derisione abuerunt Franci, usque in odiernum diem. Della disfatta dei Franchi (al 4 Id. Nov.) racconta anche il Chron. Casin., c. 9, ma dice che avveniva in vicinanza di Gaeta. Martino Polono trascrive la narrazione di Benedetto quasi in compendio, un onore che pare non debba più toccare alla Cronica di Soratte. Vedi altri passi nel Dümmler, Storia dello Stato dei Franchi meridionali, I, 289 e segg.
115. Annal. Bertin., a. 847. La scarsa Vita Leon. IV, n. 497, narra parimenti del naufragio, e lo paragona alla punizione che toccò a Faraone.
116. Il suo epitaffio leggesi nel Baronio, ad a. 847. Monumento di lui in Roma è la basilica dei santi Silvestro e Martino, di cui era stato cardinale: egli la edificò a nuovo e la ampliò con un chiostro, ma questa antichissima chiesa è oggi assai mutata, e i musaici di Sergio non esistono più.
117. Anast., Vita Leonis IV, n. 497. Incerto è il giorno della ordinazione. I decreti riportati da Graziano, non dimostrano, come il Baronio opina, che Leone IV abbia contestato il diritto dell’approvazione imperiale.
118. Reputo che le abitazioni dei pellegrini fossero coperte di embrici di legno. Già negli editti di Rotari compare la voce scandulum. In diplomi dell’abazia di Farfa del secolo decimo trovasi spesso menzione di casa scandalicia o scindolica, ad esempio: una domo solorata scandalicia, e precisamente nel campo di Marte. I Romani, nel loro tempo barbarico, imitarono dai Germani le costruzioni in legno.
119. Anast., n. 505.
120. Apostolicus — cum magno armatorum procinctu — Ostiam properavit: Anast., n. 522. Questi armati erano genti romane, perocchè i Napoletani non si lasciassero entrare nella Città. Più addietro dice: excitavit Deus corda Neapolitanorum, Amalphitan., Cajetanorumque, ut una cum Romanis contra Saracenos insurgere ac dimicare fortiter diluissent. Perciò dice Sigberto, Chron., a. 849: Romani instantia Leonis papae, auxiliantibus sibi etiam Neapolitanis, eos (sc. Saracenos) bello excipiunt.
121. Ut de recepto triumpho nomen sanctum tuum in cunctis gentibus appareat gloriosum. Vedasi quanto luogo s’avessero sgombrato nella vita della gente umana, le figure simboliche di san Pietro e di san Paolo. Anastasio racconta questi fatti colla convinzione di un testimonio oculare.
122. Aliquantos etiam nos ferro constrictos vivere jussimus — et post haec ne otiose, aut sine angustia apud nos viverent aliquando ad murum, quem circa ecclesiam b. ap. Petri habebamus inceptum, aliquando per diversa artificum opera quicquid necessarium videbatur, per eos omnia jubebamus deferri: Anast. n. 524.
123. Super his novis, mysticisque miraculis: quest’è il linguaggio dei Romani cristiani. — Ivo, Decr., X, c. 83, e Graziano, Decr. II, 23, VIII, c. 8, riportano un frammento di lettera indiritta da Leone all’Imperatore, che il Guglielmotti, Storia della Marina Pontificia, I, Roma, 1836, riferisce alla battaglia di Ostia. È pur cosa mirabile che un pacifico frate domenicano abbia scritto la storia della marineria pontificia, delle navi da guerra di san Pietro.
124. Anast., n. 516. Il Muratori, ad a. 849, erroneamente dice che questa torre si elevasse a Porto. Ancor ne la vide Flavio Blondo (Roma Instaur., I, 37), ed anche il Torrigio (Le sacre grotte, pag. 524).
125. Civitatem, quam Leo P. III — aedificare coeperat, et cujus multis jam in locis fundamenta posuerat, licet post suum transitum a quibusdam ablata fuissent hominibus, ita ut nec aditus appareret ubi prius inchoationem praefatus habuerat murus: Anast., n. 532.
126. Ut de singulis civitatibus, massisque universis publicis, ac Monasteriis per vices suas generaliter advenire fecisset, sicut et factum est. Nel vol. II, a pag. 447, parlando di Capracorum, ho fatto menzione dell’inscrizione che a questa edificazione si riferisce. Allorquando Gregorio IV costruì le mura di Ostia, egli si accollò partem quandam murorum non modicam cum suis hominibus quasi in sortem: Anast., n. 476. Devesi intendere che le singulae civitates fossero del Ducato.
127. Anast., n. 534: Super posterulam, ubi mirum in modum castellum praeeminet, quae vocatur S. Angeli: così dunque omai nel secolo nono si appellava la tomba di Adriano. Da questa posterula, ancora ai tempi di Fulvio, s’entrava nei prati del Vaticano. Le costruzioni di Alessandro VI la fecero scomparire, ma si serbò il nome di «Porta di Castello», ed oggidì è attribuito ad una porta ossia arcata che ivi è nel muro. — Il nome Viridaria si spiega dalla vicinanza degli orti pontificî. Il Bunsen (Descrizione della città di Roma, II, 1, p. 34) vuole riconoscere la porta antica in quella di Alessandro VI, che oggidì è murata.
128. Super posterulam aliam, quae respicit ad Scholam Saxonum. I Mirabilia non parlano di questa porta, ma delle due altre. La Graphia non ne nomina alcuna; l’Anon. Magliabech. cita la Viridaria e la Melonaria (per Porta Castelli). Anche il Cod. Vatican. 3851 (è una descrizione regionale compilata nel secolo duodecimo o nel decimoterzo) parla di due sole porte: Civitas Leoniana habet turres XLIIII, propugnacula MCCCCXLIIII, portas duas. Un altro Cod. Magliab. (n. 24, XXII, del principio del secolo decimosesto) ha conoscenza della porta di Santo Spirito, ma denota la Porta Cavalleggieri per posterula Saxon. Si rammenti che anche il muro dell’Adrianeo aveva una porta (S. Petri o Aenea). Più tardi si aprirono nella città Leonina tre nuove porte: porta Pertusa sulla cima del Vaticano (oggi murata), Cavalleggieri (che all’età di Fulvio era detta «del Torrione» dalla torre di Leone che ancor dura), e la porta Fabrica oggi murata, per guisa che la città Leonina contava sei porte; sette con quella dell’Adrianeo.
129. Il Papa orò in prima dinanzi alla porta maggiore: ... Deus — hanc civitatem, quam novi ter te adjuvante fundavimus, fac ab ira tua in perpetuum manere securam, et de hostibus, quorum causa constructa est, novos ac multiplices habere triumphos. Indi pregava a porta S. Angeli e per ultimo alla posterula (Anastasio). Il Platina scambia queste preci super portam per vere inscrizioni.
130.
Qui venis ac vadis decus hoc adtende, viator,
Quod Quartus struxit nunc Leo Papa libens.
Memoria praeciso radiant haec culmina pulchra
Quae manibus hominum facta decore placent.
Caesaris invicti quod cemis iste Hlothari,
Tantum Praesul ovans tempore gessit opus.
Credo malignorum tibi nunquam bella nocebunt,
Neque triumphus erit hostibus ultra tuis.
Roma caput orbis, splendor, spes, aurea Roma,
Praesulis ut monstrat en labor alma tui.
Civitas haec a Conditoris sui nomine Leonina vocatur.
131.
Romanus, Francus, Bardusque viator et omnis
Hoc qui intendit opus cantica digna cantet;
Quod bonus Antistes quartus Leo rite novavit
Pro patriae ac plebis ecce salute suae.
Principe cum summo gaudens et ovans per annos
Quos veneranda fides nimio devinxit amore
Hos Deus omnipotens perferat arce poli.
Civitas Leonina vocatur.
Le due inscrizioni sono riferite nel Muratori, Dissert. XXVI, colle varianti del Cod. Passionei da me adottate; trovansi anche nella Roma subterr., II, c. 8. La seconda inscrizione nel quinto verso direbbe: Haec cuncta Joannes, con che Giovanni VIII avrebbe dato compimento alla città Leonina, come osserva il Muratori: ma Anastasio dice che essa fu da Leone undique consumata. A vece di cuncta Joannes propongo la dizione: junctus in annos. Il De Rossi (Le prime raccolte, p. 98) propone: cuncta Hlotharo.
132. Afferma il Bunsen che Leone avesse dato sede a’ Côrsi nella città Leonina: forse lo trae dal Blondo, I, 13, il quale dice: «e la empì di Côrsi.» Però non si fa menzione mai di una Scuola o di una chiesa di Côrsi nella città Leonina. Trovo per la prima volta fatto cenno della nuova città nel Dipl. XIII raccolto dal Marini, a. 854: Infra hanc nostram nova civit. Leonina.
133. Il praeceptum pontificale conteneva la statuizione così dei diritti dei Côrsi che dei loro oblighi in servitium b. Petri. I terreni erano stati per la più parte beni della Camera pontificia, alcuni in possesso di conventi e di uomini privati. Si noti la piega di questo discorso: pontificale eis, quod secundo promiserat ob serenissimorum Lotharii et Ludovici majorum Imperatorum, suamque simul mercedem, perpetuamque memoriam, praeceptum emisit.
134. Anastas., n. 548: cui ex nomine proprio Leopolim nomen imposuit.
135. Muratori, Annal., ad a. 854, e l’Holstein, annot. al Cluver. Il Frangipani, Istoria di Civitavecchia, riporta l’opinione di Scrittori posteriori, secondo la quale la novella città avrebbe avuto nome di Circella, e Leopoli sarebbe stata Corneto: egli crede che gli abitatori di Leopoli sieno ritornati a Centumcelle intorno all’anno 940. Il Guglielmotti, I, 42, assume per data l’anno 889, e opina che Centumcelle fosse distrutta nell’anno 829, ma, computati i quarant’anni di esilio e la fondazione di Leopoli avvenuta nell’anno ottavo del pontificato di Leone IV, ne risulta l’anno 813. Annal. Einhardi, ad a. 813: Mauri Cemtumcellas vastaverunt. Anastasio tace che i Mauri ponessero sede nella ruinata città.
136. Anast., n. 541, la appella: S. Dei Genitricis Mariae super Scholam Saxonum.
137. Vedi il vol. II, a pag. 486 di questa Storia.
138. Portas — multisque argenteis tabulis lucifluis salutiferisque historiis sculptis decoravit: Anast., n. 540. I predicati officiali: mirae magnitudinis et pulchritudinis, inclyta operatione celatum, ch’egli d’ordinario attribuisce ai sacri arredi, non sono fuor di luogo.
139. Al ricamo delle stoffe, talvolta appellato opus plumarium, attendevano certamente degli artefici in vicinanza al san Pietro, sì come i musaicisti fanno oggidì nella fabbrica dei musaici. La Cronica di Farfa, pag. 469, fa cenno al secolo decimo di una siffatta fabbrica, nella quale erano impiegate delle giovani donne: Curtem S. Benedicti in Silva Plana, ubi fuit antiquitus congregatio ancillarum, quae opere plumario ornamenta ecclesiæ laborabant. Di mantelli a cappa di foggia romana (cappae romanae) e di cinture d’oro (cingula romano opere) fa parola il Chron. Fontanell. (nel Dachery, II, c. 17, 280) come di cose preziose che s’usavano per donativo.
140. Di Leone IV è il corridoio dietro alla tribuna; una inscrizione in marmo nomina i Santi che egli vi seppellì.
141. Tre volte Anastasio ripete il cenno di questa chiesa come di edificio di Leone IV; n. 568, 569, 592. Il Platner, Descrizione della città (III, I, 368) dubita della identità della Maria Antiqua e della Nova, perocchè dall’Anonimo di Einsiedeln sembri emergere che la M. antiqua era posta in vicinanza all’arco di Severo. Certo è che Leone IV tramutò la Maria antiqua nella Nova, e precisamente fra le ruine del duplice tempio di Adriano. — Il Ciampini, ecc., c. 28, reputa che i musaici odierni sieno quelli dell’anno 848. Ma molti divarî dal carattere di questa età, ad esempio la posa del bambino ritto in piedi, e l’epigramma in versi leonini, dimostrano un secolo posteriore, anche senza dire della miglior fattura artistica.
142. Basilica S. Sebastiani, quae in Frascatis consistit: Anast., n. 515, n. 529: S. Maria, quae ponitur in Frascata; n. 546: S. Vincentii, quae ponitur in Frascata.
143. Sola notizia se ne ha negli Annal. Bertin.: Lotharius filium suum Hludovicum Romam mittit, qui a Leone papa honorifice susceptus, et in imperatorem unctus est. Il Muratori contesta la data del Pagi, che pone l’avvenimento ai 2 Dicembre.
144. Romani quoque urtati Saracenorum Maurorumque incursionibus, ob sui defensionem omnino neglectam apud imperatorem Lotharium conqueruntur: Annal. Bertin., a. 853.
145. Gli Atti sono nel Baron., a 853, n. XXXV; nel Labbé, Concil., IX, p. 1134; e le iscrizioni di Leone IV nel san Pietro trovansi negli Annal. Bertin., a. 868.
146. Anastas., n. 554 gli dà nome di Romani palatii egregius superista, ac consiliarius, e di Romanae urbi superista.
147. In tale nesso possono porsi i due frammenti di lettere che si attribuiscono a Leone IV; trovansi in Graziano, c. IX, dist. 10: De capitulis vel praeceptis imperialibus — irrefragabiliter custodiendis, e nella Pars. 2, caus. 2, qu. 7: Nos si incompetenter aliquid egimus, et subditis justae legis tramitem non conservavimus, vestro, ac Missorum vestrorum cuncta volumus emendare judicio etc.
148. Anast., verso la fine della Vita Leonis.
149. Papa Pater Patrum Peperit Papissa Papellum, dice un Autore favoleggiando; infatti di tal forma si spiegava un’inscrizione antica che apparteneva ad un sacerdote di Mitra (Pater Patrum), ma che il popolo ebbe riferito alla Papessa. Una statua antica che rappresentava una donna con un bambino s’ergeva lungo la via Lateranense, e per il corso dei secoli fu reputata simulacro della papessa Giovanna. Soltanto Sisto V ne la fece rimuovere.
150. Platina in Giovanni VIII, com’ei chiama la Papessa. — Sella stercoraria (seggetta) dicevasi veramente lo scanno su cui sedeva il Papa quando prendeva possesso. Cencio (Mabillon, Mus. ital., II, 211) così spiega quest’uso: ducitur a cardinalib. ad sedem lapideam, quae sedes dicitur Stercoraria, quae est ante porticum basil. Salvatoris patriarchatus Lateranensis: et in ea eumdem electum — ponunt, ut vere dicatur: «Suscitat de pulvere egenum, et de stercore erigit pauperem, ut sedeat cum principibus, et solium gloriae teneat.» Il Papa sedeva altresì sopra due altri fessi sedili di porfido nella cappella di san Silvestro in Laterano; dall’uno riceveva le chiavi della basilica, dall’altro le restituiva al Priore (Mabill. Iter. Ital., I, 57). Il bizzarro costume durò fino alla fine del secolo decimoquinto. Una tal sella di marmo rosso trovasi oggidì nel museo Vaticano. Nelle inscrizioni cristiane del Vaticano lessi: Stercoriae filiae: è un nome abbastanza strano per una donzella.
151. Intorno a questa favola v’hanno parecchie scritture: dopo della Riforma vi fu una mischia di dissertazioni fra Cattolici e Protestanti su questo subbietto, per guisa che una donna di cantafavola ebbe biografie in maggior copia delle più celebri regine che siano state nel tempo antico e nel moderno. Perfino Federico Spanheim sostenne il fatto in una sua dissertazione; ne la scalzò del fondamento la Histoire de la Papesse Jeanne del Lenfant (La Haye, 1720). Prima, Leone Allazio aveva scritto la sua Confutatio fabulae de Joanna Papissa, Colon. 1653, e David Blondel, in un’opera scritta in francese e nell’altra De Johanna Papissa, Amstel., 1657, aveva messo in sepoltura la Papessa. Il Leibnitz, l’Eckhart, il Labbé, il Baronio, il Pagi, il Bayle, il Launoy, il Novaes ne trattarono lungamente a confutazione, e ancora ai dì nostri il Bianchi Giovini scrisse in Torino un Esame critico degli atti e documenti relativi alla favola della papessa Giovanna, Milano, 1845. L’ultima scrittura è lo studio conchiudente del Döllinger intitolato: La Papessa Giovanna, nelle Fole pontificie del Medio evo, Monaco, 1863; ivi il lettore troverà la più ampia notizia su questa favola meravigliosa. Per quel che concerne la parte numismatica, noto come importante il Garampius, De Nummo Argenteo Benedict. III (Roma, 1749). La moneta tiene scritto sul suo rovescio: Hlotharius Imp., e poichè essa fu battuta ancora al tempo di questo Imperatore, ne consegue che Benedetto III fu immediato successore di Leone IV, e non Giovanna, cui si attribuì un reggimento di due anni, un mese e quattro giorni.
152. Per la prima volta si menziona questa pratica, come era di già in consuetudine all’epoca bizantina. Decretum componentes propriis manibus roborarunt et consuetudo prisca ut poscit, invictissimis Lothario ac Ludovico destinaverunt Augustis: Anast. in Bened. III, n. 558.
153. Imagines enim confregit, ignique concremavit, et Synodum, quam supra sanctuarii januas b. memor. Leo pingi Papa jusserat, destruxit: n. 561. Del quadro che rappresentava il Sinodo parlano gli Annal. Bert., a. 868. Fra i Vescovi franchi v’avevano allora molti avversarî delle imagini; tali erano Claudio di Torino (m. 839), uomo di spiriti liberali, contro cui scrisse Dungallo, e il colto Agobardo di Lione (m. 840). V. il Gieseler, II, 1, p. 93 ecc.
154. Benedictum beatum Papam volumus, gridava il popolo.
155. Imperialibus missis cernentibus, in Apostolica sede, ut mos est, et antiqua traditio dictat consecratus ordinatusque est Pontifex: Anast. n. 566. Falso è dunque il diploma di Lodovico, sclama a questo punto il Pagi. Ad onta di questi fatti precedenti, il cardinale Anastasio fu assolto da Nicolò I, indi nuovamente scomunicato da Adriano II.
156. Il Baronio, Annal., a. 855, riferisce un lungo epitaffio di lui. Quantunque ei dica che l’iscrizione è erroneamente attribuita a Enrico III, tuttavolta io reputo che essa sia di Enrico. Vi parla troppo manifestamente l’indole dell’età degli Ottoni. I versi donde incomincia:
Caesar tantus eras quantus et orbis,
At nunc exigua clauderis urna
trovansi parola per parola nei Mirabilia, riportati come iscrizione della favoleggiata tomba di Cesare, allo obelisco del Vaticano. Il Baronio ha notizia di un’altra iscrizione funeraria in cui è detto di Lotario: qui Francis, Italis, Romanis praefuit ipsis.
157. Michael — Imp. — misit ad b. Petrum Apost. donum per manum Lazari Monachi et Pictoriae artis nimie eruditi, genere vero, Chazai, i. e. Evangelium de auro purissimo, cum diversis lapidibus pretiosis. Il nome di Lazzaro può pertanto campeggiare come uno degli antichissimi nella storia dell’arte. Osservo di passaggio che allora si coltivava in Roma anche l’arte di dipingere i vetri di finestre: fenestras vero vitreis ornavit, dice Anastasio, n. 572, all’occasione dei restauri operati da Benedetto nella santa Maria in Transtevere.
158. Praesente Caesare consecratus est, dice la Vita Nicol. I; e gli Ann. Bertin.: praesentia magis ac favore Hludovici regis et procerum ejus quam cleri electione substituitur (a. 858).
159. Et ecce Aemilienses, ac Senatores urbis Ravennae cum innumero populo: Anast., n. 588. Il concetto Senatus nel significato di nobiltà, compare assai spesso, da dopo di Carlo magno, in tutte le biografie dei Papi; ed anche qui vedesi che esso denotava massimamente soltanto gli ottimati.
160. Nisi post Electionem Ducis, Cleri et populi (n. 591). Si noti che i Duci pontificî nelle città maggiori, sedi in pari tempo di Vescovi, prendevano parte alla elezione di questi: scomparso era l’Ordo.
161. Donec in praesentia Apostolica, vel missi ejus, aut Vestararii Ravennae legali ordine illas in judicio convincas: n. 591.
162. Vedi il Pichler, Storia della separazione ecclesiastica fra Oriente e Occidente, Monaco 1864, Vol. I.
163. Responsa di papa Nicolò ai Bulgari: asseritis quod rex vester cum ad manducandum in sedili, sicut mos est, ad mensam sederit, nemo ad convescendum etiam neque uxor ejus cum eo discumbat, vobis procul in sellis residentibus, et in terra manducantibus.
164. Annal. Bertin., a. 865. Il palazzo del Re era circondato da un esercito innumerevole; quando egli si scagliò fuori, seguito da soli quarantotto fedeli, comparvero di repente sette santi preti con cerei in mano, simili ai sette di Amschasbano; i ribelli videro precipitare sulle loro teste una città in fuoco, e i cavalli del Re gli assalsero cacciandoseli sotto le zampe. Caddero a terra tutti; il Re si contentò di cinquantadue teste mozze.
165. Sulla venuta dei legati vedasi Anast., n. 608. Andreas Presbiter, contemporaneo, dice che il Re stesso venisse a Roma e ricevesse il battesimo dal Papa, et fide sancta confirmata recepit doctores ab eodem apostolico et in suam reversas est patriam (Dom. Bouquet, VII, 105). È difficile che Anastasio avesse taciuto della venuta del Re. D’altronde questi già aveva assunto nome di Michele da quello dell’Imperatore greco.
166. Al confine trovavano Teodoro generale bizantino, il quale staffilando le teste dei loro cavalli, diceva loro in isplendido latino: Imperator noster vos necessarios sane non habet.
167. La Vita Nicol. I, n. 609, dice: omnes a suo Regno pellens alienigenas (ossiano i Greci), praefatorum Apostolicorum solummodo praedicatione usus missorum.
168. Quia Constantinopolis nova Roma dicta est favore principum potius, quam ratione, patriarcha ejus pontifex appellatus est: n. 92 dei Responsa ad Consulta Bulgar., Labbé, Concil., IX, 1534. Il Papa vieta espressamente l’uso della tortura contro i ladri, e massimamente contro gli accusati; proibisce espressamente il battesimo violento. Egli non avrebbe consentito mai ad un battesimo come fu quello famoso del fanciullo ebreo Mortara.
169. Di questo si lagnarono i due Arcivescovi nel loro libello: sine synodo et canonico examine, nullo accusante, nullo testificante — tuo solius arbitrio et tyrannico furore damnare nosmet voluisti: Hincmaro, Annal., a. 864, Mon. Germ., I. Tutti questi avvenimenti e gli atti del Sinodo romano sono descritti in quegli Annali e negli altri di Fulda, di Metz e in Anastasio. Vedine inoltre il Dümmler, I, 506, ecc.
170. Ricavo questa data da un diploma di Farfa: dat. VII Kal. Martii anno Christo propitio Imperii Domni Hludovici Piiss. Aug. XI (dee porsi X dall’era di Lodovico, che fu l’anno 855 in cui diventò solo Imperatore) Ind. XII actum Leonina Civitate (nel Fatteschi ecc. n. LV).
171. Hincmaro, Annal., a. 864; Erchemperto, c. 37. Anastasio tace. Anche il Libell. de Imp. Potest. narra assai chiaramente di questi fatti; dice che il Papa si tenne chiuso nella chiesa dei santi Apostoli pregando Dio contro il Principe malvagio. Quell’avvenimento però lo avrebbe reso più pieghevole: pro qua causa Apostolica mitior effectus est (p. 721). Secondo lo stesso Libellus, l’Imperatore, ancor prima, avrebbe incamerato alcuni beni della Chiesa nella Campagna.
172. Annal. Hincmar., a. 864.
173. Riguardo alla validità del matrimonio di Gualdrada, eglino contrapponevano arditamente il diritto di natura al giure canonico: et quia suo viro parentum consensu, fide, affectu, ac dilectione conjugali sodata est, uxor profecto, non concubina habenda sit.
174. Tutte queste notizie sono dovute a Hincmaro.
175. Lotario cacciò nuovamente la sventurata Regina, e si riprese Gualdrada, per lo che questa nell’anno 866 fu scomunicata da Nicolò.
176. Anast., Vita Nicol., n. 600. Si contava allora per ferie. La domenica era feria prima. Noci vuotate ed infilate a funicelle significavano i giorni pei quali valevano quei marchi.
177. Formam aquae, quae vocatur Tocia (Anast., n. 584). Quest’acqua sarebbe, come alcuni Archeologi credono, la Jopia o Jovia, ovvero la Trajana Tuscia; ma un insigne conoscitore della topografia di Roma nei bassi tempi, ci dimostra con buoni argomenti che la Tocia era la Appia. Vedi Costantino Corvisieri, dell’Acqua Tocia in Roma nel medio evo, articolo di sommo pregio inserito nel «Buonarroti» (Roma 1870, Febbraio, Marzo e Luglio). La Tocia forniva di acqua la regione Lateranense. Il nome Tucia ossia Tuscia è antico, perchè così si chiamava un fiumicello nelle vicinanza di Roma, e già fin dal tempo di papa Silvestro era conosciuto il Fundus Aquae Tuscae nell’Agro Verano. Peraltro ho già osservato che vi sia corrispondenza fra l’Aqua Tocia e l’Acquatoccio, che è il nome medioevale di un piccolo fiume che si mesce colle acque del rivo chiamato Almo (a).
(a) Questa nota, che si sostituisce all’altra apposta nell’originale tedesco (seconda ediz., 1870), ci fu, con una lieve modificazione nel testo, fornita dall’illustre Autore, il quale viene, con sua grande cortesia, offerendoci delle aggiunte o delle varianti anche ad altri luoghi dell’Opera. Ne faremo, a loro sito, avvertenza, come di cosa che reca gran pregio alla nostra edizione italiana. (N. del T.)
178. Secondo la Vita Gregor. IV, n. 467, la Sabbatina continuava a scorrere ad Ecclesiam b. Petri Ap., atque ad Janiculum sicut prius. La Vita Nicol. I, n. 607, contraddicendo: formam aquaeductus qui multis a temporibus ruerat, et ad b. Petrum Ap. ob hoc aqua non ducebatur, in meliorem, quam fuerat, certamine quam plurima revocari statum. Quel multis a temporibus è pertanto inesatto ed erroneo.
179. Vita Nicol. I, n. 607: Ostiensem urbem — in ruinis jacentem — fortiori, firmiorique fabrica raedificari — jussit — promptos ad bella in ea homines collocavit.
180. Pater vero ejus liberalium cum fuisset amator artium, et nobilissimum polleret fomitem cunctis eum elementis, almificisque ritibus imbuens, literarum studiis, et optimis artibus perornabat, ita ut nulla sacrarum species remaneret disciplinarum: incominciamento della Vita Nicol. I.
181. La Constitutio Lotharii è data nel Maggio 825 da Olona, e non nell’823, come opinano il Muratori e il Tiraboschi, Mon. Germ. III, 248. Incomincia: de doctrina vero, quae ob nimiam incuriam atque ignaviam quorundam praepositorum, cunctis in locis est funditus extincta, placuit, ut sicut a nobis constitutum est, ita ab omnibus observetur, videlicet ut ab his qui nostra dispositione ad docendos alios per loca denominata sunt constituti, maximum detur studium, qualiter sibi commissi scholastici proficiant. Si noti l’espressione Scholasticus in significato di scolare.
182. Decreto di Eugenio nel Concil. Roman. 826, Canon. 34: magistri et doctores constituantur, qui studia literarum, liberaliumque artium, ac sancta habentes dogmata assidue doceant; e l’aggiunta di Leone IV: etsi liberalium artium praeceptores in plebibus (oggidì «pievi») ut assolet, raro inveniuntur, tamen divinae scripturae magistri, et institutores ecclesiastici officii nullatenus desint.
183. Se possedessimo questi Regesti, sì come dal tesoro del secolo sesto conservammo per felice ventura le lettere di Gregorio I, se ne avessimo soltanto quel che contengono i Regesti di Giovanni VIII, vivrebbe per noi a nuova vita anche l’oscura storia della città di Roma dal settimo secolo al decimo. L’odierno archivio secreto del Vaticano conserva soltanto i Regesti continuati da Innocenzo III in poi: formano più di duemila volumi, e questa parte della storia universale è, ancora ai dì nostri, pari a una fonte celata nelle viscere della terra!
184. Vedi il Chronic. Centulense nel D’Achéry, Spicileg., II, c. 3. Il Ginguené, (Histoire littér., c. 72) ne avrebbe potuto apprendere che erronea è l’opinione dell’Andres: il n’y avait pas dans toute la France un Térence, un Cicéron, un Quintilien.
185. In quel tempo che la scarsezza di libri era tanto grande, v’aveva in Roma maggior liberalità che oggidì. Si davano codici a prestito perfino ai paesi stranieri. Quae auctorum opera si vestra liberalitas nobis largita fuerit, deo annuente, una cum memorato S. Hieronymi Codice fideliter omnino, restituenda curabimus: Lupi Ferr., Ep., 103. Le lettere di Lupo trovansi nel Tom. II del Duchesne, e l’accennata è a pag. 778.
186. I codici sono a tenersi in conto di opere d’arte. Chi non vide senza sentirne ammirazione il celebre Codex Amiatinus della Vulgata, ornamento della Laurenziana di Firenze? Il Bandini (Dissert., Vol. I, Suppl. ad Catal., p. 701) opina che esso venisse in dono al convento di Amiata fin dai tempi di Lodovico I, ma non può darsi dimostrazione della sua ipotesi che abbia appartenuto a Gregorio magno. I Papi donavano codici alle chiese, e i cataloghi gli enumerano insieme coi candelabri e coi ciborî. L’epitaffio di Pacifico arcidiacono di Verona (m. 846) celebra, con espresso discorso, di lui: Bis centenos terque senos codices fecerat (Murat., Diss. XLIII). La iscrizione del prete Giorgio di san Clemente in Roma, dice che egli donò questa chiesa (a. 743) di codici, vero obolo della vedova:
Veteris novique Testamentum denique libros
Octateuchum, Regum, Psalterium, ac Prophetarium,
Salomonem, Esdram, Storiarum Ilico Plenos.
(ibid.)
187. Un frontespizio così fatto, è posto innanzi al celebre Codice di Farfa nella Vaticana; il più meraviglioso di questo genere vid’io a Monte Cassino: è il Codice longobardo n. 353, del secolo decimo, che contiene la Regola di Benedetto, l’originale dei due Chronica Ignotor. Casinens., un prezioso catalogo di Papi e la Epistola Pauli Diaconi ad Carol. Regem. Nel frontespizio è dipinto l’abate Giovanni il quale offre il codice in dono a san Benedetto che tiensi seduto. L’imagine è giovevole a far conoscere il ricco vestimento a foggia antica dei Benedettini.
188. I caratteri longobardi dei secoli nono, decimo e undecimo, che erano usati in molti conventi, sono resi difficili a causa delle lettere a e t che facilmente si scambiano, così a cagione della r e della s, e per la connessione delle lettere n e m; del resto i caratteri sono costanti di forma, e questo è loro privilegio. Naturalmente i diplomi possono dirsi veri geroglifici. Il lettore se ne può persuadere esaminando il Mabillon, De Re Diplom., osservando ad esempio il diploma di Nicolò I (p. 441), o la bolla di Pasquale I, a Patronace di Ravenna, le bolle di Benedetto III e di altri Papi del secolo nono.
189. Quest’opera fu trafugata a Parigi al tempo della Republica francese-romana, ma poi tornò felicemente a Roma. Era stato certamente un donativo dei Carolingi; ma è incerto se la prima imagine miniata rappresenti Carlo magno oppure Carlo il Calvo. Il disegno delle miniature è cattivo e grossolano; le lettere iniziali sono fatte con molto garbo di arte.
190. Monete di Leone III tengono scritto dalla faccia diritta s. Petrvs, nel mezzo Leo Pa.; dal rovescio Carlvs; nel mezzo Ipa (Imperator). Le monete attribuite a Stefano IV sono di origine dubbia. Denari di Pasquale hanno la scritta Ludovvicvs imp.; nel mezzo Roma; dall’altra parte Scs Petrus; nel mezzo il monogramma Pscal. E nelle simiglianti monete di Papi che vennero dopo, non manca mai il nome dell’Imperatore: quelle di Leone IV hanno dalla diritta Leo papa in monogramma, nell’orlo Scs Petrvs; dal rovescio Hlotharivs, nel mezzo IMP. Vedi l’opera di Domenico Promis intitolata: Monete dei Romani Pontefici avanti il mille, Torino, 1858. Essa completa e corregge il Vignoli e la compilazione del Cinagli.
191. XXXII Philosophos illo tempore Beneventum habuisse perhibetur, ex quibus illorum unus insignis Ildericus nomine: Anon. Salern., c. 133. Che cosa poi fossero i così detti filosofi, si rileva da ciò che Ilderico, in un’opera a lui attribuita, si ricovera sotto alla protezione della Madonna: lo si scorge anche nel suo inno dedicato a Cristo.
192. Ut linguae Latinae injuriam irrogaretis, hanc in epistola vestra barbaram et Scythicam appellantes: Ep. Nicol. I nel Labbé, IX, 1320. Per far l’apologia della lingua ei non ricorre a Cicerone, a Virgilio o a Giustiniano, ma afferma che Dio l’ha creata ut cum Hebraea atque Graeca in titulo domini a reliquis discreta insignem principatum tenens omnibus nationibus praedicat Jesum Nazarenum regem Judaeorum: parlava pur sempre la coscienza che il latino era divenuto lingua universale cristiana.
193. Il manoscritto antichissimo del Liber Pontificalis dell’incominciamento del secolo ottavo, fu dal Pertz rinvenuto a Napoli. Vedasi ciò ch’egli racconta delle fonti della Storia antichissima dei Papi nell’Archivio della società di storia antica tedesca, V, 68. Il Giesebrecht ha trattato ad evidenza così dell’origine del Liber Pontificalis come della sua continuazione: vedine nel Giornale universale mensile di scienza e letteratura, Aprile 1852.
194. Il Tiraboschi tratta di questo periodo assai superficialmente, e ciò per verità non gli si può apporre a colpa: del Ginguené e del Sismondi non torna il conto parlare. Merita gran lode la Dissert. XLIII del Muratori.
195. Lo affermano il Novaes, il Pagi ed altri, appoggiandosi al detto di Anastasio: coronatur denique. Le monete di Nicolò I non rappresentano la sua effigie. Sergio III (904) è raffigurato in una moneta colla mitra in capo. La tiara, cinta di serto, di forma affatto orientale, aveva altresì nome di Regnum o Phrygium; per lo che Innocenzo III diceva: In signum spiritualium contulit Mitram, in signum temporalium dedit mihi Coronam, Mitram quoque pro sacerdotio, Coronam pro Regno. Di rado, scriveva questo Pontefice, i Papi portavano la tiara; quasi sempre la mitra. Vedi il Vignoli, Antiq. Pontif. Rom. Denarii p. 63, e il Novaes, Introduzione II, Diss. V. — Non si conservò alcuna delle antiche corone pontificie; la più vecchia data soltanto da Giulio II.
196. Le Decretali erano sconosciute ai Papi prima dell’anno 864. Furono compilate da un chierico nelle Gallie intorno all’anno 851 od all’852. Vedi gli studî dell’Hinschius, Decretales pseudo-Isidorianae et capitula Angilramni, Lipsia, 1863, nella introduzione.
197. Anastasio ne significò la morte a Adone arcivescovo di Vienne (Labbé, Concil., IX, p. 1587), dicendo: Eheu! quam sero talem virum ecclesia meruit, quam cito reliquit. E Regino, ad ann. 868, dice: post b. Gregorium usque in praesens nullus praesul in Romana urbe — illi videtur aequiparandus. Regibus ac tyrannis imperavit, eisque ac si dominus orbis terrarum auctoritate praefuit. Il Baronio, Annal., a. 867, riferisce l’epitaffio di Nicolò.
198. Vita Hadr. II, n. 614. Il Papencordt, ecc. p. 164, dipinge con grande verità il malcontento partito franco che era in Roma.
199. Vita Hadr. II, n. 616. Però santo Gregorio non gli concesse diritti ospitali; parecchie volte gli comparve con aspetto irato nel sogno, e gli comandò di uscire del suo chiostro. Teutgaudo fuggì nella Sabina, dove morì: Gio. Diacono., Vita s. Gregor. IV, c. 94. Anche Guntero, colpito gravemente dai fulmini di Nicolò I, non si rialzò più, quantunque Adriano nell’anno 869 lo ammettesse alla comunione (Annali di Incmaro a quest’anno).
200. Benedictionem summi Pontif. ad consolationem videlicet multorum qui factiosorum tyrannide liberius solito saeviente inter unius decessionem et alterius substitutionem Pontificis diversis agitantur exiliis etc. Vita Hadr. II, n. 615. Dei Vescovi esigliati, al n. 617.
201. Divisis quippe Italiae finibus, Spoletanorum dux Romae constitutus est vice Regis, tali pacto ut quando Apostolicus obiret, interesset Dux praefatus electione futuri Pontificis, accipiens plurima dona in partem regiam; Eutropii Presbyteris Langobardi Tractatus de jurib. et privilegiis Imperatorum in Imperio Romano (compilato intorno al 900), apud Goldast, Monarchia I, 9.
202. Vita Hadr. II, n. 622: Igitur Lambertus — tempore consecrationis — Romanam urbem, praeter consuetudinem, sicut tyrannus intravit, non rebellantem, sicut victor satellitibus suis ad praedandum distribuit. La Vita nomina altri Lambertini che erano in Roma, Aistaldo, Walterio, Ilpiano, Odone e Teoperto, tedeschi tutti, e certo proavi delle posteriori famiglie romane degli Astalli, dei Gualterii, degli Ilperini e degli Oddoni.
203. La notevole Constitutio promotionis exercitus observationis partibus Beneventi, trovasi nella Historiola Ignoti Casin., in Camillo Peregrino, a. 866. Quelli di Tuscia, insieme cum populo qui de ultra veniunt, dovevano muovere per Roma a Ponte Corvo (Pons Corvus). Questo castello longobardo era sorto intorno a questo tempo, in vicinanza di Aquino. A Monte Cassino mi giovai del Codex Diplom. Pontis Curvi, che giunge dall’anno 953 al 1612.
204. Ut ab hostibus s. Nicolai, quia omnia ejus acta penitus infringere nitebantur, Nicolaitanus et scriberetur, et publice diceretur: Vita, n. 618.
205. Incmaro, Annal., 868. Lodevole è la mitezza della sentenza. Tuttavia la scomunicazione era una punizione terribile; essa separava l’uomo dalla società umana: et qui cum eo in locutione, cibo vel potu communicaverit, pari excommunicatione cum eo tenebatur annexus. Della notizia di tutte queste cose andiamo debitori a quegli Annali.
206. Anastasio bibliotecario tradusse in latino gli atti dell’ottavo Concilio, e li provvide di un’introduzione. Lodovico in quel tempo lo aveva mandato a Bisanzio, perchè combinasse un matrimonio fra la figlia di lui e Costantino figliuolo di Basilio. Vita Hadr. II, n. 629.
207. Quam ob rem cavendum est, ne cum ea pari mucrone percellaris sententiae, ac pro unius mulierculae passione et brevissimi temporis desiderio, vinctus et obligatus ad sulphureos foetores et ad perhenne traharis initium. Questa lettera ed altri atti relativi alla cosa trovansi in Regino, Chronic., a. 866, 868.
208. Vedremo esser esatta soltanto per metà la notizia data dagli Annal. Fuld., che nell’anno 868 ei venisse a Roma, vi trovasse morto Nicolò, e movesse a Benevento.
209. Incmaro, a. 869. Egli dà al Re del miserabile Giuda. Ipse autem infelix, more Judae, simulata bona conscientia, et impudenti fronte eamdem sacram communionem sub hac conventione accipere non pertimuit. A quest’occasione anche Guntero fu ammesso alla comunione. Erra Regino trasportando a Roma questi avvenimenti.
210. Indeque solarium secus eccl. b. Petri mansionem habiturus, intravit, quem nec etiam scopa mundatum invenit: così Incmaro. Del resto, i Romani non furono mai vaghi della mondezza, e oggidì ancora la granata è un beneficio raro a trovarsi nelle loro case. Regino dice che Lotario ricevesse onorifico accoglimento, ma è da credersi a Incmaro.
211. Laena ha anche significato di ruffiana.
212. Unum est enim Imperium Patris, et Filii, et Spiritus Sancti, cujus pars est Ecclesia constituta in terris (si noti che Ecclesia ha qui il significato di Cristianità). La lettera, dell’anno 871, è nell’Anon. Salernit., c. 102 seg. Io la compendio.
213. Quocumque gentem et Urbem gubernandam (chiara espressione della signoria suprema), et Matrem omnium Ecclesiarum Dei defendendam, atque sublimandam accepimus.
214. Romanorum Imperatores existere cessaverunt, deserentes non solum Urbem et sedem Imperii, sed et gentem Romanam, et ipsam quoque linguam amittentes, atque ad alia transmigrantes.
215. Incmaro e Regino, a. 871. Sopra tutti il contemporaneo Erchemperto, c. 34: il Chronic. Vulturn. (Muratori, I. 2, p. 403) non fa che copiare da lui. L’Anon. Salernit., c. 117, dice che Lodovico aveva per tre anni continui afflitto e concusso Benevento. Anche il contemporaneo Andreas Presb. bergamasco (Mon. Germ., V, 232) ne dà notizia. L’avvenimento fu tema di una canzone di giullare (Muratori, Dissert. XL, e Sismondi, De la Litérature du Midi, I, 15). Da essa si apprende che nell’anno 871 la «lingua volgare» non era ancora diventata lingua poetica. Ha il tono usato dai nostri cantafavole che incominciano: udite, o uomini, la tremenda istoria:
Audite omnes fines terrae horrore cum tristitia,
Quale scelus fuit factum Benevento Civitas,
Ludhuicum comprenderunt sancto, pio Augusto,
Beneventani se adunarunt ad unum consilium.
Adalferio loquebantur, et dicebant Principi:
Si nos eum vivum dimittemus, certe nos peribimus.
Celus magnum praeparavit in istam provinciam:
Regnum nostrum nobis tollit: nos habet pro nihilum.
Plures mala nobis fecit. Rectum est, ut moriat etc.
216. Così spiegano il Bouquet ed il Muratori. Incmaro, ad a. 872: Hludowicus autem imp. vigilia pentecostes Romam venit, et in crastinum coronatus ab Adriano papa. Per quel che concerne l’anno e la data della venuta di Lodovico, il Chron. Farf. trova conferma in un diploma già da me notato: V Kal. Junii, Ind. V. Actum in Civ. Roma, Palatio Imperatoris.
217. Tunc a senatu Romanorum idem Adalgisus tyrannus atque hostis reipublicae declaratur, bellum etiam adversus eum decernitur: Regino, a. 872. Lo stesso Cronista (morì nel 915) narra altresì che Adalgiso fuggì in Corsica, ma dice che l’Imperatore, per reverenza del suo giuramento, non mosse in persona contro a Benevento, e diè l’incarico della guerra alla sua donna.
218. Il Liber Pontificalis ci ha abbandonati; e gli Annal. Bertin. o Incmaro danno soltanto il giorno dell’ordinazione: Adrianus papa moritur, et Johannes archidiacon. Roman. eccl., 19 Kal. Jan. in locum ejus substituitur. — Johannes, nat. Romanus, ex patre Gundo: così la Vita, tratta dal Catalogo, in Watterich, I, 27.
219. Ivi leggesi il suo epitaffio; fra altre cose dice:
Huic ubi firma virum produxerat aetas,
Imperii nomen subdita Roma dedit...
Nunc obitum luges, infelix Roma, patroni,
Omne simul Latium, gallia tota dehinc.
(Dom. Bouquet, VII, 380)
Oltre ai Cronisti che parlano della morte di Lodovico, è meritevole di nota la notizia che ne dà Andr. Presb. nella sua barbarica Cronica. Egli ebbe parte a portare la bara dell’Imperatore: Ibi fui et partem aliquam portavi, et cum portantibus ambulavi a flumine qui dicitur Oleo (Oglio) usque ad flumen Adua: c. 17.
220. Il severo giudizio può trovare giustificazione, se si pensi che questa pagina fu scritta in tempo, nel quale le questioni dell’independenza e dell’unità d’Italia fervevano più gravemente che mai. (N. del T.)
221. Ep. 34 Hadr. II, Labbé, VII, 443. Igitur ergo integra fide, et sincera mente, devotaque voluntate, ut sermo sit secretior, et literae clandestinae, nullique nisi fidelissimis publicandae, vobis confitemur — salva fidelitate imperatoris nostri, qui si superstes ei fuerit vestra nobilitas, vita nobis comite, si dederit nobis quislibet multorum modiorum auri cumulum, numquam — suscipiemus alium in regnum et imperium Romanum, nisi te ipsum. E ricolma di predicati adulatorî il Re, che aveva irritato per suoi attacchi contro la Chiesa gallicana.
222. Il Leo (St. d’Italia, p. 274) dice, che egli bramava un Principe il quale lasciasse correre per la loro china le soperchierie dei maggiorenti, le devastazioni dei Saraceni e il frastagliamento dell’Impero. L’ultima cosa io ammetto, il resto no. I più acerbi nemici di Roma erano i Margravî di Toscana e di Spoleto, gli ottimati romani ed i Saraceni, e contro a tutti loro Giovanni VIII sperava anzi di aver ajuto da Francia, come dimostrano le molte lettere in cui espone sue lagnanze.
223. L’Aimoin, De Gest. Francor. V, c. 32, fissa l’anno 876, e Incmaro lo computa dal dì della coronazione. La data del giorno di Natale dell’anno 875 è stabilita dal Sinodo di Pavia (Febbraio 876), che confermò l’elezione imperiale. Durante la presenza in Roma di Carlo, giusto allora coronato, è dato il suo diploma di Farfa: VII. kal. Jan. — Imp. ejus I. Actum in S. Petro, Ind. IX.
224. L’Annalista di Fulda: Omnemq. Senatum populi Romani pecunia more Jugurthino corrupit; e Regino, Chron., a. 877: iampridem imperatoris nomen a praesule sedis ap. Johanne ingenti pretio emerat.
225. Vedi gli Acta Conventus Ticinensis (Mon. Germ. III, 528; Baron., a. 876), dove Giovanni VIII ripicchia soprattutto sul suo eligimus merito et approbavimus — ad Imperii Romani sceptra proveximus. Tuttavolta, egli non osa ancora di preterire l’adesione del clero e dell’ampli Senatus, totiusque Romani Populi gentisque togatae. Si notino queste reminiscenze antiche, che diventano ognor più manifeste. Vedansi anche il Concilio romano dell’anno 877 e il Concilio di Pontigon del Luglio 876 (Labbé, t. XI, 289). Un Cronista tedesco dice ancor pianamente e con semplicità: A papa accepit benedictionem imperialem: Annal. Vedastini.
226. Secondo la Ep. IX, da Giovanni VIII indiritta a Landolfo di Capua, è indubitato che Carlo il Calvo diede Capua alla Chiesa: de terrae vestrae pacta — nostro juri potestatique commisit; e il Libell. de Imper. Potest., p. 722, v’aggiunge perfino le Calabrie, il Samnio, il ducato di Benevento, Spoleto, Arezzo e Chiusi. Se si badi a quest’ultimo, Carlo rinunciava ai diritti imperiali in Roma (perdonans illis jura Regni), ed alla presenza del Missus nella elezione pontificia. Quid plura? cuncta illis contulit, quae voluerunt, quemadmodum dantur illa, quae nec recte adquiruntur nec possessura sperantur. Queste cose devonsi accettare con grande cautela. Carlo riconobbe espressamente il primato di Roma (nel Convent. Ticinens.).
227. I Vescovi ed i Conti protestano: nos Italici Regni Regem elegimus, — è una formale elezione regia. Acta Conv. Ticin.
228. Georgius, cui cognomen fuit de Aventino: così lo denota il Libellus Auxilii in defens. Formosi, c. 4.
229. Ep. 319 di Giov. VIII ad univ. Gallos et Germanos de damnatione Formosi ep., Gregorii nomenclatoris, et alior. qui Romae in synodo fuerant excommunicati (Mansi, Con. XVII, 236 e segg.). Questi Atti sinodali furono letti nella dieta dell’Impero a Pontigon. — Il Galletti, Del Prim., p. 71, cercò di chiarire la parentela di quegli ottimati. — L. Richter, nel Programma dell’Università di Marburgo, 1843, publicò le deliberazioni del secondo Sinodo di Giovanni VIII, dei 30 di Giugno, dove perfino fu rimproverato a Formoso venerabilia monasteria hujus ecclesiae quibus praefuit sacrilege depredasse.
230. Sigonius, de Regno Ital., V, a. 876, tratteggia assai bene la connessione dei partiti in Roma, ma trae troppo presto in iscena i Conti di Tusculum, loro attribuendo, ancor prima della elezione di Carlo il Calvo, il disegno di costituire un impero nazionale romano.
231. Ep. 21, 30, 31, 32, 34. Nella lettera 32 egli dice che i Saraceni spesso venivano fin sotto alle mura, e ne rileviamo che l’Anio era omai chiamato Tiberinus, onde derivò il nome volgare di Teverone. Ita ut et illi saepe usque ad muros urbis quamvis clandestinis oris pervenerint, et Tiberinum fluvium, qui olim Albula dicebantur, juxta Sabinorum confinia pertransierint. L’Amari, Storia dei Musulm. di Sicil., I, c. XI, attenua il pericolo di Roma, e aggrandisce l’influenza e gli intendimenti di Giovanni VIII sull’Italia inferiore.
232. Ita ut facta videatur Neapolis Panormorum vel Africa. Quumque nostri quique Saracenos insequuntur, ipsi ut possint evadere Neapolim fugiunt, quibus non est necessarium, Panormum repetere. Nella lettera di Lodovico a Basilio.
233. Tunc Salernum, Neapolim, Gaietam, et Amalfim pacem habentes cum Saracenis, navalibus Romam graviter angustiabant depopulationibus. Erchembert., ad ann. 875, 876 (Mon. Germ., V, 253).
234. Decem bona et expedita chelandia ad portum nostrum transmittas, ad litora nostra de illis furibus et piratis Arabibus expurganda: Ep. XLVI di Giov. VIII, e similmente la Ep. CCXL. Ciò dopo che l’Imperatore greco aveva mandato una flotta.
235. Guglielmotti, I, 81. I Greci avevano altresì delle navi minori, dette Chelandia.
236. Quae nostra sunt defendimus — Dromones videlicet cum caeteris navibus construentes, et caetera vasa bellica et apparatus. Frammento di lettera in Ivo, Decret., Pars X, c. 69: anche al c. 68 parla di nostri dromones, in una lettera indiritta a Marino ed a Pulcharo.
237. Neapolites milites apprehensos decollari fecit (sc. Guaiferius) sic enim monuerat papa: Erchempert. Giovanni VIII più tardi consigliò il vescovo Anastasio di pigliare a tradimento tanti capi di Saraceni quanti gli prefiggeva, e di tagliar loro la gola. Si majores Saracenorum quantos melius potes, quos nominatim quaerimus, cum aliis omnibus coeperis, et jugulatis aliis, eos nobis direxeris: Ep. CCXCIV.
238. Notizia di questa vittoria di mare è conservata da Ivo, Decret. X, c. 71: lettera di Giovanni indiritta Imperatori et Imperatrici, senza data. Cum reversi fuissemus (da Napoli, a. 877, e non da Francia, a. 878) — non plus quam quinque diebus in urbe manentes, quamvis corporis non modica detineremur molestia, exivimus cum fidelibus nostris — coepimus naves 18. Saraceni — multi occisi — captivos fere 600 liberavimus. L’Amari non parla di questa vittoria marittima, ma il Guglielmotti, p. 82, ha raccolto la notizia di questi avvenimenti con gran diligenza: però egli s’astiene da considerazioni sull’arte politica usata da Giovanni nell’Italia meridionale.
239. A proprio germano captus est, et Romam mittitur effossis oculis, ibique miserabiliter vitam finivit. Leggasi la Ep. LXVI, in cui Giovanni si congratula con Atanasio di questo fratricidio.
240. Lo dice nella sua lettera scritta a re Carlomanno in data da Genova, mentre era in viaggio per Francia. Ep. 89: fesso mihi paganorum persecutione ac gladio, atque exactionis census viginti quique millium in argento mancusorum annualiter.
241. L’Amari dice che questo trattato avvenisse nell’anno 877 e nel congresso di Traetto; il Guglielmotti lo pone all’879, dopo che Giovanni era tornato di Francia. Però io credo che, a conchiuderlo, non vi fosse tempo più acconcio di quello in cui Giovanni volgeva in animo di partire per Francia, chè il suo tributo non obligava tutti i Maomettani, nè egli se ne poteva fidare. Vedi la Ep. 69 a Landolfo di Capua, data in Nov. Ind. XI; dunque nell’877, poichè l’Ind. XI cominciava in Settembre: e vedi l’Ep. 74. Lettere posteriori che trattano di quest’argomento sono quelle 209, 225, 242.
242. Ep. 69, 74, 209, 225, 242, 265, 260 ed Erchemperto, c. 44.
243. In quel tempo l’anfiteatro di Capua serviva da fortezza; come quello romano, chiamavasi Colossus: Erchemp., c. 55, 56. Egli narra di Pandolfo: sequenti vero anno (881) generaliter motionem faciens cum suis, Neapolitibus et Saracenis super colossum, quo filii Landonis degebant insedit. E Guaifaro se ne appellava Colossense, c. 56.
244. Monte Cassino fu distrutto nell’anno 884, e l’abate Bertario venne ucciso innanzi all’altare. Una parte de’ monaci fuggì a Teano, dove nell’anno 889 si abbruciò l’autografo della Regola di Benedetto. I Cassinesi allora trasmigrarono a Capua, e soltanto Aligerno (m. 986) restaurò Monte Cassino. Al Convento siamo debitori della conservazione dei Regesti di Giovanni VIII, che ivi andarono di Roma; esso possiede molti documenti, che non furono ancora usufruiti per la storia dell’Italia meridionale. Sopra tutti, il Cod. Diplom. Cajetanus (dall’anno 772 al 1638), copia di don Giovanni Battista Federici, offre tesori preziosissimi. Reco ad onore di questa pagina l’iscrivervi i nomi di don Luigi Tosti e di don Sebastiano Calefati, attuale archivista di Monte Cassino; con grato animo celebro la cortesia con cui questi uomini eruditi mi apersero il loro archivio.
245.
Hic Murus salvator adest invictaque Porta,
Quae reprobos arcet, suscipiatque Pios,
Hanc Proceres intrate, Senes, Juvenesque togati,
Plebsque sacrata Dei, limina sancta petens.
Quam Praesul Domini patravit rite Johannes,
Qui nitidis fulsit moribus ac meritis.
Praesulis Octavi de nomine facta Johannis
Ecco Johannipolis urbs veneranda cluit.
Angelus hanc Domini Paulo cum Principe Sanctus
Custodiat Portam semper ab hoste nequam,
Insignem nimium muro quam construit amplo
Sedis apostolicae Papa Johannes ovans.
Ut sibi post obitum celestis janua regni
Pandatur, Christo sat miserante Deo.
Dal Cod. Passioneus o Signorili, nel Muratori, Diss. XXVI, e nel Torrigio ecc. p. 360. Nel chiostro del san Paolo vidi un piccolissimo frammento di questa iscrizione, in bei caratteri. L’Anon. Magliab., XXVIII, Cod. 51, n. 2, fa menzione di questa Joannipolis, quae in odiernis non videtur, et antiquitus pulcherrima aedificata fuit, e dice che essa aveva più di due miglia di circuito. Un documento di Gregorio VII dell’anno 1074, relativo al san Paolo, conferma a questa chiesa totum Castellum S. Pauli quod vocatur Joannipolim, cum Mola juxta se (Bullar. Casin., II, const. CXII).
246. Romanorum filios sub isto coelo non legitur fuisse obsides datos, quanto minus istorum qui fidelitatem Augustalem et mente custodiunt, et opere Deo juvante perficiunt: Ep. 61. Erronea è la data Ind. XI, 12 Kal. Nov. La richiesta di ostaggi fu anteriore al Concilio del Febbraio 877, e fu precisamente questo che rese cheto l’Imperatore.
247. Ecce nobis Carolum Christianissimum principem superna providentia, praescitum a se et praelectum ante mundi constitutionem, et praedestinatum — più in là non si può andare ad adulare i Principi. Per lo contrario, vi contrasta acerbamente la lode data a Carlo magno, onde è detto bene e con verità: atque intra brevissimum tempus ita industria pietatis studio egit, ut novus quodammodo videretur mundus, magnis luminaribus venustatus, et variis vernantibus floribus adornatus: Concil. Roman. mense Febr. Ind. X, 877 (Labbé, T. XI, 296).
248. Elegimus hunc merito, et approbavimus una cum annisu et voto omnium fratrum et coepiscoporum nostrorum, amplique Senatus, totiusque Romani populi, gentisque togatae; e i Vescovi confermano: quem elegistis eligimus. — Di questo Sinodo fanno menzione Aimoinus V, c. 35 e Incmaro Annal., a. 877.
249. Il concetto dei praecaria e dei praestaria si rileva dalle formule di Marculfo, II, n. V, p. 109; XXVII, p. 241. Al II, n. 40, p. 174; XXVIII, p. 243, praestaria si definisce così: ad praestitum beneficium tibi praestare, cioè dopo che fu prodotta l’instanza, precaria.
250. Canon. XVII: exceptis illis — quibus pro utilitatibus et speciali servitio S. Rom. Eccl. vel Ducatus vel uniuscujusque loci habitatoribus praebetur, vel ad nostra dispensanda constituti sunt vel constituentur. Durava quindi il concetto del Ducato, territorio dello Stato della Chiesa, sì com’era ai tempi di Pipino e di Carlo. Nulla s’ode che si dica di Capua, di Gaeta, di Benevento, di Corsica, di Sicilia, di Sardegna. A questo passo, ch’io mi sappia, non fu mai prestata attenzione. Il Can. XVIII stabilisce il diritto di decima soltanto a favore dei parrochi nelle parrocchie.
251. Art. XV: Interdicimus ut amodo et deinceps nullus quilibet homo petat patrimonia S. nostrae eccl. — Utrumque Sabinense: dunque la Sabina spettava adesso alla Camera apostolica. Anche nel secolo duodecimo il Senato teneva il Porticus S. Petri in conto di bene pontificio. — Moneta romana: il diritto pontificio di batter moneta qui per la prima volta si menziona. — Ordinaria et actionaria publica, entrate publiche, tributi, censi ecc. — Ripam: è il Ripaticum ossia Teloneum dei fiumi. — Portus e Ostia appartenevano alla Camera papale. La conchiusione suona così: sed haec omnia in usum salarii S. palatii Lateran. perpetualiter maneant. — L’art. XVI statuiva che nessun uomo potesse monasteria, cortes, massas, et salas Eccl. beneficiali more aut scripto, aut aliquolibet modo petere, recipere, vel conferre. — Il beneficium durava a vita.
252. Annal. Fuld., a. 877; Aimoin., V, c. 85; Incmaro, Annal., a. 877.
253. Funerali degni di un Diogene: Quem pro foetore non valentes portarti miserunt eum in tonna (!) interius exteriusque picata quam coriis involverunt, quod nihil ad tollendum foetorem perfecit. Unde ad cellam quamdam monachorum Lugdunensis episcopii, quae Nautoadis dicitur, vix pervenientes, illud corpus cum ipsa tonna terrae mandaverunt: Incmaro, Annal., a. 877.
254. Ep. 72 ad Lambert. Comitem, Novemb. Ind. XI.
255. Ep. 73: cum dicis nobis, Tuae nobilitatis, vel — monemus nobilitatem vestram.
256. Ep. 68. Inesatta è la successione di serie delle lettere. Io traspongo la Ep. 68 dopo della Ep. 73. Vi è detto: sed etiam in innumeris et supra modum gravibus oppressionibus quae nobis una cum dominico grege — ab adversariis illatae sunt, et quotidie inferuntur, in gremio sedis apost. quae caput est orbis et omnium mater fidelium, quiete ac securiter manere nobis minime licet. E appella Roma: civitas sacerdotalis et regia, imperiale, nel significato stesso di Bisanzio, dappoichè essa non dipendeva dal Re d’Italia.
257. Questo solo può intendersi per giuramento di fedeltà. Lantbertus, Witonis filius, et Adalbertus Bonifacii filius Romam cum manu valida ingressi sunt, et Johanne Romano pontifice sub custodia retento, Optimates Romanorum fidelitatem Karlomanno sacramento firmare coegerunt: Annal. Fuld., a. 878.
258. Nell’Ep. 84 ad Joh. Archiep. Ravenn. egli dichiara il fatto così: cum immensa populi moltitudine Romam venit: nos autem illum quasi dilectum amicum apud. b. Petrum — honorifice recepimus; sed ipse — munereque corruptus ingenti, contra nos insurgere non dubitavit. Nam portas civitatis Romanae violenter imoque fraudolenter cepit. Nell’Ep. 85 a Berengario conte: ut nobis apud b. Petrum consistentibus, nullam urbis Romae potestatem a piis imperatoribus b. Petro principi ap. ejusque vicariis traditam haberemus. Ep. 86 a Engelberga, Ep. 87 a Lodovico (il Balbo), Ep. 88 a Lodovico di Baviera, Ep. 90 a Carlo re: ipsius b. Petri — Eccl. — armis 30 diebus circumdatam teneri non formidaverint.
259. Annal. Fuld. a. 878.
260. Incmaro, Annal.: Eis horribiliter excommunicatis Roma exiit, e gli Atti di Trecas, colla loro Explanatio, in L. Richter, nel sopraddetto Programma. Il Papa stesso, nella Ep. 84 a Giovanni di Ravenna, scrive di avere in san Paolo minacciato d’anatema Lamberto. L’anatema in questa età era la conseguenza ultima della scomunica: Lamberto era stato scomunicato. L’Aimoin, V, 37, od altrimenti il suo Continuatore, narra che Giovanni partiva da mare, ferens secum preciosissimas reliquias, et cum Formoso episcopo Portuensi. Il Muratori ed altri credono che conducesse prigioniero Formoso, ma non è esatto.
261. Assumpto Bosone comite — cum magna ambitione in Italiam rediit, et cum eo machinari studuit, quomodo regnum Italicum de potestate Carlmanni auferret, et ei tuendum committere potuisset: Annal. Fuld., a. 878. Nell’Ep. 125, scrive a re Lodovico, che Bosone lo aveva scortato con sicurezza fino a Pavia. Al Re dà nome di dilectissime fili, ac porphyretice rex. La narrazione del Sigonio e del Baronio, che Lodovico il Balbo fosse divenuto imperatore, contraddice alla verità storica.
262. Questi versi andarono perduti, ne è conosciuto soltanto il titolo: Spicileg. Roman. IV, p. XXXIX. Possediamo ancora la mirabile lettera di Teodosio monaco sulla caduta di Siracusa, cui egli sopravvisse: Epistola de Expugnatione Syracusarum, nel Gaetani, Vitae Sanctor. Siculor., t. II.
263. Ad Ludovicum Regem, Ep. 197; quoniam — Deo favente, Romanum sumpseritis imperium.
264. Et ideo nullum absque nostro consensu regem debetis recipere. Nam ipse, qui a nobis est ordinandus in imperium, a nobis primum, atque potissimum debet esse vocatus atque electus: Ep. 155.
265. Ep. 216 e 249 ad Carol. Regem. Lodovico il Balbo di Francia era morto nell’anno 879, Carlomanno di Germania nell’880.
266. Questa data soltanto sembra essere esatta. Incmaro assume il Natale dell’anno 880. Il Baronio e il Sigonio accolgono l’881. Il Pagi vuol dimostrare che fosse il Natale dell’anno 880, appoggiandosi all’Ep. 269 di Giovanni a Carlo imperatore, dat. IV Kal. April. Ind. XIV (881); ma chi guarentisce l’esattezza della data? Il Muratori osserva che l’incoronazione doveva essere avvenuta nel Gennaio o nel Febbraio dell’anno 881. Nel Campi, Hist. Piac., I, n. XX, si trova: data 5 Kal. Jan. a. 881, Ind. 14, A. vero regni D. Karoli Regis — in Italia 2; dunque nel Natale dell’anno 880 ei non era ancora imperatore. Per lo contrario, il Dipl. XIX, da Pavia è segnato: dat. 5 Id. April. A. 881, Ind. 14, anno vero imperii D. Karoli primo; dunque nell’incominciamento dell’Aprile 881 egli era omai imperatore. Spesso le date dei Diplomi sono erronee; vedasi, ad esempio, quello di Carlo III nel Margarini, Bullar. Cassin., II, n. XLIII, dove si computa il Febbraio 886 per l’anno settimo dell’impero. Anche il Dümmler s’accorda nel dire che la coronazione avvenisse nel Febbraio 881 (II, 180).
267. Oggidì ancora leggonsi con emozione le ferventi preghiere con cui il Papa chiede soccorso: Ep. 269, nella quale egli manda all’Imperatore cum apostolica benedictione palmam per quam signum datur victoriae (sulla fine del Marzo 881). Cessata era la consuetudine di mandare le claves confessionis.
268. Ep. 293, 299.
269. Annal. Fuld., Pars V, a. 883 (Mon. Germ. I): prius de propinquo suo veneno potatus, deinde — malleolo, dum usque in cerebro constabat, percussus exspiravit. Il suo epitaffio insignificante trovasi nel Baronio, a. 882.
270. Gli Annal. Fuld., pars V, a. 882, dicono: antea episcopus, contra statuta canonum subrogatus est. Era stato vescovo di Caere. Il Platina: natione Gallus — malis artibus Pontificatum adeptus est. Affermano altri che fosse oriundo di Montefiascone. Erroneamente passa qua e là con nome di Martino II
271. Vedi le Continuazioni degli Annal. Fuld., pars. IV e V, a. 883.
272. Iste Adrianus cecavit Gregorium de Abentinum et Mariam superistanam nudam per totam Romam fusticavit: Benedetto di Soratte, M. Germ. V, 199; e gli Annal. Fuld., subito dopo della elezione di Marino, narrano che il ricco «superista» Gregorio fu assassinato dal suo collega, nel Paradiso del san Pietro.
273. Tace il Baronio di questo decretum de ordinando Pontifice sine praesentia Legator. Imperial. Il Sigonio, de Regno, ad a. 883, afferma che i due decreti furono falsati per senso di amor patrio italiano. Nessun Cronista ne parla prima di Martinus Polonus, cui non si può prestar fede alcuna.
274. Annal. Fuld., e Vita Stephani V, n. 642: defuncto — Hadriano Papa — super fluvium Scultinna, in Villa, quae Viulczachara nuncupatur.
275. Unde imperator iratus, quod eo inconsulto ullum ordinare praesumpserunt, misit Liutwartum et quosdam Romanae sedis episcopos, qui eum deponerent etc.: Annal. Fuld., l. c.
276. Il Concilio Romano dell’a. 904 divietò questi saccheggiamenti: quia scelestissima etiam consuetudo inolevit, ut obeunte — pontifice, ipsum patriarchium depraedari soleat, et non solum in ipso, — sed etiam per totam civitatem, et suburbana ejus talis bacchatur praesumptio: nec non quia et id inultum hactenus neglectum est, adeo ut omnia episcopi eadem patiantur uniuscujusque ecclesiae obeunte pontifice; quod ne ulterius praesumatur omnimodis interdicimus: Labbé, XI, p. 700.
277. Così Ratherius, nel secolo decimo, descrive il costume dei Vescovi italiani: Praeloquior., V, 6, p. 143, edit. Ballerini. Vedi: Raterio di Verona e il secolo decimo, di Albrecht Vogel, Jena, 1854.
278. Vestiariorum gazas ablatas reperii, qui sacraria perquirens de pluribus donariis, et Ecclesiarum ornamentis paene nihil invenit. Crux tamen aurea illa famosissima, quam Belisarius Patricius ad honorem b. Principis Petri Ap. instituit, et plurimae sacratissimorum altarium aureae vestes, eum reliquis pretiosis ornamentis non defuerunt: Vita Steph. V, n. 643; ultima Vita del Lib. Pontif.
279. Erchempert., c. 58; e da lui copia l’Anon. Salern., c. 135.
280. La famiglia di Guido discendeva da antichi signori di Austrasia, ed aveva per antenato Ludwin, prima conte, indi vescovo di Treviri: Dümmler, II, 18.
281. Widonis Regis Electio (Mon. Hist. Patriae, Torino, I, 76; Mon. Germ., III, 554). Nel Decretum electionis vien detto espressamente che Guido vinse in due battaglie. Delle sue guerre contro a Berengario informano il men pregiato Panegyricus Berengarii Imp. (Mon. Germ., V, 190), Regino, e in parte Erchemperto. Stando ai Catalogi Regum et Imper. (M. Germ., V, 218), la lotta scoppiò fra loro dum regnasset (sc. Bereng.) anno I. Giusta Flodoard., Hist. Eccl. Remens., IV, c. 1, p. 576, Stefano adottò Guido per figlio, prima ancora ch’ei fosse diventato re.
282. I Diplomi che trovansi nell’Ughelli, nel Sigonio, nel Muratori rendono indiscutibile questa data. Vedi il Muratori, Diss. XXX e XXXIV. Il primo Diploma di Guido è dei 9 Kal. Martii, Ind. IX A. Incarn. Dom. 891, Regnante Domno Widone in Italia Ann. Regni ejus III, Imperii illius die prima. Actum in Roma. — La Bolla di piombo ha da una parte l’imagine di lui armato di scudo e di lancia; dall’altra tiene scritto: Renovatio Regni Franc. (Muratori, Ant., II, 871), laonde si pare che Guido non intese per guisa alcuna ad un Impero nazionale italico.
283. Vita Steph. V, n. 648, 650: Ecclesiam, quae ad Apostolos dicitur — fundamentis renovavit: essa portava ancora il titolo Jacobi et Philippi. Con ciò devesi completare quanto ne dicono il Platner e il Bunsen, III, Sez. 3, p. 157 e segg. La Vita di Stefano enumera altresì alcuni doni votivi; per l’ultima volta ancora possiamo leggere di lampade, di Canthara, di Regna, di Vela, di prasine, e di giacinti, e di bianche gemme.
284. Il Catalog. Rom. Pontif., nell’Eccard, Corp. Hist. Med. Aevi, II, n. 11, compilato tosto dopo dell’anno 1048, dice: Formosus natione Portuensis. Per lo contrario nel Watterich, I, 30: Formosus, episcopus Portuensis, ex patre Leone. Gli Annal. S. Columbae Senonensis (Mon. Germ. I, 103) lo appellano civis urbis Romae, e così dichiara anche la Invectiva in Romam pro Formoso Papa, p. LXX. Non può darsi che, prima dell’anno 883, fosse restituito in Porto; infatti un Diploma di Marino dell’anno 882 è ancor segnato per manum Valentini eccl. Portuens. Episcopi (Labbé, XI, in Marino).
285. La Invectiva in Romam pro Formoso Papa (Bianchini Anast. IV, LXX) dice espressamente, che Formoso fosse elevato per violenza alla cattedra pontificia, e che egli la tenesse contro sua volontà: ciò peraltro non fu che una scena da commedia.
286. Il Chron. Farf., p. 415: huic quidam Sergius Rom. Eccl. Diaconus erat contrarius; e Liudprando (Antapodosis, I, c. 30), che confonde i tempi, afferma che Sergio, dopo la ordinazione di Formoso, contro cui era stato antipapa, fuggì in Toscana: Quatenus Adelberti, potentissimi marchionis, auxilio juvaretur; quod et factum est. Sembra che Formoso cercasse di conciliarsi questo avversario con ciò che lo eleggesse vescovo di Cere; siffatta notizia, non sorretta da altre autorità, si trova in Auxilius, in defens. Formosi, nel Dümmler, Auxil. e Vulgarius, p. 95: però il fatto è incerto.
287. L’anno dell’impero di Lamberto è certo, non il giorno. Il Muratori, ad ann. 892, e nella Dissert. 34, accoglie per data i giorni primi del Marzo dell’anno 892, il Böhmer il dì primo di Febbraio, il Dümmler la fine di Aprile. Ai Diplomi cogniti un altro ne aggiungo io, tratto dal Cod. Dipl. Amiatinus (Sessoriana di Roma CCXIII, 163), dell’anno 893, Ind. XI: Wido et Lantbertus filio ejus magni Imp. Aug. anni Imp. eorum secundo et tertio m. Junio intrante die 3. Il Muratori e il Fumagalli credono che Lamberto fosse già coronato in Roma nell’anno 892; ma, giusta Regino, ciò avvenne soltanto dopo la morte del padre suo: Romam veniens, dyadema imperii — sibi imponi fecit: così avvisa anche Marian. Scotus, laddove Flodoardo e i Chron. Casaur. si esprimono indeterminatamente. — Le due monete di Formoso nel Vignoli e nel Promis tengono scritto: Wido imp., e il monogramma Roma. Non si conoscono denari di Formoso che siano fregiati col titolo di Arnolfo.
288. Missi autem Formosi — cum epistolis et primoribus Italici Regni ad regem in Bajoariam advenerunt, enixe deprecantes, ut Ital. Reg. et res S. Petri ad suas manus a malis Christianis eruendum adventaret; quod tunc maxime a Widone tyranno affectatum est: Contin. Annal. Fuld., a. 893; ad ann. 894 segue la narrazione della prima spedizione.
289. Liudpr., Antapod., c. 37, chiama Lamberto: elegantem juvenem adhuc ephoebum, nimisque bellicosum. Il comportamento di Formoso è chiarito da Flodoardo, Hist. Eccl. Remens., IV, c. 3: de ipso Lantberto patris se curam habere, filiique carissimi loco eum diligere: parimenti al c. 5, p. 610 (ediz. del 1617). Sull’ambasceria mandata ad Arnolfo vedasi il Cont. Annal. Fuld., 895.
290. Annal. Fuld., a. 896, e il mal ordinato Liudprando. Arnolfo arringò l’esercito, ma è difficile che questo ne comprendesse il linguaggio di pompose reminiscenze: diceva che la Città non aveva più un Pompeo, nè un Giulio; che gli antichi spiriti romani avevano trasmigrato con Costantino in Grecia, e che i Romani di quel tempo non s’intendevano d’altro che di pigliare nel Tevere i pesciolini d’argento.
His tota studium pingues captare siluros
Cannabe, non clipeos manibus gestare micantes.
Con simiglianti discorsi parlava Alarico innanzi a Roma.
291. Sicque Dei providentia firmissima et nobilissima urbs, nullo ex parte regis de tanto exercitu succumbente, jam vesperascente die nobiliter cum triumpho expugnata est, apostolico pariter, et urbe de inimicis liberato: Cont. Annal. Fuld.; e la leggenda del lepre trovasi in Liudprando. Gli Annal. Einsidl. dicono brevemente: Arnulfus cum consensu papae Romam vi cepit, e Regino, con parola boriosa e ignorante, dice che fu avvenimento non più udito, da Brenno in giù.
292. Omnis ergo Senatus Romanor., vel Graecor. Scola — ad pontem Molvium venientes, regem honorifice — ad urbem perduxerunt: Annal. Fuld. — Liudpr., c. 28: in cujus ingressu, ulsciscendo papae injuriam, multos Romanor. principes obviam sibi properantes decollare praecepit: per il giorno dell’ingresso è certo una fola.
293. Due documenti di Arnolfo (Campi, Hist. di Piacenza n. 34, 35) sono promulgati da Roma: 7 Kal. Maji, ed al primo di Maggio. Giusta un Diploma per Montamiata (Ughelli, III, 30), il Pagi trova di affermare che la coronazione avvenne innanzi al primo di Marzo; ma ivi devesi leggere Maii e non Martii, come già n’ebbe sospetto il Muratori. Di questa guisa lessi io il Diploma nella copia romana del Cod. Dipl. Amiatin., CCXIII, p. 164: Arnulfus div. fav. clem. Imp. Aug. — data IV Kal. Maii ann. Incar. Dni. DCCCXCVI, Ind. XIV, ann. Regni Arnulfi Regis in Francia VIIII, in Italia III, Actum Romae in Dei nomine feliciter Amen. Nei Mon. Germ. III, 561, la coronazione è stabilita ai 18 di Aprile, e nel Böhmer, Reg. Carol., al dì 25 di Aprile. Dacchè gli Annal. Fuld. e Herm. Contract. fissano il dì della morte di Formoso a Pasqua, 4 di Aprile, v’ha errore o nei Diplomi del Campi o in questa ultima notizia. — Il Dümmler (Imp. dei Franchi orient., II, suppl. I) trascrive dall’originale di Firenze il Diploma per Montamiata; ed ivi il mese è del Marzo e non del Maggio. Ei propende perciò all’opinione che la coronazione avvenisse nel Febbraio, ma crede che soltanto l’ispezione degli originali piacentini possa torre il dubbio.
294. Annal. Fuldenses.
295. Mater Lantberti, quae ad praesidium a filio relicta fuerat, cum suis latenter aufugit: Regino, a. 896.
296. Il dì della morte è dato dal Contin. Annal. Fuld., e, seguendo la notizia di lui, da Herm. Contract.: defunctus est die sancto Paschae, al che il Jaffé propone invece: die pentecostes. Il Catalogo di Farfa gli attribuisce cinque anni e sei mesi di reggimento; quello più antico di M. Cassino (Cod. 353 del principio del secolo X) soltanto quattro anni, sei mesi e due giorni: vi si conforma il Cod. Vat. 1340.
297. Il Monaco di M. Soratte celebra di lui: renovavit aeclesia principis ap. Petri, pictura tota; e parimenti Amalricus Augerius (Murat., Script., III, p. II, 313): Formosus totam Eccl. b. Petri Ap., quam cito fuit factus Papa renovari fecit; e la Invectiva in Romam: Ecclesias reaedificavit, exstruxit, aedificavit, compsit et ornavit.
298. Qui podagrico morbo correptus, vix XV dies supervixisse reperitur: Cont. Annal. Fuld., a. 696. Il suo nome non è cancellato dal catalogo dei Papi, quantunque il Concilio di Giovanni IX, dell’anno 898, dichiarasse nulla la sua elezione. Giovanni VIII lo aveva condannato e ricacciato fra’ laici.
299. Annal. Fuld.: Stephanus Formosum inaudito more de tumulo ejectum et per advocatum suae responsionis depositum, foras extra solitum sepulturae apostolicis locum sepeliri praecepit. Secondo Auxilius, infen. et defen., c. 30, il Papa fe’ in prima seppellire il cadavere nel cimitero dei pellegrini, ma indi lo fe’ gettare nel Tevere: vedi il Dümmler, Auxilius e Vulgarius, p. 11. — Liudpr., I, 30, narra con maggiore estensione di particolarità, quantunque scambii Stefano con Sergio; il Chron. Farf., p. 415, copia da lui. Il Chron. S. Benedicti (Mon. Germ., V, 204), dice che il cadavere giacque nella tomba undici mesi. La Invectiva: cadaver jamque per 9 menses sepultum, per pedes de sepultura extraxisti — si interrogabatur, quid respondet? si responderet omnis illa horrenda congregatio, timore perterrita ab invicem separata — discederet. — Auxilii Libellus: busta diruta, ossa fracta, uti quoddam memphiticum ejectus est extra publicum. Anche il Concilio di Giovanni IX nuovamente ne dipinge lo spettacolo.
300. Il Baronio, a. 897, fa che alla Synodus horrenda succeda la caduta del Laterano, e sclama: quomodo possent stare parietes tanti facinoris terraemotu primaria concussa cardinis petra? La basilica crollò nell’anno 897. Gli Annal. Alamannici (Mon. Germ. I, 53) menzionano questi due avvenimenti ad un tempo, ma primamente la caduta: Basilica in Lateranis majori parte cecidit; et postea Stephanus — Formosum de sepulchro ejecit etc.
301. Liudpr., c. 31. — Nessun Pontefice portò più nome di Formoso: nell’anno 1464 il cardinale Barbo (Paolo II) voleva così appellarsi, ma ne lo impedirono i Cardinali, perocchè lo facessero sovvenire delle sorti di quel Papa antico.
302. Canon. III: Quia necessitatis causa de Portuensi ecclesia Formosus pro vitae merito ad ap. sedem provectus est, statuimus, et omnino decernimus ut id in exemplum nullos assumat.
303. Ho già detto della Invectiva; anch’essa, al pari del Concilio dell’anno 898, chiama quel Sinodo «horribilis.» Il Libellus Auxilii trovasi nel T. IV Veter. Analect. del Mabillon, e, insieme agli altri scritti polemici, nel Vol. CXXIX Patrologiae curs. completus del Migne. Su di ciò vedasi la Histoire Littéraire de la France, VI, 122 etc. Il Dümmler, Auxilius e Vulgarius, Lipsia 1866, ha commentato questi scritti notevoli dei Formosiani, e gli ha accresciuti con altri tratti da un manoscritto di Bamberga.
304. Baronius, ad ann. 900. Per quel che riguarda la storia dei Papi, noi siamo adesso ristretti ai Cataloghi ed alle compilazioni di tempi posteriori. Il frammento περὶ τῶν πάπων, che va da Formoso a Giovanni X, trovasi nel Mai, Spicileg. Roman., V, 599 (che io vidi nel Cod. Ottob. 77, e nel Cod. Vat. 7143); è nella massima parte soltanto una traduzione da Bernardo Guidonis, i cui Flores cronicor. furono ivi parimenti editi dal Mai, fino a Gregorio VII. Alla stessa età appartengono i cattivi versi di Flodoardo di Reims, della metà del secolo decimo, editi dal Mabillon e poi dal Muratori, Script., III, II. La notizia ch’ei dà della fine di Stefano è tolta dall’inscrizione del suo sepolcro:
Visus ab hinc meritis dignam incutesse ruinam,
Captus et ipse, sacraque abjectus sede, tenebris
Carceris injicitur, vinclisque innectitur atris,
Et suffocatum crudo premit ultio leto (p. 348).
La inscrizione sepolcrale:
Hoc Stephani Papae clauduntur membra locello:
Sextus dictus erat ordine quippe Patrum.
Hic primum repulit Formosi spurca superbi
Culmina, qui invasit sedis Apostolicae.
Concilium instituit, praesidii Pastor et ipsi,
Leges satis fessis jure dedit famulis.
Cumque pater multum certaret dogmate sancto
Captus, et a sede pulsus, ad ima fuit.
Carceris interea vinclis constrictus et uno (imo?)
Strangulatus nerbo, exuit et hominem.
Post decimumque regens sedem eum transtulit annum
Sergius hinc Papa, funera sacra colens.
305. Flodoardo: a Teodoro egli attribuisce soli dodici giorni. Il Cod. 353 di M. Cassino attribuisce a Romano m. III (il Cod. Vat. 1340 ne dà esattamente IV; il Cod. 257 di M. Cassino, cioè il Catal. Petri Diaconi, pone m. III d. XXII, e così pure il Cod. Casin. 185, compilazione del secolo decimoquarto); a Teodoro, m. I, d. XV (il Cod. Vat. 1340 pone d. XX, e così il Cod. Casin. 275, il Cod. 185 e il Catalogo che precede la Cronica di Farfa).
306. Auxilius, II, c. 22.
307. A questo luogo deesi assestare la confusa narrazione di Liudprando, I, c. 30: nam Formoso defuncto atque Arnufo in propria extincto, is qui post Formosi necem constitutus est expellitur, Sergiusque papa per Adelbertum constituitur: il Chron. Farf., p. 415, segue Liudprando. Ma della cacciata dell’antipapa Sergio narra Flodoardo:
Joannes subit hinc, qui fulsit in ordine nonus.
Pellitur electus patria quo Sergius urbe.
Romulidumque gregum quidam traduntur abacti.
E la dimostrazione più certa è data dall’epitaffio di quel Sergio III che venne più tardi:
Culmen apostolicae Sedis in jure paterno
Electus tenuit, ut Theodorus obit.
Pellitur Urbe pater, pervadit sacra Joannes,
Romuleosque greges ipse dissipat lupus.
Trovasi nel Baronio, che lo trasse da P. Mallius; è posto erroneamente ad a. 701, ed a torto attribuito a Sergio I, come ha dimostrato il Pagi. — Flodoardo, a comporre i suoi versi, si giovò delle inscrizioni funerarie del Papi.
308. Quia ad judicium vocari mortuus non potest — omnibus patet, quod mortui cadaver pro se non respondere nec satisfacere potest. Canon. I. Gli Atti si leggono nella Collezione dei Concilî del Labbé e del Mansi.
309. Quia S. Rom. Eccl. — plurimas patitur violentias, pontifice obeunte, quae ob hoc inferuntur, quia absque imperatoris notitia, et suorum legatorum praesentia, pontificis fit consecratio — volumus — ut — constituendus pontif. convenientib. episcopis et universo clero eligatur, expetente senatu et populo, qui ordinandus est, et sic in conspectu omnium celeberrime electus ab omnibus praesentibus legatis imperatoris consecretur: Gratian., Dist. 63, f. 103; e, secondo lui, di già Adriano aveva riconosciuto in Carlo patricius, il jus electionis rom. pontif. Così dice la «Notizia sulla trasfusione di ogni podestà del Papa e del popolo romano in Carlo patrizio e augusto» (nel Cod. Vat. 1984, fol. 191): Adrianus papa cum omni clero et poplo et universa sca synodo tradidit Karolo augusto omnem suum jus et potestatem eligendi pontificem et ordinandi apostolicam sedem. A Stefano VI viene ascritto un simile Editto, e con esso sarebbesi abrogato quello questionabile di Adriano III, di cui del resto non si fa cenno di sorte nel canone di Giovanni IX.
310. Canon. VI: Illam vero barbaricam Berengarii, quae per surreptionem extorta est, omnimodo abdicamus. Dappoichè Berengario non era peranco imperatore, devesi leggere assolutamente Arnulfi, secondo quel che propongono il Sigonio ed il Pagi. Le ragioni esposte da Francesco Pagi nel Breviar., non sorreggono la erronea lezione. Il Promis dà soltanto due denari di Giovanni IX colla leggenda Lantuert imp.
311. Petitio Synodi, Mon. Germ., III, 563: Si quis Romanus, cuiuscumque sit ordinis, sive de clero, sive de senatu, seu de quocumque ordine, gratis ad vestram imperialem majestatem venire voluerit, aut necessitate compulsus ad vos voluerit proclamare, nullus eis contradicere praesumat etc.
312. Canon. IX.
313. Il Panegyr. Bereng. dice soltanto:
Dum sternacis equi foderet calcaribus armos,
Implicitus cecidit sibimet sub pectore collum,
Abrumpens teneram colliso gutture vitam.
Liudpr., II, c. 12, crede alla mano assassina di Ugo. Gli Annal. Alemann. e Laubacenses, all’anno 898, ne registrano semplicemente la morte. Nel Settembre 899, Berengario contava già il suo secondo anno di regno; così nel Cod. Amiat. CCXIII, p. 167: Regnante Domno Berinchari Rex post obitum Lanberto Imperatore in Italia A. 2 m. Sept. intrante die 12, Ind. II.
314. Io mi attengo a questa data: nell’Agosto gli Ungheri calarono in Italia, nel Novembre morì Arnolfo. Gli Annal. Alamann. et Laubacen., 899: Ungri Italiam ingressi. Arnolfus obiit. Così anche gli Annal. Augiens. e Weingart., Sangall. Minor., Einsidlens., perfino gli Annal. Beneventani e il Chron. Venetum. Ne parla a favore anche la lettera dei Vescovi di Baviera a Giovanni IX, dell’anno 899: ed invero, se fu scritta prima del Settembre dell’anno 900, la battaglia sul Brenta fu combattuta nell’anno 899, poichè vi è omai ricordata la ritirata degli Ungheri.
315. Sebbene Liudprando parli d’una seconda venuta di Lodovico, le sue notizie destano dubbi non lievi. Stando a Regino, le guerre fra Berengario e Lodovico cadono già nell’anno 898, e, nello stesso istante, il Cronista narra della coronazione di Lodovico a imperatore.
316. Che egli restaurasse o consecrasse la chiesa di san Valentino, lo dice la inscrizione, tratta da quelle ruine, dell’opifex Teubaldus, il quale donò al san Valentino case, vigneti, alcuni codici e vasi preziosi. Essa conchiude così:
Tempore pontificis noni summique Johannis
Est sacrata die suppremo hec aula novembris
Dum quinta elabentem indictio curreret annum.
In Angelo Mai, Scriptor. Veter. Vatican. Collect., T. V, 218. Per verità, la Indizione non s’accorda coll’età di Giovanni IX.
317. Questa data è stabilita da un Diploma di Lodovico III, in Laubia majore ipsius Palacii ann. Imp. Domni Ludovici primo, m. Febr. Ind. IV, nel Fiorentini, Memorie di Matilda ecc., III, 114. Nel dì primo di Giugno dello stesso anno è dato il Diploma di Lodovico per Montamiata: Dat. Kal. Junii A. 901, Ind. IV, Anno vero Domni Hludovici gloriosi Imp. primo, actum Papie: Cod. Dipl. Amiat. CCXIII, p. 167.
318. La sentenza è nel Mansi, XVIII, 239. Pietro, vescovo di Lucca, reclama contro a Lamberto di Lucca, a cagione che questi aveva usurpato dei beni della Chiesa.
319. Amalr. Auger. attribuisce a Benedetto anni tre e mesi due: il Catalogo di M. Cassino, anni tre e mesi dieci: il Cod. Vat. 1340, cinque anni e cinque mesi. Il Fantuzzi (I, 102) dimostra che egli morì prima dei 26 di Luglio. Assai incerta è la cronologia dei Papi al principio del secolo decimo: per quanto sia accurata l’opera del Jaffé, è pur sempre a dubitare se una sola delle date di questa età sia esatta. Giuseppe Duret (G. stor. della Svizzera, II, 1856) ne fece nuovamente tema di critica, ma a nulla si concluse.
320. Di quei due Papi dice Flodoardo:
Post quem celsa subit Leo jura, notamine quintus:
Emigrat ante suum quam Luna bis impleat orbem.
Christophorus mox sortitus moderamina sedis,
Dimidio, ulteriusque parum, dispensat in anno.
Il Catalogo di M. Cassino 353 (compilato intorno all’anno 920) attribuisce a Leone m. I di reggimento, a Cristoforo m. VI, locchè s’accorda a sufficienza con quello che dice Flodoardo. I Cataloghi Vat. ed Eccardi determinano sette e sei mesi. Le date della elevazione di Sergio al trono, per verità, darebbero tutt’al più quattro mesi, come vien contato nel Catalogo del Chron. Bernoldi e in Herm. Contr.
321. Flodoardo:
Sergius inde redit, dudum qui lectus ad arcem
Culminis, exilio tulerat rapiente repulsum:
Quo profugus latuit septem volventibus annis.
Hinc populi remeans precibus, sacratur honore.
E l’epitaffio:
Exul erat patria septem volventibus annis.
Post populi multis Urbe redit precibus.
322. Fu consecrato fra il dì 25 di Gennaio e il primo di Febbraio dell’anno 904, come dimostra il Jaffé, giovandosi del Muratori, Ant., V, 773.
323. Duro domans ergastulo vita eorum cruda maceratione decoxit et tandem miseratus diro martyrio finiri compulit ab imis medullis dolentes animas extorqueri fecit: Eugenii Vulgarii, de causa Formosiana libellus, nel Dümmler, p. 135.
324. La prima Bolla è nel Marini, n. 24. La seconda, n. 23, deriva dall’archivio delle monache di santo Sisto (via Appia), le quali, a’ tempi di Pio V, trasmigrarono ai santi Sisto e Domenico (Regione Monti). La riferisce anche il Torrigio, Hist. della venerat. Imag. di M. Vergine nella chiesa de’ santi Sisto e Dom., Roma, 1641, p. 36.
325. Giov. Diacon. (De Ecclesia Lateranensi, nel Mabillon, Mus. Ital., II, 575) lamenta: In illis vero temporibus, quibus invasores apostol. tenebant sedem, tulerant de hac basilica omnes thesauros, et cuncta ornamenta aurea, et argentea, ac universa utensilia. Lo stesso Scrittore dice dell’edificazione di Sergio: tempore autem illius (Stephani VI) ruit, et fuit in ruinis dissipata et comminuta usque ad tempus, quo revocatus est dominus Sergius (p. 561, segg.). Vedine anche la Vita Sergii, Catalogo nel Watterich, I, 32, e il Chron. di Benedetto, c. 27.
326. Haec omnia devotus tibi praeparavit: et non cessabit, dum spiritus ejus rexerit artus, praeparare et offerre tibi dominus Sergius Papa tertius: così il Registro antico in Giov. Diacono.
327. Incipiens ab antiquis laborare fundamentis, finetenus opus hoc consummavit, dice Giov. Diacono.
328. L’inscrizione della tribuna leggesi nel Rasponi, De Basil. et Patriarchio Lateran., p. 28; eccone gli ultimi versi:
Spes dum nulla foret vestigia prisca recondi
Sergius ad culmen perduxit Tertius ima,
Cespite ornavit ingens haec moenia Papa.
Migliore è la lezione pingens del Bunsen. La inscrizione della porta è in Giov. Diacono:
Sergius ipse pius Papa hanc qui coepit ab imis
Tertius, exemplans istam quam conspicis aulam.
329. Nè i denari di Sergio III, nè quelli di Anastasio III sono segnati del nome di Lodovico, laddove monete di Benedetto IV portano la leggenda: Lvvdoicvs imp. Quei Papi dunque, lui non riconobbero per imperatore.
330. Secondo il Jaffé, nel Settembre; secondo il Duret, addì 23 Aprile, oppure ai 24 di Maggio. Benedetto di Soratte fissa il 23 di Maggio: Obiit Sergius Papa nonas Kal. Majas: c. 29.
331. Il Catal. Casinens. 353, pone termine con Giovanni X, la cui epoca esso non registra più. Ad Anastasio attribuisce: a. II, m.... (Cod. Casin., 257: a. II, m. II, parimenti come il Cod. Vat. 1340): a Lando: a. I (Cod. 257: an. III, d. XXXIII; Cod. Vat. 1340: m. V, et cessavit ep. d. 36). Benedetto di Soratte gli conta: menses 6, e Flodoardo: m. 6, dies 10. Il Catal. Eccardi dice Trano, in cambio di Raino (Rayner), come invece tiene esattamente scritto il Catal. Vat. Per lo contrario, il celebre Catal. Vat. 3764 della Cava (che contiene il Lib. Pontif. e Cataloghi assai antichi) dice: Lando nat. Sabinense ex patre taino sedit m. VII, dies XXXVI.
332. Theodorae autem glycerii mens perversa, ne amasii sui ducentorum milliarium interpositione quibus Ravenna separatur Roma (locchè è errore) rarissimo concubitu potiretur, etc.: Liudpr., Antapod., II, c. 48. È errore altresì che Pietro fosse arcivescovo di Ravenna; piuttosto eralo Cailo. Il Muratori ha combattuto aspramente la veridicità delle narrazioni di Liudprando; la difende il Köpke (De Vita et scriptis Liudprandi, Berlino, 1842). Di dubbia fede lo dichiarano lo Schlosser e il Wattenbach. Il Baronio, il Mansi e il Mittarelli hanno accolto senza esitare le sue apostrofi contro Giovanni X, contro Teodora e Marozia. Di recente, il Duret (G. stor. della Svizzera, Vol. I) ha dimostrato gli errori di Liudprando, e lo segue F. Liverani in una monografia, per più riguardi eccellente, intitolata: Giovanni da Tossignano, Macerata, 1859.
333. Narra la Invectiva in Romam che Giovanni, dopo la morte di Pietro, usurpò il vescovato di Bologna: lo ingiuria come se fosse un lucifero. Poichè la Invectiva appartiene a quell’età, la sua voce, ad onta dell’odio di parte, non è senza gravezza.
334. La Invectiva, Liudprando, Leone di Ostia, il Chron. S. Bened., danno a Giovanni X il nome di invasor et intrusus: Martino Polono, Andrea Dandolo, Bernard. Guidonis lo dichiarano financo figliuolo di Sergio III, scambiandolo con Giovanni XI. Anche Amal. Augerius, al paro di Bernardo, afferma che il popolo lo cacciasse di Ravenna. Per lo contrario, Flodoardo e l’Anon. Berengarii tengono dalla parte di lui.
335. Mansi, XVIII, p. 239. Nell’anno 906 un Teofilatto compare da Cancellarius o Saccellarius (Marini, n. 24). Similmente nell’anno 915, in un Diploma di Giovanni X (Placito di Monte Argenteo, di cui diremo più sotto). Nel 927, si trova Theophyl. Cons. et Dux, ed è certamente il figliuolo dello sposo di Teodora (Reg. Subl. fol. 97, Cod. Sessor. del Fatteschi, p. 45). Nell’a. 939, Theophyl. nobili viro (ibid., p. 65). Nella sentenza di Alberico II, del 942, un Teofilatto vestararius è specificato fra gli ottimati di Roma. Di lui e della moglie sua Theodora vestararissa fa parola un’inscrizione sepolcrale che è nel Galletti, del Vestar., p. 46. Per lo contrario, nel 949, troviamo Maroza nob. fem. conjux vero Theophylacti eminent. Vestarario (Cod. Subl. Sessor., 217): potrebbe darsi che fosse stata seconda moglie di lui, oppure che avesse avuto due nomi. Avrei di che citare ancora molti altri Teofilatti, che non appartenevamo alla stessa famiglia.
336. Può darsi che Giovanni X, dapprima arcivescovo di Ravenna, fosse unito in parentela con Teodora o con Teofilatto. All’esistenza di una nobile Marozia di Ravenna (Fantuzzi, V, 160), io certo non attribuisco alcun peso, avvegnachè questo diminutivo di Maria fosse frequente. Teofilatto per via di Marozia fu antenato dei Tusculani, e il suo nome durò nella famiglia. La tavola genealogica del Liverani stabilisce che Teodora I fosse figlia di Adalberto I di Tuscia; ma non è che un’opinione arbitraria. Che Teofilatto fosse sposo di lei lo sappiamo chiaramente da Benedetto di Soratte, c. 29.
337. Nel suo Auxilius e Vulgarius, pag. 146, il Dümmler ha stampato una lettera di Vulgario indiritta a questa Teodora, e tratta da un manoscritto di Bamberga: in essa, l’aderente di Formoso prega la potente donna di accordarle la sua protezione presso a Sergio III. La soprascritta è compilata così: Ad Theodoram (sventuratamente mancano qui due parole, ossiano predicati) Sanctissimae et deo amatae venerabili matronae Theodorae Vulgarius peccator vitam in Christo. Egli magnifica la pietà di lei, e dice: Habes igitur virum (misticamente Cristo) multo plus fortiorem et potentiorem isto senatore (Teofilatto): iste, etsi est dominus unius urbis (Roma), sed ille (Cristo) totius orbis.
338. Alter Apostolici nam frater, consulis alter Natus erat. così il Panegyr. di Berengario, e la glossa antica dello stesso Autore dice: Consul Romanorum tum erat Theophylactus.
339. Il Placitum di Montargenteo, a. 1014, ne dà chiarimento. Esso riporta una Bolla di Giovanni X (a. 915), e fra i maggiorenti romani nomina primamente Theophylactus Senatores Romanorum, indi Gratianus dux, Sergius primicerius etc. Lessi la pergamena originale, che dice veramente Senatores, ma, poichè ogni ottimato ha il suo predicato, così deesi leggere Senator. Senatores non è altro che una sgrammaticatura barbarica; così anche Benedetto di Soratte dice: Petrus marchiones, a vece che marchio. Ivi pure Teofilatto è posto a capo dell’aristocrazia. È l’ultima volta che si faccia menzione di lui; dopo del 915 scompare. Il suo palazzo in Roma è nominato ancora in tempo più tardo.
340. Theodora, scortum impudens — Romanae civitatis non inviriliter monarchiam obtinebat. Quae duas habuit natas, Marotiam atque Theodoram, sibi non solum coaequales, verum etiam veneris exercitio promptiores: Liudpr., Antapodosis, II, c. 48.
341. Lo scambio di Albericus marchio con Albertus marchio, ha prodotto la peggior confusione, poichè si pose a mazzo la casa di Tuscia con quella di Tusculum. Gli Italiani, i quali dicono che Alberico fosse romano, dovrebbero mostrare un solo Romano di questo nome. Presso ai Longobardi era frequente sì, come quelli di Adelberto, di Ilderico, di Albuino, di Alifredo, di Boniperto (reputo i Bonaparte essere gente longobarda di questo nome). Un sol pajo di esempli: Albericus fil. cujusd. Adelfusi (Cod. Farf. Sessor. 218, n. 319); Albericus, missus di un Judex longobardo (n. 324); Albericus scabino, a. 897, (n. 342). Nell’anno 997, un Albericus era abate di Farfa.
342. Che Alberico fosse uomo di fortune nuove, e intendesse al principato di Camerino, lo dice il Panegyr. Bereng., lib. II:
Pauper adhuc Albricus abit, jam jamque resultat
Spe Camerina. Utinam dives sine morte sodalis.
Questi versi rivelano una storia intiera. Il documento farfense n. 57 (nel Fatteschi) lo appella, intorno al 900, Comes: temporibus Alberici Comitis anno ejus IV, m. Martii, Ind. III. — Ai num. 58, 59, l’anno 914 è contato come suo vigesimo quinto. Lo Scheid, Origin. Guelf., lib. 2, crede che egli avesse sua sede in Orta, di che io dubito appena. Al tempo di Ottone III v’erano perfino dei Marchiones de Orta (ib. p. 138); tuttavolta non m’è noto che un margraviato di Orta esistesse all’incominciamento del secolo decimo. Però ben poteva Alberico esser veramente Comes di Orta.
343. Accepit una de nobilibus Romanis, cujus nomine superest, Theophilacti filia, non quasi uxor, sed in consuetudinem malignam: così Benedetto di Soratte. Ma l’orgoglio di Teofilatto poteva mai consentire ad un concubinato?
344. Io non credo, come fa il Duret, che la famiglia di Teofilatto fosse nemica di Sergio. Invero come avrebbe altrimenti potuto spargersi fama degli amori di Sergio e di Marozia? Io reputo anzi che Sergio fosse di quella famiglia, nella quale il suo nome si tramandò.
345. Liudprando toglie per ciò a prestito i predicati di scortum e di meretrices, e non ne è avaro: da dopo del Baronio, si è formata per quel periodo l’opinione esagerata che il governo fosse in mano di baldracche. Presso ai Tedeschi quel concetto data forse dal Löscher, Storia del reggimento romano delle bagasce, Lipsia, 1707. Per certo, il governo di Giovanni X non fu cosiffatto.
346. Leggasi negli Atti del Concilio di Trosle la descrizione che Eriveo arcivescovo di Reims dà delle sfrenatezze immorali dei preti: Labbé, Concil., XI, 731.
347. Nell’anno 945, le illustri donne Marozza e Stefania, figlie della giovine Teodora, sottoscrissero un Diploma, come si conveniva a donne illetterate: Signum † manu suprascripta Marcata nobilissima femina donatrice qui supra lra † n. (cioè literae nescia); parimente Stephania: Marini, n. C, p. 157.
348. La data dei 15 di Maggio, accolta dal Jaffé, non è esatta; infatti, addì 10 di Maggio dell’anno 916, ci troviamo nel terzo anno del pontificato di Giovanni X: Cod. Sessor. CCXVII, p. 33, Bolla di confermazione data a Subiaco: Dat. VI Id. Maii anno — Joh. X — tertio. Meglio il Duret, che assume per data la seconda metà del Marzo.
349. Leggasi il Liber Destructionis Farfensis dell’abate Ugo (p. 533), edito dal benemerito Bethmann: Mon. Germ., t. XIII.
350. Equipaggiava un bastimento che navigava ai porti dell’Impero, immune da gabella. Vedi il Privilegium di Lotario del 18 Dicembre 822, Reg Farf., n. 281: Unam navim concessimus etc. I molti titoli di tributi, ai quali le navi erano allora soggette, hanno un’impronta caratteristica della barbarie di quell’età: nullum telonaticum, aut ripaticum, paraticum, pontaticum, salutaticum, cespitaticum, cenaticum, pastionem, laudaticum, travaticum, pulveraticum — accipere audeat.
351. Le Bolle di Nicolò I, a. 858, e di Leone VII, a. 936, si riferiscono a quella distruzione: Mon. Selecta ex magno Chartario Sublac. Cod. Sessor. CCXVII, p. 5 e 55. Il convento di Subiaco non ha ancora avuto una propria Storia, chè le Memorie di Subiaco dell’Jannuccelli, Genova, 1856, non possedono valore scientifico.
352. Il Nibby, Anal. III, 61 e il Liverani, p. 276: entrambi dicono che, oggidì ancora, si odono colà nomi di origine arabica, quali sono Mastorre, Argante, Morgante, Marocco, Merante, Manasse, Margutte. Osservo che un altro Saracinesco, castello un tempo di Mauri, trovasi ancora adesso nella diocesi di Monte Cassino.
353. Bened. di Soratte, c. 29: Audientes Sarracenis, qui erat in Narniensi comitato, Ortense, et qui erant in Ciculi etc. Malamente si scrive Siciliano, e a torto la terra si fa derivare dai Siculi antichi. Giusta sembra essere l’opinione del Fatteschi (Serie ecc., p. 246), che la fa discendere da Equicoli: in alcune carte di Farfa dell’anno 762, trovasi scritto: in Eciculis. Vi abitavano un tempo gli Equi, e il distretto era appellato castaldatus Equanus.
354. Regnaverunt Aggarenis in Romano regno anni 30, redacta est terra in solitudine: Bened. di Soratte, c. 27.
355. Tosto dopo la morte dell’Imperatore, un Grammatico longobardo scrisse il Panegyricus Bereng. Imp.: lo diede alla luce Adriano Valesio (Parigi, 1663): vedi la Introduzione al poema, nei Mon. Germ. VI, e vedasi il Wattenbach, Fonti storiche della Germania, Berlino, 1858, pag. 159. — Il Poeta accenna alla pressura dei Saraceni, v. 89:
Summus erat pastor tunc temporis Urbe Johannes
Officio affatim clarus sophiaque repletus,
Atque diu talem merito servatus ad usum.
Quotenus huic prohibebat opes vicina Charybdis,
Purpura quas dederat majorum sponte beato,
Limina qui reserat castis rutilantia, Petro.
356. Praefigens sudibus rictus sine carne ferarum. Le Regioni avevano loro segni di distinzione. Enrico V fu accolto da aquiliferi, leoniferi, lupiferi, draconarii: Chron. Casin. IV, c. 37. Nell’Ordo Rom. XI e XIII, gli alfieri hanno già nome di milites draconarii, portantes XII vexilla quae bandora vocantur (Mabillon, Mus. It., II, 128); e addirittura: 12 bandonarii cum 12 vexillis rubeis (p. 228). Così era nel secolo duodecimo e nel decimoterzo.
357. Di contra al Pagi, il Muratori pone la coronazione al giorno di Natale dell’anno 915. Le oscure parole del Panegirico: Luce Deus qua factus homo processit ab antro — Tumbali, spiegano quasi tutti i moderni (Böhmer e Jaffé) per Pasqua. Il Duret, pag. 301, ha bene dichiarato essere esse una circonlocuzione significante il giorno di Domenica. Io mi dispenso d’entrare in disamina dei noti Diplomi che trovansi nel Muratori, poichè ne ho trovato uno inedito di Berengario nel Cod. Amiat. Sessor. CCXIV, p. 435, e CCXVI, n. 181, il quale dimostra che la coronazione avvenne sul principio del Dicembre 915, forse nel primo Avvento. È un privilegio dato a quella Abazia, che egli confida al governo del figliuol suo Widoni glorioso Marchioni Cenobium Dni. Salvatoris in Monte Amiate constitutum ad regendum commisissemus; e comincia: In Nom. Dni. Dei Eterni Berengarius Imp. Aug. Dignum est ut qui prudenter Dei obsequia etc; e conchiude così: Signum domni † Berengarii seren. Imp. Joannes cancellarius ad vicem Ardingi ep. et archicancell. recognovi etc. Data VI Idus Decembr. A. Dom. Incarn. DCCCCXV domni vero Bereng. seren. Regis XXVIII, Imperii sui primo Ind. IV Actum Rome in Xpi nomine feliciter. Amen. Data dunque dagli 8 di Dicembre dell’anno 915, ed allora Berengario era già coronato. Addì 10 di Novembre egli era stato in Lucca.
358. Il Chronicon Duc. Neapol., nel Pratilli (T. III, Hist. Princ. Langob., XVIII, p. 428), che narra di particolarità su questi avvenimenti, è un goffo trovato dell’editore.
359. Papa Joh. (lo scambia con Giovanni XI) undique hostium gentes congregari jussit in unum, et non tantum Romanum exercitum, sed et Tuscos, Spoletinosque in suum suffragium conduxit: Anon. Salern., c. 143. Il silenzio in cui il Panegirico si tiene a riguardo di Alberico, durante la coronazione dell’Imperatore, dimostra che allora quegli non teneva luogo cospicuo nella Città.
360. La battaglia nella Sabina è descritta da Benedetto di Soratte, c. 29. Per le moenie civitatis vetustate consumpta nomine Tribulana, deesi intendere l’antica Trevi. Cronisti di tempi posteriori, come Martino Polono, a. 917, il Dandolo e Amalr. Auger. dicono di una vittoria riportata da Giovanni prope Romanam Urbem. È cosa possibile, che vi si riferisca la tradizione del convento di san Cosimato presso a Vicovaro.
361. I documenti del Cod. Dipl. Cajetanus di Monte Cassino citano fra altri, a. 841, un Enee Grosso Consul et Rector Patrimonii Cajetani, a. 851, un Mercurius Consul et Dux Patrimonii Trajectani. Dopo la cessione di Traetto, trovasi ivi per lungo tempo la stirpe dei conti longobardi Dauferio, Lando, Ederado e Marino. Lo stesso Codice dimostra che in Fundi non si trovavano Conti, ma Duces.
362. Questo Diploma barbarico dà l’elenco dei capitani che erano nell’esercito del Garigliano. Lo contiene il Placito di Castrum Argenteum presso a Traetto, del Luglio 1014: Archiv. di M. Cassino, Caps. LXVI, B., nel Gattula, Hist. Acc., p. 109, nel Federici, Storia dei Duchi di Gaeta, p. 150. Ivi, le Bolle di Giovanni VIII e di Giovanni X sono gettate alla rinfusa. Ille pridie idus junii Theofilactus secdiclerius S. Sed. Ap. scripserat, imperante Domino suo piiss. p. p. August. Lo... ico magno imp. i. e. suprascripta quinta, script, per manum Melchiset — — L’Ind. V è l’anno 872; l’Imperatore è Lodovico II. L’anno 916 cadeva nell’Ind. IV, e qui il Diploma confonde fra loro le due Bolle. Idest — quomodo repromiserat Theofilactus Senatores Romanorum, Gratianus Dux, Gregorius Dux, Austoaldus Dux, Sergius — — et per jussionem — Johann. X — jurare fecerat alios decem et septem nobiliores homines, qualiter illi querere Nicolao stratico Langobardie, Gregorius Neapolitano consuli, et Landolfum imperiali patritiu, et Atenolfo, et Guamario principibus, Johanni, et Docibilis gloriosi Ducibus, et Ipati Gajetanorum — — pro eo quod decertaverat, et percertaverunt, pro amore Christianae fidei delere Saracenos de cuncto territorio Apostolorum. È cosa sorprendente che di Alberico non si faccia menzione.
363. Leone di Ostia, che nomina Alberico, I, c. 52, assume erroneamente la data dell’Agosto 915, Ind. III, invece del 916, Ind. IV. Ma prima ei dice: Joh. X tricennio ante Romam invaserat. Lupo Protosp., intorno all’anno 1088 (Mon. Germ. VII): Anno 916 exierunt Saraceni de Gariliano. Di questa battaglia parlano, senza soffermarvisi, Liudpr., Antapod., II, c. 52 segg., il Chron. Farf., p. 455, il Chron. S. Vincent.; Benedetto di Soratte, e Cronisti posteriori. Lo stesso Giovanni X dava annunzio della sua vittoria a Erminio arcivescovo di Colonia, Floss, Leonis P. VIII privileg., p. 105, nel Dümmler St. degli Imp. Franchi orientali, II, 601. Due volte, dice, ebbe egli in persona dato combattimento ai Saraceni.
364. Ben. di Soratte, c. 29: Et preliaverunt prelium magnum; et victores Johannes X papa, et Albericus marchiones, honorifice susceptum Albericus marchio a Romano populo. Egli ne loda la persona elangiforme (elegantis formae), ed aggiunge parimenti che la figlia di Teofilatto ne divenne amante. Io però traspongo questa attenenza ad alcuni anni più addietro. Nell’anno 932 Alberico II diventò signore di Roma: se fosse nato soltanto nel 917, lo sarebbe divenuto quando aveva soli quindici o sedici anni. È opinione mia che Giovanni X si avesse fatto mediatore di una vera unione fra la figlia di Teodora e Alberico, fin d’allora che diventò papa, e perciò nel 914. Fa meraviglia che Benedetto di Soratte non appelli mai Marozia per nome. Leone di Ostia, I, c. 61, chiama Alberico, con buon fondamento, console dei Romani, e ciò ben merita di esser considerato.
365. Sed postea discordia interveniente marchio ex urbe expulsus in Orta Castrum extruens ibi se recepit: ciò narrano per verità soltanto Martino Polono, Ptol. Lucensis, Ricobaldo, Bernardus Guidonis, Leone da Como, Galvaneus, il Platina, il Sigonio. Vedasi il Muratori, Antich. Estensi, I, c. 23. Anche il Provana crede alla caduta di Alberico.
366. In un documento dell’anno 1044 vien detto: Foris ponte Salario ubi dicitur due sorore et portu ungariscu: Galletti, Mscr. Vat. 8048, p. 127. Benedetto di Soratte, c. 29, 30, narra che gli Ungheri fossero chiamati da Petrus ch’egli appella marchio. Erat denique Petrus marchiones germanus — papae. Talis odium et rixa inter Romanos et marchio, ut non in urbem Romam ingredi debere: ingressus P. marchio in civitas Ortuense — edificavit castrum firmissimus, et plus magis seviebant romani et amplius P. marchio urbem Romam non est ausus ingredi. Statimque nuntius transmisit ad ungarorum gens — omnium ungarorum gens in Italia ingressi sunt, simul cum P. marchio in urbem Romam ingressus est. Ai tempi di Giovanni XI, egli descrive una battaglia che i Romani combatterono contro agli Ungheri fuor di porta san Giovanni, e dice che indi, in vicinanza di Rieti, Giuseppe longobardo (probabilmente era duce nella Sabina) gli ebbe sconfitti. Pensa il Liverani, che Alberico, fedele al Papa, venisse a dissidio con Marozia, e che egli con Pietro fuggisse a Orta; che poi il popolo uccidesse Pietro in Laterano quando era tornato in patria, e che, allora soltanto, Alberico fosse trucidato in Orta. Però Liudprando contraddice a questa successione di tempo, e il racconto di Benedetto è tutto una confusione. Solo dopo la morte di Alberico Marozia sposò Guido, e solo allora caddero Pietro (928) e il Papa. Ma se Alberico fu discacciato da Marozia e dai così detti Tusculani, poteva egli essere allora, come pensa il Liverani, capo di questa famiglia, conte di Tusculum?
367. Fuori del Placito avvenuto a Corneto presso Fermo, dove Waldiperto, a. 910, compare da Vicecomes Alberici Marchionis (Chron. Casaur., Murat. II, 2, 591), e fuori di un cenno delle donazioni di Alberico (Chron. Farf., p. 461), non conosco altre carte che parlino di lui. Alberi genealogici ben noti, e innumerevoli da dopo dello Zazzera e del Kircher, lo pongono a stipite dei Tusculani; ma non mi so di alcun documento che appelli Alberico per Tusculanus. Il Regest Farf. non parla di Conti di Tusculum. Benedetto di Soratte dice soltanto: Marchio Albericus. Gli è dunque assurdo di chiamare senza peritanza Alberico I, conte di Tusculum, come ancor fa il Duret. Per la prima volta nell’anno 999 Gregorio è chiamato Tusculanus; e, soltanto a’ tempi di Ottone III, può parlarsi di Conti di Tusculum. Io ho esaminato attentamente i manoscritti del Galletti, Storia geneal. de’ Conti Tuscul., de Stefaneschi, Papareschi, Normanni (Cod. Vat. 8042 segg.), e mi compiaccio della penetrazione di quell’uomo, il quale a quest’età non sa di Conti tusculani. L’eguale idea merita lode al Muratori, e altresì al Coppi.
368. Foedus cum eo percussit: Liudpr., III, c. 16.
369. Wido interea, Tusciae provinciae marchio, cum Marocia uxore sua de Johannis papae dejectione cepit vehementer tractare, atque hoc propter invidiam, quam Petro fratri papae habebant, quoniam illum papa sicut fratrem proprium honorabat: Liudpr., III, c. 43. Nulla ei sa pertanto di ciò che Pietro fosse confinato ad Orta; e tutto questo accadde dopo la morte di Alberico.
370. La notizia ne è data da Liudprando. Anche Bened. di Soratte, c. 29, sa dell’assalimento dato al Laterano: Romani in ira commoti unanimiter ad palatium Lateranensis properantes, interfecto Petro marchio, ad apostolicos nullus adtigit. Primamente dice, che Petrus marchio, dopo di aver chiamato gli Ungheri, era venuto di Orta a Roma. Che il Papa finisse per opera di Marozia, lo dice, oltre a Liudprando, anche Flodoardo ad. ann. 929: Dum a quadam potenti femina — Marocia principatu privatus sub custodia detineretur, ut quidam vi, ut plures astruunt, actus angore defungitur; così nei suoi versi: Patricia deceptus iniqua. Il Chron. S. Benedicti: Ab illis occulto Dei judiccio tamen justo vivus depositus est; un’altra lezione: Vivus laqueo confectus est. Una tradizione di Veroli narra che il Papa fosse prima tratto a San Leucio in Veroli, indi in Roma ucciso. Vedi la prefazione dello Statuto di Veroli, nel Liverani, p. 535. — Liudpr.: Ajunt enim, quod cervical super os ejus imponerent, sicque eum pessime suffocarent. Gli Annal. Benevent. (M. Germ. V) in castro jugulatus.
371. La notizia di Benedetto di Soratte è confermata da Bonizo: hic aedificavit basilicam in Palatio Lateran. Forse Giovanni X restaurò anche il san Clemente: a lui si riferisce il monogramma che è nella cancellata del coro di questa chiesa. Probabilmente fu sepolto in Laterano. Di lui si conoscono tre monete: Joh. S. Petrus Berengariu imp.; nel mezzo è scritto: Roma. Le altre due hanno eguale leggenda.
372. Il Cat. Vat. 1340 attribuisce a Leone mesi sette di reggimento; il Catal. Vat. 2953 (del secolo duodecimo): m. 6, d. 13; il Catal. Vat. 1361: m. 7, d. 15; il Catal. Mont. Cas. 257, soltanto: m. 5, d. 12. La Cronica di san Bened. registra perfino mesi dieci. Parimenti si discorda sul tempo di Stefano. Georgius (in nota al Baronio, a. 929) riporta un Diploma dal Reg. Subl. 77: Anno Deo prop. Pont. Dom. Stephani Papae I, Ind. III, mens. Dec., d. 22 (dunque nell’anno 929), e il Pagi crede che sia morto addì 15 Marzo del 931.
373. La legge mosaica imponeva al fratello di sposare la cognata che restasse senza figliuoli: nè questo, pensa Liudprando, era il caso, perocchè Marozia ne avesse. Nostra tuo peperisse viro te, secula norunt. E si solleva ad enfatici versi:
Quid veneris facibus compulsa Marozia saevis? —
Advenit optatus ceu bos tibi ductus ad aram
Rex Hugo, Romanam potius commotus ob urbem.
Quid juvat, o scelerata, virum sic perdere sanctum,
Crimine dum tanto satagis regina videri,
Amittis magnam Domino tu judice Romam.
374. Di questo vitupero si risentiva ancora Benedetto di Soratte: Subjugatus est Romanam potestative in manu femine, sicut in propheta legimus: Feminini dominabunt Hierusalem: c. 30.
375. Munitio vero ipsa — tantae altitudinis est, ut ecclesia quae in ejus vertice videtur, in honore summi et celestis miliciae principis archangeli Michaelis fabricata, dicatur S. Angeli Ecclesia usque ad coelos: Liudprand., III, 44.
376. In ingressu Romanae urbis quaedam est miri operis (così anche Procopio) mireque fortitudinis constituta munitio; ante cujus januam, pons est praeciosissimus super Tiberim fabricatus etc. Da lungo tempo era caduto in distruzione il ponte Vaticano o Neroniano, e sui suoi ruderi erano collocati allora dei mulini mossi dalle acque del fiume.
377. Liudprando mette in bocca ad Alberico un arguto discorso: Romanorum aliquando servi, Burgundiones scil., Romanis imperent? e fa che Alberico così ne spieghi facetamente il nome: Burgundiones a burgo, ed expulsi: nei Mon. Germ., l’editore stranamente lo interpreta: sine (ohne germanice) burgo. Alberico propone di chiamarli gurguliones. Tutto ciò mal si acconcia a quelle condizioni di cose.
378. Expulsus igitur rex Hugo cum praefata Marozia (errore) Romanae urbis Albericus monarchiam tenuit, fratre suo Johanne summae atque universali sedi praesidente: Liudprando, III, 45. Ben. di Soratte dice che Ugo avesse voluto acciecare Alberico, e che questi allora congiurasse coi Romani. Flodoardo narra nel Chron., ad a. 933, che genti reduci a Reims, vi portavano la novella che Alberico sosteneva prigionieri il Papa e Marozia.
379. Nos Albericus Domini gratia humilis Princeps atque omnium Romanorum Senator: questo prezioso Diploma dell’anno 945 appartenne al convento dei santi Andrea e Gregorio, le cui carte perirono al tempo della Republica francese-romana; lo publicò primamente il Mittarelli, Annal. Camald., I, App. n. XVI, indi l’Ughelli, I, 1026, e il Marini, Pap. C. — In una Bolla di Agapito II, a. 955 (Marini, n. 28, p. 88), Alberico è chiamato soltanto omnium Rom. Senator, ma io mi ho il sospetto che, nell’autografo, il Princeps non mancasse. Nelle Croniche Alberico talvolta ha nome di gloriosus Rom. Princeps; così nella Destruct. Farf., p. 536; così lo dice sempre Benedetto di Soratte: Albericus princeps Romanus, oppure princeps omnium Romanor. Per verità, in Flodoardo e nelle Vitae Pontif., il titolo Romanor. Patricius sta da solo, ma che i Romani così pure lo appellassero, massime in tempo posteriore, mel dichiara un Diploma dell’anno 983, Cod. Sessor. CCXVII, p. 192, nel cui testo è detto: Tempore Alberici olim Romani Patricii. Il Provana, Studî critici etc. p. 141, chiama non malamente «podestà dittatoria» quella onde i Romani investirono Alberico.
380. Gli Atti del Sinodo di Giovanni IX, a. 898: Constituendus pontifex convenientibus episcopis et universo clero eligatur, expetente senatu et populo; e la Petitio del Sinodo di Ravenna di quello stesso anno: Si quis Romanus cujuscumque sit ordinis, sive de clero, sive de Senatu.
381. C. Hegel, I, 288, toglie il titolo di Alberico semplicemente in senso di Senior o Signore. Il concetto di Senior, nel secolo decimo, era già universalmente in uso anche fuori d’Italia. Ad esempio, in Roma, in un documento dell’anno 1006, dove Rogata dice: Pro anima Johannis Patricii Romanor. germani mei, et Senioris nostri; non dunque Senatoris nostri: Cod. Sessor. CCXVIII, n. 472 (Farfens. Diplom). L’opinione dell’Hegel è difficile a sostenersi. L’antico frammento Hist. Aquitan. (Pithoeus, Annal. et Histor. Francor., Paris, 1688, p. 415) dice indeterminatamente: Et Romani de Senatoribus suis elevaverunt in regno Albericum.
382. Nel documento dell’anno 945, le due sorelle, già defunte, Marozia e Teodora sono appellate quondam Romanor. Senatricis filie. Nell’a. 970: Stefania Senatrix (Petrini, p. 394); nel 987 Stefania, moglie a Benedetto conte: Illustrissima Femina, Comitissa, Senatrix (Nerini, p. 382). Ben. di Soratte chiama Senatrices le sorelle di Alberico. Nel Cod. Sessor. CCXVIII, p. 99, la più giovine, Marozia, è detta Senatrix omn. Romanor. In Diplomi dati da Gaeta trovai più spesso il costume, tolto da Roma, di chiamare donne di casa principesca col nome di Senatrix; ad esempio, nel Maggio del 1002: Nos Ymilia gr. Dei Senatrix atque Ducissa una per consensum Domni Joh. glor. Consuli et Duci et nostri Senioris Deo servante hujus suprad. civitatis rectores. Il figlio di lei Leone (e questo è caso meritevole di nota) si chiama illustris Senator. Altre donne della stessa famiglia, Maria, Teodora Senatrix (a. 1055), Ageldruda Comtissa et Senatrix (a. 1064). È possibile cosa che Emilia fosse romana, e forse della casa di Alberico.
383. Albericus princeps omnium Romanor. vultum nitentem sicut pater ejus, grandevus virtus ejus. Erat enim terribilis nimis, et aggrabatum est jugum super Romanos, et in s. sedis apostolice: Ben. di Soratte, c. 82. Che le corporazioni durassero, lo rilevo da Diplomi; nell’anno 978 trovasi sottoscritto un Stephano priore candicatore testis (Galletti, del Prim., p. 214, n. 18).
384. Le monete di Alberico datano dal tempo di Marino II e di Agapito II. La prima tiene scritto: S. Petrus; nel mezzo il monogramma Marin; dalla parte rovescia Alberi pri †; nel mezzo Roma. Delle due monete di Agapito, la prima: Agapus in monogramma; all’intorno Albericvs †; dall’altra parte Scs Petrvs colla sua imagine. L’altra: Agapitvs Pa.; nel mezzo l’imagine di San Pietro; dalla faccia opposta scs Petrvs e il monogramma Albr. — Il Provana, Studî, p. 143, col Carli, collo Scheidius e coll’Argelati lesse nel monogramma Agapvs la parola Patricius, ed è cosa che desta meraviglia. Io ho esaminato questa moneta nel gabinetto Vaticano in presenza del direttore signor Tessieri, e lessi Agapus, come lesse il Promis. Pertanto cadono le erronee conseguenze trattene dal Provana, che Alberico avesse ceduto ad Agapito una parte del potere.
385. A. IV Pont. Dom. Stephani VIII P. P. Ind. XV m. Aug. die 17. Io trascrissi questo documento dal Cod. Subl. Sessor. CCXVII, pag. 65. Il Giesebrecht, I, 818, lo pone all’anno 939, locchè tuttavia darebbe la Ind. XII e non la XV, l’A. I e non già il IV di Stefano. Benedetto è il primo Conte della Campagna ossia del Latium che sia noto: questo officio di Conte ebbero introdotto i Papi allorchè furono signori di quel paese; corrispondeva al Praesidium della provincia, quale era all’epoca dell’Impero romano.
386. Vi si sottoscrivevano nove assessori; uno si segnava così: Balduinum nobilem virum interf. Il nobilis vir che spesso si trova è pari al bonus homo, Rachimburgius dei Franchi, ossia prud’homme; chè a siffatti uomini ingenui germanici corrispondono in Roma i nobiles viri.
387. Perciò Liudprando, Legatio, c. 62: Verum cum impiissimus Albericus, quem nos stillatim cupiditas, sed velut torrens, impleverat, Romanam civitatem sibi usurparet, dominumque apostolicum quasi servum proprium in conclavi teneret.
388. Collecta multitudine proficiscitur Romam; cujus quamquam loca et provincias circum circa misere devastaret, eamque ipsam quotidiano impetu impugnaret, ingrediendi eam tamen effectum obtinere non potuit: Liudpr., IV, c. 2. Flodoard., Chron. a. 933: Hugo R. Italiae Romam obsidet.
389. Flodoardo, a. 936; Liudpr., IV, c. 3; Vita S. Odonis; Surius, VI, 18, Nov. II, c. 5; II, c. 7: Cum Romuleam urbem propter inimicitias, quae ei erant cum Alberico principe, Hugo rex — obsideret vir sanctus et intra et extra urbem discurrens hortabatur eos ad mutuam pacem etc.
390. Consilio iniit Albericus princeps, ut de sanguine Graecor. imperator. sibi uxore socianda. Transmissus Benedictus Campaniam (è questi Benedetto Campanino; il Cronista era bene informato) ad Constantinopolim, ut perficeret omnia, qualiter sibi sociandos esset etc. Verumtamen ad thalamum nuptiis non pervenit, c. 34.
391. Della concessione del Pallium parla Liudprando, Legatio, c. 62. Ugo, nell’anno 943, sposò Berta, sua bella figliuola bastarda, con Romano II. Di già nel 927, egli aveva spedito a Bisanzio il padre di Liudprando.
392.
Vi vacuus, splendore carens, modo sacra ministrans,
Fratre a Patricio juris moderamine rapto,
Qui matrem incestam rerum fastigia moecho
Tradere conantem decimum sub claustra Joannem,
Quae dederat, claustri vigile et custode subegit.
Flodoardo.
393. Il Pagi dimostra che la consecrazione di Leone VII avvenne prima del giorno 9 Gennaio 936, e lo fa dalla Bolla di lui, che è data: V. Id. Jan. Ind. XI, A. Pont. III (Mabill., Annal., III, 708).
394. Misericors Albericus — noster spiritualis filius e gloriosus Princeps Romanor.: Reg. Sublac. 45, col. 2, a. 937, di che diremo più sotto.
395.
Septimus exsurgit Leo, nec tamen ista volutans
Nec curans apices mundi, nec celsa requirens,
Sola Dei quae sunt alacri sub pectore volvens,
Culminaque evitans, oblata subire renutans,
Raptus at erigitur, dignusque nitore probatur
Regminis eximii, Petrisque in sede locatur etc.
Flodoardo, che nelle sue Vitae Pont. si giovò delle iscrizioni funerarie di Roma, vi pon fine con Leone VII.
396. Di ciò v’hanno esempî innumerevoli in tutti i paesi. M’accontento di un solo. Chi a Monte Cassino si fa dire i nomi delle terre poste tutt’all’intorno sui monti che lo recingono, è sorpreso di trovarne tanti appellati dal nome di Santi. Sono tutte fondazioni del convento: San Germano, San Pietro in Fine, Sant’Elia, Sant’Angelo, San Pietro in Curris, San Giorgio, Sant’Apollinare, Sant’Ambrogio, Santo Andrea, San Vettore.
397. Mabillon, Annal. Ben., III, 432.
398. Constructio Farf., p. 536: suamque domum propriam ubi ipse natus est Romae positam in Aventino monte concessit ad monast. construendum quod usque hodie (principio del secolo undecimo) stare videtur in honore S. Mariae. Di questo chiostro venne Aligerno, che, dopo di Balduino, fu abate di M. Cassino. Nell’a. 1013, si menziona Aimo come Abbate monast. S. Marie qui ponitur in Aventino (Mittarelli, Annal. Camald., App. 206).
399. Constr. Farf.; Ben. di Soratte, c. 33.
400. Bolla di Giovanni X: VI Id. Maji Ann. Pont. III, Ind. IV — per man. Marini Ep. S. Polimartiensis Eccl. et Biblioth.: Cod. Sessor. CCXVII, 33. Il Diploma di Leone VII per interventum Alberici gloriosi Principis atque omn. Romanor. Senatoris, conferma, a favore di Leone abate, il convento di sant’Erasmo già donatogli da Giovanni X; ed è dato: V Id. Febr. Ind. XI, a. 936: Cod. Sessor., p. 60. Il Mabillon non ne ebbe notizia. La confermazione della donazione del Castrum Subl. è data: IV Non. Aug. Ann. Pont. Il Ind. X, 937: Cod. Sessor., p. 59.
401. Mi vi ho riferito in passato. † Albericus Princeps, atq. om. Rom. Senator hinc a die presentis donationis cartula de suprascriptis immobilibus locis et familiis cum eorum pertinentiis facta a me cum meis consortibus in suprascripto Monasterio in perpetuum, sicut superius legitur, manu propria subscripsi, et testes qui subscriberent rogavi.
Signum † manu suprascripta Marozza nobilissima femina donatrice qui supra Lra † n.
Signum † manu suprascripta Stephania etc.
Berta nobilissima puella etc.
Sergius Dei gr. Episcop. S. Nepesine Eccl. etc.
Constantinus in Dei nom. nobilis vir etc.
402. Questa leggenda è nel Martinelli, primo Trofeo ecc., p. 57 e segg.
403. Morendo, l’abate sclamava facetamente: Campigenas Campo, male quam me campigenasti! Ugo di Farfa, p. 535.
404. Destructio Farf., p. 535, e il Chron. Farf., che spesso vi concorda parola per parola.
405. Il monaco che avvelenava Dagoberto moveva pellegrino al Gargano; un anno intiero ei tentò con inutili sforzi di salire il monte, indi sparve: Destruct. Farf., p. 537.
406. Fatteschi, Serie 248 e Dipl. 61. Di regola quel paese ha nome di Territorium o di Comitatus. Le date di questi documenti sono contrassegnate col tempo del Papa, del Vescovo della Sabina e del Rettore: a. 948 (n. 63): Temporib. dom. Agapiti — PP. et VV. Johannis Episcopi et Teugonis Comitis Rectorisq. Territor. Sabin. mense Sept. Da Alberico non si segnano mai le date, ma, a cominciare dalla coronazione di Ottone I, si usa di apporvi la indicazione dell’anno dell’Impero. Il Catalog. Imp. del Chr. Farf. menziona Leone come primo Dux Sabinensis, indi Azone, Giuseppe, Teuzone. Ne continua la serie fino all’anno 1084, ed io mostrerò in seguito che i Crescenzî ivi diventavano Conti ereditarî.
407. Il tempo del pontificato di Stefano (a. 3. m. 3. d. 15) è dato dal Cod. Vat. 1340, donde Georgius, al Baronio a. 939, conchiude che fosse consecrato innanzi ai 19 di Luglio.
408. Martinus Polonus e il Baronio. Non ne dicono cosa alcuna le notizie contemporanee.
409. Ben. di Soratte, c. 34. Della venalità di Roma dice l’Annal. Saxo, ad a. 981: corruptis cunctis optimatibus, maximeque Romanis Judicibus, quibus omnia venalia sunt.
410. Tre anni, sei mesi, tredici giorni sono attribuiti al pontificato di Marino II. Seguendo l’Ughelli, VIII, 50 (3 Id. Nov. ann. Pont. Marini II, Ind. II, cioè a. 943; e su ciò il Mansi si riporta al Baronio ad a. 943), il Jaffé pone che la sua consecrazione avvenisse prima degli 11 di Novembre. Nel Reg. Subl., fol. 12, Cod. Sessor. CCXVII, p. 69, ne è determinato il primo anno di pontificato: anno Do. p. Marini — II PP, in sede I, Ind. I, m. April., die 15: dunque l’anno istesso 943.
411. Electus Marinus papa non audebat adtingere aliquis extro jussio Alberici principi: Ben. di Soratte, c. 32.
412. Ai 7 Kal. Julii, a. 941, Ind. XIV, nel decimoquinto anno di re Ugo, decimo di Lotario, è segnata una donazione di Ugo, fatta a favore di Subiaco: actum juxta Romam in Monasterio S. Virginis Agnes: Muratori, Annal., 941. Io vi aggiungo altresì un documento dato per il convento di san Benedetto in Telle, nel territorio dei Marsi, segnato 6 Kal. Julias — Actum Romae: Archiv. M. Cassino, Cap. 12, n. 8. Al Diploma manca il suggello. Il Gattula non l’ebbe edito.
413. Italienses autem semper geminis uti volunt dominis, ut alterum alterius terrore coerceant. Questo famoso motto di Liudprando (Antapod., I, c. 37), che la Cronica di Farfa (p. 416) trascrive, vale anche per le condizioni più moderne.
414. Flod., Chron., a. 946: Marinus Papa decessit, cui successit Agapitus et pax inter Albericum Patricium et Hugonem Regem Italiae depaciscitur. Ugo morì in Provenza nel 947.
415. Georgius, nella sua annotazione al Baronio, a. 946, dichiara che Agapito cominciasse il suo pontificato nell’Aprile, e il Mansi (ibid.) vuol dimostrare financo che ciò avvenisse nel dì 8 di Marzo (dal Muratori, Ant. It., III, 146). Nel Febbraio del 947, per lo meno, non ne era ancora trascorso il primo anno. Anno primo Agapiti junior. PP. Ind. V, m. Febr., die III: Cod. Sessor. CCXVII, p. 71. Però, ai 26 di Marzo del 949 egli contava il suo terzo anno: ibid., p. 75: anno III Agap. II, Ind. VII, Mar. die 26. Laonde è erronea l’opinione del Mansi.
416. Che la ragione dei beni ecclesiastici vi fosse per sua parte implicata, ce lo apprende la Translatio S. Epiphanii (Mon. Germ. VI, c. 1): ut (Berengarius) — jus fasque quaque confundens, aliquantum etiam de terminis S. Petri praedatoria vi sibi arripere praetumpsisset: perciò avere il Papa invitato Ottone a venirne a lui.
417. Si rammenti ciò che fu avvertito più addietro nella nota (a) a pag. 211. Questo Volume terzo, nella sua prima edizione originale, vedeva la luce poco dopo l’anno 1869. (N. del T.)
418. Otho Rex Legationem pro susceptione sua Romam dirigit. Qua non obtenta, cum uxore in sua regreditur: Flodoard., Chron., a. 952.
419. Contin. Regin. ad a. 952.
420. Albericus princeps Romam obiit: Annal. Farf., a. 954. Flod., Chron: Alberico Patricio Romanor. defuncto, filius ejus Octavianus, cum esset Clericus, Principatus adeptus est.
421. L’inscrizione funeraria di un bambino, nipote di Alberico, dell’anno 1030, dice:
Aurea progenies jacet hic vocitata Iohs
Fletu digna gravi flore tenella rudi
Gregorio patri fuit et dilectio matri
Atque nepos magni principis Alberici.
Coppi, Memor. Colonnesi, p. 18: oggidì è nel chiostro del san Paolo infissa nel muro.
422. Benedetto di Soratte dice nel suo barbarico linguaggio: Genuit autem ex his principem ex concubinam filium, imposuit eis nomen Octavianum (c. 34): parla prima di regibus Longobardorum, però di essi non si può intendere altri che Ugo. Si noti che anche Alda avrebbe dovuto essere una concubina: questi Cronisti non trattano le donne che da cortigiane.
423. Bened., c. 35: Agapitus p. decessit. Octavianus in sede — susceptus est, et vocatus est Johannis duodecimi pape. Il Chron. Farf., p. 472, dice erroneamente: qui patre vivente P. ordinatus est. Il Pagi afferma che fu fatto papa addì 12 Maggio 956, locchè di già il Mansi (annot. al Baronio, a. 955) ha narrato, desumendolo dalle lettere di Giovanni, nell’Ughelli, VIII, 57. Georgius vuol dimostrare, per via del Reg. Subl. p. 74, 75, che lo fosse nel Febbraio 956. Il Jaffé assume il Novembre dell’anno 955. Resta dubbio il mese.
424. Vitae Papar., nel Mur., III, 2, 327; Liudprando e gli Annali di Reims. Perfino l’ingenuo Benedetto dice che fosse peggiore di un pagano: Habebat consuetudinem sepius venandi, non quasi apostolicus, sed quasi homo ferus — diligebat collectio feminarum (magnifico dettato) odibilis ecclesiarum, amabilis juvenis ferocitatis.
425. Il solo che ne dia notizia è l’Anon. Salernit., c. 166.
426. Benedetto di Soratte (c. 36) descrive l’aspetto di quei suoi popoli, che gli parevano simili agli Unni: Erat enim aspectus eorum orribilis, et curbis properantes, carpentes iter, et ad prelium ut ferro stantes.
427. Rex Hattonem, Fuldensem abbatem, ad construenda sibi habitacula Romam praemisit: Cont. Regin., a. 961.
428. Le tre recensioni di questo giuramento sono raccolte nei Mon. Germ., IV, 29. In Liudpr. e nel Cont. Regin. non lo si trova; per la prima volta, in Bonizo, ad Amicum (Oefele, Rer. Boicar., II, 800), in Deusdedit, Cod. Vat. 3833, donde passò in Cencius. Lo lessi anche nel Cod. Vat. 1437, fol. 135, nella Vita Joh. XII, con cui incominciano le così dette Vitae di Nicolaus Aragoniae. Spesse volte fu messa in dubbio l’autenticità di questa formula giuratoria: il Dönniges, Ann. dell’Imp. ted., I, 3, seg., 201, la ripudia, specialmente a cagione di quel passo che si riferisce ai Placita. La forma non è superiore al sospetto, ma del tenore non si può accoglier dubbiezza alcuna. Il Floss reputa che tutte e tre le formule sieno autentiche.
429. Thietmar, Chron., IV, 22: Deinde redeundo ad montem Gaudii, quantum volueris, orato.
430. Liudpr., Hist. Otton., 3. La Vita Mathildis Reginae, M. Germ., VI, c. 21, dice perfino: Totus populus Romanus se sponte subjugavit ipsius dominatui, et sibi solvebant tributa, et post illum ceteris suis posteris. Tuttavia, il pagamento del tributo non è che una fola.
431. Privileg. Ottonis, nel Cenni, Mon. II, 157; nei Mon. Germ., Leg. II, App. 164; nel Watterich, Pont. Rom. Vitae, I, 18. Il Baronio, che pel primo ne fece subbietto di ricerca (ad a. 962), e il Cenni attestano, che l’autografo, scritto in lettere d’oro su fondo porporino, si conserva nell’archivio del sant’Angelo, adesso in Vaticano: insieme coll’intiera serie delle donazioni, trovasi nel Cod. Vat. 1984, 3833; inoltre nei Gesta Albini e in Cencio. — Il Muratori, Piena Esposiz. etc., il Berretta, il Goldast (Const. Imp., II, 44) impugnano la sua autenticità. Vedasi anche il Giesebrecht, I, 458. La letteratura che vi è relativa, è riferita dal Waitz, Annal. dell’Imp. germ., I, 3, 207. Anche in questo Diploma si conferma alla Chiesa il possesso di Venezia, Istria, Spoleto, Benevento, financo di Napoli con tutti i suoi territorî e colle isole, necnon patrimonium Sicilie, si Deus illud nostris tradiderit manibus: inoltre v’erano aggiunte donazioni di città. Gli articoli sopra i Missi, e sull’elezione e la consecrazione del Papa da farsi in presenza di quelli, sono messi secondo l’ordine dell’antica Costituzione dell’Impero, e dimostrano che Ottone voleva darne conferma.
432. Adami, Gesta Hammab. Eccl., M. Germ., IX, 308, II, c. 9: Romamque pristinae reddidit libertati. Leggasi quello che Liudprando, Legatio, c. 5, contrappone ai rimbrotti di Bisanzio.
433. Secondo il Cod. Vat. 1340, Ottone venne a Roma m. Jan. die XXXI, feria VI, et stetit ibi dieb. XV, et exiit inde m. Febr. die XIIII, in festo S. Valentini, Ind. V. Addì 21 Febbraio trovavasi a Rignano; dunque era ancora assai vicino a Roma, e vi dava un Privilegio a favore del monastero di Monte Amiata: Actum Rignano IX Kal. Mar. Ind. V, a. 962: Cod. Dipl. Amiatin. del Fatteschi, CCXIII, p. 193. Vedi anche lo Stumpf, I Cancellieri dell’Impero, Vol. II, 28.
434. Puer, inquit, est, facile bonorum immutabitur exemplo virorum: Liudpr., Hist. Ottonis, c. 5.
435. Liudpr., Hist. Ott., c. 7.
436. Campaniam fugiens, ibi in silvis et montibus more bestiae latuit: Vita Joh. XII, Cod. Vat. 1437, Chron. Farf. p. 476, e il manoscritto conservato a Treviri, del Privilegium di Leone VIII (nel Floss). Cont. Regin. e Liudpr., Hist. Otton.
437. Quello di Tusculum non è, a questo luogo citato, come non lo è nel Sinodo di Giovanni XII del 964, dove si dovrebbe credere di rinvenirlo. Meravigliosa cosa è, che Forum Claudii e Falerii perdurassero coi nomi antichi. Sparita era Tres Tabernae, Centumcellae non è nominata, neppur Polimartium; però continuavano entrambi ad esistere. Liud., Hist. Otton., c. 9. Vedi su questo Sinodo l’Hefele, Storia dei Concilii, IV, 582, dove si chiarisce assai giustamente che esso era conseguenza di quel Privilegio dato all’Imperatore.
438. E plebe Petrus, qui et Imperiola est dictus adstitit cum omni Romanorum milizia. Spesse volte, nei documenti, quest’uomo romano ha nome di Petrus de Imperio. Cod. Sessor. CCXVII, p. 131, a. 966: Libellum Petri de Imperio vocati. Ben era figliuol suo quegli appellato, nell’anno 1066, Crescentius de Imperio: ibid. pag. 247. Oggidì ancora esiste il nome di Impéroli. — Taluno di questi ottimati torniamo a trovare in alcuni documenti. Vedi quello del 28 di Luglio 966, nel Giesebrecht I, App. D. — Demetrio, figlio di Melioso console e duce, possedeva, da dopo il 946, un castello vicino a Velletri (Borgia, Stor. di Velletri, p. 158); forse è quegli stesso che nel 979 compare come zio di Marozza (Murat., Ant., V, 773). — Imiza, madre di Stefano, era la più culta dama che fosse in Roma a quell’età; era amica di Giovanni XIII e di Teofania, e con lei Gerberto teneva corrispondenza epistolare. Gerberti Ep. 22: Dominae Imizae.
439. Viduam Rainerii et Stephaniam patris concubinam et Annam viduam cum nepte sua abusum esse, et S. palatium Lateranense lupanar et postribulum fecisse: Liudpr., c. 10.
440. Johannes Ep. Servus Servor. Dei, omnibus Epsps. Nos audivimus dicere, quia vos vultis alium papam facere; si hoc facitis excommunio vos da Deum omnipotentem, ut non habeatis licentiam nullum ordinare, et missam celebrare: Liudpr., c. 13; e le celie de’ Vescovi, a c. 14.
441. Con buon dritto Giovanni XII picchiò contro questo abuso; Actio 2 del suo Concilio dei 26 di Febbraio (Baron., a. 964). Cotale procedimento fa ricordare i decreti di nomina ad officî, che Napoleone promulgava dopo una battaglia fortunata.
442. Marini, n. 101, a. 961, dove si parla di Leone protoscriniario, possessore di un casale sulla via Appia.
443. Un Diploma di Anacleto II, nel Casimiro, Stor. Araceli, p. 434, appella quel Clivus: descensus Leonis Prothi. Il Galletti, del Primic., p. 143, riporta una inscrizione col nome de Ascensa Proti. L’antichissima Continuazione di Anastasio, Cod. Vat. 3764, dice: Leo nat. rom. protoscrinio ex patre Johe. protoscrinio de regione clivus arg. sed. a. 1 m. IV: ad essa si informa il Cod. Vat. 1437, nel Muratori, III, 2, p. 327.
444. Cont. Regin., a. 964; Liudpr., c. 16: i cavalieri tedeschi dispersero i Romani quasi accipitres avium multitudinem.
445. Se ne trovano gli Atti nel Baronio, ad a. 964, e nel Mansi, Conc. XVIII, 472.
446. Octavianus Romam redit, Leonem fugat, Johannem Diaconum naso, dextrisque digitis ac lingua mutilat, multaq. caede primorum in urbe debacchatus: Acta Concil. Remens., c. 28 (M. Germ. T. V).
447. In temporibus adeo a diabolo est percussus, ut infra dierum octo spacium eodem sit vulnere mortuus: Liudpr., c. 19, e similmente la Vita nel Murat., III, 2, p. 326. Il Cod. Vat. 3764 non ne ha contezza. — Nam 2 Id. Maii — excessit, dice il Cont. Regin.
448. Erat enim vir prudentiss. grammatice artis imbutus, unde ad Romanum populo Benedictus grammaticus est appellatus: Bened. di Soratte, c. 37, e Gerberto, Conc. Remens., c. 28.
449. Per diversas Civitates, oppida atque castella coepit depraedari, incendere atque devastare, et funditus dissipare. La Vita è nel Muratori.
450. Vitae Pontif., Chron. Farf., Ben. di Sor., Regino e Liudpr.
451. Dimisit autem eis quanta et qualia mala perpessus est ab illis: Chron. Farf., p. 476.
452. Colla descrizione e cogli atti di questo Sinodo, Liudprando pon fine alla Historia Ottonis.
453. Io ho comparato il Privilegium di Leone VIII (Ivo Panorm., VIII, 135; Gratian. Decret., 63, c. 23; Mon. Germ., Leg., II, 167) col Cod. Vat. 1984, fol. 192, dove trovasi, a fol. 191, anche quello consimile di Adriano. Esso dà all’Imperatore la podestà di eleggere il Papa, il Re, il Patrizio, i Vescovi ut ipsi tamen ab eo investituram suscipiant, et consecrationem recipiant undecumque pertinuerit — — soli regi romani imperii hanc reverentiae tribuimus potestatem. — Il Floss ha publicato un mscr. di Treviri del secolo undecimo o di quello duodecimo, in cui vuol ravvisare il Privilegium originario di Leone VIII; questo documento mal redatto sembra essere piuttosto una scrittura rettorica. I motivi per cui si rileva mancare l’autenticità al Diploma sono raccolti dal Baronio, dal Pagi, dal Muratori, dal Curtius, dal Pertz, dal Dönniges, dal Giesebrecht. L’Hefele, IV, 592 e segg., non si pronuncia nè pro nè contro, rispetto all’autenticità. Un secondo Privilegio, falsato, di Leone VIII (è nel Baronio e nei Mon. Germ., Leg., II, 168, e concorda colla Vita Leonis VIII, che trovasi in Bern. Guidonis e in Amalricus Aug.), importa che il Papa facesse cessione dello Stato ecclesiastico: è cosa ridicola nelle sottoscrizioni appostevi, ma è meritevole di nota per quel che concerne la delimitazione delle Regioni della Città. Una siffatta cessione dello Stato della Chiesa sarebbe oggidì (1860) la benvenuta per l’autore dell’opuscolo Le Pape et le Congrès.
454. Il Cont. Regin. nulla dice delle preghiere dei Romani, bensì ne parla Adamo di Brema (Mon. Germ., IX, 309). La salma di Benedetto V fu, più tardi, recata a Roma: vedi Thietmaro, che lo celebra molto, Chron. IV, c. 40.
455. Catalog. Eccardi e le Vitae, Cod. Vat. 1437, 3764. L’Ughelli, I, 1013, appella esattamente con nome di Giovanni il Vescovo di Narni, inesattamente con nome di Sergio il suo figliuolo. Il Catalog. I, nel Cod. Vat. 3764, registra giustamente: sed. ann. VI. m. XI, d. V; quello II, ossia Continuazione di Anastasio, erroneamente dice: ann. VII (m. XI, d. V).
456. Ugo di Farfa (Mon. Germ., XIII, 540): Joh. igitur papa qui appellatus est major, ingressus papaticum satis exaltavit quemdam nepotem suum nomine Benedictum, deditque ei Theodorandam uxorem satis nobilem, filiam Crescentii qui vocatur a Caballo marmoreo, et comitatum Sabinensem dedit ei et plures alios. Un’altra Teodoranda era figlia di Graziano console, che io reputo essere stato marito di Teodora II; ed era sposata con Ingebaldo, rettore della Sabina. Il Wilmans ritiene che quella prima femmina fosse figliuola di Crescenzio giustiziato nell’anno 998, locchè non è dimostrato, e contrasta cogli anni di quelle persone. Benedetto era rettore della Sabina ancora nel 988. I suoi figli, Giovanni e Crescenzio, trovansi, dopo il 1010, da signori di Palestrina, concessa nell’anno 970 a Stefania. Come marito di Stefania compare, nell’anno 987, Benedetto conte (Dipl. III nel Nerini, p. 381), il cui figliuolo ben era il detto nepote di Giovanni XIII. Pertanto Stefania dev’essere stata sorella del Papa (Petrin., Mem. Prenest., p. 104). Poichè si chiamava senatrice, era ella figliuola di Teodora II? Apparteneva Giovanni alla famiglia di Alberico?
457. Qui statim majores Romanorum elatiore animo quam oporteret insequitur, quo in brevi inimicissimos et infestos patitur: Contin. Reginensis, a. 965.
458. Vita Joh. XIII e Cod. Vat. (1437): comprehensus est a Roffredo Campanino Comite cum Petro Praefecto, et adjutorio Vulgi Populi qui vocantur Decarcones, recluserunt eum in Castello S. Angeli — Cont. Regin. — Bened. di Soratte, c. 30, dopo di aver narrato con tono abbastanza comico dei fattigli maltrattamenti (alii percutiebant, alii alapos in facies ejus percutiebant, alii nautes nutis cruciebantur), dice: Sic — in Campanie finibus inclusus, et dicebant Romanis inter se: ut non veniant reges Saxones et destinat regnum nostrum.
459. Ben. di Soratte, c. 39. Il Papa s’era guadagnato il favore dei Capuani, erigendo Capua in arcivescovato.
460. Vita Joh. XIII: de vulgi Populo, qui vocantur Decarcones duodecim suspendit in patibulis. Regino conta ex majoribus Romanor., senza il Prefetto. Il Cod. Estens. ne dà soltanto undici, e il Muratori ha le varianti Decartores, decartiones, decuriones. Nel Cod. Vat. 1437 io lessi chiaramente decarcones. Il Giesebrecht li reputa membri del Vulgus Populi, ossiano viri humiles, locchè contrasta col predicato majores di Regino. Però eglino erano capitani dei popolani. Se la parola s’avesse a pronunciare Decarchontes sarebbe traduzione di Decemprimi. Decarcones ebbe forse origine da duo decim capi (tanei) regionum, ed il popolo contrasse in de-cariones, come più tardi si disse «i caporioni.» Della i ch’era in riones potè qualche scrivano farne facilmente una c. Nell’anno 1148 v’erano in Viterbo dei decemviri, ossiano Capudece (Orioli, nel Giorn. Arcadico, t. 137, p. 257). Poichè Regino conta 13 ex majoribus Romanor., il tredicesimo appartiene al Trastevere. Dodici vessilliferi v’avevano anche nel secolo duodecimo e nel decimoterzo. Ma, tuttavia al tempo di Enrico V, i draconarii si distinguono dagli aquiliferi, leoniferi, lupiferi, così che non è sostenibile l’opinione dell’Hegel (I, 315) che Draconarii debbansi tenere per vessilliferi.
461. Et equum aereum pro memoria deauratum et sine sella, ipso desuper residente, extensa manu dextera quae ceperat Regem etc.: Mirabilia e Graphia. Il cavallo di Marc’Aurelio ha un ciuffo di crini in fronte e la fantasia popolare ne ravvisò una civetta: è pur possibile che, in origine, fosse rappresentato uno schiavo di guerra legato e calpestato sotto le zampe del cavallo. Io non dubito che questa leggenda appartenga di già al secolo decimo. Nell’anno 966 si appiccò a quella statua equestre un Prefetto della Città, e nel 1847 si pose in mano a quello stesso Marco Aurelio il vessillo tricolore.
462. Libell. de Imp. Pot., p. 720: in judiciali loco ad Lateranis ubi dicitur ad Lupam, quae mater vocabatur Romanor. Lo trascrive Ben. di Soratte, c. 24. — La Vita Joh. XIII non determina il luogo della statua equestre: per capillos capitis eum suspendit in caballum Constantini. Ma la stessa Vita e il Catal. Eccardi hanno, nella Biografia di Giovanni XIV: in Campum ante caballum Constantini. L’espressione di Campus, spesso adoperata per la piazza Lateranense, indusse in errore il Fea ed altri, che andarono pensando al Campo Vaccino. Il Papencordt si figura assai adeguatamente il Campus Lateranensis.
463. Vita Joh. XIII.
464. Mansi, Concil. XVIII, 509, nella Bolla ravennate di erezione dell’Arcivescovato di Magdeburgo: Roma caput totius mundi, et ecclesia universalis ab iniquis pene pessum data est, a Domno Ottone aug. Imp., a Deo coronato Caesare, et magno, et ter benedicto — erecta est, et in pristinum honorem omni reverentia redacta. Anche i Greci riconoscevano che Roma fosse città pontificia: νῦν δε ἐγίνετο ἡ, καινοτομία αὖτη διὰ τὸ τὴν Ῥώμην ἀποθίσθαι τὸ βασίλεων κράτος, καὶ ἰδιοκρατορίαν ἔχειν καὶ δεσπόζεσθαι κυρίως παρά τινος κατὰ καιρὸν πάπα: Constit. Porphyr. de Thematib. II, 27 (ed. Bonn.).
465. Ve Roma! quia tantis gentis oppressa et conculcata. Qui etiam a Saxone rege appreensa fuisti, et gladiati populi tui, et robur tua ad nichilum redacta est. Aurum et argentum tuum in illorum marsupiis deportant. — Questa notevole enumerazione delle torri ecc. vien seconda dopo dell’Anonimo di Einsiedeln, che non vide, al suo tempo, la città Leonina, e contò turres 387, propugnacula 7070.
466. Cont. Reginonis, a. 967.
467. Annal. Saxo, a. 967, e la lettera di Ottone indiritta ai Duchi di Sassonia, dat. XV Kal. Febr. in Campania juxta Capuam, che conchiude così: Filius noster in nativitate Domini coronam a beato apostolico in imperii dignitatem suscepit. Di già ai 2 Dicembre Ottone I trovavasi a Roma, ai 7 Dicembre ad Ostia, ai 23 Dicembre nuovamente a Roma: vedi i documenti relativi a quelle date nello Stumpf, II, 38, 39.
468. Relatio de Legatione Constantinopolit., stampato da ultimo nei Mon. Germ., V, 347. Questo bellissimo pamphlet somiglia ad un’oasi, che s’incontra dopo aver percorso un deserto letterario. Dacchè Procopio ne ha abbandonati, non ci avvenimmo mai più in alcuna simigliante scrittura.
469. Cap. 4. Berengario, prigioniero, era morto nell’anno 966 a Bamberga, ma Adalberto viveva ancora; pertanto il discorso è inesatto.
470. Hoc solo i. e. Romanorum nomine quidquid ignobilitatis, quidquid timiditatis, quidquid avaritiae, q. luxuriae, q. mendacii, immo q. vitiorum est, comprehendentes... c. 12. Di rincontro a questo passo, dove si dipinge con tanto gravi colori la preponderanza morale che la razza germanica teneva a quella età sopra la romanesca, si ricordi la sentenza di Salviano, il quale, cinquecento anni prima di Liudprando, era costretto a dire: nomen civium Romanorum aliquando — magno aestimatum — nunc — nec vile tantum, sed etiam abominabile pene habetur.
471. Faceret cum ad nutum suum Roma, et R. Ecclesia ordinabitur. A Bisanzio scottava forte che Ottone comandasse da signore assoluto a Ravenna ed a Roma. In Ravenna Ottone si edificava financo un palazzo, a. 970; Placito di Ottone II, a. 971, Chron. Farf. 475.
472. Il popolo diceva ormai Penestrina, in territorio Penestrino, documento del 998, nel Marini, n. 106; oppure Pelestrina, documento nel Galletti, Gabio, p. 67, a. 873. Ugo di Farfa usava altresì dire: mons Penestrinus; nell’anno 1074 dicevasi: in Territorio Pelestrino (Bullar. Casin. II, const. CXII).
473. Il celebre quadro a musaico di Palestrina, che fa riscontro alla cosiddetta battaglia di Alessandro trovata a Pompei, fu dissotterrato nel 1640, ed oggidì ancora è tesoro del castello baronale. Gli escavi di Palestrina producono gran copia di oggetti da teletta; anche il gioiello prezioso del museo Kircher di Roma, la Cista mystica, ha origine di colà. Ho forse bisogno di ricordare al lettore, che dalle rovine di Preneste, da quel vago monte, si levò a volo il genio della moderna musica italiana?
474. Il Diploma trovasi nel Petrini, App. 394; nel Marini, n. 32; nel Muratori, Ant. It., III, 235: Joannes Ep. Serv. Servor. Dei dilectissime in Dom. Filie Stephanie carissime Senatricis tuisque filiis ac nepotibus. Le date cronologiche non sono affatto esatte. — La concessione pertanto era di quelle tertii generis. Prima e poi la Chiesa dava paesi in affitto; così Bonifacio VII locava il castello di Pietrapertusa parimente per dieci solidi d’oro: Collect. Deusdedit, nel Borgia App. VI. — Di Stefania, senatrix e comitissa, e dello sposo suo, Benedetto conte, parla un documento, che è nel Nerini, p. 381; in quello eglino donano al convento di santo Alessio un campo situato juxta portum Asture.
475. In parvo corpore maxima virtus: Vita s. Adalberti, c. 8.
476. Annal. Lobiens.; Annal. Saxo; Annal. Hildesh., a. 972; Benedicti Chron., V, 718.
477. Fu sepolto in san Paolo. Il suo epitaffio dice sulla fine: hic vero summus Pont. Joannes in ap. Sede sedit annos septem. Depositionis ejus dies 8. Id. Sept. ab Incarn. D. A. 972 (Baron., ad a. 972).
478. Cod. Estensis (Murat. III, 2, 332): Benedict. VI, diacon. de reg. VIII sub Capitolio ex patre Ildebrando monacho ingressus est m. Jan. d. 19. Hic fuit electus V anno regis Ottonis Ind. I. Domnus sedit a. 1, m. 6. Quest’è il passo da cui derivò l’infinto papa Donus, che in Cataloghi di tempi posteriori fu inserito fra Benedetto VI e Bonifacio. Jaffè, p. 331; Giesebrecht, Annal. dell’Impero ted., II, 2, Excurs. VIII.
479. Vedi i Mirabilia, de Caballis Marmoreis in Roma. I Romani usavano il numero singolare, dicendo a Caballo marmoreo: così, oggidì ancora, il Quirinale viene appellato Monte Cavallo. Anche il Signorili, nel secolo decimoquinto, scriveva: In clivio Caballi (De Rossi, le prime raccolte, p. 45). L’Anonimo di Einsiedeln denota i cavalli così: Thermae Sallustianae. Sca Susanna et Caballi Marmorei. La Topografia della Città del Buffalini (intorno al 1551) li registra presso alle terme di Costantino, prima che Sisto V, nell’anno 1389, li facesse collocare sulla piazza del Quirinale.
480. Sembra che a questa famiglia appartenessero un Landolfo de caballo marmoreo (a. 1005, Reg. Sublac., fol. 156), e un Beraldus et filius primus defensor de Cavallo marmoreo (a. 1014, Galletti, del Prim., n. 30). Ancora nel 1148, trovo io un senatore Georgius ab equo marmoreo (Mscr. Vatican. del Galletti, n. 8043). — All’anno 1259, sono nominati ancora gli heredes Crescentii de caballo (Mscr. n. 8044, p. 31); e in un docum. di Aless. IV, del primo di Agosto 1287, un Lionardus cavalerio de cavallo: ibid.
481. Andreas de Petro qui dicebatur de Viola de Colosseo testis: Mittarelli, p. 235, dipl. 104, a. 1019. — La Cannapara era una via che, nel secolo decimo e in tempo posteriore, stava di facciata a san Teodoro, fra il Palatino e il Campidoglio: Casimiro, Storia di Araceli, p. 438.
482. Crescentius qui vocatur Quinque Dentes (Galletti, del Prim., n. 28, a. 1011): Adrianus qui caput in collo vocor (ibid. n. 29, a. 1012): Benedictus qui supernomen Buccapecu vocatur (ibid. n. 30, a. 1014): Johannes Centum Porci (ibid. p. 259, a. 1026): Leo Curtabraca ed uno Curtafemora (ibid. n. 26, 27; a. 1010). La famiglia Curtabraca si conservò in Roma fino al secolo decimoquarto; nel decimoterzo v’era una torre dei Curtabrachi nella Regione detta Parione (Galletti, Gabio, p. 140).
483. Il Duret, Avvenimento al pontificato di Giovanni X, p. 302, non conosce che le due sole Marozie romane, ed una ravennate nel secolo decimo; io invece lessi il nome Marozza in carte innumerevoli (del secolo decimo) di Subiaco e di Farfa; altrettanto spesso m’avvenni nel nome di Crescenzio.
484. La copia autenticata (dell’a. 1002) della finta donazione di Eufemiano (Nerini, p. 33) contiene queste sottoscrizioni: Crescentius sub Janiculo, Cresc. de Polla. — Crescent. nob. vir, qui vocor a puteo de Proba (Vendettini, p. 60; Galletti, Gabio, p. 117). Gli altri nomi sono sparsi in documenti farfensi.
485. Fatteschi, serie, p. 252: Crescentius Comes et Rector territor. Sab. L’Hüfler, p. 300, e il Wilmans, Annal. II, 2, 226, hanno raccolto tavole genealogiche di tutti i Crescenzî. Però a quegli alberi sono appiccicate molte frutta estranee. Se la inscrizione funeraria in santo Alessio dice: Ex magnis magna proles generatur et alta — Joanne patre, Theodora matre nitescens, perchè mai questi genitori devono essere stati Giovanni X e Teodora senatrice, se v’avevano tanti patrizî di questo nome? Si tenga conto soltanto del tempo; se Crescenzio fosse stato loro figlio, sarebbe stato coevo al secolo. Il Wilmans si sforza vivamente di far discendere i Crescenzî da Giovanni X e da Teodora; non vide che di già nell’anno 901 v’ebbe un duce Crescenzio: cosa v’ha di più naturale che scorgere in quest’uomo il capo della casa dei Crescenzî? Quali errori si sieno introdotti in quelle tavole genealogiche può dimostrarlo quest’esempio. Il Wilmans vuole che una Stefania, figlia di una Marozia, sia pronipote del Crescenzio giustiziato nell’anno 998, e vuole che nell’anno medesimo 998 essa divenga sposa di Orso de Baro. Mi è noto il Diploma cui il Wilmans si riferisce, ma esso nulla dice di questo parentado.
486. Cod. Vat. 3764: Comprehensus a quod. Crescentio Theodorae filius et in castellum S. Angli retrusus ibiq. strangulatus est propter bonifatium diaconi, quem miserunt vivente eo papam. Amal. Aug.: De mandato Cencii Theodorae filii, ibi interfectus atque strangulatus. Herm. Contr., a. 974: A Romanis criminatus, et Crescentio Theodorae filio — et eo vivente Bonifacius Ferruci filius Pp. ordinatus. L’erudito bibliotecario della Laurenziana, Luigi Ferrucci, scrisse le Investigazioni sulla persona e il pontificato di Bonif. VII, figliuolo di Ferruccio, 1856, in cui si sforza di render candido come giglio quel suo omonimo, che per bruttura fu un vero etiope. A vece di eo vivente, ei si costringe a leggere ea juvante (sc. Theodora). Può darsi che la intrusione di Bonifacio e l’uccisione del Papa avvenissero quasi in pari tempo. Amal. Aug.: Romani ipsum Bonifacium sublimaverunt statim cum dicto Benedicto per eos strangulato.
487. Franco de Britto, Franco a S. Eustachio. Di già l’epitaffio di Benedetto VII chiama Bonifacio con nome di Franco. A Monte Cassino lessi dei Diplomi dati in quest’epoca da Gaeta, dove pure vivevano dei Ferrucci; nel Nerini, p. 392, all’anno 1072, comparisce Ferrucius de Johannis de Crescentio testis. Se taluno voglia affermare che Bonifacio VII sia stato congiunto di Crescenzio, non sarò certamente io che mi opponga; soltanto non verrò compilando tavole genealogiche. Non ragioniam di lor, ma guarda e passa!
488. Horrendum monstrum Bonifacius (Malifacius) cunctos mortales nequitia superans, etiam prioris Pont. sanguine cruentus. Questo scriveva Gerberto al Concilio di Reims: sotto Ottone II era stato abate di Bobbio, cioè in Italia.
489. Cod. Vatican., Catal. Eccardi: — sed. m. 1, d. 12. — Herm. Contr., a. 974: post unum mensem expulsus, Constantinopolim postea petiit.
490. Questo prezioso documento Lateranense trovai io nel Mscr. Vatican. del Galletti, n. 8042, p. 7: l’abate Giovanni vi affitta, in vicinanza a Velletri, un castello a Crescenzo illustrissimo viro qui appellatur de Theodora, dat. 9 Aprile 977.
491. Vatican. Mscr. n. 8043, senza numerazione di pagine; documento Lateranense dei 15 Ottobre 989: nos Johannes et Crescentius illustrissimi viri atque germani filii Domni Crescentii olim Consulis et Ducis qui dicebatur de Theodora, seu Sergiae illustrissime femine olim jugalium bone memorie. Fra le parti stipulanti v’è una Constantia, ma non v’ha alcuna Theodoranda. È assai dubbio se Crescenzio de Caballo Marm. e Crescenzio de Theodora formassero una sola persona. Da questo Diploma, finora ignoto, il signor R. Wilmans (Excurs. X) si persuaderà, che Crescenzio l’antico ebbe veramente due figli, quali sono denotati di sopra.
492.
Corpore hic recubat Crescentias inclitus ecce,
Eximius civis Romanus Dux quoque Magnus — —
Se Dno tradidit habitum monachorum adeptus —
Hic omnis quicunque lepis rogitare memento,
Ut tandem scelerum veniam mereatur habere.
Et obiit d. VII Mens Jul. Ann. Dom. Incarn. DCCCCLXXXIV
C. R. M. jam ante annos duodecim.
Anche il Papebroch reputa che questo defunto fosse l’assassino di Benedetto, però il Nerini (p. 84) vuole purgare l’urna sepolcrale da questo delitto. Le lettere C. R. M. spiega egli: Cum Regula Monachorum, e vuole che il morto si facesse frate fin dall’anno 972. Ma il documento dell’anno 977 ci ha fatto conoscere che non ancora, a quell’epoca, egli era monaco: lo diventò soltanto allora, che Ottone venne a Roma nell’anno 981. Io spiego le lettere per Cujus Requies Mors, e credo che l’inscrizione fosse posta dodici anni dopo la sua morte, nell’anno 996, quando quegli che può supporsi essere stato figliuol suo era Patrizio in Roma. È a biasimarsi il Provana, perocchè fece una sola persona di questo Crescenzio e del suo più celebre succeditore.
493. Leone di Ostia, II, c. 4, lo appella propinquus suprad. Alberici Romanor. consulis. Il Cod. Vat. 3764 scrive: ex patre dd, che significa Deus dedit, o meglio David, come legge il Catal. Eccardi. Secondo il Jaffé, la sua ordinazione cadde fra il 2 e il 28 di Dicembre dell’anno 974. Giesebrecht, Ann. dell’Imp. ted., II, 1, 143. Il Dandolo, c. XVI, dice breve e semplice: Hic bonus fuit.
494. Francesco Pagi e il Sigonio credono che Ottone II abbia creato i Conti di Tusculo, dai quali avrebbe indi avuto origine Benedetto VII. I documenti dell’epoca nulla ne sanno dire. Il Leo, Stor. d’Italia, I, 346, fa che un tale Alberico ne sia capo in Roma; probabilmente fu indotto in errore dal passo riferito di Leone di Ostia.
495. Edificatio uius Ecle. Sce. Scolastice Tempore Domni Benedicti VII PP. Ab Ipso PPA. Dedicata Q. D. S. An. Ab. Inc. Dm. CCCCCCCCCLXXXI M. Decb. D. IIII. Ind. VIII (deesi leggere IX).
496. È dubbio se Alessio fosse romano; perfino la sua leggenda viene riferita a Bisanzio: vedi la introduzione alla sua Vita, Acta SS., ai 17 di Luglio, T. IV. Questa Vita latina è scritta con colore drammatico e bello; oltre ad essa ve n’ha ivi un’altra in versi leonini. Del Santo tacciono i più antichi Martirologî latini e il Martyrol. Roman. compilato nel secolo ottavo. Nel tempo più tardo del medio evo la leggenda ottenne gran favore. Corrado di Würzburg ne cantò, nel suo noto poema, e nel 1859 il cardinal Wisemann trasse pure santo Alessio fuori della sua scala di legno, e lo pose sul palco scenico. La scala si fa vedere nella chiesa di santo Alessio di Roma, dove ai 17 di Luglio si celebra la sua festa.
497. Spesse volte ho citato l’opera importante del Nerini su questo convento. L’inscrizione funeraria di Sergio vi si trova a pag. 68.
498. Gli Annal. Coloniens. (Mon. Germ. I, 98) ad ann. 981, dicono: apostolicus in sedem receptus est, come se Ottone ve lo avesse ricondotto. Il Richer, Hist. III, c. 81, non ne dà conferma; dice soltanto che l’Imperatore venne a Roma: repressurus etiam si qui forte essent tumultus.
499. Annal. Saxo, a. 981. Il Chron. Casaur., a. 981, e il Chron. Farf., p. 478, riportano i noti Diplomi di Ottone II: dat. 14 Kal. Maji. Actum Romae in Palatio juxta Eccl. b. Petri Ap., e Actum Romae 3 Non. Maji.
500. Deriva essa dal Pantheon del Gotfried, cui seguì Ricobaldo, Hist. Imp. (Eccardo I, 1160) colla sua narrazione. Il Muratori biasima il Sigonio poichè accolse questa fola nella sua Storia: maggior censura meritano i modernissimi italiani Ferrucci e Amari, il quale ultimo, prendendo motivo da quelle favole, si compiace di chiamare Ottone col nome di Sanguinarius. Intorno a questa leggenda vedasi il Giesebrecht (Excurs. XIII).
501. L’Amari, Storia dei Musulmani, II, 324, dimostra che Thietmaro concorda col cronista Ibn-el-Athîr in riguardo a questa battaglia. Quattromila Tedeschi restarono sul campo; dei Saraceni cadde morto Abul-Kâssem (Bulicassimus). L’Amari guiderdona l’impresa di Ottone, rivolta a liberare Italia dai Saraceni, con rallegrarsi che Ottone morisse «di rabbia»: i Saraceni gli paiono Guelfi, la battaglia di Stilo una prima Legnano. Mi spiace di leggere cotale giudizio presso un così illustre uomo, cui professo venerazione. Di quanto invece s’eleva il Muratori sopra tutti i partiti e tutte le simpatie!
502. Il suo epitaffio, che ancor si conserva in santa Croce, registra. D. X M. Jul. in Apost. sede residens IX ann. abiit ad Christum Ind. XII. La Ind. XII cominciò nel Settembre 983, e forse è da cambiare soltanto il Luglio nell’Ottobre. Il Baronio dà anche la inscrizione che è in santi Cosma e Damiano, colla data: Joann. XIV Papa m. Febr. d. 22. Ind. XII A. 984, la quale cronologia esatta egli muta poi nell’anno 985 e nell’Ind. XIII. Il Jaffé e il Giesebrecht si sono sforzati di dimostrare che Benedetto morì nell’Ottobre dell’anno 983. Nella sua inscrizione funeraria, che si modellò a imitazione di quella di Stefano VI, è detto:
Hic primus repulit Franconi spurca superbi
Culmina, qui invasit sedis apostolicae,
Qui dominum suum captum in castro habebat.
503. Chronogr. Saxo, a. 983; egli è solo ad osservare che Giovanni XIV fu messo in seggio da Ottone. Il Richer, III, c. 96, narra che Ottone morì di dissenteria, dopo di avere inghiottito quattro dramme di aloe. Sigberto, Chron., dice: Taedio et angore animi deficient Romae moritur. L’indole sua è descritta bene nella Vita Adalberti, c. 8; meglio ancora da Thietmar, III, 1.
504. Un disegno del musaico e della tomba odierna è dato dal Dionysius, Sacrar. Basil. Vat. Cryptar. Mon. Tab. X e XLV. Vedasi inoltre il Torrigius, Le Sacre Grotte, p. 364. Bonizo celebra Ottone II come beato, perciocchè riposi in san Pietro: Vere beatus, terque quaterque beatus qui ex tanto numero Imperatorum et Regum solus meruit inter Pontifices cum apostolor. Principe consortium habere sepulturae (Oefele, Rer. Boicar., II, lib. 4, 93, 800). Il suo epitaffio scritto da Gerberto, leggesi nel Duchesne, Hist. Franc., II, 807: Cvjvs. ad. imperivm. tremvere. dvces. tvlit. hostis. qvem. dominvm. popvliqve. svvm. novere parentem. otto. decvs. divvm. Caesar. charissime. nobis. immeritis. rapvit. te. lvx. septena. decembris.
505. Catal. Eccardi: Quem Bonif. reversus a Constant. — comprehensum in Castello s. Ang. — per 4 m. inedia attritum jussit occidi. Cod. Vat. 3764, e, concorde con lui, il 1437: Quem iste supranomin. Bonif. Ferrucii filius reversus a Const. — comprehendit ac deposuit et in castello s. Angeli in custodia misit — ibiq. infirmitate et famis inopia per IV m. sustinuit ac mortuus est et ut fertur occisus est. Cod. Vat. 1304: Qui bonefacius revers. a const. dans pecuniam interfecit predictum petrum. Herm. Aug., Chron., aggiunge a queste fonti: Et, ut perhibent, toxicavit. Questo Catalogo e il Chron. Bernoldi attribuiscono a Giovanni XIV otto mesi; soltanto il Chron. Voltur. conta nove mesi (erroneamente annos), e registra che morisse di fame nell’Ind. XII, a. 984. Il Baronio trovò in talun luogo l’epitaffio, che dà per data il 20 di Agosto. Vedi anche Gerberto, acta concil. Rem.
506. Il Ferrucci riporta alcuni documenti, che alla Indizione XIII contano l’anno decimo, undecimo e financo duodecimo di Bonifacio VII: di qui si vede quanto poco accertate sieno queste date.
507. Cod. Vat. 1340: Et ipse paulo post veneno interiit. Cod. 3764 e 1437: sed. m. XI qui repentina morte interiit, e danno la narrazione diffusa, come quella detta di sopra; da essa trasse la sua Herm. Augien., ad ann. 985. Con quelli s’accorda anche il Catal. Eccardi. — Bernard. Guidonis e Amalric. Auger. sembrano associare la caduta di Bonifacio all’acciecamento del Cardinale; ma il Ferrucci, invece di oculos eruit, rilegge loculos eruit. Appoggiandosi all’erroneo dettato del Catal. Farfens. a. 987, Ind. XV, Bonefat. pp, afferma, contrariamente a tutti i Cronisti, che Bonifacio sia vissuto fino al 987; tuttavia neppur egli sa di alcun Diploma che si spinga di là della Ind. XIII, la quale corrisponde all’anno 985. Nel Maggio di quest’anno Bonifacio VII viveva ancora: Anno Deo prop. Pont. Domni Bonifacii. Summi Pont. et univers. VII Pape in Sacratissima Sede B. P. Ap. XI Ind. XIII mense Madio die III: (Galletti, Mscr. Vatican. 8048, p. 25). Bonifacio VII, dopo il 984, fece battere una moneta, che da una parte teneva scritto OTTO impe. rom., dall’altra scs Pev (Petrus) Bonif., nel mezzo Papae. Vedasi nel Promis.
508. Le Vitae Papar. dicono: De Regione Gallinae Albae, oppure Albas Gallinas. Il Jaffé indica che egli sia stato consecrato fra il 6 di Agosto e il 16 di Ottobre 985 (Ughelli, I, 1306; Marini, n. 35, 36). In documenti della chiesa di S. Cyriacus et Nicol. in via Lata (Galletti, Mscr. Vatic. 8048) io trovo ancora le seguenti date: A. 988 Joh. XV P. A. III mense madio Ind. I. — A. 988 Joh. XV P. A. III Ind. I m. Octobrio d. V. — A. 989 Joh. XV P. A. IV Ind. II m. Febr. d. VI. Quell’altro Giovanni che fu, dai quattro ai sei mesi, inserito fra Bonifacio VII e Giovanni XV (Cod. Vat. 1340; Tolomeo di Luca e Amalr. Auger.), ne venne cancellato in seguito a recenti studî: Annali del Willmans, p. 208, 212; Jaffé p. 337. I Cataloghi attribuiscono a Giovanni XV, a. X, m. 7, d. 10.
509. Iste exosos habuit clericos, propter quod et Clerici eum odio habuerunt; et merito quia quae habere poterat, parentibus distribuebat: Chron. Farf., p. 644; ne è fonte il Cod. Vat. 1437 e quello 3765. Il nipote di questo Papa con nome germanico di Wido, compare qual duce di Aricia nel 990: Guido vir nobilis, neptus Pontificis et Dux Ariciensis: Murat., Antich., Dissert. V. Può darsi che Guido appartenesse alla casa dei Tusculani, la quale era avversa ai Crescenzî.
510. La Vita Joh. XVI (XV) nel Muratori lo appella Patricius urbis Romae, e Romuald. Salernit., Muratori VII, 165: Romani Capitanei Patriciatus sibi tyrannidem vendicavere, locchè, parola per parola, è dettato del Bonizo, il quale parimente dice: A Crescentio Numentano, qui Patricius dicebatur. Un documento nel Gattula, Accession. I, 115, si esprime così: Anno Deo propicio pontificat. Dom. Joannis summo pont. et univer. pape — Ind. XIV, m. Januar., d. 3, Imperante anno primo Dom. Johanne Crescentias filio Romanor. Patricio. Quella notevole frase Imperante — Patritio significa dunque il vicariato in luogo dell’Imperatore: il Diploma contiene la donazione di una peschiera in Terracina, fatta al convento di santo Stefano. Che il titolo di Patricius compaia in Roma già prima del 1010, lo dimostra il documento che è nel Mittarelli, I, App. 41, p. 97, dove, nell’anno 975, si sottoscrive Benedictus patritius a Stefanus rogatus.
511. Annal. Hildesh., a. 989 (Mon. Germ. V, 68): Theophanu Imperatrix mater Regis Romam perrexit, ibiq. Natale domini celebravit et omnem regionem Regi subdidit. Nel Reg. Farf., n. 436, viene financo detto, abbastanza ridicolmente: Theophanius gratia divina Imperator Augustus; e Imperii domni Theophanii Imperatorii XVIII. Il documento ravennate del primo di Aprile 990 tien detto: Imperii Domnae Theophanu Imperatricis XVIII, Ind. III actum Ravennae feliciter; ivi pertanto l’êra dell’Imperium si conta dal matrimonio di lei con Ottone II. Altri documenti (Chron. Vulturn., Murat. I, p. 2, 484) dei 4 Non. Jan., a. 990. Actum Romae; Theophanu divina gr. Imperatrix Augusta (Mabillon, Annal. Bened. IV, 69).
512. Erat autem ipsis diebus Romae imperatrix Augusta Theophanu etc. Vita S. Adalb., Mon. Germ. VI, c. 13, 14, e Bruno, Vita S. Adalb., c. 12, ibid.
513. Quid hunc — in sublimi solio residentem, veste purpurea et aurea radiantem, quid hunc, inquam, esse censetis? Nimirum si caritate destituitur, solaque scientia inflatur et extollitur, Antichristus est, in templo Dei sedens, et se ostendens tamquam sit Deus. Si autem nec caritate fundatur, nec scientia erigitur, in Templo Dei tamquam statua, tamquam idolum est, a quo responsa petere, marmora consulere est. Era voce universale fra i contemporanei, che a Roma tutto si vendesse. Abbone, abate di Fleury, trovò che Giovanni XV era turpis lucri cupidum, atque in omnibus suis actibus venalem: Aimon. Vitae S. Abbonis, Muratori, Annal., a. 996.
514. Gabler Radulfus, Hist. II, c. 7 (Mon. Germ. IX, 61) e il Chron. Virdunense di Flaviniaco (Labbé, Bibl. nova, I, 158), zeppo di errori. Noto che ai 30 di Gennaio 993 Udalrico, arcivescovo di Augusta, fu proclamato santo per decisione di un Sinodo lateranense: primo esempio di una canonizzazione operata dal Papa. V. il Baronio, a. 993, e la Prefazione del Mabillon al saec. V dei Benedettini.
515. Mon. Germ., V, 691, 693: sileant amodo leges, jura regum conticescant, si neminem in judiciis attingere fas est, nisi quem Crescentius tirannus mercede conductus voluerit absolvere, vel punire.
516. Il Baronio pone la fuga di Giovanni all’anno 985, senza dimostrare l’esattezza della data; il Muratori ne dà notizia, dubitando, all’anno 987. A me par giusto l’anno 995. Adesso tacciono i Cataloghi pontificî. Amalr. Auger. racconta: Propter persecutionem Patricii Urbis Romae et Senatus, ipsum oportuit ab ipsa Urbe recedere. Sed postmodum prae timore Ottonis Imp. ipsum miserunt quaesitum. — Similmente il Jordani, Chron., nel Muratori, Ant. It., IV, 957.
517. L’epitaffio di Giovanni XV, nel Baronio, a. 996, registra la morte ai 7 di Maggio. Ma se ne dee dubitare: il Jaffé assume per data il principio dell’Aprile, poichè della morte di Giovanni Ottone III riseppe alla Pasqua (12 Aprile) in Pavia (Joann. Chron. Venetum, Mon. Germ., VII, 30). Il Marini (Papiri, n. 36) raccoglie un Diploma di Giovanni XV dell’anno 992, in cui viene concesso al Vescovo di Porto un tratto di terreno perchè vi pianti un vivaio di pesce. Ivi si fa menzione del Lacus Trajanus; il porto di Trajano s’era tramutato in lago paludoso.
518. Vita S. Adalberti, c. 21: Ibi in ejus occursum veniunt epistolae cum nunciis, quas mittunt Romani proceres et senatorius ordo. Non si discorre più come una volta di clerus, ordo e populus; la nobiltà ha tratto a sè ogni podestà.
519. Da dopo delle monete di Benedetto VII (colla scritta Otto impe rom) non possediamo più denari pontificî per un corso di cencinquant’anni, ad eccezione di un pajo di monete di Leone IX (1049-1055) e di Pasquale II (1099-1118). Va cancellata la moneta del calabrese Giovanni (XVI) che è registrata dal Cinagli: l’altra (che trovasi nel Maffei, Verona Illustr., III, 271) in cui Crescenzio, denotato quale Imp. Aug. p. p., arringa da cavallo l’esercito, è un trovato assurdo del secolo decimosettimo: lo dimostra il disegno, che ha lo stile del Domenichino.
520. Vita S. Adalberti: magnae scilicet indolis, sed, quod minus bonum, fervidae juventutis.
521. Il Pagi avvisò che Gregorio V dovette essere consecrato sul principio del Maggio; e il Mansi, in nota al Baronio, a. 996, pag. 349, accoglie con molta verosimiglianza la data dei 3 Maggio.
522. Il primo Pontefice, di nazione forestiera dopo di Zaccaria fu alemanno; così fullo anche l’ultimo straniero che salì alla cattedra di san Pietro, e precisamente Adriano VI (1522-1523). D’allora in poi papi furono soltanto uomini italiani.
523. Perciò il compilatore della Vita S. Adalb. sclama giubilando: Laetantur cum primatibus minores civitates; cum afflicto paupere exultant agmina viduarum, quia novus imperator dat jura populo, dat jura novus papa: c. 21.
524. Tratta da un mscr. di Bamberga, trovasi nel Dümmler, Auxil. e Vulgar., p. 57, una poesia meritevole di nota, sul reggimento del mondo tenuto in comunanza da Gregorio V e da Ottone III: vi è detto:
Surgat Roma imperio, sub Ottone tertio!
Salve, papa noster, salve, Gregori dignissime
Cum Ottone te augusto tuus Petrus excipit. —
Vos duo luminaria per terrarum spacia
Illustrate ecclesias, effugate tenebras
Ut unus ferro vigeat, alter verbo tinniat.
525. Habitoque cum Romanis placito, quemdam Crescentium, quia priorem Papam injuriis saepe laceraverat, exilio statuit deportari, sed ad preces novi Apostolici omnia illi remisit: Annal. Saxo, a. 996. Affatto assurda è l’affermazione dell’Hock, nel suo Gerberto, c. 9, che Gregorio avesse graziato Crescenzio per usarne di contrappeso alle esorbitanze dei Tedeschi in Roma. — Ai 25 di Maggio dà Ottone da Roma un Privilegium a favore di san Salvatore in Monte Amiate (Dat. VIII Kal. Jun. A. D. J. 996, Ind. IX, Imperii I Actum Rome: Cod. Amiatin. ut supra, p. 590). — Ai 27 di Maggio dà Gregorio V la sua Bolla per lo stesso convento, la quale lo fa esente da ogni altra giurisdizione che non sia la romana: ibid., p. 592. Vedi lo Stumpf a questo tempo.
526. Prussorum — quorum deus venter est et avaritia juncta cum morte, dice la Vita S. Adalb., c. 27; finezza non molto lusinghiera per la mia patria a quell’età: nel secolo decimo era dessa ancora abitata da genti mezzo selvagge, ma nel decimottavo dava al mondo il filosofo Kant. Conosco il luogo in cui vuolsi che Adalberto sia stato ucciso: s’alza colà «la croce del Baltico», collina mesta che guarda su un mesto mare; ivi presso si vedono molte tombe di giganti.
527. Lo dice il frammento quot sunt genera judicum, edito dal Blume nel Mus. Ren., V, 129, e dal Giesebrecht, I, 825. Io lo vidi nel Cod. Vatican. 2037, che è del secolo decimoterzo: Ceterum postquam peccatis nostris exigentibus Romanorum imperium barbarorum patuit gladiis feriendum, Romanas leges penitus ignorantes inliterati ac barbari judices legis peritos in legem cogentes jurare, judices creavere quorum judicio lis ventilata terminaretur. Hi accepta abusiva potestate, dum stipendia a republica non accipiunt, avaritiae face succensi jus omne confundunt. Comes enim illiteratus ac barbarus nescit vera a falsis discernere, et ideo fallitur.
528. La scrittura è indiritta a Villigi di Magonza, vicario pontificio in Alemagna: Notum vobis etiam facimus, qualiter per communem consensum fratrum, Crescentium S. Rom. Eccl. invasorem et depraedatorem a gremio s. aecclesiae et omnium fidelium communione segregavimus, et ut unusquisque vestrum in suo episcopatu huic facto adsensum praebeat, caritative rogavimus: Mon. Germ., V, 694.
529. I Cronisti tedeschi dicono: Hic. Joh. natione Grecus, conditione servus, astu callidissimus, ad Imper. II Ottonem sub paupere adiens habitu, interventu Theophanu Imperatricis regia primum alitus est stipe; deinde procurrente tempore, vel satis clementi ab eo gratia habitus, pene inter primos habebatur: Annal. Quedlinb., Chronogr. Saxo, Thietmar., Chron., IV, 21. Gli Excerpta e Catalogo Tabularii Nonantul. (Muratori, Ant., V, 676), con animo partigiano, chiamano Filagato: Probis moribus, et scientia ornatum; e dicono: Hunc Joh. abbatem (cioè di Nonantula, cui Ottone II lo aveva eletto nel 982) Romani Crescentii Consulis Pontificem, in schismate contra Gregorium V declararunt, A. Ch. 996.
530. Allorchè i Tedeschi dicono: Crescentius per Joh. Apostaticum Imperium sibi usurpavit, la parola Imperium significa i diritti imperiali. — Della lega con Bisanzio parlano parecchi Cronisti. Chronic. Venetum, Mon. Germ., IX, 31: Johannes (sc. Crescentius) Johannem suum filium Constantinopolim destinavit, quem imperator non solum diversis numeravit donis, verum etiam aegregiis honoribus sublimavit. — Arnolfo, Hist. Mediol., I, 11, dice dell’Antipapa: De quo dictum est, quod Romani decus imperii astute in Graecos transferre tentasset. Benzonis, Panegyr. in Heinr. III (Menken, I, 968): Tercius denique Otto decollavit Crescentium et necavit papam Sergium (!) ex quod cum Graecis frequentabant inlicitum commercium. Il frammento di Bonizo (Mscr. Vatic. 7143) nulla contiene a questo riguardo, e dell’Antipapa dice financo: Cum Romam orationis causa veniret, a praefato Crescentio et a Romanis coepitur et tenetur et licet invitus tamen Papa infelix ordinatus. Per verità induce al riso ciò ch’ei narra, che Crescenzio facesse papa il cortigiano di Ottone, affine di guadagnarsi l’Imperatore: Ad amicum, lib. IV, 800, nell’Oefele, II.
531. Ugo succedette ad Alberico abate sulla fine del 997: egli accusa sè stesso nella Destructio Farf., c. 17: illo mortuo, veni ego peccator Hugo, non ut legitimus, sed ut abhortivus. L’Höfler, Pontefici tedeschi, I, 130, crede che egli avesse comperato l’Abazia da Giovanni XVI; però è cosa difficile che, essendo così la cosa, Ottone III nel Placito del 998 (Chron. Farf., 492) avesse detto: Qui sibi Imperialis Abbatiae — absque nostro assensu regimen usurpaverat — et quod deterius est, pretio emerat a Romano Pontifice: ciò infatti avrebbe corrisposto a riconoscere Filagato. Gregorio V era accessibile all’oro; vedasi il Placito di Ottone III dell’anno 999 (Chron. Farf. 499), donde si pare che i monaci di santo Cosma se lo avevano guadagnato con denaro.
532. Chron. Venet., p. 31; Rodulfi Glaber. Hist. I, Mon. Germ. IX, 56: Conscendens cum suis turrim, quae sita est extra civitatem trans Tiberim, ob altitudinem sui Intercelos vocatam, vallavit eam, defensurus pro vita. Annal. Quedlinb., Chronogr. Saxo. Ottone trovavasi a Roma, senza dubbio, nel dì 22 Febbraio, chè il suo Placito per Farfa è dato: 8 Kal. Martii A. 998 Ind. XI Anno Ottonis III Regn. XV Imp. II Actum Romae feliciter.
533. Chron. Venet.: Procul a Roma inexpugnabilem turrim intravit, in qua non diu, vento imperatore, illum manere licuit. Sed ab ejus militibus captus, projectis oculis — Romam in quodam monasterio delatus est. Vita nell’Ekkard: ab Ottonis Vassore Birthilone correptus, amputatis naribus etc. Anche il Glabero, Bonizo, Amalr. Auger. ascrivono i mali trattamenti ad ordine dell’Imperatore. Quelli che lo presero sono chiamati dai Cronisti tedeschi: non tantum Imperatoris, sed Christi amici (Annal. Saxo, Annal. Quedlinb. 998).
534. Catal. Eccardi: in asino caudam ejus tenens, satis irrisorie per totam Romam ductus est. Chron. Venet.: a Romanis impositus deformis aselli terga, versa facie ad caudam sub praeconi voce per Romanas regiones ducebatur.
535. Vita Nili, nel Tom. VI, c. 80, dei Martene e Durand, e negli Acta Sanctorum, ai 26 Settembre, VII, c. 90. I Mon. Germ. danno dei compendî del testo greco, t. VI, 615-618.
536. Thietmar, IV, c. 21, e l’Annal. Saxo, a. 998, chiamano ancora il castel Sant’Angelo: domus Theoderici hactenus omnibus inexpugnabilem; ma, in Cencio, ha omai nome di Castellum Crescentii. Pier Damiani l’appella perfino Mons S. Angeli, a cagione di sua grandezza, oppure perchè il sepolcro di Augusto, simile a un monte, era detto allora Mons Augustus. Rod. Glabero e Ademaro, Hist. III, c. 31, la chiamano turris Intercelos, dalla chiesa postavi in cima.
537. Così novella il Glabero, monaco di Cluny della metà del secolo decimoprimo. Cur, inquiens, Romanorum principem, imperatorum decretorem (alludesi ai legami con Bisanzio) datoremque legum atque ordinatorem pontificum, intrare sinistis magalia Saxonum? Nunc quoque reducite eum ad thronum suae sublimitatis, donec ejus honori condignam videlicet praeparamus susceptionem.
538. Sigbert. Gemel., a. 1001.
539. Pier Damiani, che scrisse quasi novant’anni più tardi (Vita Romualdi, Paris, 1664, I, 196): Cui Tammus ex praecepto Regis jusjurandum securitatis praestitit, et ita ille deceptus. — Per lo contrario, il Glabero narra che Ottone cavallerescamente lo lasciò andare al castello per prenderlo d’assalto, e contraddice così al Damiani, suo più giovane contemporaneo. Landulfus Senior, II, c. 19: Crescentium ingenio, non armis cepit. Prima di lui (intorno al 1085) Arnulfus, Hist. Mediol., c. 12, scriveva: Pacto utrimque composito, illius se tradidit potestati. Leo Ostiens., c. 18: sacramento deceptum cepit, et mox quasi reum majestatis capite obtruncavit, locchè attinse egli dal Damiani. Bonizo dice soltanto: diu obsessum cepit et capite truncavit. Ademaro, Hist., III, c. 31, ha invece questa notizia: captus est insidiis suae conjugis. Vedasi quante v’abbiano versioni della sorte toccata allo sventurato eroe della libertà di Roma.
540. Thietmaro di Merseburg, come contemporaneo più prossimo (aveva ventun anno quando cadde Crescenzio), narra (Chron. IV, c. 21 e Annal. Saxo che copia da lui): Tandem per machinamenta alte constructa ascendit (Eccardo), et eundem decollatum voce Imperatoria per pedes laqueo suspendit cum aliis duodecim. Il Catal. Eccardi: captus et truncatus per pedes in Monte Malo suspensus est. — La Vita Meinwerci, c. X, p. 520, nel Leibnitz, Script. Brunsw., I, dice: cum duodecim suis; gli Annal. Quedl. soltanto: illumque captum decollari, et e summo arcis praecipitatum in patibulo pedibus suspendi jussit. — La Cronica di Lüneburg: Crescentius quam do to stride mit deme Kaisere an dat Velt, unde Wart gevangen, und schendlike erhangen (Eccard., I, XIX, 1338). — Arnolfo di Milano vuole che fosse decapitato nel campo di Nerone; Landolfo racconta che prima gli fossero mutilate tutte le membra e strappati gli occhi. — La Cronica Veneziana (del tempo di Ottone III): Crescentius veniam miserabili voce adclamantem in summitate ut ab omnibus videretur decollaverunt, et projecto tellure alii — simili poena in monte Gaudio imperiali decreto suspensi sunt. Il Glabero narra che fosse trascinato entro la pelle di vacca, ecc.
541. Chronica Regia S. Pantaleonis, del secolo decimosecondo: Crescentius ductus vero in montis illius planitiem, qua totam videre posset urbem capite truncatur, idemque mons usque hodie ob triumphalem tyrannidis praesumptorem a Teutonicis Mons Gaudii, a Romanis autem M. Malus vocatur. Io oso spiegare il nome di Mons Gaudii dal giubilo che provavano i pellegrini, vedendo per la prima volta Roma. Primo che io sappia a chiamare Malus il monte è Ben. di Soratte, c. 26; egli ha notizia di una chiesa di san Clemente che ivi era. Da M. Malo venne M. Mario. I Romani antichi davano al monte il nome di clivus Cinnae: leggansi poi, nel quarto Epigramma di Marziale, i versi che descrivono la veduta che di lassù si gode:
Hinc septem dominos videre montes
Et totam licet aestimare Romam.
Di là prosegue la via Trionfale; e credo che ad essa si riferisca un Arcus Militorum, col qual nome Ben. di Soratte appella un arco trionfale, che probabilmente si elevava nel campo di Nerone: a Prato S. Petri, hubi dicitur arcus Militorum (c. 33).
542. Stephania autem uxor ejus traditur adulteranda Teutonibus: Arnulfus, Hist. Mediol., c. 12. Giusta documenti Farfensi, la moglie di Crescenzio si appellava Theodora (Reg. Farf., n. DIIII, nel Fatteschi, ecc., p. 313). Però può darsi che si fosse sposato due volte, oppure che la donna sua avesse due nomi. Ne era allora costume, perlochè in documenti si trova: Maroza quae et Atria vocatur; Maria quae et Rogata; Panfila que Constantia vocatur; Triberga che si sottoscrive Stefania: similmente di uomini; Johannes qui et Milo; Johannes qui et Rustico; ed esempî altri innumerevoli di questa maniera.
543. Pro eo planctus magnus factus est, dice Ademaro, Hist., III, c. 31.
544.
Vermis, homo, putredo, cinis, laquearia quaeris,
His aptandus eris sed brevibus gyaris.
Qui tenuit totam feliciter ordine Romam
His latebris tegitur pauper et exiguus.
Pulcher in aspectu dominus Crescentius et dux
Inclyta progenies quem peperit sobolem.
Tempore sub cujus valuit Tyberinaque tellus
Jus ad Apostolici valde quieta stetit.
Nam fortuna suos convertit lusibus annos
Et dedit extremum finis habere tetrum.
Sorte sub hac quisquis vitae spiramina carpis
Da vel gemitum, te recolens socium.
Ancora a’ suoi dì il Baronio lesse questo epitaffio in san Pancrazio, e, per la prima volta, lo publicò, Annal. Eccl., a. 996. Il penultimo distico dimostra che l’inscrizione appartenne all’eroe di tragica sorte. Il quarto distico è difficile a intendere; sembra che il Poeta, immascherando la frase, parli della signoria di Crescenzio, e di Roma che torna in balìa di Gregorio V. La verità non osava egli spiattellare, ma il nam del quinto distico discende come una conchiusione del suo celato pensiero. Ei vuol dire che Roma, governata già da Crescenzio colla forza, ridivenne però città pontificia, «avvegnaddio» la mutevole fortuna lo abbia precipitato. Il lettore avrà notato il primo getto di rime leonine.
545. Scrittura di Ottone, nel Mabill., Annal. Ben. IV, p. 117, a. 998, dato ai III. Kal Maji a. 998, quando Crescentius decollatus suspensus fuit.
546. Et ego rogavi illi tertium genus de alia medietate cum castello Trabuco, dice Ugo, Destruct. Farf., p. 541. Su questa notevole controversia fra Farfa e il Conte vedasi il Galletti, Dissertazione sul sabinate Gabio.
547. Giovanni fu nel 988, e Crescenzio nel 994, Comes e Rector della Sabina (Fatteschi, Serie, append.). È cosa notevole che tra il 994 e il 999 non vi sia fatto più cenno di alcun Comes. Del 999 fullo Gerardo, uomo probabilmente parteggiante per l’Imperatore e per il Papa, ma, nel 1002, Giovanni ricompare da Comes. Nell’anno 1003 eranlo Rainerio e Crescenzio.
548. Privilegium nel Chron. Farf., p. 479. Act. Sabinis in Curte S. Gethulii VIII Kal. Junii a. 996, eius Imp. Regni XIII Imperii quoque I.
549. Il bibliotecario Bethmann, tanto benemerito per l’edizione dei Mon. Germ., ne li publicò con titolo di Hugonis Opuscula; e, sotto nome di Historiae Farfenses, raccolse nel Tom. VIII parecchie scritture concernenti Farfa. Ugo scrisse il suo Liber Destructionis Farf., dopo l’anno 1000.
550. Electus quisque ab eadem Congregatione prius ejusdem Imperiali patrocinio praesentatus gratis roboretur, et tunc a S. Pontefice canonice consecretur. Dat. 8 Kal. Martii a. 998. Ind. XI ann. Ottonis III Regnantis XV Imper. II Actum Romae feliciter in Dei nomine Amen. Questo Praeceptum è nel Chron. Farf., p. 492.
551. Manibus suis eum comprehendit per cucullam et juxta se sedere fecit, cui et dixit: Hodie non exies de isto placito nisi legem feceris. Placitum significa l’atto del giudizio, e insieme la decisione giudiziaria; processo parimente che sentenza: qui la frase, assai frequente a quest’età, legem facere, vuol dire essere citato in giudizio, o rispondere innanzi alla legge. Questo memorabile Placitum trovasi nel Chron. Farf., p. 505, nel Reg. Farf., n. 459 e nel Galletti, del Prim., XXI.
552. La consueta frase giuridica è questa: refutare ipsas ecclesias domno abati.
553. Arcarius Leo — tulit cultrum et signum s. crucis in ea (ossia la carta per quam litigabant) abscindendo per medium fecit, et reliquit in manu Domni abbatis. Il Muratori si riporta, nella Diss. 34, a questo notevole Placitum, per dimostrare quanti fossero i documenti falsi che a quel tempo andavano in giro. Io rimetto il lettore eziandio al Dipl. XXIV, nel Galletti, Del Prim., a. 999, in cui l’Abate dei santi Cosma e Damiano in Transtevere cercava, col mezzo di un falso diploma, di beccarsi dei possessi.
554. La stessa controversia di Farfa si ripetè nell’a. 1010, e parecchie volte ancora nel secolo undecimo. Farfa litigò anche nel 1068, per ragione delle castella di Arci e Tribuco. Una lite colla chiesa dei santi Cosma e Damiano in Mica aurea (nel Transtevere), per ragione di santa Maria in Minione presso Civitavecchia, durava ancora nell’anno 1083, ossia da cento anni circa.
555. In Romano vero Imperio et in Romana usque hodie ecclesia septem judices sunt palatini, qui Ordinarii vocantur, qui ordinant Imperatorem, et cum Romanis clericis eligunt Papam — — Hi dextra laevaque vallantes imperatorem, quodammodo cum illo videntur regnare, sine quibus aliquid magnum non potest constituere imperator. Noto frammento, nel Cod. Vat. 2037. Io credo che questi Palatini dessero forma giuridica e ordinamento all’elezione pontificia.
556. Traducemmo per «assessore» la parola tedesca «Schöffe» usata nel testo originale: a rigore significherebbe «scabino», ma preferimmo il primo vocabolo per non indurre confusione coll’istituto speciale dei Franchi, cui l’Autore nel suo discorso si riferisce. D’altronde, la dizione «assessore» rende abbastanza giustamente il senso, perocchè il Vocabolario la spieghi significare: «propriamente giudice dato a’ magistrati per risolvere in giure.» (N. del T.)
557. Savigny, I, § 68 segg.; Leo, Svolg. della costit. delle città lomb., p. 57; Muratori, Diss. X. Secondo una legge di Carlo magno, ad ogni Placito dovevano assistere sette scabini quali assessori; però rade volte il numero era completo.
558. Vedine i passi, tratti dal Fantuzzi, in Carlo Hegel, I, 329, e nel Savigny, I, 372. Il Bethmann-Hollweg (Orig. ecc., 193-200) dice che fossero una specie intermedia fra gli assessori sentenzianti e i magistrati giudicanti. A vece di dativus, dicevasi talvolta datus; ad es.: Adrianus datus judex. Laetus Dei gratia datus judex. Placit. di Ottone III, a. 999. Chron. Farf., p. 501.
559. Per lo meno, io trovo: Benedictus Domini nutu dativus Judex S. Palatii, nel Marini, n. 102, a. 961.
560. Basta questo a dimostrare, di contra al Savigny, I, 373, che l’ufficio giudiziario del Dativus poteva essere anche transitorio e commesso. È altresì errore, che s’usasse il nome praefectus con pari significazione di dativus (I, 374). Dativus esprime l’ufficio di giudice; gli addiettivi simili a questi: consul et dativus, tribunus et dativus, comes palatii et dativus, nulla hanno a che fare col dativus, ma sì unicamente colla dignità della persona. Il Savigny, I, § 113, non conosce, fuor dell’Esarcato e di Roma, altri dativi che a Pavia e a Milla. Tuttavolta, da documenti si trovano: dativi de civitate Narniensi, e de civitate Hortana (Cod. Farf. Sessor., CC, XVIII, n. 466, a. 1003), e dativi di Tivoli (ibid., n. 453, a. 1003).
561. Questo triplice elemento, che costituisce il tribunale romano, è reso manifesto da un documento dei 28 di Luglio 966, dove è detto: Cum ordinariis judicibus et Johannes atque Guido dativi judices, nec non et nobili viris, videlicet Gumpizo, Joh. de mitzina ed altri nobiluomini, qui adstant. Qui i dativi e i nobiles viri corrispondono manifestamente fra loro sì, come nell’ordinamento franco stanno in rapporto gli Scabini e i boni homines, segnatamente uomini liberi che fanno da assessori. Il documento trovasi nel Giesebrecht, I, 822.
562. Et det ei in manum librum codicum et dicat: secundum hunc librum judica Romam et Leonianam Orbemque universum; et det ei osculum et dimittat eum. Formula qualiter judex constituendus sit, nel Cod. Vat. 4917 del secolo undecimo, di cui trovasi una copia nel Cod. Vat. 1983, alla fine della Storia di Paolo Diacono, e alla fine della Graphia. L’Ozanam ha erroneamente trasportato questa formula al periodo bizantino. Senza dubbio, qui abbiamo davanti a noi la nomina di un Judex al tempo di Ottone III. Si confronti con essa la formula pontificia di tempo più tardo, qualiter judex et scriniarius a Romano Pontif. instituantur, da Cencio Camerario, nel Muratori, Ant. II., I, 687.
563. Qualiter romanus fieri debet, ultima e interrotta delle tre formule: Cod. Vat. 4917, 1983, Graphia.
564. Judicum alii sunt palatini quos ordinarios vocamus; alii consules distributi per judicatus: alii Pedanei a Consulibus creati (i. e. nostri judices, secondo la glossa del Cod. Vat. 2037), e più oltre: qui dicuntur consules judicatus regunt et reos legibus puniunt et pro qualitate criminum in noxios dictant sententiam. Questo frammento, tratto dal Cod. Vat. 2037, fu edito dal Mabillon; modernamente, completo, dal Giesebrecht, I, 825.
565. Più sotto citerò ancora il Diploma.
566. Savigny, Blume, Troya, Hegel, Bethmann-Hollweg: l’Hegel, I, 332, cui segue il Giesebrecht, I, 825, riferisce, in modo deciso, i Judicatus al territorio pontificio fuor di Roma, ma ciò in nessuna maniera mi pare che riesca evidente. Il Bunsen, I, 223, al pari del Savigny, dice che il passo si riferisce alla città di Roma. Perchè mai questi istituti non dovevano affarsi per Roma, parimente come per il territorio pontificio? — Noto altresì di volo che il titolo di Consul è assai frequente in documenti del secolo decimo.
567. Vedasi il notevole Diploma pontificio dell’anno 1018, nel Marini, n. 42, dato al Vescovo di Porto: quicumque vero presumptor sive Dux, sive Comes, vel Vicecomes, aut cubicularius, vel a nra Aplica sede Missus, aut qualiscumque interveniens Potestas (il «podestà» dei tempi futuri) qua de ipsa civitate Portuense dominatum tenuerit etc. Porto era retto da un Comes, ma un Gastaldo, in qualità di prevosto pontificio, curava la percezione delle imposte; perciò lo stesso Diploma dà a Porto nome di Castaldatus: così, in tanta vicinanza di Roma, compaiono titoli di magistrature longobarde. Nel frammento quot sunt genera judicum l’officio del Comes è denotato manifestamente come qualche cosa di non romano: comes enim illiteratus ac barbarus. Tivoli, Segni stavano sotto a Conti (Murat., Ant., V, 379; V, 773), od anche a Gastaldi (Marini, Annot., n. 31, p. 232); Tusculum, Alife, Orta, Terracina, Traetto sotto a Conti; e Conti sono conosciuti nella Campagna. Per lo contrario, Albano era retta da un Dux (Mur., Ant., V, 774).
568. Il Savigny, I, § 115, afferma erroneamente che, dopo il secolo decimo, Tribuni non compaiano più nei documenti. Trovansene a Orta, a Sutri, a Camerino. Ego Adalgisus tribunus tabellio civitatis Sutrine, a. 948: Galletti, Msr. Vatican. 8048, p. 8; Cod. Farf. Sessor. CCXVIII, n. 461, a. 1004; n. 446, a. 1005; Cod. CCXII, p. 154, ancor perfino nell’a. 1068. Leo Tribunus et dativ. jud. et Tabellarius civ. Hortanae. Petrus tribun. et dativ. testis. Leo trib. testis. Beringerius tribun. et Dei gr. jud. et tabellar. civ. Hortanae. Corrisponde al consul et dativus judex di Roma, laonde quei Tribuni non erano più i militari. È cosa abbastanza degna di nota che questo antico titolo romano si trovi ancora nel secolo undecimo nel territorio Tusco e in quello Spoletino, fra i Longobardi. In Roma, a quest’età, non lo trovo che nella guardia Imperiale.
569. Oscure ne sono le notizie; neppure una di esse dice che egli dimorasse nel palazzo dei Cesari. Gesta Ep. Camerac., I, c. 114: in antiquo Palatio, quod est in monte Aventino, versabatur, e l’Aventino è apertamente descritto come splendido quartiere. Tangmaro, Vita Bernwardi, c. 19: Otto festinans a palatio fere duo miliaria ad S. Petrum; distanza che combina con quella dall’Aventino.
570. Nel Regest. Farf., n. 470, è così nominato (a. 999) Alberico, figlio di Gregorio (qui de Tusculana), e questi compare in officio di praefectus navalis, Gregorio Miccino in quello di vestararius S. Palatii. In un Diploma di Classe, a. 1001 (Mittarelli, App. 66, p. 161), si parla di un Logotheta S. Palatii.
571. Vedi la Graphia, che in pari tempo lo fa Dictator Tusculanensis: devesi però procedere cautamente nell’usare di essa. Regest. Farf., n. 470: Gerardo gratia Dei inclito comite, atque Imperialis Militiae Magistro.
572. Ann. 983, Sergius com. Palat. (Mur., Ant., I, 379); quegli stesso nell’a. 998 (Marini, n. 106, p. 166); a. 1001, Petrus S. Pal. Lateran. comes (Mittarelli, App., n. 66, p. 161). Il Papencordt, p. 147, paragona opportunamente il Conte palatino al Superista. Soltanto scarsamente dice del suo officio la Diss. VII del Muratori.
573. Libell. de Imp. Potest. (p. 770): Erant denique monasteria in Sabinis — seu cetera fiscalia patrimonia intra Romanos fines ad usum imperialem. Nel Dipl. di Corrado II, a. 1027, dato per Farfa (Reg. Farf., 707) è detto: Quidquid de praedicti monast. possessionibus fiscus noster sperare potuerit. Sotto ai Longobardi il fisco era appellato curtis regia; presso ai Carolingi, palatium, quindi, fin da dopo di Lodovico II, fu talvolta chiamata camera. Già sul principio del secolo undecimo trovasi detto camera nostra, per denotare il fisco pontificio; fin dal tempo di Ottone I lo si dice a significare quello imperiale: Privileg. per Subiaco, a. 967; medietatem in praedicto monasterio, et mediet. Kamere nostrae.
574. Omnes res nostras, quas justo ac legali tenore acquisivimus, tam infra urbem Romam, quam extra — Chron. Casaur., p. 811; Murat., II, 2. Il Papencordt, ecc., p. 143, 144, ne conchiude che poveri erano i dominî imperiali, i quali andavano perduti per causa di tali donazioni.
575. Lo ricavo dal Libellus de Imp. Pot.
576. Intorno al fotrum o foderum (fourrage, foraggio) vedi il Muratori, Ant., II, I, Dissert. XIX, 64. La Vita Mathildis Reginae, c. 21, dice di Ottone I: Et totus populus Roman. se sponte subjugavit ipsius dominatui, et sibi solvebant tributa, et post illum ceteris suis posteris. Eccardo, Chron., dice all’anno 1073: Anno Colonien. Episc. et Hermannus Bambergensis Romam missi sunt pecuniam quae regi debebatur congregandi gratiam.
577. Pontaticum, pedagium, portaticum, escaticum, terraticum, glandaticum, herbaticum, casaticum, plateaticum, ripaticum, palifictura, navalia telonia, testaticum, ecc.: Diss. XIX del Muratori. La pensio di fondi affittati importava complessivamente dieci sole libbre in contanti ad ogni anno: si noti in pari tempo la frase ut persolvat pensionem in nostro palatio, che è usata nel Diploma dato da Giovanni XIII per Preneste.
578. Lib. diurn., c. 6, tit. 20, parla di actionaria de diversis portis hujus Romanae urbis. L’editore, con buon fondamento, dice che questa formula (securitas) data dal secolo nono, oppure dal decimo. A ponte Molle si pagava tributo; Marini, n. 28: pontem Molvium in integrum cum omni ejus ingressu et egressu et datione et tributu, che Agapito II, a. 955, donava al convento di san Silvestro in capite.
579. Vedi nel Marini, n. 42, il Diploma di Benedetto VIII per Porto, a. 1018. Il Papa conferma al Vescovo omnes res et facultates, mobiles et immobiles de illis hominibus qui sine herede et intestati ac subito praeoccupati juditio mortui fuerint, e precisamente nella periferia di tutto Porto, del Transtevere, e dell’isola Tiberina (p. 67). Il Gastaldato di Porto dipendeva precisamente ex jure Palatii Lateranensis, ed era adesso ceduto integralmente al Vescovo, con tutti i redditi del porto e coi tributi delle navi.
580. Ughelli, II, 353 e Labbé XI, 1011, dat. 4 Kal. Maji nell’anno secondo di Gregorio. Donamus tibi, tuaeque ecclesiae districtum Ravennatis urbis, ripam in integrum, monetam, teloneum, mercatum, muros et omnes portas civitatis.
581. Questo documento Lateranense trovai io nel Tom. II dei Collectan. Vatican. del Galletti, n. 8043 (senza numerazione di pagina). Esso completa la Storia di Velletri del Borgia, il quale dell’intiero secolo decimo non riferisce che il solo Diploma di Demetrius Meliosi. È dato agli 8 Aprile, a. III Benedicti VII Ind. VI. Locatio et conductio — unum castrum sine aliquo tenimento quod dicitur vetus positum subtus strata — tali quidam condicione ut guerram et pacem faciat ad mandatum s. pontif. et praed. Abbatis et successoribus ipsius et ut ipsum castrum ad majorem cultum perducere debeat. — — Porta que est a parte monasterii semper erit in potestate ecclesie et ut predictum jus eccl. non pereat ipse abbas vel successor ejus habebunt suo tempore consules vel vicecomes qui mittent bandum supra predictis rebus — — bandum sanguinis et forfacture et offensionis strate et proibitiones litium et exercitus conducere et omnia alia ipse pred. Crescentius filii et nepotes ejus — possidere — debent. Sottoscrivono l’Abate, cinque preti e monaci, e cinque nobiles viri: Pandolfus Corvinus nobil. vir. Adtinolfus nob. vir. Birardus Corvinus nob. vir. Bonus Coranus (di Cori) nob. vir. Amatus comes Signie. — Nel Borgia, p. 158, trovasi il Diploma degno di nota, in cui, a. 946, il Vescovo di Velletri concede a Demetrio figlio di Melioso, consul et dux, una montagna e la pianura circostante, per fondarvi un castello. Il canone consisteva, fra altro, nella prestazione di un quarto del prodotto del vino, e di un capo di bestiame su ogni dieci.
582. Silvestro II, nella sua lettera di feudo (praeceptionis pagina), lamenta: R. Eccl. pontifices, nomine pensionis per certas indictiones haec et alia nonnulla attribuisse nonnullis indefferenter constat, cum lucris operam darent et sub parvissimo censu maximas res ecclesiae perderent (Jaffé, Reg. p. 346). Poichè egli dice: concedimus sub nomine beneficii, et stipendia militaria sunt, ne viene che costituivasi un feudo formale. Dauferio discendeva dai Duchi di Gaeta; nel 941 un Dauferio e suo figlio Lando ottenevano, con data da Gaeta, investitura di Traetto (Federici, p. 44).
583. Di ciò sono fonti di dubbia fede, la Vita S. Nili, c. 91, e la Vita S. Romualdi, c. 25, scritte da Petrus Damiani.
584. Eἶτα τὸν στέφανον κλίνας ἔν ταῖς χερσὶ τοῦ ἁγίου, καὶ εὐλογηθεὶς, παρ’ αὐτοῦ σὺν πᾶσι τοῖς μετ’ αὐτὸν ἐπορεύετο τὴν διόν: Vita S. Nili, c. 93. Tuttavolta, dice il Biografo, non iscampò egli al giudizio di Dio, ma fu cacciato di Roma, e morì mentre volgeva in fuga. Santo Nilo venne effettivamente, nel 1002, a Roma, e fondò il convento basiliano di Grotta Ferrata, presso Frascati. Ivi il Domenichino dipinse l’incontro dell’Imperatore e del frate a Gaeta.
585. La Vita Meinwerci, Ep. c. 7 (scritta intorno al 1155) dice: Gregorius — post discessum ejus a Romanis expulsus, ac deinde veneno peremtus — 4 Id. Martii moritur. La Vita S. Nili, c. 91, sembra accennare ad una seconda cacciata, pur sempre possibile: anch’essa parla di morte violenta (ῷσπερ τις τύραννος βιαίως τῶν ἔνθεν ἀπήγετο), ed annuncia che il cadavere di Gregorio era sfigurato di sembianza. L’epitaffio pone a data della sua morte il giorno 18 di Febbraio; Thietmar., IV, c. 27, il dì 4 di quel mese. Vedi i miei Sepolcri dei Pontefici romani, e il disegno del sarcofago in Dionysius, XLVI.
586. Mi giovo di Damianus, Vita S. Romualdi e degli Annal. Camald., Tom. I. L’ordine romito di Camaldoli venera in Romualdo il proprio fondatore, e questo frate strano dev’essere morto nel 1027, a’ suoi centoventi anni di età. La persona di lui e quella di santo Nilo, sono caratteristiche del secolo decimo, età in cui i martiri ebbero il loro periodo di rinascimento.
587. Il Baron., a. 999, lo chiama hominem alioquin astutum, et in gratiam se Principum insinuandi maximum artificem, tanta sede (ut libere fatear) indignissimum. Le sue astuzie, la sua indole hanno macchiato «il negromante» di onta immeritata; e già l’Annal. Saxo dice, doversi egli a buon dritto cancellare dal novero dei Papi. Financo Herm. Contrac. (a. 1000) lo appella: seculari litteraturae nimium deditus. È noto il verso in cui questo Scrittore dice di Reims, di Ravenna e di Roma: Scandit ab R. Gerbertus ad R., post papa viget R.
588. Decretum de rescindendis injustis rerum ecclesiar. alienation. (Reg. Farf., n. 244, 20 Sett. 998): Otto Dei gratia Romanor. IMP. AUG. COS. S. P. Q. R. Archiepiscopis, Abbatibus, Marchionibus, Comitibus et cunctis Judicibus in Hitaliam constitutis. Così trovo scritto nel Codice originale di Farfa, ma non ne spiego Consulibus, come vorrebbe il Giesebrecht, il quale crede che Ottone avesse posto dei Consoli a capo di un Senato nuovamente costituito; reputo invece leggervi Consul Senatus Populique Romani. Il COS. è scritto a grandi caratteri, come IMP. AUG.; a caratteri assai più minuti sono scritte le lettere S. P. Q. R.
589. Thietmar., Chron., IV, 29. Annal. Saxo, a. 1000.
590. Ep. 153: volumus vos Saxonicam rusticitatem abhorrere, sed Graeciscam nostram subtilitatem — provocare; e la risposta, Ep. 154: ubi nescio quid divinum exprimitur, cum homo genere Graecus, Imperio Romanus, quasi hereditario jure thesauros sibi Grecae ac Romanae repetit sapientiae. E la Praefat. ad Otton. Imp. in locum Porphyrii a se illustratum (Mabillon, Vet. Annal., I, 122): Ne sacrum palatium torpuisse putet Italia, et ne se solam jactet Graecia.
591. Così, sotto al Placito di Pavia dei 14 Ottobre 1001: Sigefredus Judex Palatii ΣΥΓΗΦΡΗΔΟΥΣ, e Waltari ΟΥΑΑΘΑΡΥ (Murat., Ant. Estens., I, 126). Nel 1002, il Prefetto della Città sottoscrive un documento giudiziario: ΣΤΕΦΑΝΟ ΗΡΕΦΕΝΤΥΟΣ ΟΥΡΒΗ ΡΟ: ΜΕ; più sotto, con semplicità e con miglior criterio: Benedictus nobili viro. Balduinus nobili viro: Msr. Vatican. 8043 del Galletti. Meno sorprende trovare a Napoli in questa età di cotali sottoscrizioni greche; vedansi i molti documenti del secolo decimo nei Monum. Regii Neapolitani Archivii.
592. Graphia aureae Urb. Rom. La leggenda Roma caput mundi, frase abituale di quel tempo, è iscritta più tardi sulle monete del Senato romano. Sopra un suggello di piombo di Ottone III vedesi Roma figurata in forma di donna velata che porta scudo e lancia; attorno è scritto: Renovatio Imper. Romani (Murat., Ant., V, 556). La corona di ferro è la lombarda; manca quella d’argento di Aquisgrana; la terza d’oro è la imperiale. Su queste tre corone vedasi il Sigonio, de Regno, VII, 288.
593. L’Ozanam compendia inoltre Const. Porphyrog., I, app.: Ingressus Justiniani in urbem Constantin.: ὐπήντησαν δομεστικοί, πρωτίκτορες, αἱ ἐπτὰ σχολαὶ, καὶ μετ’ αὐτοῦς τριβοῦνοι, καὶ κόμητες, πάντες μετὰ λευκῶν χλανιδίων. Dal passo: hebraice, graece, et latine fausta acclamantibus, rilevo che gli Ebrei di Roma continuavano a formare una loro Scuola.
594. Reg. Farf., n. 470. Documento relativo alla Cella Minionis, del 16 Dicembre 999: Gerardo gra dei inclito comite atque imperiali militiae magistro; Gregorio excellent. viro qui de tusculana atque praefecto navali; Gregorio viro clar. qui miccinus atque vestarario sacri palatii; Alberico filio gregorii atque imperialis Palatii magistro.
595. Al Fantuzzi, II, 27 (dove nell’anno 967 si nomina un dux Joh. consul et patritius) si aggiunga ancora la notevole carta romana di donazione dell’anno 975 (Mittarelli, I, ap. 41, p. 97), in cui si sottoscrive: Benedictus patritius a Stephanus rogatus scripsi.
596. Nota formula: Qualiter patricius sit faciendus.
597. Ziazo non è nome romano; sembra piuttosto essere volgarizzamento italiano di un nome germanico: infatti, Azzo non è che il nome tedesco Alberto.
598. Reg. Farf., 619. Galletti, del Prim., XXVI. Placito dell’anno 1003. Primo si sottoscrive Joh. Domini gratia Romanor. patricius, e, soltanto dopo di lui: Cresc. Dom. gr. Urbis prefectus.
599. Sermo Gerberti de informatione Episcoporum, nel Mabillon, Vet. Analecta, II, 217. Si preconizza omai il tempo di Gregorio VII.
600. Romam caput mundi profitemur: nel Duchesne, II, 73, dove il Diploma erroneamente ha nome di Decretum Electionis Silvestri II. Il Pagi e parecchi eruditi moderni ne contendono la autenticità; il Muratori, il Pertz, il Giesebrecht (I, 692, 800), il Gfrörer (St. eccl., III, III, 1570) la ammettono. Le teorie del Diploma concordano col Libell. de Imp. Potest.; dello sperpero delle regalie fatto dai Papi, parla anche Silvestro nel Diploma feudale dato per Terracina; per tono e per colorito il documento appartiene perfettamente a quel tempo. Della donazione degli otto comitati, vestrum ob amorem, Ottone fa menzione anche nella Epist. Gerber., 158. Fino allora, quelle città erano state rette da Ugo di Tuscia, insieme a Spoleto e a Camerino. Del paro che queste, la Romagna apparteneva all’Impero. A cagione del tempo, desta meraviglia udire dalla bocca di Ottone pronunciarsi la grave accusa di falso contro alla donazione di Costantino; però la cosa non è impossibile.
601. Gerberti Ep. 28: Ex persona Hierusalem devastatae, universali ecclesiae. Enitere ergo miles Christi, esto signifer et compugnator, et quod armis nequis, consilii et opum auxilio subveni.
602. La corona, di cui si cinse Stefano I nell’anno 1001, è quella stessa rapita e nascosta dai Republicani ungheresi dell’anno 1848, poi discoperta col pregio di un tesoro. Il Diploma di Silvestro a Stefano trovasi nel Calles, Annal. Austriae, V, 299.
603. Il Diploma dato da Ottone III a favore di questo chiostro è raccolto dal Nerini nell’appendice; manca di data, ma non si può dubitare della sua autenticità. Sul manto della coronazione, ibid., p. 147. Alle sue frange erano appese trecento cinquantacinque campanelli d’oro, in forma di melogranati, come nel manto del sommo sacerdote israelita; vi si vedeva figurato uno zodiaco d’oro, scintillante di gemme e di perle. Vedi la Graphia.
604. Sono del primo di Novembre dell’anno 1000, per Vercelli: actum Romae in Palatio Monasterio (Mon. Hist. Patriae, I, 338, 339). Deesi rigettare la nota lezione in Palatio Montis. Come dianzi usavasi dire: in Palatio s. Petri, oppure apud S. P., qui intendevasi: in Pal. Monasterii, ma barbaricamente si scriveva: Palatio Monasterio.
605. In Aventino monte, qui prae ceteris illius urbis montibus aedes decoras habet, et suae positionis culmen tollens aestivos fervores aurarum algore tolerabiles reddit, et habilem in se habitationem facit: Vita S. Odilonis (Acta S. Bened., VIII, I, 698).
606. Vedi il celebre Diploma dei 7 Maggio 999, in cui dona a Leone, vescovo di Vercelli, questa città e il suo comitato cum omni publica potestate in perpetuum, ut libere et secure permanente Dei ecclesia, prosperetur nostrum imp., triumphet corona nostrae militiae, propagetur potentia populi Romani et restituatur respublica: Hist. Patr. Mon., I, CXCIII, 325. Un Diploma di Ottone III, per santa Maria in Pomposa, a. 1001, Ravenna V Kal. Dec., Ind. XV, incomincia: in nom. s. et individuae Trinitatis Otto III servus Apostolorum (Federici, I, 148), parimente che la sopraddetta scrittura di donazione data a Silvestro. — Otto III servus Jesu Christi, nel Wilmans, p. 138.
607. Quandam speluncam juxta s. Clem. eccl. clam cunctis intraverunt — quatuordecim dies latuerunt: Vita Burcardi, c. 3. Un Diploma di Ottone è dato ai 3 Id. Aug. 999 actum Sublaci in S. Benedicto: Murat., Ant., V, 625.
608. Privileg. per Farfa, dato ai 5 Non. Octobr. (999). Qualiter nos quadam die Romam exeuntes pro restituenda Republica (Mabill., Annal. Ben., IV, 694, App.). Nell’Ep. Gerb. 158, Ottone chiama Ugo espressamente: nostrum legatum.
609. Ep. Gerb. 158.
610. Dell’apertura della tomba di Carlo narra il Chron. Novalicense, III, c. 33. Ottone vestì il morto di un bianco manto, gli fe’ rimettere in oro la punta del naso, e si prese come amuleto un dente ed una croce. Ma il morto comparve a Ottone in sogno, e gli vaticinò, irato, che presto morrebbe.
611. Lettera di Gerberto nell’Höfler, I, Suppl. XV: sed que nobis apud ortam inter sacra missarum solempnia pervenerunt, non leviter accipienda censet. L’Hock, c. 11, frantende al tutto la lettera. Si tratta di una ribellione in Orta, ed il Papa esorta l’Imperatore di volere per amor suo ripristinargli la soggezione della Sabina: que nostri juris in sabino etc.
612. Leone di Ostia, II, c. 24. Martino Pol. ed alcuni Cataloghi di Papi narrano, che Ottone II avesse portato a Roma il cadavere di san Bartolomeo. Ricobaldo, Hist. Imp., dice che questo era destinato ad andare in Germania, ma che rimase in Roma, perocchè morisse l’Imperatore. Tuttavolta Ottone di Frisinga racconta che Ottone III avesse conquistato Benevento, e in realtà avesse portato a Roma la salma di san Bartolomeo. Benedetto XIII mise termine alla controversia fra le due città, riconoscendo a favore di Benevento il possedimento effettivo dell’incerto cadavere. Per la prima volta nell’anno 1027 viene fatta menzione dell’Eccl. s. Adelberti et Paulini in Insula Licaonia: Marini, n. 40, p. 77; indi nell’anno 1049, ibid., p. 85.
613.
Tertius istorum Rex transtulit Otto Piorum
Corpora queis domus haec sic redimita viget.
Quae domus ista gerit si pignora noscere quaerit,
Corpora Paulini sint, credas, Bartholomaei.
614. La Graphia: In insula templum Jovis et Aesculapii, et corpus s. Bartholomei apostoli.
615. Prima traccia ne trovo nel Cod. Sublac. Sessor. CCXVII, p. 29. Judicatum de Turre una in Tiboris (a. 911): si noti in qual modo nomi italiani derivarono da’ genitivi latini. Un Comes Adrianus sedeva colà da giudice.
616. Ne fece investigazione Antonio Del Rè, giureconsulto di Tivoli (Thesaur. Graevii, VIII, dove evvi anche l’Historia Tiburtina di F. Martius).
617. I primi escavi nella villa di Adriano datano da Alessandro VI e da Leone X: perciò un oblio di undici secoli, per lo meno, ricoperse quelle belle opere d’arte.
618. Questo Diploma, del quarto anno di Benedetto VII (978), uno dei più completi del secolo decimo (Marini, Papiri, p. 226), descrive l’estensione del Vescovato di Tivoli. Vedasi anche a pag. 316 un istromento del 945, in cui sono registrati i Fundi della Chiesa di Tivoli e i suoi fittavoli: questi sono Duces oppure Comites, uomini romani ed eziandio longobardi e franchi, quali Annualdo, Gundiperto, Wassari conti, Grimo duce, Teudemaro gastaldo. — In una donazione dei 14 Giugno 1003 (Cod. Sessor. CCXVIII, n. 453), si parla del castello antico di Tivoli, civitas vetus, quae vocatur Albula non longe a civitate Tyburtina, e del Vicus Patritius, dell’Amphiteatrum ecc.
619. Et nulli comiti, aut Castaldio, aut alicui homini, qui ibidem publicas functiones fecerint liceat tuae Eccl. servos aut ancillas, sive liberos homines — ad placitum vel guadiam sive aliqua districtione provocare: Dipl., a. 978.
620. Tangmar (Vita Bernwardi, c. 23) ne fu testimone di veduta. Damian., Vita S. Romualdi, c. 23, attribuisce la intromissione a Romualdo.
621. In questa maniera devonsi concepire questi avvenimenti, seguendo la narrazione di Tangmaro, dell’Annal. Saxo, e dei Gesta Episcop. Camerac., I, c. 114.
622. Spettatore fu Tangmaro, e udì il discorso (c. 25). I Gesta Ep. Camer. confermano la condanna che Ottone pronunciava contro di sè colla sua propria bocca, ed, oltre al sogno dell’Impero universale romano, biasimano la dimestichezza troppo grande onde usava coi Romani: similmente Sigberto, ann. 1002. L’Annal. Saxo addita Gregorio (di Tusculum) come capo della sollevazione. La Vita S. Nili, c. 82, ne dipinge l’indole: Gregorius — qui in tyrannide et iniquitate notissimus erat, nimium autem prudens et ingenii acrimonia excellens.
623. De porta cum paucis evasit: Thietmar, IV, 30. Annal. Saxo, 1001. Gesta Ep. Camer. E Tangmaro dice: immensis civium lacrimis, locchè naturalmente è esagerato. Otto imperator Roma expulsus est, dicono con semplicità gli Annal. Coloniens., a. 1001. E così la Vita S. Nili, c. 92: στάσεως αὐτῷ γενομένης ὰνεχώρησε φεύγων. Sigberto, A. 1002: per industriam Heinrici — et Hugonis — simulato pacto vix extractus, Roma decedit cum Sylvestro papa.
624. Giesebrecht, I, 801. Un Diploma di Ottone, al Marchio Oldericus Manfredi, è dato ai 31 Luglio 1001, actum paterne (Mon. Histor. Patr., I, 346). I documenti dati di Paterno sono raccolti nello Stumpf, II, 105.
625. Ivi ei si trovava nel Novembre e nel Dicembre. L’animo di lui, che era circondato di frati borbottoni, è bene dipinto nella frase: Otto tercius servus Apostolorum, che è inserita in uno dei suoi Diplomi, dat. X Kal. 1001 Ravenna (Mur., Ant., V, 523).
626. Del planctus ossia Rhythmus de obitu Ottonis III (tratto da un codice esistente a Monaco, che fu stampato dall’Höfler, Papi ted., I, Suppl. XVI) riporto questi soli versi
Plangat mundus, plangat Roma,
Lugeat ecclesia,
Sit nullum Romae canticum,
Ululet palatium.
Sub Caesaris absentia
Sunt turbata saecula.
627. Leggasi ciò che Ratherius di Verona dice del clero italiano nella sua Sinodica, indiritta ai Vescovi della sua Diocesi: e vedasi il Concilio di Trosle dell’anno 909 (Labbé, XI, 731).
628. Mon. Germ., V, c. 28, p. 673. Epistola Leonis Abbatis et Legati ad Hugonem et Robertum reges, ibid., p. 686: Et quia vicarii Petri et ejus discipuli nolunt habere magistrum Platonem, neque Virgilium, neque Terentium, neque ceteros pecudes philosophorum, qui volando superbe, ut avis aerem, et emergentes in profundum, ut pisces mare, et ut pecora gradientes terram descripserunt, — — et ab initio mundi non elegit deus oratores et pilosophos, sed illiteratos et rusticos: indi segue un acconcio richiamo degli «Scribi e dei Farisei.» Per lo contrario, Ratherius: Quo aptius possum, quam Romae doceri? Quid enim de ecclesiasticis dogmatibus alicubi scitur, quod Romae ignoretur; ma lo dice, perchè allora egli aveva interesse di adulare Roma: Itiner. Ratherii Romam euntis (edit. Ballerini, p. 440).
629. Gli scrittori di codici notavano qua e colà quello che aveva loro costato il materiale da scrivere. Così, nei celebri Regesti farfensi, sotto alla prima miniatura che rappresenta lo scrivano in atto di offrire a Maria il suo codice, leggesi:
Presbyteri Petri sunt haec primordia libri.
Soldos namque deces pro cartis optulit ipse.
630. Ep. Gerberti 44. Gli è con grande attrattiva che si seguono le tracce di Classici antichi, a procurarsi i quali, Cesare, Svetonio, Omero, Boezio, Plinio, Cicerone de republica (Ep. 87) usava Gerberto gran sollecitudine. E quest’ultimo libro, che più tardi andò perduto, ed il Mai discoperse in un palinsesto di Bobbio, forse aveva appartenuto a Gerberto quando questi era stato colà abate. Con sentenza bella e degna di uomo antico Gerberto dice: causa tanti laboris contemtus maleficae fortunae, quem contemtum nobis non parit sola natura, sed elaborata doctrina: Ep. 44.
631. Nei documenti di quella età ho notato alcuni «grammatici». Leone VIII era appellato prudentissimus grammaticae artis imbutus. Nel Marini (n. XXIV) compare, nell’anno 906, un Johannes grammaticus. Nel Chron. Farf., (p. 462), intorno al 930, si parla di Demetrius grammaticus; e il titolo era così prezioso, che un Imperatore bizantino se lo ascriveva ad onore.
632. Attonis Ep. Capitulare, nel D’Achery, Spicilegium, I, 400: Non oportet ministros altaris, vel quoslibet clericos spectaculis aliquibus, quae aut in nuptiis, aut in scenis exhibentur, interesse, sed antequam thymelici ingrediantur, surgere eos de convivio et abire debere; e (a c. 78, ibid., p. 410) parla di spectacula theatrorum: maxime quia S. Paschi octavarium die populi ad circum magis quam ad ecclesias conveniunt. Anche Ratherius conosce la parola thymelici: qui histriones quam sacerdotes, temelicos quam clericos — mimos, carius amplectuntur quam monachos: Praeloquior., V, 6, p. 143 (Edit. Ballerini).
633. Ai paragrafi de Scena et orcistra; de offitiis scene. La Graphia mescola il tempo presente e il preterito. Histriones, muliebri indumento amicti, gestus impudicarum et pudicarum feminarum exprimebant, et saltando res gestas et historias demonstrabant. Quando parla di combattimenti di gladiatori, essa dà certo narrazione di cose antiquate, ma deve credersi a qualche cosa di veramente attuale allorchè dice: Comedi vanorum acta dictis aut gestis cantant, et virginum mores et meretricum in suis fabulis exprimunt. Thomelici in organis et liris exprimunt ad citharas. Thomelici stantes vero in orcistra, cantant super pulpitum quod temela vocatur.
634. Usus Francisca, Vulgari, et voce Latina. Francisca significa franca, ossia tedesca: à cette époque Francia ne veut plus dire France — Quand l’Empire est transporté en Allemagne, la dénomination de France recule avec lui et repasse le Rhin: Ampère, Hist. littéraire de la France, III, 301. — Da Diplomi del secolo decimo puossi ricavare un glossario dell’idioma volgare: sono già stabiliti articoli e desinenze italiane. Nei Diplomi romani non v’hanno frasi così decisamente volgari come nei Diplomi corsi (Mittarelli, I, app.) o in quelli sardi ch’io lessi a Monte Cassino. Colà vidi anche il celebre documento del secolo decimo, che contiene frasi perfettamente italiane: alcuni testimonî nella loro favella dichiarano: «Sao che chelle terre per chelle fini ki che contene trenta anni le possete parte Sancti Benedicti (nel Tosti, Storia di M. Cass., I, 221)». Alcune desinenze allora abituali, tali come in bandora, arcora, fundora, censora, casora, ramore, domora, non si sono conservate nel linguaggio dell’Italia superiore; tuttavia Dante e il Villani hanno ancora di quelle forme.
635. Per una sgrammaticatura, cui era incorso nell’uso del caso Gunzone grammatico di Novara, fu sbeffeggiato dai monaci di San Gallo, ed egli così si scusò: falso putavit S. Galli monachus me remotum a scientia grammaticae artis, licet aliquando retarder usu nostrae vulgaris linguae, quae latinitati vicina est: Wattenbach, Fonti stor. di Germ. p. 162.
636. Al principio del secolo decimo appartengono gli scritti polemici dei Formosiani, del così appellato Ausilio e di Vulgario, più importanti come documenti della storia pontificia di quella età, anzichè della letteratura. Il Dümmler, l. c., ha stampato alcuni poemi ammanierati di Vulgario. Anche in queste scritture si rivela l’influenza continua della letteratura classica.
637.
Desine: nunc etiam nullus tua carmina curat;
Haec faciunt urbi, haec quoque rure viri.
Se di ciò si lagnava un poeta al principio del secolo decimo, che non dovranno dire i poeti dell’anno di grazia 1860?
638. Gerberti Ep. 148: Difficillimi operis incepimus Sphaeram, quae et torno jam expositam et artificiose equino corio obvoluta cum orizonte ac diversa coelorum pulchritudine insignitam....: così scrive egli a frate Remigio di Treviri. Come si faccia a comporre una sfera, lo dice a frate Costantino (Mabillon, Vet. Annal. II, 212); e la descrizione delle sfere di Gerberto trovasi nel Richer, Hist., III, c. 50, segg. — Sull’operosità letteraria di Gerberto vedasi la Histoire Littéraire de la France, VI sulla fine, e l’Olleris, Oeuvres de Gerbert pape sous le nom de Sylvestre II, Paris, 1867.
639.
Roma potens, dum jura sua dederat in orbe,
Tu pater et patriae lumen Severine Boethi
Consulis officio rerum disponis habenas,
Infundis lumen studiis, et cedere nescis
Graecorum ingeniis; sed mens divina coercet
Imperium mundi. Gladio bacchante Gothorum
Libertas Romana perit. Tu Consul et exsul
Insignes titulos praeclara morte relinquis.
Nunc decus Imperii, summas qui praegravat artes,
Tertius Otho sua dignum te judicat aula.
Aeternumque tui statuit monumenta laboris,
Et bene promeritum, meritis exornat honestis.
Praefat. de Cons. Phil. Amsterd. 1668.
640. Con poco fondamento reputa il Pertz, che Benedetto sia l’autore del Libellus de Imp. Potest. in urbe Roma (Mon. Germ., V, 719-722). Eccellenti sono gli argomenti che vi oppone il Willmans, Ann., II, 2, pag. 238.
641. Io mi sono riferito a questi Cataloghi dei Papi, che l’Eccardo, il Muratori e il Vignoli hanno edito in parte, e che si trovano in molti manoscritti. Con Giovanni XII e fino a Gregorio VII ricominciano notizie alquanto più copiose. V. il Giesebrecht, Giorn. mens. univers., Aprile, 1852.
642. Vita S. Adalberti Ep., e Brunonis Vita S. Adalberti, nel tom. VI dei Mon. Germ.
643. Nel Tom. IV degli Analecti. Ottimamente fu edito dall’Haenel nell’Archiv. di Filosof. e Pedag. dei Seebode e Jahn, V, 125; quindi dall’Höfler, Papi ted., I, 320. Ho già citato una piccola scrittura del tempo di Alcuino, che tratta delle chiese di Roma.
644. All’Anonimo di Einsiedeln succedette per primo, al tempo di Martino V, la Collezione delle Iscrizioni di Nicola Signorili, segretario del Senato romano; il suo codice fu scoperto dal De Rossi. Vedi la scrittura di quest’ultimo intitolata: Le prime raccolte d’antiche Iscrizioni compilate in Roma tra il fine del secolo XIV e il cominciare del XV (Roma, 1852). All’Anonimo noi siamo debitori di molte illustrazioni, ad esempio, sugli avanzi dei tre templi del Campidoglio, sulla inscrizione della base del Caballus Constantini, su quella dell’arco trionfale di Graziano, di Valentiniano e di Teodosio, ecc.
645. Palatium Pilati. Sca. Maria major; forse gli avanzi del Macello di Livia presso a santa Maria Maggiore, le cui rovine hanno fatto colà alzare di tanto il suolo. Consideri il lettore quanto di buon’ora il popolo desse figura a Pilato; oggidì è nota la Casa Pilati presso a ponte Rotto. — Palatius neronis, aecclesia s. Petri ad vincula. Sono questi i resti dell’aurea casa di Nerone, ovvero le terme di Tito.
646. Sunt simul turres 383, propugnacula 7020, posternae 6 (ossiano posterulae, porte), necessariae 106 (piccole porte di sortita), fenestrae majores forinsecus 2066.
647. Più tardi, nel medio evo, v’ebbero piani topografici di Roma, come quello che publicò l’Höfler, traendolo dal Cod. Vat. 1960, dove si contengono anche topografie di Antiochia e di Gerusalemme. Il De Rossi afferma risolutamente, che l’Anonimo di Einsiedeln appartenne alla scuola di Alcuino, e sostiene addirittura che le sue notizie copiò da un piano topografico. Se la sia così, quest’opera almeno dovrebbe avere avuto origine romana.
648. Alessandro morì nell’anno 915. Anon. Salern., c. 133: Nam septuaginta statuae, quae olim Romani in Capitolio consecrarunt in honorem omnium gentium, quae scripta nomina in pectore gentis, cujus imaginem tenebant, gestabant, et tintinnabulum uniuscujusque statuerant etc. Il Preller (Philologus, I, 1, 103) dimostra che questa tradizione è omai nota al Cosmas, del secolo ottavo (Mai, Spicileg. Rom., II, 221): il lettore deve conoscerla sotto il titolo di Salvatio Romae. Più tardi fu messa in relazione con Virgilio. — V’erano dei libri che trattavano delle meraviglie del mondo: prima di tutte era reputato il Campidoglio. Oltre al Cod. Vat. 1984 (saec. XI): Miraculum primum capitolium Mundi, mi riporto al Cod. Vat. 2037, fol. 170 (saec. XIII): Primum miraculum rome fuit sic. Erant ymagines rome tot numero quot sunt gentes etc. Qui la detta tradizione riceve racconto pari a quello che è registrato nei Mirabilia; soltanto che Agrippa non c’entra. I due Codici, Beda, Martino Polono, la Graphia, i Mirabilia si riferiscono ad un libro intitolato Miracula Mundi, noto all’Anonimo di Salerno. Questi però ha di proprio il riferimento in cui è messa la favola con Bisanzio, ed in ciò può cercarsi origine greca. Giusta il Cod. 2037, queste erano le sette meraviglie del mondo: il Campidoglio, il faro di Alessandria, il colosso di Rodi, il Bellerofonte fluttuante di Smirne, il labirinto di Creta, i bagni di Apollo, il tempio di Diana.
649. La Graphia e i Mirabilia. La menzione dei Sassoni manifesta la età degli Ottoni, quella dei Suevi (Succini nella Graphia), l’età degli Hohenstaufen. Poichè l’Anonimo di Salerno vi concorda in qualche frase, ne consegue che il Cronista ebbe letto cotale Graphia. Io mi credo che la tradizione abbia avuto origine, dopochè il Panteon fu dedicato a Maria. Di Agrippa vien detto: et dedicari eum fecit ad honorem Cybeles matris deorum, et Neptuni, et omnium demoniorum, et imposuit templo nomen Pantheon. L’epitaffio di Bonifacio IV: Delubra cunctorum fuerunt quae daemoniorum.
650. Omnes tua moenia cum turris et pugnaculi sicuti modo repperitur. Egli enumera 381 torri, 46 castella, 6800 propugnacula, 15 porte. Forse era già stato Adriano I o qualche altro Papa a far comporre questa statistica, e può darsi che l’Anonimo di Einsiedeln l’abbia trascritta. Questi conta 383 torri, 7020 propugnacula, posternae 6 (ossiano porte), necessariae 106 (piccole postierle), fenestrae majores forinsecus 2066. La Graphia: 372 turres, castella 48, propugnacula 6900, 35 portae (il dato è preso da breviarî antichi, che ne pongono 37). Di poco queste cifre differiscono in tutte le redazioni dei Mirabilia, dei quali, nella Laurenziana e nella Magliabecchiana di Firenze io ho esaminato sei codici diversi (a).
(a) Per suggerimento dell’Autore abbiamo ommesso, nella traduzione di questa nota, un periodo che trovasi nell’originale. (N. del T.)
651. Chronica, quae dicitur Graphia aureae urbis Romae, quae est liber valde authenticus, continens historias Romanor. antiquas: Galvan. Fiamma, Manipulus florum, c. 4 (Murat., XI, 540); nell’Ozanam (Docum. ined., p. 84), editore della Graphia. Da dopo di Ottone III il titolo Aurea Roma è frequente sui suggelli imperiali di piombo. Vedasi la Bolla dell’a. 1001, nel Murat., Ant., I, 385: all’intorno dell’imagine di Ottone è scritto: Aurea Roma; dal rovescio: Oddo imperator romanor.
652. Ubi nunc ecclesia S. Johannis ad Janiculum. Secondo il Panciroli, era chiamata chiesa «di san Giovanni di Malva in Transtevere», altra volta «di san Giovanni in Mica Aurea»: per tale m’avvengo in essa nel secolo decimoquarto, ma nel secolo decimo non ne ho notizia.
653. Come è noto, alcuni eruditi moderni spiegano, dall’antichissima tradizione di Saturno il nome e la fondazione di Roma, città Saturnia. Remus, oppure Romus, è nome semitico di Saturno (l’altissimo), e compare nelle forme siriache Ab-Ram, Abu-Rom, Baal-Ram. Vedi, alle voci relative, Giulio Braun, Storia naturale della tradizione, e consulta la sua scrittura «Roma», nei Paesi istorici, Stuttgard, 1867.
654. I Mirabilia non contengono il racconto di questa tradizione, che in parte è nota a Galvano Fiamma. Mi è appena duopo di notare che la Historia Miscella incomincia: primus in Italia ut quibusdam placet regnavit Janus, deinde Saturnus etc. Nel secolo duodecimo erano venuti assai in voga i Cataloghi dei Re, de’ Consoli, degli Imperatori, principianti da Saturno e da altri nomi mitici. Una delle più notevoli fra queste genealogie è raccolta nel Cod. 257 di Monte Cassino, e principia: Saturnus Uranius imperator gentis troianae. Saturnus X Abraham nascitur... Ytaliam ubique peragravit... yserniam condidit. — Ma qui, a Priamo soltanto, succede Giano. Hic junyculam condidit. Quella tradizione passò in altre Descrizioni della Città; io la lessi sformata in un Cod. Magliab. (Schede 10-31, cart. 134-137) che fu compilato sulle tracce della Graphia e dei Mirabil., senza che contenga la favola di Noè. Perfino un monumento che trovavasi nel foro di Nerva aveva, nel medio evo, nome di arca di Noè.
655. Il Lib. Imperial. di Giovanni Bonsignori (a. 1478, Magliab., XXIII, Cod. IX), trasporta la favola delle statue sonanti, dal Campidoglio al Panteon. — È noto che i Franchi facevano discendere sè stessi da Troja. Lo dice di già Fredegaro, cui Paolo Diacono (Gesta Ep. Mett., Mon. Germ., II, 264) si riferisce.
656.
Caesar tantus eras, quantus et orbis;
Sed nunc in modico clauderis antro.
L’epitaffio di Enrico III (m. 1056) contiene, meravigliosa cosa, questo medesimo verso, colla sola variante: at nunc exigua clauderis urna. Il pensiero ne è eguale nell’inscrizione funeraria di Crescenzio, od in quella di un altro Crescenzio (a. 1028): hoc jacet in parvo magnus Crescentius antro. — La Bolla di Leone IX è nel Bullar. Vat. I, 25, col. 2: via quae vocatur Sepulcrum Julii Caesaris. Il Nibby (Roma nel 1838, p. 285) non sa di questa Bolla, e perciò riferisce a tempo troppo tardivo la favola. Il Lib. Imperialis la tesse assai ingenuamente, e dice: «la (l’urna) puosono in sur un’alta pietra che oggi si chiama la ghuglia di s. Pietro». I Toscani, osserva egli, dicono aghuglia, quindi ne derivò Julia. Il Signorili dice: la Guglia — in cujus summitate est vas aereum ubi sunt cineres corporis Octaviani: nel De Rossi, Le prime raccolte, p. 78. — Quando Sisto V fece trasportare in altro luogo l’obelisco, si trovò che la palla era di gesso e tutta ripiena: Fea, Sulle Rov., p. 345, in nota.
657. La Graphia e i Mirabilia, che ebbero termine dopo la prima metà del secolo duodecimo, sono recensioni, concordanti quasi parola per parola, di una medesima Descrizione della Città, in quanto si tratta di monumenti. Le addizioni della Graphia sono forse attinte a qualche altra fonte, e riunite nel Codice fiorentino. L’Ozanam ha già dimostrato che la Graphia è più antica dei Mirabilia, quantunque, a causa dei frammenti aggiuntivi, egli ne abbia erroneamente riferito l’origine al tempo bizantino. Anche il Giesebrecht (Vol. I, sulla fine) ne ebbe trattato diffusamente.
658. L’illustre Autore ci esibì a questo periodo una variante dal testo originale. (N. del T.)
659. Mittarelli, n. 121, p. 273 (a. 1025) e n. 122: Regione prima, quae appellatur Orrea. Nel Privilegio dato da Giovanni X per Subiaco, addì 18 Gennaio 920 (nel Liverani, l. c., app.) è fatta menzione di un Oratorium S. Gemiliani cum suis pertinentiis positis in prima regione super Tiberim: e, più oltre: in prima regione in ripa graeca juxta marmoratam.
660. Privileg. di Giovanni X succitato: in secunda reg. urbis juxta etc. IV coronator., e juxta formam claudiam, e portam majorem. Il Galletti, del Prim., n. 18 (a. 978) vi comprende santo Erasmo; il Marini, n. 102, p. 160 (a. 961), il convento S. Petri et Martini in regione secunda sub Aventino in loco qui dicitur Orrea: e questo non può essere che uno sproposito del notaio. Cod. Sessor. CCXVII, p. 83: terrae positae Regione 2 juxta decennias, e campus qui vocantur Decennias; ibid., p. 287: prata Decii — foris porta Metrobi.
661. Galletti, Del prim., n. 8, p. 195 (a. 924): regio 3, juxta porta Majore; anche la regio 2 vi confinava. Ivi era situato san Teodoro; et inter affines ab uno latere forma claudia, et a sec. lat. ortu de Mercurio. Regione tertia non longe da Hierusalem (ibid., n. 9, p. 197, a. 929). Al tempo di Benedetto VI si parla di una Massa Juliana in regio 3 (Murat., Ant., V, 774 D). — Mittarelli, a. 84, p. 197, App. (a. 1011): Romae regione tertia, in locum qui vocatur S. Pastore, sive arcum Pietatis.
662. Cod. Sessor. CCXVII, p. 165, n. 976: Rome regione quarta in locum qui appellatur Campum S. Agathe: unica notizia che io ne trovassi. Questa Regione era appellata Caballi Marmorei: Ortum cum Casalino in Regione Caballi Marmorei fere ante eccles. S. Agathae in Diaconia positum. Bolla di Celestino III, a. 1192, Bull. Vatican., I, 74.
663. Questi luoghi sono specificati nel Marini, n. 28, p. 45 (a. 962): sita namque Roma regio quinta (a. 1008): Regione quinta juxta arco Marmoreo, presso alla via Lata. Galletti, Mscr. Vatican., 8048, p. 53.
664. Regione Sexta ad S. Maria in Sinikeo, dove (a. 1019) si parla di una casa: documento dei S. Cyriacus et Nicolaus in Via Lata, nel Galletti, Mscr. Vatican. n. 8048. E, parimente, la stessa nominazione della VI Regione trovasi in atti di quella età. La chiesa di santa Maria in Sinikeo si nominava anche in Synodo o in Xenodochio, ed è la odierna di santa Maria in Trivio ossia dei Crociferi. — Il Jordan, Topografia della città di Roma nei tempi antichi, Berlino, 1871, Vol. II, 320, riporta un passo degli Acta S. Susannae, 2 Agosto, p. 632: Regione sexta juxta vicum Mamertini (al. Mamuri) ante forum Sallustii (a).
(a) L’Autore ci fornì una modificazione ed un’aggiunta a questa nota, insieme con una notevole variante nel luogo corrispondente del testo. (N. del T.)
665. Galletti, del Primic., p. 232. (a. 1003): Reg. septima juxta campo de quondam Kaloleoni. Se poi in esso si registra (a pag. 375): S. Nicol. sub. col. Trajana in reg. nona in campo Kaloleon., dev’essere errore dello scrivano. Marini, n. 43 (a. 1025): Regione septim. in loco, qui vocatur Proba juxta Mon. S. Agathe sup. Sobora. Qui esisteva un pozzo antico chiamato Puteus de Proba. Anche nel Privilegio dato da Giovanni X per Subiaco si nomina ancor la Suburra; dunque la Regione VII dev’essersi estesa fino a quella III.
666. Scorticare, da scortum, pelle svelta dal corpo. Ancora ai tempi di Cola era detta Regio V Pontis et Scortichiariorum. Qui oggi si riuniscono insieme la V, Ponte; la VI, Parione; la VIII, santo Eustachio. Il Galletti, Del prim., n. 26 (a. 1010), nota in reg. IX ad scorticlarios thermae Alex. ed eziandio: Ubi dicitur Agones (n. 27, a. 1011; n. 31, a. 1017). Chron. Farf., p. 421, 474, 649: infra therm. Alex. posit. Reg. VIII ad Scorticlarios, e Gall., n. 27, n. 28. Nel 1076, nella Reg. 9, si registra: S. Laurentii qui vocatur illicina (in Lucina): Galletti, n. 50.
667. Rome regione duodecima in piscina publica, ubi dicitur Sco. Gregorio. Cod. Mscr. Vatican. 7931, p. 36: Diploma di Giovanni XVII per S. Cosma, in mica aurea (a. 1005). Da questo documento io argomento che nel medio evo le Regioni di Roma fossero dodici.
668. Per viam communem, que est pergens ad viam pontificalem euntium ad b. Petrum Ap.: Galletti, Del prim., n. 31. Chron. Farf., p. 539 (a. 1017).
669. Descrizione d’un Palazzo, che leggesi in un Codice del X o XI secolo nell’archivio della Basil. Vatican., nel Fatteschi, Serie de’ duchi di Spoleto, p. 349. Se ne discosta alquanto il frammento farfense, edito dal Mabillon, Annal. Ben., ad a. 814, e, dopo di lui, dal Muratori, Annal., ad a. 814. Io scopersi ancora un terzo frammento nel Cod. Vat. 3851. Nell’essenziale v’è concordia; si è all’oscuro per quanto al tempo.
670. Il nome delle strada odierna, detta «le botteghe oscure», derivò dalle botteghe che s’erano cacciate nei portici bui del circo Flaminio: oggidì ancora offre un esempio di questa specie il teatro di Marcello adoperato da artefici.
671. Nell’anno 1023, si sottoscrive Rodulpho, qui resedit ad Calcaria (Gall., Del prim., n. 34). — Reg. Farf. n. DCCCI, a. 1043: Crescentius vir magnificus calcararius. L’odierna chiesa di san Nicolò de’ Cesarini era appellata allora de Calcario in regione vineae Thedemarii. L’Ordo Rom. XII, 193 (Mabill., II), nel secolo duodecimo parla anche di una chiesa intitolata S. Laurentius in Calcario.
672. Negli escavi eseguiti al Palatino, sotto la direzione di Pietro Rosa, trovaronsi (nell’anno 1869) alcune monete dell’imperatore Lotario; però è errore il volerne trarre la conchiusione che Carlo magno od i suoi successori abitassero ancora l’antica rocca dei Cesari allorquando venivano a Roma. Può darsi che tali monete ivi fossero state disperse da qualche Romano.
673. Il luogo Septem viis aveva questo nome probabilmente dalle sette strade che anche oggi conducono all’arco di Costantino, al san Giovanni e Paolo, a Porta Capena, alla santa Balbina, alla porta di san Paolo, al Circo Massimo, al santo Bonaventura. La descrizione del Septizonium è nel Nardini, III, 207. Donatus, R. A., III, c. 13, p. 339, spiega il suo nome da sette serie di colonne, locchè è errore; e Flav. Blon. III, 56 pensa all’imagine del sole, la quale vi stava collocata in alto e guardava verso il Colosseo, come dichiarano anche la Graphia e i Mirabilia: Septisolium fuit templum Solis et Lunae (a).
(a) Qui fu introdotta un’aggiunta additataci dall’Autore. (N. del T.)
674. Diploma dal san Gregorio, Mittarelli, I, App. 41, p. 97: Id est illud meum templum, quod Septem solia minor dicitur ub ab hac die vester sit potestati et voluntati pro tuitione turris vestre, que Septem solia major dicitur, ad destruendum et suptus deprimendum quantum vobis placuerit. Nec non et omnes cryptas quas habeo in porticu qui vocatur mωδρῶmρωγγ (... Hippodrom?) supra dicta septem solia — numero trigintas et octo — posita Rome reg. secunda prope septem viis, a quarto latere via publica juxta circum, qui ducit ad arcum triumphali vestri juris — dat. Ann. 1. Bened. VII, Ann. 8 Otton. Ind. 3 m. Julio d. 22.
675. Sci Sergii ibi umbilicum Romae, dice l’Anon. Sotto di Pio IV la chiesa fu atterrata. Però, oggidì ancora v’ha una chiesa di questo titolo nella Regione de’ Monti, appartenente a’ frati ruteni. Martinelli, p. 399.
676. Palatium Catiline, ubi est ecclesia s. Antonini; juxta quam est locus qui dicitur Infernus — ubi Marcus Curtius, ut liberaretur civitas, responso suorum armatus proiecit se, et clausa est terra: Graphia. San Silvestro si dice aver edificato la chiesa odierna, detta S. Maria libera nos a poenis inferni, che ebbe anche nome di S. Sylvestri in Lacu (sc. Curtii). Panciroli, Tesor. nascosti, p. 702, e Martinelli, p. 222.
677. Ante privatam Mamertini templum Martis ubi nunc jacet simulacrum ejus: Graphia. Il celebre Marforio, chiamato simulacrum Martis ed anche Mamertini, vi stette colà fino al tempo di Sisto V; sembra che l’Anon. di Einsiedeln chiami quello stesso dio fluviale con nome di Tiberis. Il nome di Marforio, derivato dagli Archeologi da Forum Martis, che è sconosciuto in Roma, non ha trovato finora spiegazione sufficiente. Laddove io tentai di spiegarlo alla meglio, come si vede nel testo originale di questo Volume, ora invece ho abbandonato quella versione. Poichè ho trovato non solamente il nome Marifolle di uso presso agli Italiani, ma precisamente un Nardus Marfoli de contrata s. Adriani sepultus in s. Maria de Araceli, a. 1452 (Jacovacci, Familie Romane, Mscr. nella Vaticana), m’inclino piuttosto a credere, che quella celebre statua abbia preso la sua denominazione dal nome proprio di qualche Romano, abitatore di questa contrada, alla stessa guisa che (come si vedrà in seguito) il celebre Pasquino fu battezzato col nome proprio di un Romano (a).
(a) Nota modificata così dall’Autore. (N. del T.)
678. L’opinione del Preller (Philolog., I, 1, p. 83), che nell’anno 850 Lodovico fosse coronato da Adriano I in Campidoglio, è fondata sopra una favola. Il Nibby (Roma nel 1838) la trasse dalla Cronica Casaurense (Murat., II, 778), che ebbe origine soltanto dopo la restaurazione del Senato in Campidoglio. D’altronde, esso non parla d’altro che di un trionfo: Romamque reversus Imperiali laurea pro triumpho a Dom. P. Adriano, et omni populo, et Senatu Rom. in Capitolio est coronatus. Nell’850 Lodovico II fu coronato da Leone IV, e soltanto nell’872 lo fu, una seconda volta, da Adriano II. Perciò il Preller cerca a torto in una favola «il primo simbolo di fede nel Campidoglio, come centro della potenza romana». Questa idea allora non esisteva; ruina era il Campidoglio; e Lodovico e il Papa avrebbero considerato come una bestemmia il pensiero che una coronazione avesse potuto avvenire colà, anzi che nella santa chiesa di Pietro.
679. Cod. Sessor. CCXVII, p. 19: Teuzo abb. ven. Monas. S. Mariae Dei Gen. Virg. in Capitolio... a. 882. Così completo io il Platner (Descriz. della Città, III, I, 349), che afferma riscontrarsene prima menzione nell’anno 985. Monast. S. Mariae in Capitolio: Marini, n. 28, a. 955; n. 29, a. 962.
680. Adriano quoddam de banneo neapolini: Cod. Sessor. CCXVII. p. 60, a. 938. Io vi riconosco il nome «magnanapoli», o propriamente «bagnanapoli», che pertanto deesi derivare da balneum, e non, come arbitrariamente accoglie il Becker (I, 382) da magnanimi Pauli, nè dal vado ad Neapolim del mago Virgilio. Mi resta ignoto come si abbia a spiegare la parola neapolini, che in alcuni istromenti trovo anche scritta Neapolis. Nel testamento di Giovanni Conti dei 3 Maggio 1226, è detto: mons balnei Neapolis. Il dottissimo signor Corvisieri mi fece un dì l’osservazione che uno dei Conti abitatori di quella contrada, appellato Neapoleo, ben avrebbe potuto imporre il suo nome al balneum, e quindi alla contrada. Però l’età remota, cui appartiene la denominazione balneum neapolini, la quale, già prima dell’anno 938 e probabilmente nel secolo anteriore, doveva essere in uso, mi fa dubitare dell’esattezza di quella osservazione. Nè il nome Napoleo, nè i Conti ho incontrato nelle carte di quel tempo(a).
(a) Per questa nota l’Autore ci fornì una notevole aggiunta. (N. del T.)
681. I composti Kalo-Leo, Kalo-Petro, Kalo-Johannes sono assai frequenti in carte di questo tempo.
682. Galletti, Del prim., p. 375 (a. 1026). Nell’anno 1162 la chiesa di san Nicolò fu espropriata della colonna di Trajano, la quale venne attribuita in ragione dell’Abbadessa di san Ciriaco, più tardi santa Maria in via Lata: ibid., p. 323.
683. Marini, n. 28, 29: documenti tutti e due del secolo decimo, importanti per la topografia. Columpna majure marmorea in integra qui dicitur Antonio sculpita ut videtur esse per omnia cum eccl. s. Andree ad pedes et terra in circuitu tuo siculi undique a publice vie circumdata esse videatur infra hanc Civitatem Rom. constructa (n. 29). Nel n. 28 vi si aggiunge menzione della cella della colonna, cum cella sub se, e questa forse serviva da canova ai frati. Nel medio evo si appellava da Antonino la colonna, come lo fa di già l’Anonimo di Einsiedeln.
684. Fea, Sulle rov., p. 350. Nella prima, sulla fine: Adrasto Procuratori Columnae Divi Marci ut ad voluptatem suam Hospitium sibi extruat. Quod ut habeat sui juris et ad heredes transmittat. Litterae Datae VIII Idus Aug. Romae Falcone et Claro Cos.
685. Fu scoperta negli escavi del 1704. Pio VI la fece segare e adoperare in uso della biblioteca Vaticana. Il suo basamento esiste ancora nei giardini del Vaticano. Vignoli, de columna Imp. Antonini Pii, Roma 1705.
686. Montem in integro qui apellatur Augusto cum eccl. s. Angeli in cacumine ipsius montis: Dipl. dell’a. 955 e dell’a. 962. Il Nibby (Roma del 1838) non ne ha conoscenza, e perciò reputa erroneamente, che del mausoleo di Augusto non si faccia più cenno prima del secolo duodecimo. In Pier Damiani (Vita S. Romualdi, c. 25), il concetto di Mons, in significato di sepolcro, vien riferito anche alla tomba di Adriano. La Graphia lo chiama ancora con nome di Templum; sa dire delle camere mortuarie interne e delle loro inscrizioni, e narra la leggenda della terra ammucchiatavi.
687. Posterula antiqua, que olim cognominabatur S. Agathe, e Posterula a Pigna: nel Diploma suddetto, n. 29, p. 45, a. 962. Una terza Posterula de episcopo presso il Tevere rinvengo io nel Galletti, Del prim., n. 29 (A. 1012, Reg. Farf. 697): ivi, in vicinanza, ma di là dal ponte del Tevere, era posto il luogo (oscuro enigma) detto Captum Seccuta o Cantusecutu. Se S. Agatha de Posterula sia santa Maria dell’Orso non so dire: questa chiesa era pure chiamata in Posterula. Vedi il Bernardini, Descriz. di un nuovo ripartimento dei Rioni di Roma, 1744. Il nome Pigna (Pinea, pino) imposto oggidì al Rione IX, era attribuito, di già nel secolo decimo ad un luogo ivi situato (a).
(a) Nota modificata dall’Autore. (N. del T.)
688. Posita Rome regione nona, ubi dicitur Agones. Reg. Farf. n. 690, Galletti, Del prim., n. 27, a. 1011. Terra et campus Agonis cum casis, hortis, et cryptis: Chron. Farf., p. 421. Il Becker, Man., I, 671, avrebbe potuto convincersi da questi documenti, che Navona derivò veramente da Agon. Ancora nel secolo decimoquinto gli Archeologi romani trasponevano erroneamente il Circus Flaminius nella Navona.
689. Prima menzione di questa chiesa è fatta nel Lib. Pontif., Vita Hadriani I, n. 332.
690. S. Maria juxta Thermas Alexandrinas: Galletti, Gabio, n. 17, dal Reg. Farf. 461, a. 998. Galletti, Del prim., n. 26, 27, 28.
691. In Benedetto di Soratte, c. 33, trovo: infra civis Roma non longe ab aecclesia s. Apolenaris a templum Alexandrini. L’Anonimo di Einsiedeln distingue: a sinistra Sci Apollinaris, a destra Thermae Alexandrini et sci Eustachii.
692. Così Simone Metafraste, nel Surius, VI, ad 1 Nov. p. 25 (dove è chiamato Placidas), e in Anast. Kircher, Historia Eustachio-Mariana, Roma 1665. Costantino e Silvestro, seguendo la leggenda, edificarono sul monte Guadagnolo in una bella postura la chiesa, oggidì visitata da gran numero di pellegrini, di santo Eustachio e di Maria. — Trajano compare ancora una volta nelle leggende del medio evo, in questo luogo presso al Panteon. I Mirabilia parlano dell’Arcus Pietatis nelle vicinanze di santa Maria Rotonda, ed ivi collocano la nota leggenda della vedova chiedente ascolto. Il Chron. Farf. dice: S. Eustachius in Platana, ed il Martinelli erra scrivendo in Platea.
693. Vedansi questi sollazzevoli alberi geneologici nello Zazzera e nel Kircher: e quei giocatoli passarono nella storia.
694. Galletti, Del prim., p. 259 (Dipl. a. 1026), e a p. 354, dove ei ricerca il luogo ad duos amantes (come è già appellato nella Vita S. Sylvestri), presso al Collegio Romano. La Graphia: in Camiliano, ubi nunc est s. Cyriacus fuit templum Veste. San Ciriaco è l’odierna santa Maria in Via Lata. L’arco di Camillo s’ergeva in vicinanza di santa Marta. Clemente VIII concesse al cardinale Salviati di farlo in pezzi per ritrarne la calce occorrente alla costruzione del suo palazzo. Martinelli, Primo Trofeo, p. 122 e Galletti, Del prim., p. 374.
695. La tradizione è registrata nella Graphia. Nel Platner, Descriz. della Città, III, 3, p. 89, ne è data spiegazione indubbiamente esatta. Nell’Anon. Magliab., la manus carnea è già storpiata in carilli: et vulgariter manum carne; i. e. carrili, non habet epitaphium.
696. Ad Concam Parrionis fuit templum Gnei Pompeji mire magnitudinis et pulchritudinis: Graphia. Il Bernardini spiega il nome con gran ricercatezza da Apparitores; io lo spiego da Parioni, derivati da Parietes, grandi muraglioni ruinati, come Arcioni derivano da Arcus, grandi archi crollati: e lo faccio senza alcuna peritanza sulla scorta di un Diploma dell’850 (Reg. Subl. p. 69, nel Galletti, Del prim., p. 187): terra sementaricia — in quo sunt parietina destructa que vocatur Parrioni: precisamente presso al san Sebastiano. Perciò la Regione Parione deve il suo nome alle ruine, vuoi del teatro di Pompeo, vuoi di un qualche grande monumento; infatti, che un vero monumento per tutto il medio evo si chiamasse così rilevasi anche dalla descrizione in versi della coronazione di Bonifacio VIII (nel Cancellieri, De possessu, p. 25), dov’è detto:
Turri relicta
De Campo, Judaea canens, quae caecula corde est,
Occurrit vesana Duci, Parione sub ipso
Il Campus è Campo di Fiore.
697. Diploma di Ottone III per san Bonifacio: Nerini, p. 374, e Marini, n. 42 e 49.
698. Vedi i detti Diplomi nel Marini. Al n. 49 è data la confermazione di Leone IX del 1049, e più chiaramente che non lo sia al n. 42. La Graphia nota: 1) il ponte Sisto con nome Antonini in arenula (l’Anon. Magliab.: alius ruptus tremulus, corrotto di in arenula; canicularius, corrotto di janiculensis et aurelius). 2) Pons Theodosii in Riparmea pons Valentiniani, che io reputo essere identico dell’altro. 3) Pons Senatorum S. Marie (meglio l’Anon. Magliab.: Senatorum et S. Mariae). 4) Fabricii in ponte Judaeorum (meglio l’Anon. Magliab.: P. Fabricius et Judeorum).
699. Panciroli, p. 628, Martinelli, p. 180: il Martirol. Roman. ai 2 di Aprile. Del tempio di Vesta dapprima se ne fece uno di Ercole Vittorioso; adesso gli Archeologi lo hanno dedicato a Cibele; però questa Dea dovrà senza dubbio sloggiarne per dar luogo a qualche altra divinità, finchè anche questa ne sarà discacciata da una nuova rivoluzione archeologica.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a pag. 689 sono state riportate nel testo.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.