The Project Gutenberg eBook of La Costa d'Avorio

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Title: La Costa d'Avorio

Author: Emilio Salgari

Illustrator: Giuseppe Gamba

Release date: October 20, 2025 [eBook #77094]

Language: Italian

Original publication: Genova: A. Donath, 1898

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA COSTA D'AVORIO ***

La Costa d’Avorio


 

 
Ad un cenno di Kalani tutti quei panieri furono precipitati nel vuoto.... (Pag. 224).

Emilio Salgari

La Costa d’Avorio

Avventure

illustrate da 18 disegni, fuori testo
di G. Gamba

Genova
A. Donath, editore
1898


Proprietà Letteraria

53-98. — Firenze, Tip. di Salvadore Landi, direttore dell’Arte della Stampa.



INDICE


 
Già l’enorme bocca si apriva sul disgraziato portoghese, quando si udì echeggiare una seconda detonazione. (Pag. 10).

[1]

Capitolo I. Sulle rive dell’Ousme

— Ci siamo?...

— Aspetta un po’, amico. Sei impaziente di provare la tua carabina?

— Desidero ardentemente di vedere uno di quei mostruosi animali allo stato libero. Non ho veduto finora che dei piccini e nei serragli d’Europa.

— Bada che sono formidabili.

— Con un cacciatore abile quanto sei tu non ho paura, e poi non credo che quelle masse enormi siano tanto leste da gareggiare colle mie gambe.

— T’inganni, Antao. Non sono trascorse due settimane, che un povero minaloto del Gran Popos, spintosi qui a cacciare quegli animalacci, è stato tagliato in due.

— Nè più nè meno d’un biscotto?...

— Non lo credi?...

— Ho i miei dubbi, Alfredo.

— Allora ti dirò, Antao, che quel minaloto era un servo della fattoria del signor Zeinger, quell’ottimo alemanno che abbiamo visitato la scorsa domenica.

— Quel minaloto doveva essere lesto come una lumaca grigia del paese degli Ascianti.

— Tutt’altro, amico mio. Era un gran diavolo di negro, agile come una scimmia, ma l’animalaccio, che era stato solamente ferito, si precipitò sul disgraziato cacciatore e prima che questi potesse giungere alla riva lo tagliò in due.

— Ecco una storia che non aumenta di certo il mio coraggio.

— Vorresti tornare alla mia fattoria?

[2]

— Sì, ma rimorchiando un ippopotamo. Non sono venuto in Africa per farmi divorare vivo dalle zanzare della costa entro una stanza, ma per visitare questi paesi e cacciare i grossi animali.

— E per aprire una fattoria portoghese.

— Non ancora, Alfredo. I miei commerci col Brasile mi hanno fatto abbastanza ricco da permettermi....

— Taci!...

— Un ippopotamo?....

— No.... taci!... —

I due uomini che così chiacchieravano, inoltrandosi in mezzo ad una splendida vegetazione equatoriale, che li riparava dagli ultimi ma ancora ardenti raggi del sole, erano allora giunti sulle rive d’un corso d’acqua, largo tre o quattrocento passi ed ingombro d’isolotti coperti d’alte erbe e da gruppi di piccoli banani, dalle larghe foglie d’un verde vivo.

Colui che abbiamo udito chiamare Alfredo, si era bruscamente arrestato, curvandosi verso la sponda che era ingombra di paletuvieri, incrocianti in tutti i sensi i loro rami e le loro radici sporgenti dal fondo del fiume, ed aveva girato all’intorno un rapido ma acuto sguardo; mentre il suo compagno, quantunque ignorasse di cosa si trattasse, si era levato dalla spalla una corta ma pesante carabina, una di quelle armi usate per la caccia dei grossi animali.

Il primo rimase parecchi secondi immobile, tendendo accuratamente gli orecchi e continuando ad investigare, cogli sguardi, le isolette e la sponda opposta coperta di fitti alberi, poi volgendosi verso Antao, disse:

— Mi sono ingannato di certo.

— Cosa avevi udito?...

— Mi era sembrato d’aver udito un grido che mi ricordava un certo uomo....

— Morto forse su questo fiume?...

— Sarebbe stato meglio che fosse morto allora.

— Ma che storia mi racconti?...

— Parlo d’un uomo che da quattro anni mi fa paura.

— A te!... — esclamò Antao, sorpreso. — Eh! via, tu scherzi, Alfredo. Un uomo che in America si è battuto come un leone e che ora gode fama di essere il più audace cacciatore della Costa d’Avorio, non può aver paura di un uomo.

[3]

— Eppure ti ripeto che ho quasi paura e temo sempre un tradimento. Ecco perchè ho lasciato il mio servo Gamani a vegliare in mezzo alla foresta ed i miei porta-fucili alla fattoria.

— Ma chi è quell’uomo?...

— Un negro.

— Lo si cerca e lo si uccide con una buona fucilata.

— È lontano.

— Si va a trovarlo.

— È potente, Antao.

— Si raccoglie una truppa d’uomini risoluti e lo si va ad assalire.

— Nel Dahomey?...

— Là!... Ecco un nome che fa venire i brividi!... Brutto paese di macellai feroci. Diavolo!... Vorrei conoscere quest’istoria che ti mette indosso tante preoccupazioni.

— Te la racconterò, ma più tardi. Ora pensiamo agli ippopotami. Spero di essermi ingannato su quel grido e che nulla accadrà nella mia fattoria durante la nostra assenza.

— Vi sono i tuoi uomini che vegliano sul tuo nipotino e sulle tue ricchezze.

— Taci: ci siamo. —

Alfredo, che aveva continuato il cammino durante quella conversazione, seguendo sempre la riva destra del fiume, erasi arrestato dinanzi ad un grande albero del cotone, il quale si curvava verso la sponda e sul cui tronco si vedevano parecchie profonde incisioni che parevano fatte da poco tempo.

Il cacciatore l’osservò attentamente come volesse essere certo di non ingannarsi, poi s’inoltrò prudentemente fra i paletuvieri che si arrampicavano confusamente su per la sponda, afferrò una fune che stava legata attorno ad una grossa radice e diede una violenta strappata.

Tosto fra quell’ammasso di rami, di foglie e di radici, si vide avanzarsi uno di quei pesanti canotti scavati nel tronco d’un albero col ferro e col fuoco e colle punte assai aguzze, usati sui fiumi della Costa d’Oro e dell’Avorio.

Alfredo vi balzò dentro invitando il compagno a seguirlo, afferrò due remi dalla larga pala e spinse la pesante imbarcazione nella corrente, dirigendosi verso un isolotto coperto d’una fitta vegetazione che si trovava quasi in mezzo al fiume.

In pochi minuti attraversò la distanza e arenò l’imbarcazione [4] su di un bassofondo che pareva si collegasse all’isolotto e che impediva d’accostarsi di più a quel brano di terra.

— Bisogna prendere un bagno? — chiese Antao.

— Non vi sono che due palmi d’acqua, — rispose Alfredo.

— Sono almeno sicure le nostre gambe? Mi hanno detto che sull’Ousme i coccodrilli non sono rari.

— È vero, ma non osano assalire gli uomini bianchi e poi a quest’ora dormono. In acqua, amico.

— Una parola ancora. Gli ippopotami non faranno a pezzi la nostra barca?...

— È probabile, se manchiamo ai nostri colpi, ma procureremo di mandare le palle a destinazione. Orsù, in acqua. —

I due cacciatori presero le loro carabine e abbandonarono la imbarcazione, scendendo sul banco.

Alfredo non si era ingannato. Vi era così poca acqua in quel bassofondo, che a malapena toccava i polpacci dei due uomini.

In pochi istanti attraversarono il banco e giunsero sull’isolotto, celandosi fra le folte piante che lo coprivano.

Quel brano di terra situato in mezzo all’Ousme, uno dei più notevoli fiumi della Costa dell’Avorio e che scaricasi nelle paludi di Porto Novo, non misurava di più di cinquanta metri di circonferenza ed era così basso, che la più piccola piena doveva coprirlo.

Nondimeno su quell’umido terreno, fertilizzato dagli avanzi vegetali trasportati durante la stagione delle piogge, erano cresciuti rigogliosi bambù altissimi dalle lunghe foglie verdi pallide, mangifere splendide, arbusti acquatici e anche dei mazzi enormi di banani selvatici, i quali rizzavano arditamente le loro lunghe e larghe foglie, talune delle quali misuravano tre o quattro metri.

Alcuni pappagalli grigi vi avevano preso domicilio e schiamazzavano allegramente, spennacchiandosi agli ultimi raggi del sole.

I due cacciatori fecero il giro dell’isolotto per accertarsi che non vi fosse qualcuno di quei piccoli serpenti chiamati dai naturalisti echidni nasicorni, il cui morso è mortale e che sono così numerosi in quelle regioni; poi si sdraiarono sotto la fresca ombra di un gruppo di banani.

— Ed ora, dove sono questi ippopotami? — chiese Antao. — Ho guardato attentamente il fiume e le sue sponde, ma ti confesso che non ho veduto nemmeno un coccodrillo.

[5]

— Manca mezz’ora al tramonto, — rispose il cacciatore. — Quando il sole sarà scomparso, li vedrai venire.

— Qui?...

— Sì, Antao. Verranno a saccheggiare questi vegetali.

— Sei certo?...

— Gamani li ha veduti venire per tre notti di seguito.

— Non si mostrano di giorno?

— Dormono in fondo al fiume; sono prudenti mio caro. Accendi la tua sigaretta e fuma tranquillo come faccio io. —

Il cacciatore aveva levato da una tasca una scatola di sigarette, ne offrì all’amico, ne accese una, poi si accomodò fra le erbe, mettendosi la carabina sulle ginocchia.

Quei due cacciatori, che si avventuravano soli sugli isolotti dell’Ousme ad attendere i mostruosi ippopotami, anche a prima vista si riconoscevano per due persone appartenenti a nazioni diverse, quantunque avessero entrambi la pelle bruna, capelli e occhi nerissimi, distintivi particolari della razza latina.

Colui che abbiamo udito chiamare Alfredo e che sembrava il più pratico di quei luoghi selvaggi e anche il più intrepido cacciatore, era uno di quei tipi che s’incontrano così di frequente nelle regioni dell’Italia meridionale e sulle coste Albanesi.

Era un uomo sulla quarantina, di statura superiore alla media, tutto muscoli e nervi, dal profilo ardito, reso più fiero da una folta barba nerissima, dagli occhi vivissimi, lampeggianti e dalla pelle bruna, dovuta forse più di tutto all’ardente sole dell’Africa equatoriale.

Indossava un vestito di tela bianca stretto alla cintura da una larga fascia dì lana rossa, come usano portare i pescatori napoletani, sormontata da una cartucciera, ed un elmetto pure di tela bianca gli copriva i folti capelli, che il clima della Costa dell’Avorio aveva già cominciato ad incanutire.

Il suo compagno Antao invece dal nome e dall’aspetto, s’indovinava appartenere alle razze bianche dei climi ardenti. Era un giovanotto di ventiquattro o venticinque anni, di statura bassa piuttosto, ma di corpo robusto, dalla pelle quasi olivastra, dagli occhi grandi, neri, vellutati e tagliati a mandorla, con due baffettini pure neri ed i capelli ricciuti, quasi crespi come quelli dei negri.

Portava sul capo l’elmetto, cappello indispensabile in quei climi, ma invece della giacca indossava una semplice camicia [6] di flanella azzurra, adorna di rabeschi ai polsi ed al colletto, stretta da una cartucciera elegantissima di pelle rossa ed aveva i calzoni di velluto olivastro e grandi uose di pelle gialla con fibbie d’argento.

Entrambi poi erano armati di splendide carabine da caccia, a canna corta, pesanti, ma capaci di abbattere un elefante con una sola palla ben aggiustata e dei larghi coltelli da caccia, chiusi in guaine di cuoio naturale a punta d’acciaio.

Mentre fumavano le loro sigarette conservando un silenzio assoluto, il sole tramontava rapidamente dietro i grandi boschi.

La luce decresceva a vista d’occhio e le tenebre s’addensavano frettolosamente nei più cupi recessi della foresta. I pappagalli grigi, dopo d’aver lanciati gli ultimi e più strepitosi chiacchierii, cominciavano a tacere; le aquile pescatrici, dopo d’aver fatta un’ultima volata sulle acque fangose del fiume, erano tornate ai loro nidi, situati sulle più alte cime dei giganteschi baobab; le scimmie subukumbaka, che fino allora si erano divertite a sollazzarsi fra i rami dei sicomori saccheggiandoli dei loro fichi, avevano cessato dall’emettere i loro acuti hu-ul-hu-ul che si odono a parecchi chilometri di distanza, e in aria cominciavano ad apparire i primi volatili delle tenebre.

Bande immense di pipistrelli, abbandonati i rami ai quali fino allora si erano tenuti appesi col capo in giù e le fredde ali avviluppate intorno al corpo, giungevano da tutte le parti, guidate da qualche gigante della specie, da qualche cinonittero delle palme o cane notturno, orrendo volatile dalle ali lunghe un metro e dal corpo lungo perfino trenta centimetri, dalla testa grossa somigliante a quella d’un piccolo bull-dog, traforata da due occhiacci e dal pelo aranciato sul petto e sul collo e grigiastro sul dorso e verso la coda.

Dei rauchi brontolii, dei soffi potenti, delle urla acute e degli scrosci di risa, annunciavano che le fiere abbandonavano i loro covi per cominciare le loro caccie notturne, ma Alfredo rimaneva impassibile, come uomo da lunga pezza abituato a quei concerti più paurosi che veramente terribili. Il suo giovane compagno invece, da poco sbarcato in quelle regioni, si agitava, tormentava la batteria della sua carabina, mentre i suoi sguardi si fissavano sulle due sponde con una certa ansietà.

— Diavolo!... — mormorò ad un tratto. — Ma qui pare di essere in un serraglio.

[7]

— Colla differenza però che le fiere non sono chiuse dentro le gabbie e che non si farebbero alcuno scrupolo a mangiarti, se lo potessero.

— E Gamani che hai lasciato solo in mezzo alla foresta?... Che domani non lo troviamo più?...

— Gamani è un coraggioso e sa che tutti questi animali non sono capaci di arrampicarsi sugli alberi. Si sarà accomodato fra i rami di un sicomoro e vedrai che lo troveremo vivo.

— Ma i leopardi sono buoni arrampicatori, Alfredo.

— È vero, ma Gamani ha una buona carabina e sa servirsene. Ti dirò poi....

— Che cosa?... —

Invece di rispondere, il cacciatore si era bruscamente alzato, in preda ad un’improvvisa emozione. Con una mano tesa verso il compagno, come per invitarlo a non muoversi, ascoltava con profonda attenzione, senza osare respirare.

— Hai udito nulla? — chiese dopo alcuni istanti, con voce alterata.

— Assolutamente nulla, — rispose il portoghese, stupito.

— Mi era sembrato di aver udita una lontana detonazione.

— Dove?...

— Verso la mia fattoria.

— Ti sei ingannato, Alfredo.

— Dio lo voglia. Io ho paura di quell’uomo.

— Ma di chi?... Spiegati una volta!...

— Sì.... ma.... guarda laggiù!...

— Cosa vedi?...

— Non hai udito?...

— Uh sordo respiro?...

— Sì, Antao.

— E mi pare di vedere l’acqua agitarsi presso la riva del fiume.

— È la preda che attendiamo.

— Un ippopotamo?...

— Arma la carabina!... Eccolo che si avanza verso l’isolotto.... Non mi ero ingannato conducendoti qui, lo vedi. —

Il portoghese non rispose ma si accovacciò fra le alte erbe, sotto la cupa ombra dei banani, armando risolutamente la grossa e pesante carabina.

[8]

Capitolo II. I misteri delle foreste

Alla luce della luna, la quale faceva allora capolino dietro le alte cime della foresta, facendo scintillare le acque come se fossero d’argento liquefatto, i due cacciatori avevano scorta una massa enorme, mostruosa, sorgere presso la riva destra del fiume e avanzarsi lentamente verso l’isolotto.

Non si poteva ingannarsi sulla sua specie: era un vero ippopotamo, animali che se sono diventati assai scarsi nelle regioni bagnate dal Nilo, sono ancora numerosissimi nei fiumi della Costa dell’Avorio, dove godono una quasi perfetta sicurezza, essendo in generale i cacciatori negri cattivi bersaglieri e provveduti di armi troppo vecchie per cimentarsi, con qualche successo, con quei colossi.

L’animale, che era sorto dalle profondità del fiume per cercare la cena, era uno dei più grossi che Alfredo avesse fino allora veduti.

La luna che lo illuminava in pieno, permetteva ai due cacciatori di vederlo distintamente, come se fosse giorno.

Quel re dei fiumi, perchè è in realtà un vero re, non trovandosi alcun altro animale capace di disputargli il potere nelle acque che frequenta, nemmeno il coccodrillo il quale pare che lo eviti con grande cura, misurava circa tredici piedi di lunghezza, ossia oltre quattro metri, ed aveva una circonferenza enorme, superiore di qualche piede alla misura sopraddetta.

La sua testa, di proporzioni mostruose, carnosa, rigonfia verso l’estremità, aveva una bocca di due piedi d’apertura e mostrava una formidabile dentatura, composta di trentasei zanne fra cui quattro canini lunghi quaranta e più centimetri.

Il mostro, dopo d’aver nuotato alcuni istanti, era salito su di un banco, mostrando il suo corpaccio di colore bruno oscuro ma con dei riflessi fulvi e sprovveduto di peli, e le sue zampacce brevi e tozze; pareva che prima di decidersi ad avanzare, volesse assicurarsi dell’assenza dei nemici, fiutando replicatamente e molto rumorosamente l’aria.

[9]

— Che massa! — mormorò Antao, all’orecchio d’Alfredo. — Non sarà difficile sbagliarlo.

— Non tirare sul suo corpo, — rispose il cacciatore. — La sua pelle ha uno spessore di tre pollici e respingerebbe la tua palla.

— Diavolo!... Sono corazzati quegli animali!...

— Come i vascelli da guerra. Aspetta che si avvicini e cerca di colpirlo presso gli occhi o sotto le mascelle.

— Povero animale!... Non sospetta che vi sono dei nemici vicini.

— Non rimpiangerlo così presto. Sono animali pericolosi e anche dannosi. E....

— Che cosa?...

— Mi pare inquieto.

— Che ci abbia fiutati?...

— È possibile, ma non è che a centocinquanta passi e non lo lascerò fuggire, Antao. Risparmia la tua palla, per ora, e lascia che faccia fuoco io. —

Il cacciatore si era silenziosamente sdraiato fra le erbe, allungandosi meglio che poteva ed aveva puntata la pesante carabina, mirando con grande attenzione.

Ad un tratto fece fuoco. La detonazione fu tosto seguita da un muggito più forte di quello d’un toro e da un tonfo fragoroso.

Appena la nuvola di fumo fu dissipata, i due cacciatori videro l’ippopotamo in acqua, dibattersi con furore estremo. Colpito senza dubbio dalla palla e forse gravemente, il colosso nuotava disordinatamente all’ingiro, continuando a muggire e rinchiudendo, con cupo fragore, le potenti mascelle. Pareva che cercasse da qual parte si nascondevano i nemici per precipitarsi su di loro.

Alfredo, vedendo il compagno alzarsi per puntare la carabina, lo aveva obbligato a ricoricarsi fra le erbe, dicendogli rapidamente:

— Se ti è cara la pelle, non muoverti. —

Poi aveva ricaricata precipitosamente l’arma, certo di doverla adoperare una seconda volta.

Intanto l’ippopotamo, reso furioso dal dolore, continuava a dibattersi sconvolgendo le acque del fiume e facendo rintronare le foreste coi suoi muggiti. Le sue zampacce facevano spruzzare [10] a destra ed a sinistra getti di spuma e colla testa sollevava delle vere ondate.

Ad un tratto parve che prendesse il suo partito. Nuotò velocemente verso l’isolotto e comparve a dieci soli metri dai cacciatori, i quali erano balzati precipitosamente in piedi colle armi in pugno.

— Fuoco Antao! — gridò Alfredo.

Il suo compagno, quantunque si sentisse invadere da un vivo tremito, nel trovarsi dinanzi a quell’animalaccio che pareva si preparasse a tagliarlo in due con un solo colpo delle sue enormi mascelle, fece rapidamente fuoco, ma gli mancò il tempo di constatare gli effetti della sua palla.

Con uno slancio di cui non si sarebbe mai creduto capace un animalaccio così pesante, l’ippopotamo si era scagliato su di lui, urtandolo così violentemente da farlo cadere a gambe levate.

Già l’enorme bocca si apriva sul disgraziato portoghese, quando si udì echeggiare una seconda detonazione.

Alfredo, che aveva risparmiata la sua palla, aveva scaricata la sua carabina nell’orecchio destro del mostro, il quale stramazzò al suolo fulminato.

— Per tutti i diavoli!... — esclamò il portoghese, che si era affrettato ad alzarsi. — Un istante di ritardo e mi tagliava in due meglio d’un pesce-cane.

— Sei ferito? — gli chiese premurosamente il cacciatore.

— No, sono solamente imbrattato del sangue dell’ippopotamo, ma per tutti i diavoli, credo di aver un certo tremito nelle membra.... Grazie, Alfredo, del tuo pronto intervento che mi ha salvata la vita.

— Bisogna essere prudenti con questi animali, amico mio ed evitare di trovarsi sul loro passaggio.

— Chi avrebbe creduto che simili masse fossero così leste?...

— Non lo sono in realtà, quando gl’ippopotami non sono irritati, ma quando sono feriti caricano con veemenza.

— Che corpaccio!... — esclamò il portoghese, che girava attorno all’enorme animale. — E soprattutto che bocca!... Brrr!... Mi viene freddo pensando che stavo per provare questi denti!...

— E che denti, Antao!... Guarda questi canini: pesano almeno dodici libbre ciascuno.

— Sono d’avorio?...

[11]

— Sì, ma molto migliore di quello che danno le zanne degli elefanti. È così duro, che l’urto delle scuri fa scattare delle vere scintille e conserva la sua bianchezza per sempre. Si adopera appunto per ciò nella fabbricazione dei denti artificiali.

— È buona la carne di questi animali?

— È deliziosa quanto quella del bue e soprattutto il grasso è molto pregiato, adoperandosi come burro.

— Allora qui vi è da nutrire una tribù intera di negri.

— Questo animale deve pesare almeno quattordici quintali; puoi quindi immaginarti quale montagna di carne si può trarne.

— Manderai i tuoi uomini a sezionarlo?

— Certamente, Antao, e domani ti farò assaggiare un piede di questo colosso, cucinato al forno come usano i negri di queste regioni e sarai contento di averlo mangiato.

— Ritorniamo?

— Non è prudente riattraversare la foresta di notte e poi spero di abbattere qualche altro ippopotamo. L’anno scorso alcuni negri avevano provato a dissodare delle terre ed a piantare delle granaglie su queste sponde e gli ippopotami si erano radunati in buon numero in questo tratto di fiume e vi sono rimasti.

— Forse che questi animali cercano la compagnia dei negri?

— Tutt’altro, Antao. Erano qui venuti per saccheggiare i campi e bastarono poche notti per distruggere i raccolti, obbligando i coltivatori ad andarsene altrove. Toh!... Odi?... Non m’ingannavo io. —

Verso l’alto corso del fiume si erano uditi dei muggiti prolungati e che parevano s’avvicinassero. Di certo parecchi ippopotami stavano trastullandosi a cinque o seicento metri dall’isolotto, prima di avventurarsi sotto i boschi in cerca di cibo.

— Che vengano qui? — chiese Antao.

— È probabile che scendano lungo le sponde del fiume, essendo necessaria una grande quantità di radici e di canne per quei grossi animali.

— Se si potesse farli venire presto!

— Se noi avessimo degli istrumenti musicali, non tarderebbero ad accorrere.

— Degli istrumenti musicali!... Scherzi, Alfredo?

— No, Antao. Ti sembrerà strano, ma questi animalacci sono sensibili alle dolcezze della musica. Il maggiore Denham ha [12] narrato, che mentre passava colla sua scorta lungo il Mango nel Ganburoo, diede il comando di suonare la tromba e di battere il tamburo e che subito vide apparire parecchi ippopotami, i quali si misero a seguire le sponde del fiume tenendosi a breve distanza dai suonatori.

— Questa è fenomenale.

— Ho esperimentato anch’io questo mezzo, facendo suonare dei flauti dai miei battitori ed ho constatato l’esattezza dell’affermazione di Denham.

— Si potrebbe?

— Taci, Antao.

— Cos’hai udito?... —

Il cacciatore, invece di rispondere, gli fece cenno di nascondersi fra le alte erbe, poi gli additò la sponda opposta.

Alcuni rami si vedevano muoversi lentamente nel luogo segnalato, come se qualcuno, uomo od animale, cercasse di aprirsi prudentemente un varco.

La luna che allora erasi alzata e che splendeva proprio sopra il fiume, permetteva di vedere distintamente quei rami ad agitarsi.

— Una belva! — chiese, Antao sottovoce.

— Od un uomo? — rispose Alfredo, con voce agitata. — Un animale non prenderebbe tante precauzioni.

— Il tuo servo forse?...

— Gamani non s’inoltrerebbe così, sapendo che noi siamo qui a cacciare.

— Ma chi vuoi che sia infine?

— Chissà!... Forse un traditore.

— Un traditore?... Eh.... Dici?...

— Un compagno di quell’uomo, Antao.... guarda!... —

I rami si erano aperti e la testa d’un negro era comparsa, ma subito si era ritirata e le piante si erano rinchiuse.

Alfredo era balzato in piedi tenendo in mano la carabina e si era lanciato verso la riva dell’isolotto, gridando:

— Chi vive?... —

Nessuno rispose, nè alcun rumore si fece udire.

— Sei tu Gamani?... — chiese.

Poi non ottenendo ancora risposta, riprese:

— Parla o faccio fuoco!... —

A quella minaccia si udirono dei rami agitarsi e scricchiolare, [13] come se venissero precipitosamente allontanati o spezzati, ma nessuna voce umana si fece udire.

Alfredo non esitò più. Puntò la carabina mirando là dove vedeva muoversi i rami degli alberi e fece fuoco, ma la detonazione non fu seguita da alcun grido di dolore, anzi ogni rumore cessò e le piante ripresero la loro immobilità.

Antao aveva raggiunto prontamente il compagno e gli porgeva la propria carabina, ma Alfredo fece col capo un cenno negativo.

— È fuggito, — disse poi.

— L’hai mancato?...

— Lo credo.

— Ma chi era?...

— Qualcuno che ci spiava.

— Un negro di Tofa?...

— Temo che sia un dahomeno.

— Un dahomeno qui?... Uno di quei negri sanguinari su questo fiume?

— Sì, Antao.

— Mi sembri agitato, Alfredo.

— È vero, sono inquieto.

— Ma perchè?...

— Sono accadute troppe cose questa notte, per non allarmarmi Antao. Torniamo alla mia fattoria.

— E gli ippopotami?

— Torneremo domani. Bisogna che io veda Gamani.

— Lo troveremo con quest’oscurità?...

— Conosco questi boschi.

— Ma l’uomo che è venuto a spiarci, non ci tenderà un agguato?...

— Siamo armati e non lo temo.

— Andiamo, giacchè lo vuoi. Apriremo bene gli occhi e terremo un dito sul grilletto delle carabine. —

Stavano per abbandonare l’isolotto e scendere sul banco per raggiungere l’imbarcazione che era rimasta arenata, quando in mezzo ai boschi si udì a rintronare uno sparo.

Alfredo si era arrestato mandando un grido, che aveva qualche cosa d’angoscioso.

— La carabina di Gamani! — esclamò.

— O del negro che è fuggito? — chiese Antao.

[14]

— No, è stata sparata in mezzo ai boschi.

— Avrà fatto fuoco contro qualche leopardo.

— No.... odi?... —

Un’altra detonazione era echeggiata, poi dopo alcuni istanti, un’altra ancora.

— Sono segnali d’allarme! — esclamò Alfredo. — Vieni, Antao, vieni!... —

Capitolo III. La scomparsa di Gamani

I due cacciatori, abbandonato precipitosamente il banco, si slanciarono verso la scialuppa che era rimasta arenata e spintala in acqua con una scossa vigorosa, vi balzarono dentro, arrancando con grande lena.

Giunti però a trenta passi dalla riva, resa oscurissima dalla cupa ombra dei grandi vegetali, Alfredo fece segno al compagno di rallentare la manovra dei remi e alzatosi sul banco, col fucile in mano, lanciò un lungo sguardo sui rami arcuati dei paletuvieri.

Per alcuni istanti scrutò con somma attenzione quelle piante delle febbri, in mezzo alle quali poteva benissimo celarsi un uomo senza tema di venire scoperto, poi riprese il remo e spinse la scialuppa verso la sponda, ma procurando di non far rumore.

Prima di sbarcare attese ancora qualche minuto, tendendo gli orecchi per raccogliere il menomo rumore, poi rassicurato dal profondo silenzio che regnava sulla fiumana, s’aprì il varco fra i paletuvieri, facendo cenno ad Antao di seguirlo.

— Quante precauzioni, — disse Antao, che pareva sorpreso.

— Sono necessarie, — rispose Alfredo, che legava la scialuppa. — Non dimenticare che abbiamo degli uomini dinanzi a noi.

— Uno, Alfredo.

— Chi ti dice che fosse solo?...

— È vero, ma noi siamo armati e poi non abbiamo paura dei negri. Ed ora, come faremo a trovare Gamani, con quest’oscurità?...

[15]

— Conosco la via.

— Se segnalassimo a lui che lo cerchiamo sparando alcune fucilate?...

— No, Antao. Bisogna lasciar credere agli uomini che ci spiavano, che noi siamo rimasti sul banco.

— Ma ci avranno veduti attraversare il fiume.

— Ma ora li inganneremo.

— In quale modo?

— Lo vedrai. Imita la mia manovra. —

Aveva estratto il lungo e solido coltello da caccia ed aveva cominciato a recidere alcuni rami, riunendoli in un fascio che aveva la grossezza d’un uomo, poi lo aveva coperto colla propria giacca di tela bianca. Antao, quantunque non capisse cosa volesse fare il compagno, lo aveva imitato, vestendo quella specie di fantoccio colla camicia di flanella, non avendo giacca.

— Ora poniamoli nella scialuppa, — disse Alfredo.

— Mi spiegherai il perchè?

— Te lo dirò poi. —

I due fantocci furono messi uno a prora e l’altro a poppa, poi la scialuppa fu liberata dalla corda che la tratteneva e abbandonata alla corrente, la quale la trasportò tosto al largo.

— Seguimi, — disse poi Alfredo. — Cerca di non far rumore e apri bene gli occhi. —

Si cacciò senza esitare fra le piante, strisciando lestamente fra le immani radici che coprivano il suolo ed i cespugli che crescevano fitti fitti fra i tronchi dei grandi alberi, e raggiunse un sentiero aperto in piena foresta, ma tanto stretto da permettere appena il passaggio ad un uomo.

Si lanciò innanzi risolutamente, tenendo il fucile sotto il braccio per essere più pronto a far fuoco, ma evitando con cura estrema di urtare i rami degli alberi che si curvavano su quello stretto passaggio e posando con precauzione i piedi, per tema di far scrosciare le foglie secche o di calpestare la coda di qualche rettile velenoso. Antao gli si era messo dietro, girando a destra ed a sinistra gli occhi e volgendosi di frequente, per paura di venire improvvisamente assalito a tergo.

Dopo le tre detonazioni della carabina di Gamani più nessun rumore aveva turbato il profondo e misterioso silenzio che regnava nella foresta, pure Alfredo non pareva tranquillo, tutt’altro. Si arrestava di frequente per tendere gli orecchi, [16] guardava all’intorno scrutando le folte e cupe macchie, trasaliva ad ogni foglia secca che crepitava sotto i suoi piedi e delle parole tronche gli sfuggivano dalle labbra. Doveva avere un motivo ben grave per essere così inquieto, lui che era così coraggioso, che nessun pericolo spaventava: così almeno pensava Antao.

Ad un tratto, verso il fiume rimbombò una fragorosa detonazione, che pareva prodotta da una di quei grossi e vecchi fucili adoperati dai negri, armi che contano cinquanta e forse cent’anni di fabbricazione.

— Gamani? — chiese Antao, arrestandosi bruscamente.

— Non è lo sparo d’una carabina, — rispose Alfredo che si era pure fermato. — So di cosa si tratta.

— Spiegati.

— Sono gli uomini che ci spiavano che sparano contro i nostri fantocci. Sono contento di averli ingannati. —

Quantunque la loro posizione fosse tutt’altro che lieta, Antao non potè trattenere uno scoppio di risa.

— Ah!... che superba idea!... — esclamò.

— Imprudente! Vuoi farci fucilare?...

— È vero; mi dimenticavo che siamo diventati della selvaggina pei negri. Toh!... Un altro colpo!... Quegli stupidi si divertono a consumare la loro polvere contro la mia camicia e la tua giacca, ora non m’inquieto. I loro fucili fanno più fracasso che danno e poi questi negri sono così cattivi bersaglieri che....

— Vuoi finirla? La pelle non ti preme forse? Se tirano male, il caso talvolta manda una palla a destinazione. Orsù; ora che sappiamo che i nemici seguono la scialuppa, mettiamoci al trotto e cerchiamo di raggiungere presto Gamani, poi la mia fattoria. —

Certi ormai di aver fatto perdere le loro tracce a quei misteriosi nemici che avevano loro preparato l’agguato e convinti di aver dinanzi la via libera, affrettarono il passo, inoltrandosi sotto centinaia e centinaia di giganteschi sicomori, di alberi dal legno rosso, di alberi dal cotone o bombasc, di mangani, di goyavi e di banani dalle foglie smisurate e cacciandosi lestamente, non senza però incespicare e urtare, fra miriadi di radici e di liane che formavano talora delle vere reti inestricabili.

 
— Da bere, signore.... da bere.... — (Pag. 24).

La loro corsa durò venti minuti sempre più rapida, poi Alfredo [17] s’arrestò dinanzi ad uno spazio aperto, in mezzo a cui giganteggiava solitario un sicomoro dal nero fogliame, che spandeva all’intorno una cupa ombra.

— Ci siamo? — chiese Antao, con voce affannosa.

— Sì, — rispose il cacciatore, — ma....

— Lo vedi?

— Fa troppo oscuro e poi si sarà nascosto fra le foglie del sicomoro.

— Odi nulla?

— No, Antao e ciò mi inquieta.

— Chiamalo. —

Alfredo accostò ambe le mani alla bocca formando una specie di porta-voce e chiamò replicatamente, ma senza gridare troppo forte:

— Gamani!... Gamani!... —

Nessuno rispose a quella doppia chiamata.

— Gran Dio!... — mormorò il cacciatore, con angoscia. Cos’è accaduto di lui?...

— Sei certo che questo sia il posto? — chiese il compagno.

— Non m’inganno io, Antao. L’abbiamo lasciato ai piedi di questo sicomoro.

— Che una belva lo abbia divorato?... Quei colpi di fucile....

— Vediamo, se è stato divorato da qualche leopardo o da qualche leone, troveremo almeno la sua carabina.

— Spero che non l’avranno mangiata.

— Vieni. —

Armò il fucile e strisciò verso l’albero gigante, mentre il suo compagno sorvegliava i dintorni, temendo che apparissero i misteriosi nemici.

Giunto ai piedi del sicomoro, il cacciatore guardò fra i rami, ma faceva troppo oscuro per poter discernere qualche cosa. Ripetè la chiamata, ma non ottenendo alcuna risposta, fece il giro dell’enorme tronco esaminando attentamente le erbe che crescevano all’intorno.

Aveva quasi compìto il giro, quando vide a terra qualche cosa di bianco, semi-nascosto fra le grasse graminacee. Allungò una mano e raccolse un cappello di foglie intrecciate e che gli era ben noto.

— Il cappello di Gamani!... — esclamò. — Il disgraziato è stato ucciso!... A me, Antao. —

[18]

Il compagno s’affrettò a raggiungerlo e comprese subito la gravità della cosa.

— Ucciso o rapito? — chiese.

— Rapito!... — esclamò Alfredo, come fosse stato vivamente colpito da quella riflessione.

Ma poi, crollando il capo, aggiunse.

— Ed a quale scopo?... Rapire un servo?... Qui, quando si odia qualcuno lo si uccide; la vita d’un uomo vale meno d’una fettuccia o di poche perle di vetro.

— Ma se l’hanno ucciso non si saranno di certo presa la briga di far scomparire il cadavere.

— Forse l’avranno gettato nella foresta.

— Cerchiamolo, Alfredo. Non ti sembra che queste erbe siano calpestate?

— Sì, sono curvate in varii luoghi.

— Seguiamo le tracce.

— Ma mi preme giungere alla fattoria, Antao; ho dei tristi presentimenti. Questo attacco improvviso in mezzo alla foresta, contro noi che siamo uomini bianchi, troppo temuti dai sudditi di Tofa e dei reami della costa, mi fa sospettare la presenza dei sanguinari negri del Dahomey.

— Taci!... —

Un grido acuto, straziante, ma un grido che pareva più emesso da una donna che da un uomo, era in quel momento echeggiato in mezzo alla tenebrosa foresta.

— Hai udito?...

— Sì, Antao.

— È un grido di donna.

— Sciagura su noi, Antao!...

— Ti ho detto che è un grido di donna.

— Lo so e perciò ho paura.

— D’una donna?... — chiese il portoghese, al colmo dello stupore.

— Seguimi!... — disse il cacciatore, senza rispondere alla domanda.

Quel grido che pareva lanciato da una persona in pericolo, era echeggiato a tre o quattrocento metri dal grande sicomoro, in mezzo alla cupa foresta. Bastavano quindi pochi istanti per giungere sul luogo dove accadeva qualche grave avvenimento.

Alfredo aveva attraversata rapidamente la radura, ma giunto [19] sul margine della foresta si era arrestato e pareva poco disposto ad avventurarsi in mezzo a quel caos di rami, di tronchi enormi e di radici mostruose.

Udendo però echeggiare un secondo grido, più acuto, più straziante del primo, non esitò più. Tenendo un dito sul grilletto della carabina per essere pronto ad ogni evento, si slanciò in mezzo alla folta vegetazione, sempre seguito dal brasiliano.

Scivolando fra le radici ed i rami, quasi senza far rumore, quantunque fosse profonda l’oscurità sotto la vôlta impenetrabile delle frondi, in poco meno di mezzo minuto giunse in una seconda radura, ma più piccola della prima e circondata da altissimi alberi e alla luce della luna vide una massa oscura che pareva si dibattesse in mezzo alle erbe.

— Cos’è? — chiese Antao, che lo aveva raggiunto.

Un terzo grido, ma un grido di donna sfuggì da quella massa al quale rispose un urlo rauco e stridente, ben noto al cacciatore della Costa d’Avorio.

— Indietro, Antao!... — esclamò Alfredo. — Bada alla tua vita. —

Poi si spinse innanzi, tuonando:

— Ci sono io, mio caro ed ho una palla per te!... —

Udendo quella voce umana, un animale si era staccato da quella massa e con un rapido volteggio si era piantato dinanzi all’ardito cacciatore, a dieci passi di distanza, saettandolo con due occhi che avevano dei riflessi giallo-verdastri.

Aprì le fauci armate di lunghi e candidi denti, si battè i fianchi colla coda, poi si raccolse su sè stesso come fanno i gatti quando si preparano ad assalire un sorcio e lanciò tre note gutturali, lunghe, le quali risuonarono paurosamente sotto le vôlte dei grandi alberi, destando tutti gli echi della gigantesca foresta.

Quell’animale, che la luna illuminava perfettamente, era lungo circa due metri e rassomigliava ad una tigre o per lo meno ad un gatto, ma di dimensioni straordinarie. Aveva la testa grossa in proporzione al corpo, il muso poco sporgente, un collo corto ma robustissimo, una coda lunga settanta od ottanta centimetri, ed il pelame giallo-rossiccio che diventava più oscuro sul dorso, macchiato di grossi punti oscuri ed irregolari e le parti inferiori, compreso il petto e la gola, giallo-biancastre.

Sentendosi assalire alle spalle, aveva abbandonato la vittima che forse stava strangolando e dilaniando e si era affrettato a [20] far fronte al pericolo con un coraggio piuttosto raro nelle fiere, le quali ordinariamente evitano l’uomo bianco armato.

Il cacciatore, sapendo quale formidabile avversario avesse dinanzi, si era arrestato e guardava intrepidamente la fiera che continuava a saettarlo con uno sguardo di collera e d’ardente bramosìa, mentre avvicinava lentamente alla spalla il calcio della carabina.

— Morte di Nettuno!... — mormorò Antao, rabbrividendo. — Un leopardo qui!... Preferirei dieci ippopotami a questo feroce mangiatore d’uomini!... —

Non si era ingannato: era un vero leopardo quello che stava per scagliarsi sull’audace cacciatore della Costa d’Avorio.

Questi animali sono forse più formidabili dei leoni e forse più arditi delle tigri indiane. Nessun negro oserebbe affrontarli, quantunque abbiano una statura ben inferiore dei re delle foreste e siano meno robusti, ma perchè sanno di quanta agilità e di quanta ferocia sono dotati.

Sono il flagello dell’Africa tenebrosa, come lo sono le tigri nelle pantanose pianure delle Sunderbunds del sacro Gange.

Abitano ordinariamente le foreste fitte, dove fanno delle vere distruzioni di selvaggina, sono voracissimi, divorano specialmente un numero enorme di scimmie, essendo i leopardi abilissimi arrampicatori, ma talora scelgono i loro covi in vicinanza dei villaggi e allora guai ai poveri abitanti.

Divorano prima a quei disgraziati tutti gli animali domestici, osando inoltrarsi perfino entro le capanne ed in pieno giorno, poi divorano i proprietarii. Sono così noncuranti dei pericoli, che anche scacciati ritornano dopo poche ore, entrano nelle abitazioni balzandovi per le finestre o guastando i malsicuri tetti, strangolano ferocemente le persone addormentate, uccidono le donne che si recano alle fontane, rapiscono i bambini. Vi sono taluni leopardi diventati famosi per le loro distruzioni, nè più nè meno delle tigri antropofaghe dell’India.

Non era quindi da sorprendersi se il portoghese, che aveva atteso a piè fermo i giganteschi ippopotami, fosse spaventato della presenza di quel leopardo e se Alfredo, che era così coraggioso e lesto di mano, fosse diventato estremamente prudente dinanzi a quel formidabile avversario.

La belva, come dicemmo, si era accovacciata come si preparasse a balzare addosso al cacciatore che la sfidava e che la minacciava [21] colla canna della carabina, ma tutto d’un tratto si rialzò, spiccò un gran salto descrivendo una straordinaria parabola e andò a cadere fra i rami d’un ebano che era lontano dieci passi.

— Morte di Saturno!... Che salto!... — esclamò Antao.

— Guarda la vittima, — disse Alfredo, senza staccare gli occhi dall’albero.

— Credo che quella donna sia stata uccisa, poichè non la odo più a muoversi. Vedo una massa oscura distesa fra le erbe.

— È armato il tuo fucile?

— Sì, Alfredo.

— Mettiti dietro di me e sii pronto a passarmelo. Se le due palle falliscono, siamo perduti.

— Sono pronto.

— Sta bene. —

Alzò la carabina e mirò freddamente il leopardo, che si teneva imboscato fra i rami dell’ebano ma che pareva pronto, con un altro grande salto, a piombare addosso all’uno o all’altro dei due avversarii.

Alfredo mirò a lungo, con calma, cercando di irrigidire i nervi, poi lasciò partire il colpo.

La detonazione fu seguita da un rauco urlo, poi si vide il leopardo passare come un lampo attraverso i rami, descrivere un arco e cadere a dieci passi, ma con un sordo rumore che indicava come le sue potenti zampe non funzionassero più coll’agilità primiera.

Alfredo aveva fatto un balzo indietro gettando via l’arma scarica e afferrando di volo quella che gli porgeva Antao.

La puntò rapidamente per prevenire il secondo slancio della fiera, ma questa non si mosse e si limitò a far rintronare la foresta colla sua nota stridente e gutturale.

Si era coricata sul fianco destro e pareva che non fosse più capace di rimettersi in piedi, quantunque le sue zampe posteriori strappassero furiosamente le erbe d’intorno e cercassero di spingere innanzi la massa del corpo.

— Ha le gambe anteriori fracassate, — disse Alfredo. — Ora non lo temo più. —

Fece fuoco la seconda volta a sei soli passi di distanza. Quel colpo fu mortale: la belva, colpita in piena fronte, fece un ultimo balzo in aria, poi ricadde come una massa inerte e non si mosse più.

[22]

— Alla donna, Antao, — disse Alfredo.

E tutti e due, sbarazzati da quel pericoloso avversario, si slanciarono verso la povera vittima che giaceva in mezzo alle erbe della piccola radura.

Capitolo IV. Il fanciullo rapito

Quando giunsero là dove il leopardo si era alzato, videro subito che non si erano ingannati. La vittima del ladrone delle foreste era veramente una donna, ma che non doveva però essere una tranquilla abitatrice di qualche villaggio, poichè appena Alfredo l’ebbe guardata, non potè trattenere una sorda esclamazione che tradiva una viva inquietudine ed una profonda collera.

Quella sconosciuta indossava un costume ben noto agli abitanti della Costa d’Avorio ed intorno a lei si vedevano certe armi non adoperate di certo dalle donne di Tofa, nè del Grande e Piccolo Popo.

Era una bella giovane di vent’anni, dalle forme assai sviluppate, dalle braccia muscolose, dalla pelle d’un nero meno carico delle donne della costa e di statura alta e squisitamente modellata.

Aveva il corpo racchiuso in un giubbetto verde stretto alla cintura da una cartucciera di pelle, le anche avviluppate in una specie di gonnellino di seta rossa, i piedi nudi, ma le gambe e le braccia adorne di parecchi anelli di rame e d’avorio.

Presso di lei stava un casco a due punte, di stoffa bianca e più oltre un fucile a pietra, una giberna di pelle dorata e un lungo e largo coltellaccio, una di quelle armi terribili che gli abitanti del Dahomey chiamano nyekpeo-hen-to.

Il carnivoro l’aveva ridotta in uno stato miserando, ma forse gli era mancato il tempo di finirla. Le robuste unghie avevano squarciata la spalla destra della povera giovane per una lunghezza di venti o venticinque centimetri ed i denti avevano straziate le carni della coscia sinistra, le quali erano ormai coperte di sangue.

— Disgraziata!... — esclamò Antao. — Un momento di ritardo ed era finita. Fortunatamente non mi sembra che svenuta.

[23]

— Fortunatamente!... — disse Alfredo, coi denti stretti. — L’avesse stritolata questa vipera!...

— Questa povera donna? — chiese il portoghese, stupito.

— Sì, Antao.

— Ma chi è adunque?...

— Chi?... Chi?... Guarda il suo costume guerresco, Antao; questa donna è una di quelle crudeli amazzoni che formano il corpo reale del feroce Geletè.

— Del re del Dahomey?...

— Sì, di quell’antropofago.

— Morte di Nettuno!...

— Fuggiamo, amico!... Ormai i miei dubbi sono diventati una realtà! Le genti del Dahomey ronzano intorno alla mia fattoria e sono guidate da quel furfante che da due anni mi minaccia delle sue vendette.

— Che si tratti invece d’una spedizione contro il re Tofa?

— No, Tofa non ha nulla da temere da Geletè, perchè è un suo parente e perchè si sa che è sotto la protezione degli uomini bianchi. Vieni, Antao.

— Ma non possiamo lasciare qui questa donna in questo stato.

— Ma tu non sai quanto sieno feroci e sanguinarie queste donne; tu non conosci le amazzoni del Dahomey.

— È una donna, Alfredo.

— È peggio d’un uomo e sarebbe capace di compensare le tue cure con un colpo di fucile, per regalare la tua testa al suo re. Vieni, fuggiamo!... —

Il portoghese stava per arrendersi all’invito del suo compagno quantunque molto a malincuore, quando la giovane donna emise un lamento così straziante, da toccare il cuore del più spietato nemico.

Antao si era subito arrestato e anche Alfredo, malgrado il suo odio misterioso verso quella suddita del re del Dahomey, aveva fatto un volta faccia, come se fosse indeciso fra il fuggire od il tornare.

— L’hai udita? — chiese il portoghese.

— Sì, — rispose Alfredo, corrugando la fronte.

— Non possiamo abbandonare quella disgraziata che potrebbe diventare la preda d’un altro leopardo.

— Ma la mia fattoria corre un grave pericolo.

— Non lo sappiamo ancora.

[24]

— Gamani è stato assalito e hanno fatto fuoco sulla nostra scialuppa. Cosa vuoi di più?... —

Un secondo gemito, più doloroso del primo, uscì dalle labbra della giovane donna seguìto da queste parole pronunciate in lingua uegbè, idioma parlato in tutti gli stati costieri del grande golfo di Guinea:

— Da bere, signore.... da bere.... —

I due cacciatori, un po’ commossi da quella invocazione che aveva un accento straziante, s’avvicinarono alla donna, la quale si era alquanto sollevata.

Il viso della giovane guerriera nulla aveva dell’ardita espressione delle amazzoni del barbaro re. Aveva una fisonomia dolce, dai lineamenti regolari, con un naso quasi diritto invece di essere schiacciato, come lo hanno le donne di razza negra, una bocca piccola con due labbra rosse che mostravano dei denti d’una ammirabile bianchezza. Anche i suoi occhi non erano così grandi, nè così sporgenti: erano invece tagliati quasi a mandorla, d’un nero lucente, pieni d’espressione ed intelligenti.

Vedendo appressarsi i due cacciatori, l’amazzone fece istintivamente un gesto come se cercasse il fucile od il coltellaccio, ma parve subito si pentisse di quell’atto e tese ambe le mani verso di loro, ripetendo con voce fioca:

— Da bere.... signori.... —

Alfredo, che comprendeva perfettamente la lingua uegbè, prese la fiaschetta che portava alla cintura, ripiena d’acqua mescolata ad un po’ di arak e si curvò sulla giovane donna che il portoghese sorreggeva per impedirle di ricadere, ma poi ritirò la mano, dicendo:

— Sì, io ti darò da bere, ma se mi dirai cosa facevi in questa foresta.

— Te lo dirò.... signore.... lo giuro sul mio feticcio[1] ma brucio.... soffro.... dammi una goccia d’acqua.... —

Il cacciatore, quantunque avesse i suoi motivi per odiare i sudditi del Dahomey, non era crudele. Comprese che quella povera donna doveva essere rôsa dalla febbre causatale da quelle atroci ferite e le porse la fiaschetta, senza più esitare.

[25]

Quando la guerriera si fu dissetata gliela restituì, dicendo con voce raddolcita:

— Grazie, signore.

— Ora parlerai: cosa facevi in questa foresta che è così lontana dal tuo paese?

— Aspettavo dei guerrieri che si sono recati sulle rive del fiume.

— Cosa cercavano quei guerrieri?... —

La giovane donna ebbe una breve esitazione, ma poi disse, abbassando il capo:

— Dovevano sorvegliare un uomo bianco che doveva cacciare gli ippopotami sull’Ouzme.... e....

— Continua.

— Prenderlo vivo o morto.

— Odi Antao? — chiese Alfredo, tergendosi alcune stille di sudore freddo. Hanno preparato un tradimento. —

Poi rivolgendosi verso la giovane:

— L’uomo che dovevano fare prigioniero sono io, — disse, — e sono io che ho ucciso il leopardo che doveva divorarti. —

L’amazzone non rispose e chinò il capo sul seno, come se volesse nascondere il viso.

— Dimmi, — continuò Alfredo, che era in preda ad una viva agitazione. — Vi sono altri uomini oltre questi boschi, verso le terre del re Tofa?...

— Sì, — rispose l’amazzone.

— Molti?...

— Sì, molti.

— Cosa devono fare?...

— Sorprendere la fattoria dell’uomo bianco.

— E li guida?...

— Il cabecero Kalani. —

Il cacciatore, udendo quel nome, si era rialzato mandando un urlo di furore.

— Ah!... Miserabile uomo! Il cuore me lo diceva! Vieni, Antao, vieni o sarà troppo tardi!...

— Ma questa donna?...

— A me!... —

Il cacciatore si lacerò la camicia, inzuppò rapidamente un pezzo nell’acqua della fiaschetta, lavò le ferite senza che la giovane guerriera facesse udire un gemito, riunì con lesta mano [26] le carni, le fasciò, poi prese il coltellaccio ed il fucile a pietra e li mise accanto alla donna, dicendo:

— Se qualche animale ti assale, difenditi. Fra breve l’alba sorgerà e non correrai alcun pericolo. Se vorrai attenderci, ti prometto di salvarti.

— Grazie, mio signore, — rispose l’amazzone.

Alfredo stava per lanciarsi attraverso alla foresta, quando si arrestò un istante, poi tornando rapidamente verso la donna, le disse:

— Una domanda ancora. Io avevo lasciato un uomo nella radura vicina, uno de’ miei servi e non l’ho più ritrovato. Sai dirmi cos’è avvenuto di lui?

— È stato preso dai miei compagni.

— Lo hanno ucciso?...

— No, l’hanno fatto prigioniero e condotto via.

— Grazie. Andiamo Antao e più lesti dei cervi. —

I due cacciatori abbandonarono l’amazzone che era ricaduta fra le erbe e si misero a correre per la foresta, seguendo il sentiero che attraversava la radura del grande sicomoro.

Alfredo non rispondeva più alle domande del suo compagno. Tutta la sua attenzione pareva rivolta alla sua fattoria, che in quel momento stava forse per correre un grave pericolo cercava quindi di guadagnare più via che poteva.

Non camminava, correva come un’antilope, sfondando con impeto irresistibile i rami che si allungavano sul sentiero e recidendo, con furiosi colpi di coltello, le liane che gl’impedivano il passo.

Il portoghese, non abituato alle lunghe marcie e tanto meno alle corse prolungate, lo pregava di tratto in tratto d’arrestarsi per concedergli un po’ di respiro, ma il cacciatore invece precipitava sempre più la fuga.

Qualche volta però si fermava, ma per tendere gli orecchi, parendogli forse di udire in lontananza delle urla e delle detonazioni; poi correva più di prima, per riguadagnare i passi perduti.

Ad un tratto s’arrestò, dicendo con voce affannosa:

— Hai udito, Antao?...

— Non odo che il sangue che mi sibila agli orecchi e la mia respirazione disordinata, — rispose il portoghese con voce rotta.

— Mi sembra d’aver udito degli spari....

[27]

— Ma siamo ancora molto lontani dalla tua fattoria?

— Tre o quattro miglia.

— Morte di Nettuno! Tanto da scoppiare, se continui a galoppare in questo modo.

— Odi?... —

Una scarica lontana echeggiò verso il sud, ripercuotendosi distintamente sotto i grandi boschi, seguita poco dopo da spaventevoli vociferazioni.

— Eccoli! — urlò Alfredo. — Assalgono la mia fattoria. Corri, Antao, corri!... Voglio uccidere quel cane di Kalani! —

Entrambi si erano rimessi a correre, facendo appello alle loro forze. Il cacciatore della Costa d’Avorio, il cui volto ordinariamente era così tranquillo, aveva assunto un’aria d’odio feroce, faceva paura.

Colla carabina in pugno, arma terribile in quelle mani, gli occhi scintillanti, i capelli in disordine, avrebbe spaventato qualunque persona che lo avesse incontrato in quella cupa foresta.

— Avanti!... Avanti!... — ripeteva, con voce strozzata. — Me lo rapiscono!... Kalani si vendica, ma lo ucciderò!... —

Intanto le detonazioni continuavano sempre più distinte, rombando sordamente ed a lungo sotto i grandi alberi. Talora erano scariche nutrite che parevano fatte da una compagnia di truppe regolari ed ora invece colpi isolati, poi echeggiavano delle urla che parevano emesse più da belve che da gole umane. Senza alcun dubbio si combatteva con ferocia attorno alla fattoria e gli uomini che l’abitavano si difendevano furiosamente.

Già i due cacciatori non dovevano distare più di due miglia dal luogo della pugna, a giudicarlo dall’intensità degli spari e la grande foresta cominciava a diradarsi, quando verso il sud, al disopra d’una cortina d’alberi, si scorse una viva luce che aveva dei riflessi sanguigni, quindi una gigantesca colonna di scintille che saliva alta alta, come se volesse confondersi cogli astri.

— Un incendio laggiù.... Alfredo! — gridò Antao.

— Lo vedo, — rispose il cacciatore, con accento disperato. — Kalani si è vendicato e mi fugge di mano, ma lo raggiungerò, dovessi andarlo a stanare nel cuore di Abomey. —

Stava per riprendere la corsa, quando un uomo, un negro armato di fucile, che pareva si fosse fino allora tenuto nascosto sotto un fitto cespuglio, gli sbarrò il passo, dicendogli:

— Ove vai padrone?...

[28]

— Tu.... Asseybo!... — esclamò il cacciatore.

— Fermati padrone, laggiù vi è la morte.

— Non temo la morte io, — urlò Alfredo, con esaltazione. — M’hanno incendiata la fattoria?

— Sì padrone e l’hanno saccheggiata.

— E mio nipote?...

— Perduto.

— Gran Dio! Ucciso da Kalani?

— No, rapito.

— Da Kalani?...

— Sì, da lui.

— Sono fuggiti?...

— Stanno ritirandosi.

— Ma posso raggiungere ancora quei ladri.

— Non osarlo, padrone. Sono almeno duecento.

— Maledizione su di loro!... Me l’hanno rapito! Povero fanciullo!... Venite, lo voglio!...

— Alfredo, — disse Antao, arrestandolo. — I rapitori possono ucciderti. Non precipitiamo le cose e cerchiamo di essere prudenti per ora; i tuoi nemici possono attenderti presso le rovine della fattoria. Aspettiamo l’alba, poi vedremo cosa si potrà fare.

— Io non temo nè Kalani, nè i suoi uomini! — gridò Alfredo con furore. — Vieni Antao, vieni Asseybo!... Noi daremo addosso ai rapitori.

— Ma sono molti, padrone e tutti armati di fucili, — disse il negro.

— I miei uomini si uniranno a noi.

— Temo che siano stati tutti uccisi, padrone. Quando sono balzato dalla finestra per non venire bruciato vivo, non ve ne erano che due soli vivi.

— Non importa, siamo in tre e tutti armati. —

Era impossibile trattenere lo sventurato cacciatore, il quale era in preda ad una esasperazione indicibile. Il portoghese, comprendendo che se non l’avesse seguito sarebbe partito solo, si decise a cedere.

— Ebbene, andiamo, — disse, — e guai al traditore. —

Alfredo era già partito correndo, sperando di giungere sul luogo dell’incendio prima della ritirata dei rapitori, ma Antao, accusando una stanchezza estrema causata da quella lunga [29] marcia, lo costringeva di tratto in tratto a rallentare la sua fuga.

Sfinito lo era in realtà, ma contava su quei ritardi per lasciare campo ai dahomeni di ritirarsi, comprendendo che una lotta con quei negri coraggiosi e sanguinari, almeno pel momento, non era opportuna. Quei duecento uomini non avrebbero certo faticato a schiacciare i tre cacciatori, essendo tutti armati di fucile.

Le scariche e le grida erano intanto cessate, ma al disopra degli alberi si vedevano ancora innalzarsi nuvoloni di fumo dai riflessi sanguigni e nembi di scintille che il vento notturno spingeva assai lontane, minacciando di provocare altri incendii nei boschi vicini.

Mezz’ora dopo i due cacciatori ed il negro, lasciata la foresta, giungevano sul margine d’una prateria, in mezzo alla quale, presso un piccolo corso d’acqua, sorgeva la fattoria d’Alfredo.

Un orribile spettacolo s’offerse tosto agli sguardi del disgraziato proprietario e dei suoi compagni.

Del vasto fabbricato e dei suoi magazzini, che poche ore prima contenevano ingenti ricchezze, non rimanevano che poche muraglie annerite dal fumo e degli ammassi di rottami, di sotto ai quali sfuggivano ancora vortici di fumo e delle lingue di fuoco che lanciavano in aria getti di scintille.

Le palizzate che circondavano i fabbricati erano state in gran parte abbattute per lasciare il varco agli assalitori, i cancelli strappati giacevano al suolo, mentre tutto all’intorno si scorgevano casse sventrate, botti sfondate, animali morti e più oltre parecchi cadaveri umani ammucchiati alla rinfusa, che stringevano ancora ferocemente i lunghi e pesanti coltelli, adoperati dai barbari guerrieri del Dahomey.

Alfredo, scorgendo quella desolazione, si era arrestato come fosse stato pietrificato, poi si era lasciato cadere al suolo ripetendo con voce soffocata dai singhiozzi:

— Me l’hanno rapito!... Povero fanciullo!... povero fratellino mio!...

[30]

Capitolo V. L’odio di Kalani

Alfredo Lusarno, catanese, da dieci anni aveva preso stanza sulla Costa d’Avorio. Figlio di uno di quegli arditi negozianti di corallo, che un tempo si spingevano fino sulle coste occidentali dell’Africa per vendere ai negri del Senegal, della Sierra Leone e della Repubblica di Liberia i prodotti dei banchi coralliferi di Sicilia e di Pantellaria, ritraendo grossi guadagni, a ventiquattro anni aveva deciso di abbandonare l’isola natìa e di visitare i paesi che avevano fatto la fortuna del genitore.

Spirito irrequieto, avventuroso, avido di emozioni e soprattutto appassionato cacciatore, non aveva posto indugio ad effettuare il suo disegno. Con poche migliaia di lire in tasca, ma pieno di buona volontà, si era imbarcato sul primo postale in partenza da Marsiglia per le colonie francesi dell’Africa occidentale, visitando successivamente San Luigi del Senegal, Dakar, Free-Town, Monrovia, quindi le diverse cittadelle della Costa d’Oro soffermandosi a lungo a Whydah la stazione più importante e più commerciale di quelle regioni.

Disgraziatamente, o meglio per sua fortuna, un mattino svegliandosi aveva fatti i suoi conti di cassa e si era accorto che i suoi biglietti da mille erano quasi tutti sfumati e che non gli rimanevano che poche dozzine di ghinee ed alcuni risdalleri.

Non si era sgomentato per questo, ma aveva pensato che era giunto il momento di lasciare i viaggi e di ricostruire la sua modesta fortuna, così troppo presto sfumata.

Avendo ormai conoscenza delle lingue parlate sulla costa e cognizioni commerciali sufficienti pei generi che si scambiavano in quelle importanti cittadelle e anche relazioni d’amicizia, era andato a offrirsi ad un portoghese che possedeva una importante fattoria a Porto Novo.

Il bravo portoghese, che aveva avuto occasione di apprezzare l’abilità e l’energia del siciliano, due qualità necessarie in quelle regioni per trafficare e farsi rispettare da quei negri, che sono generalmente ladri e selvaggi, l’aveva subito accolto in qualità di raccoglitore d’olio di elais, articolo importantissimo, [31] ma che richiedeva fatiche non poche, dovendo gli acquirenti spingersi nell’interno per visitare i villaggi negri.

Alfredo Lusarno si era messo a lavorare con infaticabile energia, spingendosi perfino sulle frontiere del selvaggio reame del Dahomey, del Benin, nel regno degli Ascianti, nelle due repubbliche del Piccolo e del Grande Popo, facendo ottimi affari dovunque ed approfittando anche per dare libero sfogo alla sua passione per le grandi caccie.

Due anni dopo il proprietario della fattoria, uno zio di Antao, soddisfatto dell’attività del suo agente lo interessava sugli utili, e quattro anni più tardi il siciliano aveva avuto il piacere di costatare che la sua modesta fortuna sfumata nei viaggi, l’aveva triplicata in mezzo all’olio dei negri.

Nel 1874, morto il proprietario, dopo di aver liquidato ogni cosa e rimesso il ricavato ad Antao Carvalho, legittimo erede, aveva cominciato a trafficare per proprio conto, fondando una fattoria nello stato del re Tofa, accumulando rapidamente una cospiqua sostanza.

Ma allora un ardente desiderio di rivedere la città natia ed il bel cielo d’Italia, l’aveva preso. Si era ricordato d’aver lasciato in patria dei parenti ed una matrigna, causa non ultima della sua decisione di andarsene pel mondo a cercare fortuna, ed un giorno si era imbarcato per l’Europa, affidando la sua prosperosa fattoria ad un amico fidato.

Brutte sorprese l’attendevano in patria. Dei disastri finanziarii avevano rovinato suo padre che era morto di dolore, la matrigna era pure morta poco dopo, ma avevano lasciato un figlio, un bel ragazzino bruno, ardito, somigliante in tutto al fratello, quantunque nato da altra madre e che era stato raccolto da alcuni pietosi parenti.

La città natìa non aveva più attrattive per l’intraprendente emigrato e la sua risoluzione era stata pronta. Aveva preso con sè il fratellino destinato un giorno a diventare suo erede ed erasi affrettato a ritornare nella sua fattoria, deciso a non più lasciarla.

Aveva rivolte tutte le sue cure al fratellino che cresceva prospero e robusto e che amava come fosse il proprio figlio, ma non aveva trascurato però nè i suoi commerci, nè le sue caccie, diventando uno dei più ricchi proprietari della Costa d’Avorio e uno dei più audaci cacciatori, forse il più famoso di tutti.

[32]

La sua felicità ormai era completa e Alfredo, tanto ricco da non aver più bisogno di affaticarsi nei suoi commerci, poteva dedicare le sue giornate alla sua passione favorita in compagnia di Antao, che si era deciso di passare parecchi mesi insieme all’ex agente di suo zio, quando agli ultimi dell’aprile 1878, accaddero inaspettatamente gli avvenimenti precedentemente narrati.

················

La ritirata dei dahomeni era stata così rapida, da far perdere ogni speranza di poterli ormai raggiungere, essendo quasi tutti i negri infaticabili camminatori, tali da poter superare i più lesti europei e da gareggiare perfino coi cavalli.

Uccisi e decapitati i difensori, secondo il loro barbaro uso, rapito il fanciullo, saccheggiata e poi incendiata la fattoria, si erano affrettati a raggiungere i grandi boschi del settentrione, forse per non farsi sorprendere dai guerrieri del re Tofa, sul cui territorio avevano compiuta l’aggressione.

Non avevano lasciato indietro che due dozzine di cadaveri fra i quali alcuni corpi di amazzoni, cadute sotto il piombo dei difensori della fattoria; e delle ricchezze racchiuse nei magazzini non avevano abbandonato che i barili d’olio d’elais, gran numero dei quali erano però stati poi distrutti dal fuoco.

Alfredo, rimessosi dal fiero colpo, si era cacciato fra le fumanti rovine del suo stabile, sperando di poter salvare qualcuno dei suoi fedeli servi che avevano opposto una breve sì ma disperata resistenza, ma non aveva trovato che i loro cadaveri decapitati e mezzo arsi dalle fiamme. I suoi quattro servi che lo seguivano nelle caccie, il suo intendente ed i suoi sei schiavi erano caduti tutti al loro posto, difendendo il padroncino.

— Miserabili!... miserabili!... — ripeteva il povero siciliano, con voce cupa. — Tutto distrutto, tutti uccisi e il mio Bruno rapito!... Cosa accadrà del povero fanciullo, nelle mani di quei barbari?... Ma cos’è che vuol fare di lui quell’infame Kalani?... Si è vendicato finalmente quel tristo, ma lo ucciderò un giorno, dovessi andarlo a cercare ad Abomey.

— Coraggio mio povero amico, — diceva Antao. — Lo libereremo un giorno e puniremo quell’uomo che ti ha rovinato. Metto a tua disposizione il mio braccio e le mie ricchezze.

 
La negra vi fu coricata ed Alfredo e il servo si misero in cammino.... (Pag. 38).

— Non è delle ricchezze che io ho bisogno, Antao, ma del tuo braccio. Questa fattoria non rappresentava che la decima [33] parte della mia fortuna e non m’importa che l’abbiano distrutta, ma il mio fratellino.... Antao, io fremo pensando cosa possono fare di quel poverino, incapace a difendersi.

— Udiamo, Alfredo, — disse il portoghese, sedendosi su di un barile e costringendo l’amico ad imitarlo. — Sii calmo e ragioniamo per vedere cosa ci convenga fare. I rapitori ormai sono lontani e non potremo di certo raggiungerli, quindi è inutile per ora metterci sulle loro tracce. Fors’anche hanno preso le loro misure per impedirci di seguirli e non siamo in grado di cimentarci in un combattimento contro di loro, specialmente in mezzo ai boschi.

— Lo so, Antao. Nulla potremmo ottenere inseguendoli.

— Consigliamoci adunque, ma dimmi innanzi a tutto a che cosa si deve attribuire quest’assalto improvviso.

— Ad una vendetta di Kalani.

— Ma chi è questo dannato Kalani, che odo nominare per la centesima volta?

— Due anni or sono era un servo ed ora è uno dei più potenti cabeceri del Dahomey.

— Sta bene, è un furbo che in due soli anni ha fatto un bel salto, una fortuna che sarebbe sorprendente in Europa ma non in Africa. Perchè ti odiava?...

— L’avevo preso come servo, perchè era un negro scaltro, intelligente, energico e credevo anche affezionato, quantunque più tardi fossi stato informato che invece di essere un nativo del Gran Popo, era un dahomeno. Essendomi accorto che mi rubava, minacciai di scacciarlo, ma continuando, un giorno, acciecato dall’ira, lo feci frustare.

Una settimana dopo Kalani improvvisamente scompariva, dopo d’aver detto ad uno dei miei servi che sarebbe ritornato per vendicarsi. Non ne feci caso ed ebbi torto.

Quel furfante, ritornato nel Dahomey, si era accaparrata la fiducia di alcuni capi, poi del re Geletè ed era stato creato, non so per quale motivo, gran cabecero di Abomey, ossia gran capo e grande sacerdote dei sacrifici umani e dei feticci.

Un giorno, un negro che veniva da Abomey, mi fece avvertire che Kalani era sempre smanioso di vendicarsi; più tardi un altro mi consigliava di tenermi in guardia, poichè il mio servo tentava d’indurre Geletè a fare una spedizione contro Tofa per farmi schiavo, aggiungendo che era spalleggiato dal [34] principe Behanzin, il futuro re del Dahomey‍[2], ma non credetti nè all’uno nè all’altro. Pur troppo era vero!... Lo hai veduto ora, Antao.

— Ma cosa ne farà di tuo fratello, quel furfante?...

— Lo ignoro, ma sospetto a cosa mira Kalani.

— Spiegati.

— Non avendo potuto farmi assassinare o farmi prigioniero, ha preso il mio piccolo Bruno ritenendosi certo che io sarei andato nel Dahomey per liberarlo.

— Credi che non lo uccidano?... Sono così sanguinarii quei negri?...

— Non lo credo. Se avessi questo timore, non sarei rimasto qui ma mi sarei subito lanciato sulle tracce dei rapitori e....

— E t’avrebbero ucciso, Alfredo.

— Lo so, ora lo vedo. Ma non abbandonerò mio fratello, Antao, te lo giuro: io andrò ad Abomey.

— Ed io verrò con te.

— Grazie amico, — disse il cacciatore, stringendo vivamente la mano del bravo portoghese. — Ti accetto, poichè so che sei un valoroso.

— Ma non possiamo recarci noi due fra quei negri feroci. Cosa conti di fare?...

— Recarmi prima dal re Tofa. I dahomeni hanno violate le sue frontiere e potrebbe prestarmi man forte per vendicarmi di Kalani.

— Vuoi un consiglio, Alfredo?

— Parla, Antao.

— Innanzi a tutto andiamo a ritrovare l’amazzone che abbiamo lasciata nella foresta. Quella donna, che non mi è sembrata così cattiva come le sue compatriote, può esserci molto utile.

— È vero!... — esclamò il cacciatore, battendosi vivamente la fronte. — Ed io me l’era dimenticato!... Sì, Antao, andiamo a cercarla; può darci delle preziose informazioni sui tristi progetti di Kalani.

— Andiamo, — disse il portoghese, alzandosi.

— Ma tu sei stanco, mio bravo amico. Non sei ancora abituato [35] alle lunghe marcie fra queste foreste così difficili ad attraversare.

— Morte di Saturno!... Le mie gambe mi porteranno egualmente, e poi, lasciarti andare solo, mentre forse i dahomeni ti attendono per cacciarti due palle nel petto?... Andiamo, Alfredo!... Guarda!... Le mie gambe funzionano perfettamente. —

Il cacciatore, che sapeva quanto valeva quel bravo compagno, non insistette oltre e si misero entrambi in marcia, preceduti dal negro Asseybo, che aveva piena conoscenza delle vicine boscaglie e del fiume che le attraversava.

L’alba era già spuntata ed il sole sorgeva fiammeggiante dietro le alte cime delle foreste che si estendevano ad oriente dell’Ouzme.

Bande di pappagalli grigi cominciavano a schiamazzare sulle alte cime dei mangani e degli aranci, salutando i primi raggi dell’astro diurno, mentre fra i fitti cespugli, certe specie di usignoli ma dalle splendide penne, facevano udire i loro gorgheggi armoniosi.

Delle truppe di scimmie si stiravano le membra indolenzite, emettendo grida rauche e discordi, mentre altre, più mattiniere, avevano già cominciati i loro saccheggi, spogliando con rapidità inaudita i banani ed i datteri delle loro deliziose e zuccherine frutta, o distruggendo le piccole piantagioni di mussoa dal piccolo grano verde ed eccellente o di ignami coltivate dai poveri negri della distrutta fattoria.

Quei formidabili predoni, vero flagello delle terre africane, quasi sapessero già che più nulla avevano da temere, non si preoccupavano della presenza dei tre uomini, anzi pareva che li deridessero, facendo loro boccacce e scagliando dietro di loro le frutta guaste.

Erano per lo più cercopitechi verdi, chiamati anche abulandj, quadrumani alti circa mezzo metro, ma con una coda lunga sessanta e più centimetri, dal pelame verde grigio inanellato di nero superiormente, la coda azzurrognola, il muso bruno ma col naso nero ed il mento adorno d’una vera barba bianca che dà loro un aspetto dei più comici e dei più stravaganti.

Non mancavano però i cefo, altra specie di cercopitechi, assai numerosi sulla Costa d’Avorio dove vengono chiamati muindo, alti quanto i primi, ma col dorso olivastro a riflessi dorati, la faccia azzurra colla barba gialla solcata di nero e la coda rossastra. [36] Visti ad una certa distanza sembravano vere maschere e salutavano i cacciatori con abbaiamenti interminabili, alternati a certi strani suoni paragonabili al rumore che produce una bottiglia quando viene stappata violentemente. Quantunque il portoghese, pure appassionato cacciatore, avesse un vivo desiderio di cacciare quei numerosi quadrumani che sono tutt’altro che cattivi messi allo spiedo, continuava a seguire i compagni i quali affrettavano il passo per mettersi al riparo dai raggi cocenti del sole, che in quelle regioni producono sovente delle insolazioni fulminanti.

Giunti sotto i grandi boschi, Alfredo si orientò colla bussola che portava appesa alla catena dell’orologio e trovato il sentiero che conduceva al fiume, vi si lanciò in mezzo, non essendo possibile un passaggio attraverso i fitti vegetali che lo fiancheggiavano.

Procedeva però con prudenza, temendo che i negri che l’avevano assalito presso le rive del fiume, non avessero ancora abbandonati quei boschi. Di tratto in tratto s’arrestava per tendere gli orecchi o mandava innanzi Asseybo a esplorare certi macchioni che si prestavano per un agguato, oppure deviava quando trovava qualche altro passaggio.

Tutto però indicava che la grande foresta doveva essere deserta. Gli uccelli cantavano tranquillamente e le scimmie si trastullavano sugli alberi senza dare segni d’inquietudine e ciò indicava che nessuno li aveva disturbati.

Alle 10 del mattino, dopo una breve sosta e un’ultima esplorazione del negro, Alfredo ed il portoghese giungevano presso il gigantesco sicomoro sotto il quale avevano trovato il cappello del povero Gamani, il servo rapito dai dahomeni.

— Ci siamo, — disse Antao.

Alfredo accostò le mani alle labbra e lanciò un fischio prolungato. Quasi subito, in mezzo al bosco, si udì una voce di donna gridare:

— Eccomi padrone!... —

[37]

Capitolo VI. I tenebrosi disegni del cabecero di Geletè

La giovane guerriera, quantunque così malconciata dagli artigli e dalle zanne del leopardo, aveva abbandonata la piccola radura che si trovava a tre o quattrocento passi dalla prima e si era trascinata verso il gigantesco sicomoro, nascondendosi in mezzo ad un fitto macchione che sorgeva sul margine del bosco.

Udendo il fischio dell’uomo bianco che l’aveva salvata dalla morte, si era affrettata ad abbandonare il nascondiglio ed a mostrarsi all’aperto. Quello sforzo doveva però averle causato un acuto dolore, poichè non potè frenare un lungo gemito.

— Non temere ragazza, — disse Antao, avvicinandosele. — Noi ti guariremo, è vero Alfredo?

— Sì, — disse il cacciatore, — ma a condizione che parli. —

Poi parlando la lingua dei uegbè, disse all’amazzone:

— Noi siamo venuti per curarti.

— Grazie, padrone, — rispose la negra. — Sapevo che gli uomini bianchi non sono usi a mentire e come vedi t’aspettavo, mentre avrei potuto fuggire coi miei compatrioti.

— Coi tuoi compatrioti!... Sono tornati qui?...

— Sì, hanno perlustrata tutta la foresta, sperando forse di trovarti.

— E tu ti sei nascosta invece?...

— Sì, padrone.

— Perchè?...

— Perchè tu mi hai salvata la vita e sono tua schiava.

— E mi seguirai sempre?...

— Dove tu vorrai.

— E mi sarai fedele?...

— L’ho giurato sui miei feticci.

— Lo vedremo. —

Poi volgendosi verso il suo servo:

— Taglia dei rami e improvvisa una barella. Questa donna per ora non può camminare. —

Quindi scoprì le ferite dell’amazzone che alla notte aveva medicate alla meglio, le lavò accuratamente con dell’acqua fresca [38] che scorreva in un rigagnoletto vicino, le lavò dal sangue che vi si era coagulato intorno, poi le bagnò con acqua mescolata a rhum e finalmente le fasciò, sacrificando la seconda manica della propria camicia.

La giovane negra lo aveva lasciato fare senza emettere un lamento, anzi sorridendo, quantunque dovesse soffrire assai e quand’ebbe finito, gli disse:

— Grazie padrone; la mia vita, da te salvata, ormai t’appartiene. —

Asseybo aveva allora terminata la barella composta di rami legati con liane e resa soffice da un alto strato di fresche foglie. La negra vi fu coricata ed Alfredo ed il servo si misero in cammino, preceduti dal portoghese, il quale era troppo stanco per caricarsi di quel peso.

— Camminando possiamo parlare, — disse il cacciatore. — Guadagneremo tempo.

— Cosa vuoi sapere padrone? — chiese la negra, che lo guardava con due occhi che rilucevano di gioia e di contentezza.

— Dimmi, innanzi a tutto: è potente Kalani?...

— Potentissimo, padrone. È l’anima dannata di Behanzin, il successore di Geletè.

— È stato lui a organizzare la spedizione contro di me?...

— Sì e l’ha anche guidata.

— Lo sospettavo. Sai che ha rapito mio fratello e che mi ha distrutta la fattoria?...

— Sapevo che doveva rapire un fanciullo se i suoi soldati non riuscivano a prendere te.

— Ah!... Lo sapevi?... — esclamò Alfredo.

— Sì, perchè Kalani aveva detto che gli era necessario, quel fanciullo.

— Ma per cosa farne di quello sventurato?...

— So che aveva detto a Geletè che i feticci esigevano un ragazzo bianco per essere guardati, minacciando in caso contrario la distruzione del regno e della dinastia.

— E non lo si ucciderà?... — chiese Alfredo, con angoscia.

— No, non crederlo, perchè un guardiano dei feticci diventa una persona sacra. —

Il cacciatore respirò liberamente, come gli si fosse levato dal petto un peso enorme.

— Non lo uccideranno? — esclamò. — Tu sei certa?...

[39]

— Sì, padrone.

— Ma credi tu che quel ragazzo fosse proprio necessario ai feticci?... O che invece quel miserabile Kalani abbia qualche sinistro progetto?...

— Lo ha, — disse la negra. — Io conosco assai Kalani, so il motivo del suo odio verso di te e non ignoro i suoi progetti.

— Parla, ti prego.

— Kalani aveva la certezza di non poterti sorprendere, sapendoti un uomo capace di tenere testa a cento dei nostri uomini. Credo che avesse anzi molta paura di trovarsi di fronte a te. Da due settimane ti sorvegliava, ma non osava assalirti. Avendo appreso che tu dovevi recarti alla caccia sull’Ouzme, approfittò per assalire la tua fattoria e rapirti il fratello, affidando ad alcuni uomini coraggiosi l’incarico di tenderti un agguato in mezzo ai boschi.

— Ma era me che odiava e non quel povero ragazzo. Perchè prendersela con lui?...

— Per avere poi te.

— Cosa vuoi dire?...

— Kalani è astuto, padrone. Egli sa che non sei uomo da lasciare tuo fratello nelle sue mani.

— E mi aspetta nel Dahomey?

— Sì, padrone.

— Ha indovinato. Sì, io andrò nel Dahomey a salvare il mio Bruno, ma andrò anche per uccidere il rapitore.

— Bada, padrone, alla frontiera ti aspetteranno.

— Ma non mi vedranno.

— Cosa vuoi dire?

— Lo saprai più tardi. Prima bisogna che vada a vedere Tofa. —

Due ore dopo, avendo fatte alcune soste per riposarsi, giungevano ad un gruppo di capanne abitate da una dozzina di negri fra uomini e donne, i quali avevano già avuto frequenti rapporti colla fattoria d’Alfredo.

Avevano già saputo della disgrazia toccata all’uomo bianco, anzi avevano udite le scariche degli assalitori ed avevano vedute le fiamme dell’incendio, senza però ardire di accorrere in aiuto degli assaliti, essendo quasi sprovvisti d’armi e temendo troppo i dahomeni.

Alfredo ed i suoi compagni furono accolti con franca e cordiale [40] ospitalità e tutti gli abitanti andarono a gara per essere loro di qualche utilità, mettendo a disposizione le capanne ed i viveri.

Il cacciatore si limitò a far ricoverare la povera ragazza che soffriva assai, raccomandandola alle cure delle donne, poi chiese tre di quei piccoli ma rapidi cavalli che sono piuttosto comuni in quelle regioni e che derivano da un incrocio di cavalli arabi e delle alte regioni del Niger.

Rifocillatisi con una terrina di fu-fu, il piatto più in uso sulla Costa d’Avorio, composto d’ignami, di banani, di legumi, di granchi, di uccelli e di pesci conditi con molto pimento e ridotti in poltiglia e rinvigoritisi con alcune tazze di eccellente vino di palma fermentato, i due bianchi ed il negro Asseybo, che era tornato dalla fattoria portando ai padroni, alcune vesti trovate in uno dei magazzini, partirono al galoppo, non ostante il calore infernale che versava il sole.

Antao, messo in buon umore da quel vino che produce una leggera ebbrezza anche preso in quantità limitata, pareva che non sentisse più la fatica e chiacchierava per due, cercando di tenere buona compagnia ad Alfredo che era diventato triste e assai preoccupato.

Anche il negro cercava d’incoraggiare il padrone, assicurandolo che nessun pericolo poteva correre il padroncino, essendo le persone addette ai feticci sacre per tutti, perfino all’onnipotente re. Nella sua gioventù era stato schiavo ad Abomey e ne sapeva qualche cosa di quel sanguinario ma molto superstizioso popolo.

Intanto i piccoli ma vivaci cavalli divoravano la via, mantenendo un galoppo rapidissimo. Si erano cacciati in un largo sentiero aperto in mezzo ai boschi, fatto tagliare da Alfredo per trasportare i prodotti della sua fattoria a Kotona che è il porto della capitale del piccolo reame di Tofa.

Superbi alberi si rizzavano a destra ed a sinistra, gli uni pieni di uccelli, specialmente di piccoli pappagalli grigi e gli altri di scimmie, le quali eseguivano i più sorprendenti esercizi, senza punto spaventarsi del passaggio dei tre rapidi corsieri. Ora apparivano enormi gruppi di splendide palme dalle gigantesche foglie disposte a ventaglio; ora magnolie colossali coperte di grandi fiori dall’acuto profumo, o noci di cocco dall’elegante fusto e già carichi di frutta grosse come la testa d’un bambino; [41] o dei gossipina, veri giganti, che crescono con rapidità straordinaria, che diventano assai grossi e che hanno il tronco coperto di gibbosità spinose, o macchioni di aranci e di limoni che spandevano all’intorno, per parecchi chilometri di circuito, dei profumi deliziosi.

Di tratto in tratto si scorgevano però delle radure di estensione considerevole coltivate con grande cura e dove crescevano ignami, manioca, fagiuoli di varie sorte, certe specie di pomidori assai gustosi e di quelli steli di grano verde, delizioso, chiamato mussoa.

Quando la grande boscaglia si rompeva, permettendo agli sguardi di spaziare più oltre, si vedevano gruppi di capanne difese per lo più da palizzate acuminate o da altissime siepi, rinforzate da datteri spinosi o da gossipine, ostacoli quasi insormontabili pei negri di quelle regioni che vanno quasi nudi e che non hanno mai conosciuto l’uso delle scarpe.

Verso il mezzodì le foreste cominciarono a diradarsi rapidamente per dar luogo a delle pianure acquitrinose formate dall’Ouzme, esalanti miasmi mortali per gli europei non abituati a quei climi caldi e umidi, sede d’un numero infinito di serpenti i quali godono una tranquillità perfetta, essendo rispettati da tutti gl’indigeni.

Sono però inoffensivi, sebbene siano generalmente lunghi tre metri e si limitano a distruggere milioni di rospi e di rane, evitando anzi gli uomini.

In mezzo a quelle pianure acquitrinose si vedevano anche dei campi coltivati con cura, ma poche capanne, essendo il regno di Porto Novo pochissimo abitato in proporzione alla sua vastità.

Un’ora più tardi i tre cavalli, che non avevano mai rallentato il loro galoppo indiavolato benchè il sole segnasse oltre 35° centigradi e non un alito di vento marino rinfrescasse quella temperatura ardente, galoppavano sulla riva del lago di Porto Novo. Alfredo poco dopo mostrava al portoghese un grosso attruppamento di capanne che si trovava presso la riva di quel vasto bacino.

— Porto Novo, — disse.

— Questi indemoniati cavallucci hanno galoppato come dei veri cavalli arabi, — rispose il compagno. — Speriamo di trovare il re di buon umore.

[42]

— Se non sarà ubbriaco.

— È un bevitore?

— Come tutti i re negri.

— Ho con me una fiala d’ammoniaca per preservarmi dai morsi dei serpenti e gliela farò bere tutta, — disse Antao, ridendo. — Gli dirò che è un elisir lunga vita. Toh! Cos’è quella grande capanna che sorge lassù, su quel piccolo poggio? Forse qualche villa reale?

— No, Antao, è un tempio ove si adorano i serpenti che vengono raccolti negli acquitrini da noi prima costeggiati.

— Morte di Nettuno!... Avevo udito narrare queste cose, ma non vi avevo mai prestato fede, Alfredo. Se non me lo avessi detto tu, direi che si voleva darmi a bere una frottola colossale.

— In queste regioni si ha una grande venerazione per quei ributtanti rettili, Antao. A Whydab, per esempio, vi è un grande tempio dove si custodiscono parecchie migliaia di serpenti, per lo più pitoni a righe bianche o gialle.

Un grosso numero di guardiani è incaricato di nutrirli e di curarli, e quando qualcuno di quei rettili riesce a fuggire, i suoi provveditori si affrettano ad inseguirlo ed a riportarlo nel tempio coi dovuti riguardi.

— Si direbbero storie dell’altro mondo. E tu mi dici che si adorano?...

— Sì, Antao. Vi sono delle persone che dichiararono di essere contentissime di venire divorate dai serpenti. Vuoi saperne di più?... Una donna che io ho conosciuta, un giorno perdette il suo unico figlio che le era stato divorato da un pitone. Ebbene, lo crederesti?... Invece di uccidere l’ingordo rettile, lo fece prendere, trasportare nel tempio di Whydab e lo adorò.

— Morte di Saturno! Che pazzìe!... E nel Dahomey si adorano pure i serpenti? Mi hanno detto che quel re barbaro ne tiene delle migliaia.

— È vero, ma per dare da mangiare a loro i prigionieri.

— Un modo molto comodo per evitare le spese necessarie pel nutrimento di quei disgraziati che cadono nelle mani di quell’antropofago.

— Lo sanno i tuoi compatrioti, Antao.

— Cosa vuoi dire?... — chiese il portoghese, stupito ed inquieto.

— È una storia recentissima poichè non risale che all’anno [43] scorso. Geletè aveva fatti prigionieri alcuni portoghesi e brasiliani, i quali si erano recati nella sua capitale per cercare di avviare dei commerci con quegli abitanti. Quel furfante finse dapprima di fare loro buona accoglienza, ma un brutto giorno, dopo d’averli, con orribili minaccie, costretti a ballare dinanzi a lui per divertirlo, alcuni li fece decapitare ed altri gettare in pasto ai serpenti.‍[3]

— Ah!... Canaglia!... — esclamò Antao, indignato. — E non sono stati capaci di strangolarlo?...

— Se lo avessero potuto l’avrebbero fatto, liberando in tal modo l’Africa d’uno dei suoi più ributtanti e più sanguinari monarchi.

— Morte di Urano!... Se potessi vendicarli io, mentre tu ti vendichi di Kalani.

— Ne succederebbe un altro e forse più feroce: Behanzin, che già promette di essere peggiore di Geletè. Ci siamo: avanti Asseybo, aprici la via. —

Il negro si spinse innanzi ed i tre cavalieri fecero la loro entrata nella capitale del re Tofa.

Capitolo VII. Il re di Porto Novo

Il regno di Porto Novo, sottoposto ora al protettorato della Francia, anche in quell’epoca era uno dei più importanti e dei più ricchi della Costa d’Avorio.

Situato fra il territorio di Abeokuta e le frontiere meridionali del Dahomey, occupava una superficie immensa sebbene non definita verso il nord, ma non aveva che una popolazione di mezzo milione di abitanti dei quali oltre sessantamila raggruppati nella capitale.

Gli altri si trovavano dispersi nelle tre principali città di Ketenou, Adjara e di Kotonu, il porto della capitale, lontano circa quindici miglia da Porto Novo e in pochi grossi villaggi [44] per poter meglio difendersi contro le annuali scorrerie dei Dahomeni, intraprese contro tutti i popoli vicini per fornirsi di schiavi da sgozzare nei sacrifici umani.

Questo reame è molto antico e si è mantenuto indipendente, quantunque rinserrato fra popolazioni bellicose, e quantunque i suoi abitanti derivanti da un incrocio di Anago, di Yoruba e di Dahomeni, non siano mai stati buoni guerrieri. Anzi si può dire che sono i più indolenti, i più pigri di tutti quelli che popolano la Costa, come sono i più ladri di tutti, vizio del resto innato nelle razze negre.

Da molti anni, numerose fattorie, specialmente portoghesi, inglesi, francesi e tedesche sono state fondate nei centri popolosi, trafficando soprattutto in olio d’elais, l’articolo più importante e più pregiato della regione.

La città di Porto Novo, anche nel 1878 era una delle più importanti di tutta la costa, ma era anche allora una delle più insalubri, specialmente per gli europei.

Sebbene costruita a circa quindici metri sul livello della vicina laguna, il suo clima è uno dei più micidiali, non permette un lungo soggiorno agli uomini di razza bianca.

La città è un ammasso di capanne costruite con una specie d’argilla rossastra che seccandosi acquista una consistenza incredibile, ma coi tetti di foglie di palma. Le vie sono strette, luride, interrotte da buche profonde, prendendosi l’argilla occorrente per le costruzioni, appunto entro la cinta.

Di notevole non ha che i quartieri commerciali di Sadogo, di Attakè, di Degue, di Lodja e di Bocu dove si trovano parecchie fattorie, la missione cattolica e la casa del re.

I tre cavalieri, apertosi il passo fra una moltitudine di persone d’un nero rossastro, quasi nude, non avendo che un misero e lurido sottanino, infilarono la via che conduceva alla grande piazza del mercato, in mezzo alla quale è costruita l’abitazione di Tofa.

Erano però costretti a procedere con prudenza per non cadere entro le innumerevoli buche che tagliavano la via, tutte piene d’acqua corrotta nella quale imputridivano carogne d’animali esalanti degli odori sopportabili solamente pei nasi dei negri.

Un quarto d’ora dopo giungevano senza incidenti sulla grande piazza, già ingombra di popolo, tenendosi colà il mercato e si arrestavano dinanzi alla reggia.

[45]

Il palazzo del re non era che una modesta casetta bianca colle persiane verdi, circondata da vaste capanne di paglia e di foglie di palmizio, e da cortili grandissimi dove si custodivano i feticci ossia gli idoli.

Solo di dietro s’innalzava una specie di palco assai alto, sostenuto da pali adorni di piante arrampicanti e sul quale si trovavano allineati una cinquantina di crani umani appartenenti ai nemici uccisi in guerra dal re.

— Che esposizione! — esclamò Antao, facendo un gesto di ribrezzo. — Non è di certo incoraggiante.

— Tofa non è più cattivo, — disse Alfredo. — Nel suo Stato ha abolito i sacrifici umani.

— Non uccide più adunque?

— Sì, ma solamente i condannati a morte, ai quali fa tagliare prima la lingua, onde non possano raccontare quale pena hanno subìto.

— Ed ai suoi feticci non sacrifica più schiavi?

— No, si accontenta ora di pecore e di montoni. —

Lasciati i cavalli e le armi ad Asseybo, i due europei avvertirono le sentinelle che vegliavano alla porta, armate di vecchi fucili a pietra, di annunciare al re la loro visita.

Poco dopo un larry, specie di ministro della casa reale, li introduceva nella sala chiamata pomposamente del trono, la quale altro non era che una modesta stanza adorna di armi più o meno vecchie e di pochi tappeti logori.

Il trono non mancava però ed era formato da quattro pali sostenenti una specie di cupola sormontata da una corona reale di ottone e adorna d’una grande placca di metallo ove stava inciso king Tofa (re Tofa).

Al disotto di quella cupola, una semplice panca coperta d’un drappo rosso sgualcito e rattoppato, serviva di sedile a S. M. negra.

Tofa vi si era già accomodato, mentre ai suoi fianchi si tenevano ritti il mingau o grande capo dei feticci, il primo larry che disimpegna l’ufficio di segretario ed il secondo larry che è incaricato di portare il bastone reale col pomo d’argento, segno di potere.

Tofa non aveva in quell’epoca che quaranta o quarantacinque anni. Era un negro di statura alta, ancora robusto, coi tratti del viso piuttosto regolari, con due occhi vivi ed intelligenti.

[46]

Discendente d’una dinastia di re molto potenti, ma tributari del Dahomey, era stato il primo a rendersi indipendente e dopo d’aver scacciati e fatti in parte decapitare i suoi vecchi consiglieri, nemici acerrimi della razza bianca, aveva aperto il suo porto e la sua capitale al commercio europeo.

Più intelligente degli altri e meno barbaro, aveva a poco a poco accordata una certa libertà al suo popolo, ed aveva abolito, come dicemmo, gli orribili sacrifici umani che distruggevano buona parte dei suoi sudditi.

Abituato a ritenere gli uomini bianchi come di razza superiore, vedendo entrare Alfredo, che in altre occasioni aveva già conosciuto, s’affrettò ad alzarsi, lasciando ricadere la lunga veste di seta rossa che lo copriva come un ampio mantello e gli porse la mano, dicendogli cortesemente:

— Sono ben felice di rivederti dopo una così lunga assenza. Quale motivo ti conduce a Porto Novo? Forse che ti occorre il permesso di fondare qualche altra fattoria?

— No, — rispose Alfredo. — Un motivo ben più grave ha indotto me ed il mio amico Antao Carvalho a visitare V. M. Sapete che le vostre frontiere sono state violate?...

— No, ma è una cosa che succede così di frequente, da parte dei malvagi popoli che circondano il mio regno, da non preoccuparmene più. So che dopo d’aver fatta qualche razzìa di uomini e di animali si ritirano.

— Ma questa volta sono state le genti del Dahomey. —

Il re, nell’apprendere quella notizia, si fece più oscuro in viso e manifestò una viva inquietudine.

— Forse che Geletè vuole muovermi guerra?... — chiese con una certa trepidanza.

— Non a te, ma l’ha mossa a me. I suoi guerrieri hanno saccheggiata e poi incendiata la mia fattoria.

— Ciò è grave. Si sono ritirati poi?...

— Sì, subito.

— Ecco una buona notizia, — disse S. M. negra, respirando liberamente.

— Per Voi, ma non per me, poichè ritirandosi mi hanno rapito il mio giovane fratello.

— Mi rincresce per te.

— Ma non basta che vi rincresca, — disse Alfredo con voce [47] acre. — Sono venuto perchè V. M. mi aiuti a liberare mio fratello.

— Ed in qual modo?

— Mandando dei messi a Geletè, minacciandolo di rappresaglie in caso di rifiuto. A V. M. spetta vegliare sugli stranieri che risiedono nel vostro regno.

— Ma io non ho alcuna influenza su Geletè.

— Siete parenti, poichè entrambi discendete da principi d’Allada, fondatori del regno di Dahomey.

— Geletè non mi ascolterebbe.

— Lo si minaccia.

— Sono un povero re incapace di far fronte al Dahomey, — disse Tofa, sospirando.

— Adunque non posso contare sul vostro aiuto?... — disse Alfredo, la cui collera cresceva dinanzi alla tranquilla indifferenza del re.

— Ohimè!... Nulla posso fare, fuorchè cercare d’indennizzarti del danno sofferto.

— Non so cosa farne del vostro indennizzo. È mio fratello che voglio salvare, mi comprendete?...

— Geletè è potente.

— E voi siete pauroso.

— Il mio palco è pieno di crani di nemici da me uccisi.

— Ma Geletè vi fa tremare.

— Sono un povero re, — piagnucolò Tofa.

— Ebbene, andrò io nel Dahomey!...

— E Geletè ti farà uccidere come i portoghesi.

— Concedetemi almeno una scorta.

— Nessuno dei miei soldati ti seguirebbe.

— Sì, a Porto Novo non vi sono che dei poltroni, — disse Alfredo con amarezza. — Vieni Antao, abbiamo perduto del tempo inutilmente. —

Il re vedendo che il cacciatore stava per lasciarlo senza degnarsi di rivolgerli più la parola, forse toccato dal dolore e dalla collera di lui, si era prontamente alzato, dicendo:

— Ma aspetta adunque. Il Dahomey non fugge.

— Cosa volete dire? — chiese Alfredo, che era già giunto presso la porta.

— Udiamo: cosa vuoi fare nel Dahomey?

— Eh per mille folgori!... Ve l’ho già detto che voglio salvare mio fratello.

[48]

— Conosci la via che conduce ad Abomey?

— No, ma la troverò.

— Odimi: dandoti dei soldati, il secondo o terzo giorno ti abbandonerebbero, di ciò sono certo, ma ora mi sono ricordato di avere fra i miei schiavi due uomini del Dahomey che potrebbero servirti di guida.

— Ecco che cominciate a interessarvi di me. Sono fidati questi uomini?

— Mi sono affezionati ed hanno da molti anni rinnegata la loro patria.

— Dove sono?

— A Ketenou, ma domani saranno qui.

— Aspetterò che vengano.

— Intanto ti offro ospitalità in una delle mie capanne.

— Accetto volentieri e saprò ricompensare V. M.

— Ci rivedremo domani. —

Strinse la mano ad Alfredo ed al portoghese e si ritirò con tutto il seguito.

Poco dopo però un larry entrava e conduceva i due bianchi in una vasta capanna situata in uno degli spaziosi cortili del palazzo reale, mettendo a loro disposizione due giovani schiavi incaricati di servirli.

Quell’abitazione era, come tutte le altre di Porto Novo, di forma circolare, colle pareti d’argilla rossastra ed il tetto di foglie di palma, di forma acuminata e un po’ sollevato, in modo da lasciar entrare la luce.

Era però pulitissima, ma arredata molto meschinamente, non essendovi che poche stuoie di foglie intrecciate che dovevano servire da letti, qualche sgabello e pochi utensili di terra cotta.

Il larry, per ordine del re, aveva fatto portare dei viveri, dei vasi di vino di palma ed un certo numero di deliziose noci di cocco non ancora mature, le quali contengono un’acqua dolce, assai gradevole, specialmente in quei climi caldissimi.

Antao, a cui le emozioni della notte non avevano diminuito l’appetito dei suoi venticinque anni, appena il larry fu uscito, si credette in dovere di dare uno sguardo ai canestri che racchiudevano i viveri, tanto più che non aveva piena fiducia nei cuochi e nei provveditori di S. M. negra.

 
Nel volgersi per appendere la carabina all’arcione, Alfredo vide due negri.... (Pag. 51).

Infatti Tofa non aveva tenuto conto della qualità di bianchi dei [49] suoi ospiti, e li aveva provvisti di un pranzo copioso bensì, ma assolutamente indigeno.

Vi era un pezzo di proboscide d’elefante cucinato al forno, carne che si vende di sovente sui mercati delle città della Costa d’Avorio, essendo nell’interno assai numerosi quegli enormi pachidermi; una coscia di scimmia arrostita nel burro; delle lumache grigie assai grosse, cucinate in una salsa orribilmente piccante, cibo assai ricercato e molto apprezzato presso quei popoli, specialmente dai vicini Ascianti, nella cui capitale Cumassia se ne consumano per cinquecento chilogrammi al giorno; poi vi erano parecchie dozzine di atrapas, pallottole di farina di granturco avvolte in foglie e cucinate al forno e finalmente vi erano parecchie terrine ricolme di canalu, orribile pasticcio formato di volatili conditi con olio di palma e molto pimento, esalante un odore sgradevole di materie rancide.

— Ma questo è un pasto d’antropofaghi! — esclamò il portoghese, arretrando dinanzi alle esalazioni pestifere del canalu. — Quel furfante di re ci ha presi per due mendicanti.

— T’inganni, Antao, — disse Alfredo, sorridendo. — Tofa ci ha mandato quanto di meglio produce il paese e lui, alla sua tavola reale, non si fa servire di più! Lascia andare il canalu che non è adatto pei nostri stomachi e le lumache in salsa che sarebbero però squisite, se non fossero state condite con una manata di pimento che ti brucierebbe la gola per una settimana e anche la coscia di scimmia, buonissima ma che rassomiglia troppo ad un membro umano e attacca il resto. Questo pezzo d’elefante lo troverai più saporito della coscia di bue o della gobba dei bisonti e le atrapas surrogheranno benissimo il pane.

— Il pranzo si riduce a modeste proporzioni, ma lo inaffieremo con una zucca di vino di palma. È un liquido che apprezzo quanto il succo del vecchio Noè.

— Accomodiamoci ed intanto faremo i nostri progetti.

— Per andarcene nei paesi di quell’antropofago di Geletè?

— Sì, Antao. Ormai sono deciso e pronto a tutto.

— Purchè il re ci mandi le guide.

— Tofa è uomo di parola e poi abbiamo l’amazzone.

— Vuoi condurla con noi?...

— Certo, Antao. Quella ragazza, che ormai sembra affezionata a noi, può renderci dei preziosi servigi nel suo paese.

— Non ci tradirà?...

[50]

— Ha giurato sui suoi feticci e questo giuramento non si rompe in questi paesi. Non credere del resto, che i soldati del Dahomey siano affezionati al loro sanguinario monarca. La paura li tiene soggetti, perchè sanno che basterebbe un sospetto per distruggere dei reggimenti interi, ma appena possono disertare lo fanno.

Le due repubbliche del Grande e del Piccolo Popo sono state formate in gran parte da dahomeni fuggiaschi.

— Prenderemo una scorta armata con noi?...

— No, Antao. Sarebbe pericoloso inoltrarsi in parecchi sui territorio di Geletè. Bisogna evitare qualunque sospetto, giuocare d’astuzia, fingerci negri o nessuno di noi potrebbe giungere ad Abomey.

— Fingerci negri!... — esclamò il portoghese, stupito. — La nostra pelle è troppo bianca, Alfredo, per poterli ingannare.

— Forse che non vi sono dei colori?... —

Il portoghese scoppiò in una clamorosa risata.

— Morte di Nettuno!... Dipingermi da negro!...

— Ti ripugna?...

— No, in fede mia, Alfredo. Rido pensando la brutta figura che noi faremo, imbrattati di nerofumo o di cioccolatto.

— Saremo invece due negri magnifici.

— Ma semi-nudi!...

— Tutt’altro. Saremo vestiti e superbamente, te lo prometto.

— Ma i negri di questi paesi sono quasi nudi, Alfredo.

— È vero ma noi non saremo poveri diavoli di negri.

— Ma che progetto hai?

— Lo saprai a suo tempo. La prudenza mi consiglia di mantenere per ora la più grande segretezza, poichè un solo sospetto può perderci.

Geletè mantiene qui non poche spie e forse siamo già sorvegliati, ma sapremo ingannarle. A te e ad Asseybo dò intanto un incarico.

— E quale?

— Di spargere la voce in città che noi andiamo nel paese degli Ascianti.

— Non ti comprendo.

— Mi comprenderai più tardi. T’incarico poi di acquistare una mezza dozzina di cavalli, delle buone armi, dei viveri e delle casse di merci di provenienza europea. È necessario che [51] si creda che noi andiamo a trafficare con quei popoli al di là del Todji e del Volta. Hai danari?...

— Ho una tratta di tremila sterline da scontare presso la fattoria inglese del signor Smithson.

— Ed io ho un forte deposito presso la fattoria del tuo compatriota Souza.

— Devo mettermi all’opera subito? — chiese Antao, dopo di aver tracannato un ultimo bicchiere di vino di palma.

— È meglio guadagnar tempo. —

S’alzarono e uscirono nel cortile, dove trovarono Asseybo che stava vuotando una terrina di canalu, accoccolato presso i cavalli che erano già pronti.

Salirono in arcione e passando attraverso uno squarcio della siepe che circondava l’ampio cortile, s’inoltrarono nella piazza del mercato.

Nel volgersi per appendere la carabina all’arcione, Alfredo vide due negri che si tenevano semi-celati fra i cespugli della siepe e che lo guardavano con particolare attenzione.

— Lo dicevo io, — diss’egli, volgendosi verso Antao. — La nostra presenza in Porto Novo è stata già notata dalle spie di Geletè o di Kalani e siamo sorvegliati.

— Di già?...

— Sì, Antao, ma saremo più furbi di quelle spie. Separiamoci e questa sera ci ritroveremo alla capanna concessaci da Tofa. —

Si strinsero la mano e si separarono.

Alfredo lasciò che il compagno ed Asseybo si allontanassero verso il quartiere di Sadogo, poi ripassò dinanzi alla dimora reale, lanciando un rapido sguardo verso la siepe.

S’accorse subito che una delle spie era scomparsa.

— Va dietro Antao, — mormorò, — e questo seguirà me, ma vi assicuro che vi faremo correre. Vedremo se ci seguirete fino alle frontiere degli Ascianti. —

Risalì il quartiere di Deguè, poi quello d’Odja e di Bocu mantenendo il cavallo al passo, si recò alla fattoria di Souza a ritirare una somma ingente, poi assoldati due schiavi visitò parecchie fattorie europee facendo degli acquisti, quindi verso sera fece ritorno alla capanna con quattro casse contenenti gli oggetti comperati.

Antao e Asseybo vi erano di già e stavano accomodando un numero ragguardevole di pacchi, di cassette e di barilotti contenenti [52] viveri, armi, munizioni e oggetti di scambio ricercati dalle popolazioni negre dell’interno, mentre gli schiavi concessi a loro dal re stavano abbeverando mezza dozzina di ottimi cavalli che erano stati radunati nel cortile e che dovevano servire alla spedizione.

— Hai sparso la voce che noi andiamo nel paese degli Ascianti? — chiese Alfredo.

— Credo che lo sappiano perfino i ragazzi, — rispose Antao, ridendo.

— Benissimo. Ora possiamo cenare e riposarci. —

Capitolo VIII. La carovana

L’indomani, allo spuntare dell’alba, Alfredo dava il comando della partenza, dopo d’aver lasciato un ricco regalo a Tofa per compensarlo dell’ospitalità e delle sue premure.

La carovana si componeva dei due bianchi, del loro servo, dei due dahomeni che erano giunti nella notte da Katenau e di sei cavalli carichi di casse e di pacchi ma tutti di piccola dimensione, onde non imbarazzare gli animali nelle marce attraverso le folte foreste dell’interno.

I due dahomeni, ai quali era stato affidato l’incarico di occuparsi dei cavalli recanti il bagaglio della spedizione, erano due negri di alta statura, dall’aspetto intelligente, d’una robustezza a tutta prova, due uomini insomma che dovevano rendere dei preziosi servigi nelle selvagge regioni del loro paese.

Avevano accettato di buon grado di assumersi la pericolosa missione di condurre i due bianchi nel Dahomey e si erano mostrati soddisfattissimi delle promesse fatte dai loro nuovi padroni; di renderli cioè più tardi liberi, con un buon gruzzolo di denaro e delle armi.

Prima che il sole s’alzasse dietro i grandi boschi dell’oriente, la carovana si trovava già lontana da Porto Novo, diretta al piccolo gruppo di capanne dove era stata lasciata l’amazzone, essendo intenzione di Alfredo di condurre con sè anche la giovane [53] negra, sulla cui affezione sapeva ormai di poter contare completamente.

Nessuna spia pareva che li avesse seguiti, non avendo scorto alcun negro nè lontano, nè vicino, sul sentiero che percorrevano. Il capo però non si illudeva e conoscendo la prudenza e l’agilità di quei selvaggi figli dei boschi, era più che certo di essere stato seguito, quantunque nulla indicasse che in realtà lo si tenesse d’occhio.

— Temi sempre? — chiese ad un tratto Antao, vedendo l’amico volgersi di frequente indietro.

— Sì, — rispose Alfredo.

— Pure non si vede nessuno.

— Sul sentiero è vero, ma nei boschi?... Se noi li frugassimo troveremmo di certo qualcuno di quegli spioni. I negri sono caparbii e poi i dahomeni hanno troppa paura di Geletè, ma noi li stancheremo.

— Andiamo verso la frontiera degli Ascianti?...

— Sì, Antao, ed entreremo nel Dahomey attraversando la regione dei Krepi o dei Togo. La frontiera del sud deve essere guardata dagli uomini di Kalani.

— Saremo costretti a fare un viaggio lungo.

— Quando avremo attraversato le lagune del Piccolo e del Grande Popo viaggieremo rapidamente. Per ora non dobbiamo mostrare d’aver fretta, per non destare sospetti nelle spie che ci seguono, ma quando avremo la certezza di averle stancate o rassicurate sulla nostra direzione, lancieremo i cavalli al galoppo dall’alba al tramonto. Toh!... Hai udito?...

— Un fischio in mezzo al bosco?...

— Sì, Antao. È un richiamo dei negri che ci seguono.

— È vero padrone, — confermò Asseybo. — Solamente quelli del Dahomey sanno fischiare in tale modo.

— Come manderei volentieri una palla nel cranio di quegli spioni. È noioso viaggiare sapendosi seguiti da persone che possono giuocarci delle brutte sorprese.

— Oh!... Delle sorprese ce ne prepareranno, ma sapremo evitarle. Non oseranno però assalirci direttamente, credi a me. Hanno troppa paura dei fucili degli uomini bianchi. Orsù, al galoppo e cerchiamo di mantenerli lontani finchè andiamo a prendere l’amazzone. —

I piccoli ma vivaci cavalli, eccitati dai cavalieri e dai due [54] schiavi partirono al galoppo, sfilando in mezzo alle folte foreste che si estendevano ai due lati del sentiero.

Tre quarti d’ora dopo la carovana giungeva al piccolo villaggio che ospitava la povera negra. Questa nel vedere ricomparire Alfredo ed il portoghese manifestò la più sincera contentezza e apprendendo che la conducevano con loro, si dichiarò pronta a mettersi in sella, quantunque le sue dolorose ferite non avessero ancora cominciato a cicatrizzarsi.

Alfredo si guardò bene però dall’accettare quell’offerta, che poteva costare la vita alla coraggiosa ragazza.

Fece acquisto di nuovi cavalli, fece improvvisare una comoda barella stendendovi sopra un materassino acquistato a Porto Novo, la fece legare ai due animali posti l’uno dietro l’altro, e dopo d’aver disinfettate e fasciate nuovamente le ferite, fece adagiare la negra. Per colmo di precauzione la fece riparare da un’arcata di grandi foglie di banano per preservarla dai colpi di sole, i quali, come già fu detto, sono pericolosissimi in quelle regioni.

A mezzodì, dopo una modesta refezione, la carovana abbandonava l’ospitale villaggio, e attraversato a guado l’Ouzme, scendeva verso le umide e malsane regioni della costa, per girare le sponde settentrionali della grande laguna di Nokue e raggiungere quindi le rive del canale costiere che si prolunga fino al lago di Togo.

Il caldo era intenso, ma le foreste erano fitte e proteggevano la carovana dai raggi solari. Regnava però sotto quei grandi alberi, di cui alcuni avevano delle proporzioni smisurate, un’aria da serra calda che faceva zampillare il sudore da tutti i pori, quantunque i due bianchi si fossero sbarazzati di buona parte delle loro vesti.

Pure che potenza di vegetazione fra quella temperatura ardente!... Dappertutto si slanciavano in alto tronchi d’ogni dimensione e d’ogni tinta, che confondevano poi i loro rami e le loro foglie smisurate a cinquanta, a sessanta e perfino a cento piedi dal suolo.

Miriadi di liane, formanti splendidi festoni e di piante arrampicanti adorne di grappoli di fiori esalanti penetranti profumi, li avvolgevano, salendo fino alle più alte cime, per poi ridiscendere e quindi risalire di nuovo.

Di sotto a quelle piante colossali, altre ne erano spuntate occupando [55] tutti i più piccoli tratti di terreno, confondendo i loro rami od i loro tronchi. Meno vivificate dall’aria e dal sole, si erano mantenute tuttavia ad altezze più modeste, formando una selva inferiore, la quale intercettava completamente i pochi raggi che potevano penetrare attraverso la prima vôlta di verzura.

Strani rumori echeggiavano in mezzo a quegli oscuri recessi della doppia foresta, dovuti per lo più alle numerose tribù di scimmie che l’abitavano. Di tratto in tratto era uno scoppio di formidabili urla che risuonavano come degli hu-u!... lanciati dalle scimmie mangabe, le quali posseggono tali polmoni da fare udire i loro concerti a parecchi chilometri di distanza; od uno scoppio di ruggiti paurosi che si sarebbero potuti scambiare per quelli emessi da una banda di leoni in furore, e che invece erano lanciati dai cinocefali, bruttissimi e pericolosissimi quadrumani; oppure erano urla lamentevoli, tristi, o grida acute, o latrati, o strida prolungate dovute ai colobo orsini, od ai satanassi, od ai cefi, scimmie molto comuni nelle folte foreste della Costa d’Avorio.

La carovana però non s’inquietava di tutti quei concerti scordati e proseguiva la sua marcia sfilando in mezzo a sentieri strettissimi aperti fra boschi e che Asseybo conosceva, essendosi più volte già recato nelle piccole repubbliche del Grande e del Piccolo Popo.

La regione che attraversava era deserta, essendo la Costa d’Avorio poco popolata in proporzione alla sua immensa estensione ed anche perchè i popoli si sono tutti addensati in prossimità del mare, per tenersi lontani dalle irruzioni che i dahomeni fanno annualmente per provvedersi di prigionieri da trucidare nelle feste del sangue.

Qualche piccolo gruppo di capanne talora appariva, ma nascosto nel più folto della grande foresta e lontano dal sentiero. Quelle piccole abitazioni di paglia o di foglie erano per lo più situate in prossimità dei macchioni delle palme d’elais o dei banani o dei cocchi, piante che somministrano il necessario per vivere a quei frugali abitanti.

Verso le 4 la carovana, che aveva marciato costantemente, giungeva in mezzo ad una vera foresta di bellissimi alberi che portavano dei grappoli di frutta della forma d’un cetriolo.

— Ecco qui una foresta che farebbe la fortuna d’una tribù di negri, — disse Alfredo, che cavalcava a fianco di Antao.

[56]

— Cosa sono queste piante?... — chiese il portoghese.

— Noci di calla o meglio bassè, come qui si chiamano.

— Ho udito parlare delle proprietà sorprendenti di quelle frutta, ma non so cosa siano.

— Sono noci molto pregiate infatti e che sono oggetto d’un grande commercio in queste regioni. Quelle capsule legnose contengono dieci o dodici frutta di color rosso e grosse come le nostre castagne le quali, dopo raccolte, si mettono in ceste ripiene di foglie per conservarle fresche a lungo.

— Ma che proprietà hanno?

— Della coca del Perù, poichè masticandole conservano meravigliosamente le forze agli uomini che intraprendono dei lunghi e faticosi viaggi. Ci sono dei negri che con poche di quelle frutta vivono dieci e perfino quindici giorni, senza indebolirsi per la mancanza d’altri cibi.

— Sono eccellenti?

— Sono d’un sapore amaro ma non sgradevole. So che anche in Europa si cominciano ad adoperare per fare delle infusioni che chiamano liquori di noce di kalla invece di galla o di calla come chiamansi qui.

— E quei bellissimi arbusti, d’aspetto grazioso che sorgono laggiù, cosa sono?...

— Platanieri, delle altre piante che sono molto pregiate qui. Somministrano delle frutta buonissime e sostanziose e dalla corteccia abbruciata i negri ricavano una potassa che serve a fare del sapone pregiato.

Anche le foglie sono adoperate per conservare le provvigioni, avendo la proprietà di tenere lontani i topi i quali sono così numerosi nei villaggi dei negri.

— E troveremo anche dei baobab?... Sono impaziente di vedere quei colossi delle foreste.

— Ne vedrai delle centinaia, Antao. Qui sono abbastanza comuni. —

In quell’istante un grido strano, che terminava in un fischio acuto e che si poteva tradurre per un uiff prolungato, echeggiò nel più folto della foresta, due o trecento passi più innanzi.

I cavalli, colpiti da un improvviso terrore, si erano subito arrestati, mandando dei sordi nitriti e serrandosi gli uni addosso agli altri.

[57]

— Cosa c’è? — chiese Antao, senza però manifestare alcuna apprensione.

— C’è, — rispose Alfredo che aveva staccata rapidamente la carabina sospesa agli arcioni, — che abbiamo un vicino pericoloso, mio caro.

— Delle scimmie?...

— Peggio, Antao: un rinoceronte.

— Morte di Nettuno!... Si dice che simili animali sono formidabili.

— Preferirei trovarmi dinanzi ad una coppia di leoni che ad uno di quei massicci ed invulnerabili animalacci. Hanno una pelle così grossa, da sfidare le palle delle migliori carabine.

— Pure non possiamo arrestarci qui.

— Andremo innanzi a dispetto di quel disturbatore, Antao. Asseybo!...

— Padrone, cosa desideri? — chiese il servo che era disceso da cavallo e che si era inoltrato nella foresta, per cercare di scoprire il pericoloso animale.

— Lo vedi?...

— No padrone e credo che siamo stati corbellati.

— Cosa vuoi dire?

— Che quel grido non era d’un rinoceronte.

— Morte di Giove!... — esclamò Antao. — Questa è strana!...

— Spiegati, Asseybo, — disse Alfredo.

— Dico che qualcuno ha voluto imitare il grido del rinoceronte.

— Ma a quale scopo?...

— Forse per spaventarci. Se l’animale ci fosse, a quest’ora avrebbe caricata la nostra carovana.

— Credo che tu abbia ragione, — disse il cacciatore, che era diventato pensieroso. — Tu hai cacciato più volte i rinoceronti e sei in grado di conoscere meglio di me il loro grido.

— Sì e ti dico che quell’uiff è stato imitato molto bene.

— Che sia stato qualche segnale? — chiese Antao.

— È possibile, — rispose Alfredo. — La conclusione è questa: noi siamo seguiti.

— Da chi?...

— Dalle spie di Kalani.

— Morte di Urano!... Ancora?... Sono come le mignatte quelle canaglie.

[58]

— Bah!... Si stancheranno. Andiamo innanzi e teniamo pronte le armi. —

La carovana riprese le mosse, quantunque il sole scendesse rapidamente e l’oscurità cominciasse ad addensarsi sotto le foreste.

Non era prudente accamparsi in piena selva con delle spie alle calcagna e forse dei feroci animali vicini e Asseybo voleva condurre il padrone in un luogo scoperto, in una radura. I cavalli si erano tranquillizzati, tanto più che quel grido non si era più ripetuto ed avanzavano rapidamente, come se fossero impazienti di lasciare quei folti macchioni che potevano celare delle insidie.

Già i carnivori cominciavano a lasciare i loro covi per cominciare le loro caccie notturne e si facevano udire, facendo tremare i poveri animali. Di tratto in tratto, nelle macchie più fitte, dove la luce morente dell’astro diurno più non penetrava, si udivano dei sibili lamentevoli lanciati forse dai grossi serpenti pitoni, od i sordi miagolii dei servai o gatti delle selve, grandi distruttori di selvaggina; o le rauche urla dei sanguinari leopardi o le stridule e beffarde risa delle iene macchiate o brune o le urla lamentevoli, tristi, paurose, dei lupi striati, animali che si avvicinano molto agli sciacalli, ma che hanno anche molto del lupo.

Crescendo l’oscurità, Alfredo raddoppiava le sue precauzioni, avendo da temere gli uomini e le fiere. Asseybo si era messo alla testa della carovana, Antao si era collocato presso la lettiga dell’amazzone per essere pronto a difenderla ed il cacciatore si era messo alla coda coi due dahomeni i quali erano stati armati di ottimi fucili, avendo detto di sapere adoperare le armi da fuoco.

Alle otto, quando nell’aria cominciavano a svolazzare quei brutti cinonitteri delle palme o cani notturni, la carovana lasciava i macchioni e giungeva in mezzo ad una vasta radura dove s’innalzava un gruppo di colossali sicomori.

— Possiamo accamparci con piena sicurezza, — disse Alfredo. — Se qualcuno cercherà d’avvicinarsi, potremo facilmente scorgerlo.

I cavalli furono radunati attorno ai sicomori, le casse scaricate e disposte all’ingiro onde nel caso d’un attacco servissero da barricata e le tende rizzate, mentre i due dahomeni accendevano due falò per tenere lontane le fiere e per allestire la cena.

[59]

Capitolo IX. L’assalto notturno dei leoni

Alfredo, da uomo prudente e che conosce la vita dei boschi, dopo d’aver cenato e di aver visitate le ferite dell’amazzone le quali ormai si cicatrizzavano rapidamente, fece legare i cavalli attorno ad un palo infisso profondamente nel suolo per impedire che si sbandassero e che cadessero sotto i denti delle iene, poi in compagnia d’Antao battè le alte erbe della radura per un vasto tratto, volendo essere certo che non si nascondessero animali pericolosi.

Rassicurato da quelle precauzioni indispensabili per coloro che s’accampano in mezzo alle selvagge foreste dell’Africa che sono pullulanti di fiere, fece radunare una catasta di legna secca per mantenere i fuochi accesi, poi stabilì i quarti di guardia. Asseybo ed un dahomeno furono incaricati della prima veglia che doveva durare fino alla mezzanotte, Alfredo ed Antao s’incaricarono della seconda che doveva prolungarsi fino alle tre del mattino ed il secondo dahomeno dell’ultima, la più breve e la meno pericolosa, usando le fiere rintanarsi ai primi albori.

Asseybo ed il suo compagno, fatto il giro del gigantesco gruppo dei sicomori e ravvivati i fuochi, si sedettero alle due estremità del campo col fucile fra le ginocchia, aprendo per bene gli occhi e tendendo accuratamente gli orecchi.

Un silenzio assoluto regnava sotto la grande e tenebrosa foresta, i cui alberi pareva che formassero una massa impenetrabile. Solamente di quando in quando un soffio d’aria che spirava dalla costa, faceva stormire lievemente le grandi foglie piumate dei palmizi, dei cocchi e dei datteri spinosi, producendo un sussurrìo strano che si perdeva rapidamente in lontananza.

Quel silenzio non doveva però durare molto. Dietro le alte cime della foresta cominciava a diffondersi nel cielo una luce pallida, annunciante l’imminente comparsa dell’astro notturno e le fiere non dovevano tardare a lasciare i loro covi per cominciare le loro sanguinose stragi.

Ad un tratto uno scoppio di risa sgangherate, risuona fra [60] l’oscura massa degli alberi. È un riso stridulo, che ha qualche cosa di beffardo e di atroce e che somiglia a quello d’un negro in delirio. Lo ha lanciato la iena striata, la più codarda ma la più avida e la più lurida delle fiere.

Quello scroscio non è ancora cessato, che da un’altra parte della foresta s’alza un concerto di urla lugubri, lamentevoli, monotone. Sembra che sotto la cupa ombra di quei giganteschi vegetali, due dozzine di persone vengano spietatamente martirizzate.

Quel gridìo assordante cessa per pochi istanti; poi un urlo più prolungato echeggia solo e tosto vi fanno coro gli altri, più acuti, più strazianti. Sono gli sciacalli che si chiamano e che si radunano per recarsi a cacciare le inoffensive antilopi.

Poi s’odono dei sibili acuti, dei latrati ora sommessi ed ora strepitosi, delle urla, altri scrosci di risa, quindi uno scricchiolìo di rami, uno spostarsi di fronde, un susurrìo di foglie secche precipitosamente calpestate. La tenebrosa foresta pochi istanti prima così tranquilla, così silenziosa, pare che ora siasi ridestata.

D’improvviso un ruggito potente, assordante come un colpo di tuono, che pare faccia tremare perfino le foglie degli alberi e le erbe della radura, scoppia.

Quella voce formidabile che fa rimbombare la foresta e che annuncia, in colui che l’ha emessa, una forza strapotente, ottiene un effetto immediato. Tutte le altre urla cessano di botto e più nessun rumore turba il silenzio della notte.

Il re delle foreste si è fatto udire e tutte le altre fiere, grandi o piccole, audaci o codarde, si sono affrettate a lasciare il campo al terribile predatore.

Asseybo ed il dahomeno, che fino allora non si erano mossi, non ignorando che nè le iene, nè gli sciacalli, nè i lupi striati, nè i servai avrebbero osato assalirli, udendo quel ruggito che annunciava la presenza d’un leone, s’erano alzati, gettando degli sguardi inquieti verso gli alberi.

— Cattivo vicino, — disse il dahomeno, avvicinandosi ad Asseybo.

— Preferirei una banda di iene macchiate, — rispose il servo. — Fortunatamente i fuochi sono accesi e il predatore non oserà assalirci, per ora. —

Un altro ruggito, più potente e più prolungato del primo, rintronò [61] da un’altra parte della foresta, a cui subito rispose il primo.

— Sono due, — disse il dahomeno, la cui voce tremava. — La cosa è grave.

— È vero, — rispose Asseybo, che del pari non era tranquillo. — Vi è un leone ed una leonessa e sono certo di non ingannarmi.

— Che sia il caso di svegliare il padrone?...

— Aspettiamo ancora. Forse non si sono accorti della nostra presenza.

— Non tarderanno a scoprirci. Hanno un odorato troppo acuto.

— Silenzio ed aspettiamo. —

I due ruggiti erano echeggiati ad un chilometro dall’accampamento, ma un chilometro è un passo per quelle fiere che hanno uno slancio poderoso. In pochi istanti potevano mostrarsi sul margine della foresta.

Passarono pochi minuti, poi i due ruggiti si fecero nuovamente udire più potenti, più formidabili ed anche più vicini.

Ormai non vi era più da dubitare: le due fiere s’avvicinavano rapidamente, forse attratte dai due falò che fiammeggiavano sotto i folti rami dei sicomori.

Asseybo ed il dahomeno avevano armate le due carabine e si erano riparati dietro alle casse, per mettersi al coperto da un repentino assalto, quando udirono la voce del padrone.

Alfredo, svegliato bruscamente da quei ruggiti, era strisciato fuori della tenda, seguìto da Antao.

— Dei leoni? — aveva chiesto.

— Sì, padrone, — rispose Asseybo.

— Che il diavolo se li porti, — disse Antao. — Potevano lasciarmi dormire tranquillo.

— Si vedono? — chiese Alfredo.

— No padrone, ma non devono essere lontani.

— Che i dahomeni s’incarichino di tener fermi i cavalli e noi penseremo a quei predatori. —

Fece stringere il cerchio formato dalle casse, vi si misero dietro tutti e tre ed attesero, con calma, la comparsa dei re delle selve.

I cavalli, già svegliati da quei ruggiti, avevano cominciato a dare segni di viva inquietitudine. Scalpitavano, nitrivano e cercavano di spezzare i legami per fuggire dalla parte opposta, non obbedendo più alla voce ed alle carezze dei due dahomeni.

[62]

Anche la giovane negra si era accorta della vicinanza delle formidabili fiere ed aveva cercato d’alzarsi, ma vedendo i due bianchi in armi, si era tranquillizzata conoscendo per esperienza il loro coraggio e la loro valentìa.

I ruggiti erano ricominciati destando tutti gli echi della foresta e venivano da due parti opposte. Pareva che il maschio e la femmina si fossero accordati per assalire il campo in due diverse direzioni.

— A me il leone che rugge alla mia destra, — disse Alfredo, con voce tranquilla. — A te la leonessa, ma non far fuoco se non quando sei sicuro dei tuoi colpi.

— Costringerò i miei nervi a stare tranquilli, — rispose Antao. — Che strana impressione mi fanno questi due animali!... Si direbbe che quando ruggono mi fanno tremare il cuore.

— Sii calmo, Antao. Con simili fiere si giuoca la vita.

— Lo sarò, poichè non ho proprio nessuna voglia di finire nel ventre della leonessa.

— Scherzi?... Buon segno, amico mio. L’uomo che ride dinanzi alla morte non ha paura.

— Paura non ne ho, te lo giuro, ma sono i nervi che pare abbiano una voglia folle di battere una marcia indiavolata.

— Taci!...

— Morte di Nettuno!... che vocione!... M’ha rintronato gli orecchi!...

— Eccoli!... —

Dopo un ruggito più formidabile dei primi, una massa oscura si era slanciata, con un salto immenso, fuori da un macchione di fitti cespugli ed erasi fermata nella radura, esponendosi ai pallidi raggi della luna.

Era un superbo leone dal corpo robusto, dalla testa grossa, dalla lunga criniera oscura e dal pelame fulvo, uno di quegli animali che posseggono una tale forza da balzare sopra una siepe portandosi in bocca una giovenca.

S’arrestò un istante, cogli sguardi fissi sui fuochi che ardevano sotto la fosca ombra dei sicomori e sferzandosi i fianchi colla lunga coda terminante in un fiocco, poi lanciò il suo formidabile ruggito di combattimento che parve una sfida gittata ai cacciatori.

Quasi subito la leonessa, che non doveva trovarsi lontana, fece a sua volta la comparsa, spiccando una volata di parecchi metri ed arrestandosi a quindici o venti passi dal maschio.

[63]

— Morte di Giove e di Saturno!... — esclamò Antao. — Sono belli da vedersi, ma fanno tremare le gambe.

— Una carabina di ricambio, — disse Alfredo ai dahomeni, senza volgersi. — Aspetta, Antao. —

Alzò lentamente la carabina mirando con grande attenzione ed approfittando dell’immobilità del leone, fece fuoco a sessanta metri di distanza.

La nuvola di fumo non si era ancora dissipata, che si vide il leone spiccare un salto in aria, poi precipitarsi verso l’accampamento con impeto irresistibile.

Asseybo ed Antao si erano prontamente voltati puntando le armi, senza curarsi della leonessa che si preparava ad assalirli, ma il cacciatore, con un rapido colpo d’occhio, aveva tutto veduto.

— No, fermi!... — urlò. — Badate alla leonessa!... —

Aveva afferrata rapidamente la carabina di ricambio che gli porgeva uno dei dahomeni e l’aveva puntata.

Il leone, che doveva essere stato ferito, ma non gravemente, forse s’accorse del pericolo che correva, poichè invece di scagliarsi contro le casse, dietro le quali si teneva riparato il cacciatore, col suo ultimo slancio cercò di piombare addosso ai cavalli che si dibattevano furiosamente per fuggire.

Aveva però trovato un nemico degno di lui. Alfredo, senza staccare l’arma dalla spalla, aveva fatto mezzo giro, facendo fuoco a soli sei passi.

La palla, meglio diretta della prima, andò a fracassare la spina dorsale del predatore, il quale, arrestato quasi di volo, andò a cadere in mezzo ad uno dei falò.

Con pochi colpi di zampe disperse i tizzoni spegnendoli, ma la morte lo colse e si distese in mezzo alla brace, arrosolandosi le carni e spandendo all’intorno un nauseante odore di bruciaticcio.

La femmina intanto, resa furiosa per la morte del compagno, si era scagliata contro Antao ed Asseybo.

Sfuggì alla palla del secondo e andò ad urtare le casse con tale furia, da rovesciarle le une addosso alle altre. Già stava per gettarsi contro i due uomini che erano rimasti senza difesa, ma Antao in quel supremo istante aveva saputo imporre un momento di calma ai suoi nervi.

Vedendo la fiera cadere a due soli passi, le aveva scaricata [64] contro la carabina, mentre uno dei dahomeni la percuoteva poderosamente con un grosso tizzone ardente, coprendola di scintille.

Ferita forse gravemente e spaventata da quella pioggia di fuoco, fece un rapido voltafaccia, attraversò la radura a gran balzi e scomparve nella foresta salutata da altri due colpi di fucile, ma i proiettili non parve giungessero a destinazione.

— Morte di Giove!... — esclamò Antao. — Un momento di esitazione e la mia zucca sarebbe a quest’ora fra le mascelle di quell’indemoniata bestia.

— E faccio i miei elogi al tuo sangue freddo, — disse Alfredo, che aveva tremato per l’amico. — Un cacciatore di professione avrebbe mancato al colpo o si sarebbe dato alla fuga.

— Ci tenevo alla mia pelle, — rispose Antao, sorridendo. — Per bacco!... Che salti e che attacco!... E dove sarà fuggita la leonessa?... Le ho scaricata la carabina nella bocca, ma credo di averle solamente fracassata una mascella.

— Sarà tornata al suo covo.

— Che non ci assalga più?...

— Non oserà ritornare.

— Se nella sua ritirata incontrasse almeno le spie e si rifacesse coi polpacci di quelle!...

— Si saranno messe in salvo sugli alberi fino dai primi ruggiti.

— Ma il tuo leone si cuoce, Alfredo. Mi rincresce perdere la sua pelle.

— Ormai è rovinata. Lascia che si cucini e riprendiamo il sonno.

— Sarà un po’ difficile riaddormentarsi. Ho ancora i nervi scombussolati.

— Si calmeranno, Antao. Orsù, cacciati sotto la tenda. —

I due bianchi, certi ormai di non venire più disturbati, riguadagnarono i loro giacigli di fresche erbe, mentre Asseybo ed il dahomeno rizzavano nuovamente le casse e riaccendevano il falò spento dal leone.

Il rimanente della notte passò tranquillo. Solamente verso le due del mattino alcune iene osarono avvicinarsi furtivamente al campo, attirate dall’odore che aveva sparso il leone nell’arrostirsi l’addome sui tizzoni, ma bastò un colpo di fucile per costringerle a riguadagnare la foresta.

 
... si vide il leone spiccare un salto in aria, poi precipitarsi.... (Pag. 63).

[65]

All’indomani, un’ora dopo il sorger del sole, la carovana si rimetteva in cammino, impaziente di lasciare quelle pericolose foreste e di giungere nelle bassure erbose.

Alle 8 del mattino, dopo avere attraversato a guado un grosso corso d’acqua che serve di scarico al lago Tschibe che trovasi nel cuore del Dahomey, giungeva sulle sponde occidentali della grande laguna di Nokue chiamata anche Dennana e proseguiva verso il sud per raggiungere il canale costiero che passa fra Whydah e la borgatella di Avrekete.

Cominciavano di già i terreni paludosi, quei terreni saturi d’acqua marina corrotta dai paletuvieri, da avanzi di vegetali d’ogni specie e che esalano quei miasmi carichi di febbre, così fatali agli europei che soggiornano per qualche tempo in quelle regioni.

Non si scorgevano che radi gruppi di alberi, per lo più di cocchi, piante che non possono crescere lontane dall’aria marina, ma invece giganteggiavano le canne e le erbe palustri le quali talora raggiungevano altezze incredibili, tali da coprire interamente cavalli e cavalieri.

Il terreno cedeva facilmente sotto i piedi della carovana, ma Alfredo contava di attraversare rapidamente quella regione pericolosa per sottrarre il portoghese, non ancora acclimatizzato, alle perniciose influenze di quei miasmi. Non voleva fare che una semplice punta nei paesi del Piccolo e del Grande Popo per meglio ingannare le spie che lo seguivano, e quindi risalire le frontiere orientali degli Ascianti e riguadagnare i grandi boschi dell’interno, più pericolosi pei loro abitanti a quattro zampe, ma più salubri.

Alla sera si accampavano sulle sponde del canale, in uno spazio scoperto da ogni erba palustre per non venir sorpresi dalle spie e per non subire l’assalto dei numerosi serpenti che pullulano in quegli umidi terreni.

La notte però fu tormentosa. Malgrado i fuochi accesi attorno al campo con erbe fresche per produrre nuvoloni di fumo, veri battaglioni di moscherini sanguinarii e spietati invasero le tende, gettandosi con rabbia inaudita sulle carni dei poveri accampati.

Sono incredibili le torture che fanno soffrire quei piccoli insetti. Le nostre zanzare, in loro paragone, sono nulla. Vi sono moscherini che vi succhiano il sangue fino che scoppiano e che pare vi strappino la pelle pezzetto a pezzetto; delle mosche [66] quasi invisibili che dalle dieci del mattino alle tre pomeridiane non si lasciano vedere, ma che poi vi piombano addosso a sciami, producendovi delle punture dolorosissime; altre, chiamate ibolai, che hanno dei pungiglioni così acuti da passarvi i calzoni e che pare vi forino la pelle con ago infuocato, ma che però non vi fanno soffrire che pochi istanti; ma ve ne sono poi altre ancora che vi succhiano il sangue e che poi lasciano nell’invisibile ferita chissà quale veleno, che vi fa soffrire ventiquattro ore senza tregua.

Antao, non abituato a tutti quei morsi, battagliò inutilmente tutta la notte contro quei nemici quasi invisibili, borbottando come un ossesso e solamente verso l’alba potè gustare un po’ di sonno, dopo però di essersi unto il viso e le mani con olio d’elais per calmare i dolori.

Il giorno seguente la carovana, che si teneva sulla sponda interna del canale, passava al largo di Godomè e poco dopo di Whydah una delle più importanti città della Costa d’Oro, tenuta da un cabecero del re di Dahomey e verso il mezzodì, dopo una rapidissima marcia, attraversato l’importante corso d’acqua che chiamasi Mono e che pare abbia le sue sorgenti nelle lontane regioni del Borgu il quale trovasi a settentrione del paese dei Krepi, varcava le frontiere della repubblica dei Popos.

Capitolo X. La repubblica dei Popos

La repubblica dei Popos, formata dal Grande e Piccolo Popo è uno staterello che occupa una porzione della Costa d’Avorio compresa fra Whydah all’est e la regione dei Togo all’ovest, lungo il canale costiero che unisce le due lagune di Nokue e di Togo.

Questa repubblichetta, sfuggita miracolosamente ai potenti vicini, è di formazione quasi recente, poichè non conta che sessanta o settant’anni di esistenza. Verso il 1815, alcuni minalotos d’Elmina, stanchi della crudele tirannia di alcuni capi della Costa d’Oro, emigrarono verso la foce del Mono, fondando successivamente le cittadelle di Grande e Piccolo Popo, di Sabbe, [67] di Aguè, di Abananquen e d’Abanakwe spingendosi fino a Porto Seguro e sulle rive della laguna dei Togo, aiutati da non pochi dahomeni che avevano abbandonato il loro paese natìo per sottrarsi alle infamie di quei re sanguinarii.

Ben presto lo staterello prosperò, altri negri accorsero per godere la libertà che non potevano avere nei loro paesi ed oggi si può citare come uno dei più civili della Costa, quantunque quel minuscolo popolo molto abbia conservato dei suoi antichi costumi e usi, e si può anche considerare come il più industrioso, trafficando largamente cogli europei che vi hanno fondato, nei centri più popolosi, parecchie fattorie.

La carovana fece la sua entrata nel territorio della repubblica senza subire alcuna molestia, cosa assai rara in Africa, essendo abituati i capi a far pagare dei diritti di passaggio sulle terre da loro dipendenti e quasi sempre disastrosi per le carovane, le quali sono costrette a lasciare nelle mani di quegli insaziabili tirannelli buona parte dei loro carichi.

Alfredo però si tenne lontano dalle cittadelle non avendo nessun interesse a visitarle e si limitò a costeggiare le sponde settentrionali del canale, per giungere più rapidamente nel Togo.

Il paese non era più disabitato come prima. Si vedeva che la libertà concessa agli abitanti del piccolo stato e la sicurezza che godevano, avevano dato buoni resultati.

Popolosi villaggi apparivano sulle sponde del canale e sui terreni meno paludosi; campi coltivati con grande cura e ubertose praterie dove pascolavano dei grossi bestiami si vedevano dovunque, mentre sulle acque scorrevano numerosi canotti montati da negri rumorosi e carichi di derrate d’ogni specie, diretti verso le cittadelle della Costa od al Piccolo Popo che dista circa venticinque miglia da Porto Seguro.

— Pare d’essere in un’altra regione ben lontana dalla Costa d’Avorio, — disse Antao che guardava, meravigliato, quel movimento e quell’attività insolita nei paesi popolati dai negri.

— È la libertà che godono questi abitanti, che ha dato così buoni risultati anche in questi paesi esposti all’atmosfera snervante dell’equatore.

— Ma anche la sicurezza.

— È vero, Antao. Ormai questa piccola repubblica più nulla ha da temere dalle invasioni dei suoi potenti vicini.

— È sotto la protezione delle potenze europee?...

[68]

— Sì, Antao, o meglio sotto la protezione degli antichi forti qui costruiti dagl’Inglesi, dai Danesi e dai Portoghesi per la soppressione della tratta degli schiavi.

— Mi hanno detto che una volta queste coste erano assiduamente visitate dai vascelli negrieri.

— Si calcola che si esportassero centomila negri all’anno, destinati alle piantagioni americane. Quando però gli Olandesi eressero il forte d’Elmina, i Portoghesi quello di S. Jago, gli Inglesi quello di Cape Coast Castle e d’Aura ed i Danesi quelli di Christianburg e di Friendsburg, la tratta a poco a poco cessò ed ora più nessuna nave negriera osa comparire su queste spiagge. Alle foci del Vecchio Calabar però, so che si esportano ancora negri per l’Oriente.

— Bisognerebbe cannoneggiare quei furfanti, ma.... cosa fanno quegli uomini che s’affannano sulle rive del canale?

— Vedi quegli alberi che sorgono in mezzo a quel campicello tenuto con grande cura?...

— Quelle palme?...

— Sì, ed infatti sono palme, ma palme che dànno l’olio di elais, le più pregiate e le più coltivate su tutta la Costa.

— Desidererei vedere quegli alberi famosi, se ne parla ormai tanto.

— Vieni, così ti farò vedere come si ottiene l’olio. —

Lasciarono la carovana che continuava la sua marcia sulla via aperta fra i terreni paludosi e spronati i cavalli, si spinsero verso la piantagione di palme, la quale occupava uno spazio ristretto d’una terra nerastra e molto grassa, a quanto sembrava.

Quelle piante, che formano la ricchezza principale dei reami e delle repubblichette della Costa d’Avorio, avevano l’aspetto grazioso e pittoresco delle palme, con grandi foglie piumate e una altezza di dieci a dodici metri.

Dal tronco pendevano degli enormi grappoli, pesanti almeno dodici o quindici chilogrammi, cogli acini grossi come noci, alcuni rossi ed altri, che erano completamente maturi, di colore nerastro, ma a riflessi rossastri.

— Ecco le palme d’elais, — disse Alfredo, — quelle palme che producono quell’olio così ricercato dai profumieri europei per la fabbricazione dei saponi di lusso, ma che qui viene adoperato in luogo del burro.

[69]

Come vedi, queste piante non hanno bisogno di grandi cure; basta levare attorno ai tronchi le erbe cattive. Si adattano a qualunque terreno, anche a quelli sabbiosi o argillosi e perchè il raccolto sia abbondante non occorre che dell’acqua e qui ne cade perfino troppa durante la stagione delle pioggie.

— Producono una sola volta all’anno?

— No, Antao, due. La prima raccolta, che è piuttosto scarsa, la si fa in novembre e la seconda dal febbraio a giugno ed è la più abbondante.

— E come sono quelle frutta?...

— Sono composte d’una polpa fibrosa, assai grassa e densa, la quale racchiude un nocciolo contenente una mandorla, che però è piuttosto difficile a staccare.

— Ma l’olio da dove si ricava?...

— Quello detto di palma si ottiene colla polpa del frutto. Dapprima si stacca dalla mandorla, la si comprime e la si macera entro una tinozza e se ne cava una specie di polpa di pomodoro, di odore tutt’altro che gradevole, ma che pure viene mangiata avidamente da tutti i negri, anzi si può dire che costituisce il principale nutrimento di questi popoli.

I noccioli invece si lasciano seccare due o tre mesi, poi si levano le mandorle che sono nere e che hanno il gusto della saponaria e servono per fabbricare certi saponi, ma in Europa si adoperano per ricavare un olio finissimo, molto ricercato dai profumieri.

Dalle scorze e dalla polpa si ricava anche, facendole bollire, una specie di burro verdastro, abbastanza gradevole, il quale contiene trentuna parte di stearina e sessantanove d’olio di oliva.

— È quello che si esporta in Europa?

— Sì e l’esportazione rimonta al 1817, cioè da quando un inglese cominciò ad adoperarlo, con grande successo, nella fabbricazione dei saponi profumati. Oggi se ne manda tanto in Europa che la sola Inghilterra ne acquista per duecento milioni di lire.

— Morte di Giove!... Che alberi preziosi!...

— Oh!... Ma non credere che i prodotti di questi alberi si limitino all’olio ed al burro. Colle scorze secche e colla polpa gl’indigeni si fabbricano certe specie di canne che servono per accendere rapidamente il fuoco e le adoperano pure per procurarsi [70] un eccellente sapone nero; colle foglie si coprono le case ed intrecciandole si fabbricano delle ottime stuoie ed incidendo la cima del tronco dell’albero, si procurano giornalmente un litro di quel liquore biancastro che fermenta rapidamente, che è un buon rinfrescante e che tu hai bevuto con molto piacere.

— Il vino di palma?...

— Sì, Antao.

— E quei negri che lavorano sulla sponda del canale stanno preparando l’olio.

— Le frutta sono mature ed è giunto il momento di raccoglierle. Raggiungiamo la carovana o la notte ci sorprenderà lontani dai nostri uomini. —

Spronate le loro cavalcature, un quarto d’ora dopo raggiungevano Asseybo il quale marciava alla testa, dinanzi alle mule che portavano la lettiga dell’amazzone.

Essendo il sole tramontato e non essendo prudente continuare la marcia fra quei terreni paludosi che potevano celare delle sabbie mobili, la carovana s’accampò a breve distanza dal canale, in un luogo che sembrava deserto.

I soliti fuochi furono accesi per cercare di tener lontane le feroci zanzare, poi essendo tutti stanchi s’affrettarono a ritirarsi sotto le tende, mentre Asseybo montava il primo quarto di guardia, ma avevano appena gustata qualche ora di sonno che furono svegliati da un concerto assordante, da un baccano tale da svegliare anche un ubbriaco.

Erano urla acute, poi ululati che salivano al cielo, poi latrati rauchi. Tacevano un istante, poi ricominciavano con maggior vigore, come se presso al campo si fossero radunate dieci dozzine d’animali dotati di polmoni di grande potenza.

— Morte di Giove e di Saturno!... — esclamò il portoghese svegliato di soprassalto. — Chi sono queste canaglie che si permettono di farci simili serenate?... Il diavolo se li porti tutti nel canale!...

— Sono sciacalli, — rispose Alfredo, che si era pure svegliato.

— Pretenderebbero di assalirci?...

— Non oseranno tanto.

— Ma devono essere almeno cento.

— Fossero anche di più, non avrebbero tanto coraggio d’aggredire il nostro campo. Io credo invece che vi sia qualche carogna presso il canale e che se la disputino.

[71]

— Che se la mangino, ma che lascino tranquille le persone che hanno sonno. Ieri sera le zanzare ed ora gli sciacalli! Dannato paese!...

— Turati gli orecchi e cerca di riaddormentarti. Bisogna abituarsi a tutto. —

Antao cercò di mettere in pratica il consiglio del cacciatore, ma senza riuscirvi, perchè tutta la notte quel diabolico concerto durò, senza un minuto d’intervallo.

Gli uomini di guardia tentarono a più riprese di spaventare quegli animali sparando parecchi colpi di carabina, ma senza buon esito. Pareva che nelle vicinanze del canale esistesse qualche carnaio.

Antao, furioso per non aver potuto chiudere gli occhi un solo istante, appena cominciò ad albeggiare svegliò l’amico, per andare a cacciare quegli importuni.

Armatisi delle carabine e chiamato Asseybo che stava facendo l’ultimo quarto di guardia, si diressero verso il canale che distava sei o settecento passi dal campo.

All’incerta luce che biancheggiava verso oriente, la quale però si tingeva rapidamente di riflessi rossastri, scorsero presso le sponde del canale delle bizzarre costruzioni, disposte su di una lunga fila e che pareva si prolungasse indefinitamente.

Sembravano tettoie quadrangolari o meglio ancora dei palchi sorretti da quattro pali e sopra i quali si scorgevano confusamente delle masse informi, dalle quali pendevano degli stracci biancastri che il vento mattutino agitava disordinatamente.

Sotto quelle costruzioni si vedevano numerose bande di animali rassomiglianti ai lupi, lunghi dai sessantacinque agli ottanta centimetri, alti circa mezzo metro, col corpo robusto, le gambe alte, il muso da lupo, gli orecchi corti, la coda lunga e villosa ed il pelame giallo grigiastro a riflessi fulvi.

Tenevano i musi volti verso quegli strani palchi, e ululavano o urlavano con una costanza incredibile.

— Sono curioso, — esclamò Antao, — di vedere a chi fanno quella diabolica serenata quei dannati sciacalli.

— Credo d’indovinarlo, — disse Alfredo. — Asseybo, siamo ancora nel Gran Popo o siamo passati sul territorio del Piccolo Popo?...

— Nel Piccolo, padrone, — rispose il negro.

— Allora so di che si tratta, — disse Alfredo, ridendo.

[72]

— Spero che me lo dirai.

— Sì, Antao. Gli sciacalli hanno fatto una serenata ai morti.

— Mille pescicani!... Ai morti?...

— Sì, Antao. Quelle masse nere che vedi coricate su quelle piattaforme, sono negri morti.

— Ti credo poichè comincio a sentire un certo odore che mi rivolta lo stomaco. Faremo bene a ritornare al campo.

— Aspetta un po’ che si alzi il sole. Dovrai abituarti a questi odori, perchè incontreremo molte tombe, essendo numerosi, nel Piccolo Popo, i negri che muoiono senza aver potuto pagare i loro debiti.

— Cosa vuoi dire? — chiese il portoghese, stupito. — Cosa c’entrano i debiti dei negri con queste tombe?...

— C’entrano per qualche cosa, poichè i negri esposti in tale modo agli insulti delle intemperie ed al becco degli uccelli, sono quei poveri diavoli che non hanno potuto pagare i loro debiti.

Quando un negro muore in questa piccola repubblica, i parenti, prima di dare onorevole sepoltura al defunto, devono assicurarsi se ha pagato tutti i suoi creditori.

Se era in regola, si fanno feste in onore del morto, poi la salma viene sotterrata nella capanna abitata dalla sua famiglia ad una profondità di circa ottanta centimetri.

— Che piacere per la famiglia!...

— E che miasmi si sviluppano durante i grandi calori! Se invece il defunto non ha lasciato tanto da saldare i suoi debiti ed i suoi parenti si trovano nell’impossibilità di raggranellare la somma necessaria, niente danze, niente fracasso coi tam-tam o coi cachere,‍[4] niente fiumi di acquavite. Si fa il meno rumore che sia possibile, si vanno a piantare quattro pali sulle rive del canale, si uniscono con una piattaforma alta dal suolo un metro e ottanta centimetri, si avvolge il cadavere in due o tre pezzi di stoffa, ve lo si colloca sopra col capo un po’ rialzato ed avvolto in una pezzuola bianca pendente ai lati.

Ciò fatto tutti si allontanano, lasciando la misera spoglia esposta ai soli brucianti, alle pioggie, ai venti, agli uccelli, alle mosche ed alle formiche.

— Bel modo di costringere i debitori a pagare i creditori, — [73] disse Antao. — È un sistema che bisognerebbe adottare dappertutto. Ma, dimmi, non si toccano più i morti?

— Le leggi del paese proibiscono severamente che vengano levati ed il fanatismo e la superstizione dànno a quel divieto un carattere sacro.

— Sarà un’onta per la famiglia del defunto.

— Un’onta ed un grande dolore, perchè questi negri credono che i debitori siano condannati, alla loro uscita da questo mondo, a rimanere eternamente alle porte dell’altra vita senza mai potervi entrare.

— Un bello spauracchio in fede mia! Ora che ne so abbastanza alziamo i talloni e lasciamo che quei morti profumino gli sciacalli. Ne ho abbastanza di questi odori nauseabondi.

— Quest’oggi attraverseremo anche il Piccolo Popo e questa sera ci accamperemo sulle rive del Sio. Colà non incontreremo altri morti.

— Desidero le grandi foreste, Alfredo.

— Le ritroveremo fra un paio di giorni.

— E spero che caccieremo della grossa selvaggina.

— Anche degli elefanti, Antao.

— E dei rinoceronti?...

— Anche quelli.

— Ripartiamo presto. Il clima della Costa d’Avorio non mi conferisce troppo e sospiro il momento di ritrovarmi fra il profumo selvaggio delle grandi foreste. Ma.... toh!... Hai veduto, Alfredo?

— Che cosa?...

— Un uomo sorgere fra le erbe del canale e poi subito a scomparire?...

— Sarà un negro che prende un bagno.

— È sparito troppo presto per crederlo un onesto nuotatore.

— Sarà una delle spie.

— Morte di Urano!... Che ci seguono ancora?...

— Lo sospetto.

— Ciò comincia a diventare seccante. Se ci seguissero anche nel paese dei Togo?...

— Ce ne sbarazzeremo, — disse Alfredo, battendo sulla canna della carabina, ma con un gesto minaccioso. — Nei grandi boschi le ritroveremo presto. —

[74]

Capitolo XI. Il «mpungu»

Quando giunsero al campo, i due dahomeni avevano già caricati i cavalli e si trovavano pronti a partire, mentre l’amazzone, la cui guarigione era prossima, si era ricoricata nella sua lettiga, su di un fresco strato di foglie.

Alfredo diede il segnale della partenza e tutti si misero in marcia, tenendosi però lontani dalle rive del canale per sfuggire ai nauseanti odori che tramandavano i poveri debitori.

Ve n’era un buon numero di quei disgraziati, poichè numerosi palchi si vedevano delinearsi verso l’ovest seguendo i capricciosi contorni delle sponde. Alcune di quelle costruzioni erano state erette anche in vicinanza della via percorsa dalla carovana ed allora Antao poteva vedere, non senza un brivido d’orrore, i crani dei negri biancheggianti fra gli stracci che coprivano bene o male i corpi.

Grandi bande d’avoltoi volteggiavano senza posa sopra quei funebri palchi e di quando in quando si vedevano calare impetuosamente sopra quegli scheletri disseccati dal sole e già ripuliti dalle formiche, cercando avidamente l’ultimo brano di pelle.

Ben presto però la carovana abbandonò i tristi paraggi del Piccolo Popo, inoltrandosi nella regione dei Togo,‍[5] vasto paese che si trova racchiuso fra le frontiere del Dahomey all’est, quelle dell’Ascianti e del possedimento inglese della Costa d’Oro all’ovest e le terre dei Krepi a settentrione.

Evitata la capitale dei Togo, onde non perdere tempo, la carovana costeggiò il lago omonimo che è formato dai due fiumi Haho e Sio, poi si spinse un po’ verso settentrione accampando nei pressi di Dalawe, piccola borgata abitata da alcune centinaia di negri.

Il giorno seguente, dopo d’aver attraversato il Sio, uno dei più considerevoli corsi d’acqua che solcano le regioni della Costa d’Avorio, Alfredo, credendo ormai di aver ingannate abbastanza [75] le spie di Kalani sulla sua vera direzione, risalì verso il nord per guadagnare le grandi foreste del centro, ma obliquando leggiermente verso l’ovest, come se volesse puntare su Kewe-Ga che è uno degli ultimi villaggi di frontiera della regione dei Krepi.

Voleva spingersi fino al 7° di latitudine settentrionale per poi piegare definitivamente verso oriente e rientrare nel Dahomey, attraversando l’alto corso del Mono, a meno di trenta o quaranta miglia dalla capitale di Geletè.

Colà era almeno sicuro di varcare le frontiere, senza venire arrestato dalle genti di Kalani.

Verso il tramonto di quello stesso giorno, la carovana accampava in mezzo ai grandi boschi, in una regione affatto selvaggia, fra giganteschi sicomori, bombax, palmizi, platanieri, banani, goyavi, cedri ed aranci di grandi dimensioni.

Le scimmie, così numerose in quelle regioni, ricominciavano ad apparire. Primeggiavano sopratutto le scimmie polto, quadrumani che hanno la testa quasi rotonda ma col muso un po’ sporgente, mani e piedi grandi, unghie robuste e ricurve, la coda corta ed il pelame lanoso, grigio rossastro.

Quantunque non siano più alte di trentacinque o quaranta centimetri, posseggono dei polmoni d’acciaio, poichè lanciano delle grida veramente spaventose.

Queste scimmie hanno un modo curioso per dormire. Invece di rannicchiarsi entro qualche cavo o sulle biforcazioni degli alberi, si aggrappano ai rami coi piedi e colle mani e nascosto il capo sotto l’una o l’altra ascella, rimangono in tal modo sospesi tutta la notte.

Erano anche numerosissimi i machi orsini, scimmie non più alte d’un piede, col muso assai appuntito che somiglia a quello dei piccoli orsi, gli orecchi sottili, il pelame fitto, lanoso, bruno oscuro sul dorso e grigiastro sul ventre.

Antao che era impaziente di abbattere qualche animale, avendo udito Asseybo vantare la delicatezza della carne di quelle scimmie, risolse di approfittare del riposo della carovana per cercare d’ucciderne qualcuna.

Senza svegliare Alfredo che gustava un po’ di sonno sotto la tenda, in attesa della cena, s’armò della carabina e si cacciò in mezzo alla foresta seguito da Asseybo, il quale aveva ricevuto l’incarico di non abbandonare il giovane cacciatore.

[76]

Disgraziatamente gli astuti quadrumani, accortisi della presenza degli uomini, si erano affrettati ad abbandonare i dintorni del campo, ritirandosi nei più fitti nascondigli della grande foresta.

— Sono furbe, — disse il negro al portoghese, il quale si sfogava mandando al diavolo tutte le scimmie dell’Africa. — Sanno che agli uomini piace la loro carne.

— Non credo che siano così intelligenti come tu dici. Comunque sia, spero di regalartene qualcuna.

— Ed io te la preparerò arrostita a puntino, padrone.

— Morte di Giove!... Non sarò certamente io che l’assaggerò. Mi sembrerebbe di diventare un antropofago.

— Se tu l’assaggiassi non diresti così, padrone.

— Può essere, ma te la lascio. Già, si sa, voi altri non siete schifiltosi e sareste capaci di mangiare anche un vostro simile.

— Io no, ma i dahomeni credo che non si farebbero pregare.

— Oh diavolo!... Forse che i dahomeni sono antropofagi?...

— Un po’ sì, padrone. Il re del Dahomey, lo sanno tutti, tiene alla sua corte dei cannibali.

— Che istorie mi narri tu, Asseybo?... — chiese Antao stupefatto.

— Ti racconto ciò che ho veduto nella mia gioventù e che i due dahomeni ti possono confermare. Geletè ha dei mangiatori di carne umana, dei cannibali ufficiali.

— E chi si dà a loro da mangiare?...

— Qualcuno degli schiavi che si decapitano durante la festa dei sacrifici umani. Quegli antropofagi devono scegliere le parti migliori dell’ucciso e mangiarle in presenza del re.

— E col migliore appetito, per accontentare quel mostro umano.

— Certo, ma si dice però che dopo l’orribile cerimonia si affrettino a sbarazzarsi lo stomaco, prendendo un potente emetico.

— Bel paese che andiamo a visitare. Che non salti il ticchio, a quella canaglia di Geletè, di far mangiare anche il piccolo Bruno?...

— Non temere per lui. Kalani non può odiare a tal punto il padroncino e se lo ha destinato a guardiano dei feticci, è segno che non vuole che lo si tocchi. Egli attende il padrone per vendicarsi delle frustate che ha ricevute.

— Se possiamo averlo nelle mani ce ne daremo ben altre!... Basterà che....

[77]

— Zitto padrone.

— Le scimmie?... —

Invece di rispondere, Asseybo aveva fatto tre o quattro salti indietro e guardava la cima d’un grande sicomoro con due occhi che esprimevano un profondo terrore.

— Cosa cerchi? — chiese il portoghese che aveva per precauzione, armata rapidamente la carabina.

— Zitto, padrone, — mormorò il negro con un filo di voce. — Il mpungu!...

— Che un leone mi mangi vivo, se io ti comprendo.

— Il mpungu, padrone. Zitto o siamo perduti.

— Ma io ti dico che non ho paura di nessun mpungu del mondo, dovesse anche essere il diavolo questo signore mpungu.

— Guarda lassù, padrone. —

Il portoghese, che non aveva capito nulla affatto di quanto aveva detto il negro e che non comprendeva la paura di lui, alzò gli occhi e vide, a circa otto metri da terra, una specie di nido di grandi dimensioni, costruito con alcuni grossi bastoni appoggiati alle biforcazioni dei rami.

— Il nido di qualche grosso uccello forse? — chiese. — Fosse anche un’aquila, non trovo il motivo di spaventarsi.

— No d’un uccello padrone, ma di una grande scimmia, tanto robusta da sfidare dieci uomini.

— D’un gorilla?... Diamine, la cosa cambia aspetto e credo che tu abbia ragione di spaventarti. Ma caro Asseybo, non spira buona aria per noi qui, se si tratta d’uno di quei formidabili scimmioni. L’hai veduto il tuo pum.... mpin.... Lampi!... La tua bestiaccia infine?...

— No ed il nido mi sembra vuoto, ma il mpungu può ritornare da un momento all’altro e farci a pezzi.

— Prima che ritorni lui, torniamo noi al campo. —

Il portoghese, che aveva udito parlare della forza prodigiosa e della ferocia di quei mostri villosi, girò lestamente sui talloni e preceduto dal negro prese la via del campo.

Il sole tramontava rapidamente e l’oscurità si addensava presto sotto la foresta. Bisognava affrettarsi per evitare dei cattivi incontri ed anche per non smarrirsi, cosa facilissima in mezzo a quelle migliaia e migliaia di tronchi ed a quel caos indescrivibile di radici, di liane e di cespugli fittissimi.

Già i pipistrelli giganti cominciavano a lasciare gli alberi ai [78] cui rami si erano tenuti appesi durante il giorno, qualche urlo di sciacallo si era fatto udire, segnale delle fiere che stavano per abbandonare i loro covi per rimettersi in caccia.

Qualche gazzella passava talora, rapida come un lampo, per andare a dissetarsi o per raggiungere il suo nascondiglio prima dell’uscita dei carnivori, mentre le scimmie s’affrettavano a raggiungere le più alte cime degli alberi per mettersi fuori di portata dagli assalti dei leopardi.

Asseybo, le cui inquietudini aumentavano col calare delle tenebre, temendo di essersi troppo allontanato dal campo affrettava sempre più la marcia, incitando il portoghese a fare altrettanto e girava all’intorno sguardi spaventati. Un uomo come lui, compagno di caccia d’Alfredo, non doveva temere l’incontro di un carnivoro; il suo terrore doveva derivare dalla tema di trovare sulla sua via il mostruoso mpungu.

Ad un tratto s’arrestò, celandosi rapidamente dietro il grosso tronco d’un albero.

— Hai udito, padrone? — chiese al portoghese, che lo aveva prontamente imitato.

— Non ho udito nulla, — rispose Antao, il quale aveva armato il fucile.

— È stato spezzato un ramo a breve distanza da noi.

— Lo avrà spezzato qualche animale.

— Temo che sia stato il mpungu.

— Al diavolo il tuo mpungu. So che è terribile, ma infine abbiamo due fucili e con una palla piantata nel cuore si uccide anche un elefante.

— Il mpungu non si uccide, padrone.

— Lo vedremo, Asseybo.

— Zitto!... Odi?... —

Uno scricchiolio di rami spezzati e di foglie secche calpestate si era udito in mezzo ad un macchione di alberi, discosto una cinquantina di metri. Anche i rami bassi delle piante si udivano a spostarsi, come se qualche grosso animale cercasse di aprirsi il passo.

— Vi è qualche belva là dentro, — mormorò Antao, alzando lentamente il fucile.

In quell’istante una massa oscura, non ancora ben distinta, allargò dei rami e comparve arrestandosi sul margine del macchione. Il portoghese l’aveva presa rapidamente di mira, ma [79] Asseybo con un gesto rapido gli aveva afferrato il fucile, abbassandoglielo.

— Non tirare padrone, — gli mormorò con voce tremante. — Il mpungu!...

— Morte di Nettuno!...

— Non farti udire. —

La scimmia gigante, forse avvertita della presenza dei due uomini dal suo olfatto finissimo, si era avanzata di otto o dieci passi, ma poi si era arrestata in uno spazio scoperto come fosse indecisa se indietreggiare o avanzare.

Antao che era più vicino, poteva osservare comodamente quel mostro delle foreste equatoriali che mai fino allora aveva veduto, poichè tali scimmie non si possono prendere vive, data la loro forza prodigiosa e la loro ferocia.

Era alta un metro e sessanta e fors’anche di più, statura niente affatto straordinaria, essendovene talune che misurano perfino un metro e ottanta centimetri; aveva le spalle larghissime, il corpo d’una lunghezza sproporzionata, avendo le gambe assai corte, ma aveva invece le braccia lunghissime e quali braccia!... Parevano due tronchi d’albero nodosi, ma quei nodi erano costituiti da muscoli prodigiosamente sviluppati.

Le mani ed i piedi, corti, larghi e grossi, terminavano con unghie robuste e ricurve, armi formidabili, poichè si dice che con quelle può sventrare facilmente un uomo o strappargli una spalla!...

La faccia di quel mostro villoso ispirava paura, tanta era l’espressione feroce e bestiale che vi traspariva. Quegli occhi piccoli, bruni, infossati, che avevano dei lampi strani; quel naso depresso, quella bocca larghissima armata di denti lunghi e così solidi da schiacciare la canna d’un fucile come un semplice bambù; quelle labbra grosse e quel mento corto, davano alla scimmia antropomorfa un aspetto ben poco rassicurante.

I gorilla non sono molto numerosi e difficilmente s’incontrano al di là della zona equatoriale africana, però non sono nemmeno rari, specialmente nelle fitte foreste della Guinea e del Congo. Pare invece che manchino affatto nelle regioni orientali del continente nero.

Per lo più vivono in due, maschio e femmina, ma qualche volta se ne sono veduti cinque o sei uniti. S’incontrano anche dei solitari, i quali sono dei vecchi maschi e questi sono i più formidabili, i più feroci.

[80]

Si tengono ordinariamente celati nei grandi boschi, preferendo quelli umidi, ma amano anche gli altipiani rocciosi e le vallate profonde e poco illuminate. Sono però nomadi ed è raro che soggiornino molto in un luogo, ma ciò deriva dalle difficoltà che incontrano nel provvedersi di viveri. Essendo formidabili consumatori di frutta e specialmente di canne di zucchero selvatiche e di quelle erbe succolenti chiamate amomun granum paradisi, sono costretti a cambiare residenza molto sovente.

Quantunque appartengano alla razza delle scimmie, stanno più volentieri a terra che sugli alberi, ma non si creda che quando camminano si tengano ritti come gli uomini. La loro andatura ordinaria è quella dei quadrupedi anzichè dei bipedi, però talvolta si mantengono per qualche tempo in piedi e fanno anche, in quella posizione, dei tratti di via.

Al pari delle grandi scimmie del Borneo, dei mias, sono di umore triste, ma sono però più feroci, più violenti. Se incontrano degli uomini cercano possibilmente di evitarli e tutt’al più manifestano la loro inquietudine battendosi fortemente l’ampio petto, che allora risuona come un tamburo, ma guai se vengono assaliti!... Allora più nessun pericolo li trattiene; e consapevoli della propria forza si scagliano risolutamente sugli avversari che hanno osato disturbarli.

Più nulla resiste a loro. I fucili non hanno sempre la vittoria, poichè quei giganti, se non sono toccati al cuore o nel cervello, possono sfidare parecchie palle. Colle possenti mani spezzano le più solide carabine o le schiacciano coi denti; torcono le lancie, spezzano le scuri e guai all’imprudente che cade nelle loro mani!... Un pugno solo basta per sfondare il cranio più resistente; un colpo d’unghia è più che sufficiente per aprire il petto più solido.

I negri hanno una paura immensa dei gorilla e non osano assalirli, anche se si radunano in grosso numero. Preferiscono piuttosto abbandonare i loro villaggi ed i loro campi coltivati, i quali non tardano a venire saccheggiati e distrutti. Non è raro il caso che qualche vecchio gorilla abbia rapito delle negre per poi strozzarle. Si narra però che alcune poterono ritornare ai loro villaggi ancora vive, ma prive delle unghie delle mani e dei piedi state a loro strappate dal rapitore!...

 
.... poi le forze improvvisamente l’abbandonarono e quell’enorme corpo rovinò pesantemente attraverso i rami.... (Pag. 93).

[81]

Capitolo XII. La scomparsa dell’amazzone

Il mpungu che era uscito dalla macchia, come si disse, si era arrestato su di uno spazio scoperto, come se fosse indeciso fra l’andare innanzi od il ritornare sotto l’ombra oscura degli alberi.

Il suo udito, che è finissimo, doveva averlo già avvertito della presenza degli uomini o per lo meno di nemici forse pericolosi e si era fermato in quella posa che è speciale a tali scimmioni, cioè colle ginocchia un po’ piegate, il dorso curvo e le braccia penzoloni. Pareva che ascoltasse con profonda attenzione, mentre i suoi piccoli occhi, che brillavano in mezzo al pelame quasi nero del suo muso, scrutavano le piante vicine con inquietudine.

Stette così parecchi minuti, poi si lisciò più volte la folta pelliccia grigiastra che sul petto era assai lunga, almeno otto o dieci centimetri, quindi si rimise in cammino, tenendo però il capo volto verso l’albero sotto il quale si tenevano nascosti Antao ed il negro, come se avesse indovinato che il pericolo stava da quella parte.

Giunto presso un altro macchione si fermò ancora qualche istante, fissando sempre l’albero, poi volse le spalle e scomparve definitivamente sotto la cupa ombra dei macchioni.

— Se n’è andato, — disse Asseybo, respirando liberamente.

— Sì, — rispose Antao, con un po’ di rincrescimento. — Avrei però preferito che si fosse avvicinato al nostro albero.

— Per farci uccidere?... Era un vecchio maschio e quelli sono pericolissimi, padrone.

— Come sai tu che era un vecchio maschio?

— Perchè aveva il pelame grigiastro, mentre i giovani lo hanno bruno più o meno oscuro.

— Spero però di ucciderlo egualmente.

— Non toccarlo, padrone.

— Alfredo non lo risparmierà. Domani mattina andremo a scovarlo. —

Potendo la scimmia gigante ritornare da un momento all’altro, il portoghese ed Asseybo affrettarono il passo per giungere [82] presto al campo, onde non accrescere le inquietudini di Alfredo con una prolungata assenza.

Dopo d’aver fatto parecchi giri e rigiri scorsero finalmente i fuochi del campo scintillare fra i rami della foresta. A trecento passi trovarono Alfredo, il quale stava mettendosi in cerca di loro in compagnia d’un dahomeno, temendo che si fossero smarriti. Informato dell’incontro del gorilla, malgrado il suo provato coraggio, manifestò un po’ d’inquietudine.

— È un vicino pericoloso, — disse. — Amerei meglio che fosse molto lontano.

— Bah! — rispose Antao. — Abbiamo cinque carabine e sapremo metterlo a dovere, se avrà il ghiribizzo di disturbarci.

— Non ne avremo che due, Antao. Sui negri non bisogna contare, avendo troppa paura di quelle formidabili scimmie. Speriamo però che ci lasci tranquilli. —

Cenarono in fretta, avendo deciso di rimettersi in marcia di buon mattino, poi si coricarono sotto le tende, mentre Asseybo ed un dahomeno montavano il primo quarto di guardia.

Si erano però appena coricati, quando in mezzo alla foresta si udì echeggiare una specie di rullo di tamburo, ma assai più sordo, più monotono.

— Il gorilla? — chiese Antao, alzandosi prontamente. — Questo suono l’ho udito ancora questa sera.

— Sì, è il mpungu, — rispose Alfredo, che aveva impugnata rapidamente la carabina. — Pare che sia irritato.

— Che voglia assalirci?...

— Non lo credo, ma non bisogna fidarsi. —

S’alzarono ed uscirono dalle tende. Asseybo ed il suo compagno, spaventati da quel rullo che ben conoscevano, si erano riparati dietro ai fuochi, puntando i fucili verso la foresta.

— Si vede? — chiese Alfredo.

— No, padrone, — rispose Asseybo, ma pare che non sia lontano.

— Che sia quello che abbiamo incontrato questa sera? — chiese Antao.

— Può essere la sua compagna, — rispose Asseybo.

— È meno pericolosa ma pur sempre formidabile, — disse Alfredo. — Non spaventatevi e tenetevi vicini ai fuochi. —

Avevano appena pronunciate quelle parole, quando si udì rintronare uno sparo, seguito poco dopo da un possente ruggito, [83] simile a quello che manda un leone in furore e da un urlo umano ma che subito si spense in un gemito strozzato.

— Morte di Nettuno! — urlò Antao. — Chi è stato assalito?... —

Alfredo senza rispondere, aveva raccolto un ramo acceso e si era slanciato verso la foresta, portando con sè la carabina. Antao ed Asseybo l’avevano tosto seguìto, per aiutarlo nel caso che l’uomo dei boschi lo assalisse, mentre i due dahomeni, pazzi di terrore, urlavano come se venissero scorticati.

La detonazione era echeggiata a soli tre o quattrocento passi dal campo, era quindi facile giungere sul luogo della lotta. Alfredo, tenendo nella sinistra il ramo acceso che lanciava in aria scintille e nella destra la carabina armata, segnava la via e precipitava la corsa, sempre seguìto dai suoi due compagni.

Si era già allontanato dalle tende quattro o cinquecento metri, inoltrandosi in mezzo alla foresta che diventava sempre più fitta, quando alla luce del ramo che non si era ancora spenta, scorse qualche cosa che luccicava fra le foglie secche e le alte erbe.

Si curvò rapidamente e vide che quell’oggetto era la canna d’un fucile, ma contorta come se fosse stata una semplice verga di rame.

— È qui che è accaduta la lotta, — disse, gettando all’intorno un rapido sguardo, per assicurarsi da un improvviso assalto.

— Fulmini di Giove!... — esclamò Antao, che lo aveva raggiunto. — Questa canna deve essere stata ridotta in così deplorevole stato dal gorilla.

— Sì, — rispose Alfredo. — Stiamo in guardia, poichè il mpungu può esserci vicino.

— Ecco il calcio del fucile spezzato, — disse Asseybo.

— Lo scimmione lo ha sgretolato come fosse un biscottino, — disse Antao. — Che denti!... Quelli dei leoni non devono essere così robusti. Ma dove sarà il disgraziato proprietario di quest’arma?...

— Lo troveremo presto, — rispose Alfredo. — Badate agli alberi voi; il mpungu può essersi nascosto fra i rami e può piombarci addosso.

— Non temere, — disse il portoghese. — Ho il dito sul grilletto della carabina. —

[84]

Alfredo si era spinto innanzi dopo d’aver soffiato sul ramo per ravvivare la fiamma, ma fatti pochi passi si era nuovamente arrestato, gettando un grido d’orrore.

Ai piedi d’un albero aveva scorto il cadavere d’un negro d’alta statura ed interamente nudo, ma in quale stato orribile era ridotto quel povero corpo. Tutta la pelle del viso assieme agli occhi ed al naso era stata strappata come da un formidabile colpo d’artiglio; il petto spaccato come da un colpo di scure, mostrava i polmoni ed una spalla dell’infelice portava le impronte sanguinose di larghi denti.

Quel negro doveva essere stato assalito dalla scimmia gigante e dopo d’aver perduto il fucile, la cui palla non era di certo bastata per abbattere il terribile avversario, era stato massacrato a colpi d’unghie ed a morsi.

— È orribile! — esclamò Antao, che cominciava a perdere la sua audacia dinanzi a quella prova del vigore mostruoso del mpungu. — Simili quadrumani fanno davvero paura.

— In ritirata, — comandò Alfredo. — Nulla possiamo fare per questo povero uomo.

— Sì, torniamo al campo, padrone, — disse Asseybo. — Il mpungu può assalire i nostri uomini.

— Ma chi sarà questo negro?... — chiese Antao. — Qualche cacciatore forse?...

— Credo invece che sia una delle spie che ci seguono, — rispose Alfredo. — Se il gorilla non gli avesse guastato il viso, avremmo potuto facilmente riconoscerlo se era un dahomeno od un costiero.

— Se era una spia ringrazio la scimmia gigante che ci ha sbarazzati da una di quelle mignatte. —

In quel momento, verso il campo, si udirono urla di terrore, poi due spari ed un nitrire di cavalli.

— Gran Dio! — esclamò Alfredo. — Cosa succede?...

— Il mpungu ha assalito i nostri uomini, — disse Asseybo, impallidendo.

— Al campo!... al campo!... —

I tre uomini si precipitarono in mezzo alla foresta cercando di non smarrirsi in mezzo a quelle migliaia d’alberi, ma dovettero ben presto comprendere che il ritorno non era facile con quella oscurità, tanto più che il ramo si era spento.

Udendo delle grida, che parevano mandate dai loro uomini, [85] allontanarsi verso destra, credettero che il campo si trovasse in quella direzione e si diressero a quella volta, impegnandosi invece in mezzo ad una rete inestricabile di rami, di tronchi, di radici enormi e di liane.

Fortunatamente Asseybo aveva scorto dei bagliori sulla loro sinistra ed immaginandosi che il campo si trovasse invece da quella parte, s’affrettarono a ritornare.

Non si erano ingannati, poichè pochi minuti dopo giungevano in vista dei fuochi accesi dinanzi alle tende, ma con loro grande sorpresa non trovarono i loro uomini che avevano lasciati a guardia della giovane negra. Anche i cavalli e buona parte delle casse erano scomparse; solamente due animali, forse perchè più solidamente legati, non avevano potuto fuggire.

— Morte di Nettuno! — urlò Antao. — Cosa è accaduto qui? —

Alfredo si era affrettato ad entrare sotto la tenda che era stata riservata alla giovane negra, ma uscì subito, dicendo:

— La donna non vi è più!...

— È impossibile, Alfredo!...

— Ti dico che è scomparsa, Antao.

— Si sarà nascosta nei dintorni.

— Ed anche i dahomeni sono fuggiti, — disse Asseybo.

— I vili!... — gridò Antao. — Ed i cavalli?...

— E le nostre casse, padrone?...

— Possibile che il gorilla abbia portato via tutto?...

— Lasciamo i cavalli e le casse e occupiamoci della donna, Antao, — disse Alfredo, con voce agitata. — Temo una orribile sciagura.

— Che il gorilla l’abbia uccisa?...

— Forse peggio, Antao. — Temo che l’abbia rapita.

— Ma noi sappiamo dove ha il suo covo.

— Vediamo se è nascosta innanzi tutto. Le sue ferite, non ancora rimarginate, non devono averle permesso di allontanarsi troppo. —

Stavano per munirsi di rami accesi per mettersi in cerca dell’amazzone, quando videro comparire i due dahomeni. Quei poveri diavoli parevano impazziti per lo spavento, poichè tremavano ancora come se avessero indosso la febbre, ed erano diventati, grigi, cioè pallidi, ed i loro grandi occhi manifestavano un vivo terrore.

— Padrone!... — gridarono, vedendo Alfredo. — Il mpungu!

[86]

— Dov’è? — chiese il cacciatore.

— È fuggito.

— Ma cosa è avvenuto?... Spicciatevi, parlate.

— Si è avvicinato al campo per assalirci, noi abbiamo scaricate le armi, ma poi abbiamo avuto paura e siamo fuggiti. Se l’avessi veduto come era furibondo!...

— Ma la negra?....

— La donna?... — esclamarono con stupore. — Non è nella tenda?

— No, è scomparsa.

— Allora l’ha rapita il mpungu.

— Ma l’avete veduto a rapirla?...

— No, padrone.

— Allora bisogna cercare il gorilla e ucciderlo, — disse Antao. — Non possiamo lasciare quella disgraziata nelle mani di quell’orribile mostro.

— Un momento di pazienza, Antao, — disse Alfredo. — Non precipitiamo le cose, innanzi tutto. Ditemi: quando il mpungu comparve presso il campo, dormiva ancora la donna?...

— Sì, padrone, — risposero i due schiavi.

— Quando siete fuggiti, l’avete veduta uscire?...

— Non lo sappiamo. Abbiamo avuto tanta paura dei ruggiti del mpungu, che ci siamo dati alla fuga senza più curarci del campo, nè della donna.

— L’avete almeno ferito il mostro?...

— Sì, padrone, poichè perdeva sangue da una spalla.

— Credete che la donna abbia avuto il tempo di fuggire?...

— Non è possibile, padrone. Il mpungu era a pochi passi dai fuochi.

— Asseybo, — disse Alfredo, volgendosi verso il servo. — Ho fatto mettere delle torce resinose nelle nostre casse. Guarda se ne trovi qualcuna.

— Ma dove saranno andate le altre casse?... — chiese Antao. — Ne avevamo dodici e non ne sono rimaste che quattro.

— Avevate caricati i cavalli? — chiese Alfredo, ai dahomeni.

— No, padrone.

— Ecco un mistero inesplicabile. È impossibile che il gorilla abbia portata via la donna e le nostre casse.

— Che il gorilla avesse dei compagni?...

— È possibile, Antao.

[87]

— Ma i cavalli?...

— Avranno avuto paura e saranno fuggiti dopo di aver spezzate le corde, ma più tardi li ritroveremo se non cadono sotto le zanne delle fiere. —

Asseybo intanto aveva trovate alcune torce e ne aveva accese due. Essendo formate di fibre vegetali imbevute di resina, spandevano all’intorno una luce abbastanza viva per potersi avventurare anche sotto quella tenebrosa foresta.

— Voi rimarrete qui, — disse Alfredo ai due dahomeni. — Badate che se lasciate il campo una seconda volta, vi giuro che non rivedrete nè il Dahomey nè Porto Novo. Nulla d’altronde avrete da temere, poichè al mpungu pensiamo noi. Vieni, Anteo; andiamo mio bravo Asseybo. —

Quantunque fossero persuasi che la giovane negra fosse stata rapita dall’orribile scimmione, perlustrarono i dintorni del campo per accertarsi che non si fosse nascosta in mezzo a qualche macchia, ma vedendo l’inutilità di quelle ricerche, si misero risolutamente in caccia, risoluti a scovare il formidabile avversario.

Asseybo, che aveva maggior conoscenza di tutti dei grandi boschi e che fino ad un certo punto sapeva trovare una via già prima percorsa, si era messo alla testa per condurre i due cacciatori sotto l’albero, sui cui rami aveva veduto il covo del mpungu.

Il momento non era certo propizio per quella caccia pericolosissima, potendo il gorilla sfuggire facilmente alle loro ricerche colla sua preda, favorito dall’oscurità, pure i tre animosi uomini non disperavano della loro riuscita.

— Aspetteremo l’alba per assalire il mostro, — disse Alfredo al portoghese che lo interrogava, — ma intanto circonderemo l’albero e se il mpungu si decide a scendere, lo fucileremo a bruciapelo. Non possiamo azzardare delle palle ad una certa distanza, poichè con queste tenebre potremmo colpire anche la povera giovane.

— Credi che non l’abbia strangolata?...

— Speriamo che il mostro non abbia sfogata la sua rabbia su quella donna.

— Ma che l’abbia nascosta nel suo nido?...

— Certo, Antao.

— La situazione dell’amazzone può diventare pericolosa. Se il gorilla la gettasse a terra?...

[88]

— Non l’abbandonerà, Antao, ma cercherà di certo di portarsela seco nella sua fuga.

— Ed allora se lo uccidiamo mentre si trova in alto, la ragazza cadrà.

— Cercheremo di farlo scendere. È isolato l’albero sul quale avete scorto il nido?...

— Sì, Alfredo.

— Allora abbiamo la speranza di costringerlo a calarsi a terra. Ci siamo, Asseybo?... —

Il negro, che si era bruscamente arrestato, non rispose; pareva che ascoltasse qualche lontano rumore.

— Hai udito qualche grido?... chiese il portoghese.

— Dei nitriti, — rispose il negro.

— Dove?... — chiese Alfredo.

— Laggiù, padrone.

— In mezzo al bosco?

— Sì, ma mi parvero assai lontani.

— Saranno i nostri cavalli che cercano di ritornare al campo.

— Lo credo anch’io, padrone.... Udite?... —

I due cacciatori tesero gli orecchi, ma invece di nitriti udirono quel sordo rullìo che producono i gorilla quando si battono il petto.

— Il mpungu, — disse Alfredo.

— E ci è vicino, — aggiunse Antao.

— Spengiamo le torce ed avanziamoci con precauzione. Non bisogna allarmare il mostro od è capace di strangolare la povera giovane. —

Le torce furono spente ed i tre uomini procedendo carponi per non urtare contro i rami bassi degli alberi, poco dopo giungevano sotto un grande sicomoro il quale s’alzava isolato in mezzo ad una piccola radura.

— È lassù, — disse Asseybo, con un filo di voce.

— Sta bene, — rispose Alfredo, con voce tranquilla. Il mostro non ci sfugge più!

[89]

Capitolo XIII. La caccia al gorilla

I tre cacciatori, nascosti fra le alte erbe che coprivano quella piccola radura, cercavano di scrutare il folto fogliame del grande albero, sperando di scoprire il mostruoso gorilla o la sua prigioniera, ma l’ombra proiettata da quell’enorme ammasso di rami e di foglie era troppo nera per poter discernere qualche cosa. Il nido, o meglio la piattaforma costruita su due dei più grossi rami, si scorgeva confusamente a circa sette metri dal suolo.

Asseybo non si era adunque ingannato arrestandosi in quel luogo ed il mostro doveva trovarsi lassù, poichè di tratto in tratto si udiva la sua rauca respirazione ed i legni della piattaforma scricchiolare.

Non era però cosa facile costringerlo a scendere, poichè tali scimmioni ordinariamente non assalgono se prima non vengono feriti, e poi di rado abbandonano gli alberi sui quali hanno fabbricato il loro covo, non ignorando forse che la piattaforma è sufficiente a difenderli.

— Per ora non possiamo assolutamente far nulla, — mormorò Alfredo, agli orecchi di Antao. — Con questa oscurità non è cosa prudente aprire il fuoco.

— Se provassimo a mandare una palla sotto la piattaforma?...

— Può attraversare i rami e colpire la donna.

— È vero, non ci avevo pensato, Alfredo. Ma che la negra sia proprio lassù?...

— Se non è stata uccisa, deve trovarsi ancora sulla piattaforma.

— Ma si dovrebbe udire qualche gemito. Essendo ferita, il mostro deve averla ridotta in tristi condizioni con la sua poca galanteria.

— Frenerà i gemiti per tema d’irritare il bestione.

— Che non vi sia modo di accertarsi se è lassù?... Quella povera ragazza m’interessa, Alfredo.

— Ti dico che se si trova su quest’albero la salveremo.

— Dimmi, hanno il sonno profondo i gorilla?...

— Perchè mi fai questa domanda?...

[90]

— Se fossi certo che il rapitore non si svegliasse, vorrei cercare di salire lassù.

— Sei pazzo. Antao. Una simile imprudenza non te la permetterò mai. Accomodiamoci alla meglio fra queste erbe ed aspettiamo pazientemente l’alba.

— Circondiamo l’albero?

— Sì, tu va’ a coricarti alla mia destra ed Asseybo alla mia sinistra. Se il gorilla scende, lo vedremo. —

Il portoghese ed il negro si allontanarono strisciando senza far rumore e si sdraiarono dall’altra parte del grosso tronco, coprendo la batteria delle carabine per difendere le capsule dall’umidità della notte.

Le ore passavano lente come se fossero diventate doppie, ma il gorilla non lasciava l’albero protettore. Lo si udiva però sempre a russare e qualche volta a voltarsi, facendo scricchiolare le traverse della piattaforma.

Cosa strana però e che inquietava tutti e tre i cacciatori: l’amazzone non dava segno di vita. Tendevano sempre gli orecchi sperando di udire qualche gemito, ma senza alcun risultato.

Alfredo cominciava a temere che la disgraziata invece di essere stata portata lassù, fosse stata uccisa e poi gettata in mezzo a qualche folto macchione.

Finalmente verso le tre e mezzo una luce biancastra cominciò ad apparire all’orizzonte, facendo impallidire gli astri. Essendo l’alba brevissima in quelle regioni equatoriali, fra pochi minuti ci si doveva vedere anche sotto la foresta.

Già qualche uccello cominciava a svegliarsi facendo udire un timido gorgheggio, mentre gl’insetti si levavano a sciami salutando la prima ondata di luce dorata con acuti ronzii. Una banda di pappagalli grigi ruppe bruscamente il silenzio che regnava sotto gli alberi, con un cicalìo assordante.

In alto, verso la piattaforma, si udirono tosto degli scricchiolii, poi un lungo sbadiglio: il gorilla si svegliava.

Antao ed Asseybo avevano subito raggiunto Alfredo e tutti e tre guardavano in alto, sperando di scorgere qualche lembo del vestito dell’amazzone, ma i rami erano intrecciati troppo strettamente per vedere cosa si trovava sopra la piattaforma.

— Amici miei, — disse ad un tratto Alfredo, con viva emozione. — Temo che la povera ragazza non si trovi lassù.

[91]

— Comincio a crederlo anch’io, — disse Antao, — ma almeno la vendicheremo.

— Scorgi nulla Asseybo?

— Non vedo che un piede del mpungu sporgere dalla piattaforma, — rispose il negro.

— Snidiamolo, Alfredo, — disse il portoghese. — Io non me ne andrò da qui, se prima non avrò la certezza che quella disgraziata non si trova lassù!

— Non ho alcuna intenzione di risparmiare il mostro, Antao. Tenetevi presso di me e non fate fuoco se non siete sicuri del colpo od il gorilla ci farà a pezzi. —

In quel momento si udì in alto un sordo brontolìo ed i rami che formavano la piattaforma gemettero.

— In guardia, — disse Alfredo, scostandosi dall’albero e puntando in alto la carabina.

Il gorilla, accortosi della presenza dei tre cacciatori, cominciava ad irritarsi e manifestava la sua collera battendosi l’ampio petto, il quale risuonava come un tamburone.

Ad un tratto comparve sul margine della piattaforma, ma per un solo istante. Quell’apparizione fu rapida, ma bastò ad Antao per farsi un’idea dell’aspetto spaventoso di quei giganti delle foreste, allorquando sono irritati.

Il suo pelame grigio ferro era diventato irto come quello di un gatto in collera; i suoi muscoli poderosi pareva che fossero raddoppiati di volume, mentre la sua brutta faccia manifestava una collera selvaggia, ripugnante, con quei suoi occhi infossati, grigi, ma che avevano uno strano splendore.

— Morte di Saturno!... — mormorò Antao. — È ben brutto quel diavolone di scimmia. —

Alfredo intanto cercava di scoprire il formidabile avversario per mandargli una palla nel cranio o nel petto, ma il mpungu, non giudicando forse giunto il momento d’impegnare la lotta, si teneva riparato nel suo ampio nido, senza mostrare la più piccola parte del suo corpo.

La sua collera però aumentava di momento in momento. Non si batteva più il petto coi pugni, ma ora lanciava dei ruggiti, suoni strani che cominciano con una specie di latrato, che poi si cambiano in un sordo brontolìo e che finiscono in un ruggito infinitamente più potente di quello dei leoni e che pare non esca dalla gola, ma dalle ampie cavità del petto. Talora invece [92] emetteva dei fragori che somigliavano perfettamente ai rulli prolungati del tuono udito in lontananza.

Per un po’ di tempo il mpungu si limitò a far udire la sua voce, poi si diede a scuotere furiosamente i rami vicini, facendo piovere sui cacciatori una vera pioggia di frutta e di foglie, quindi con un salto immenso si slanciò su di un grosso ramo che si curvava verso terra, forse coll’intenzione di lasciarsi cadere giù.

Eccolo!... — gridarono Antao ed Asseybo, retrocedendo vivamente.

Alfredo non si era mosso, nè aveva staccata l’arma dalla spalla. Vedendo il gorilla in piedi sul ramo, col pelame arruffato, gli occhi in fiamme, le labbra contratte che mostravano i lunghi denti, alzò rapidamente la canna e fece fuoco.

L’enorme scimmia lanciò un ruggito furioso che echeggiò come uno scoppio di tuono, ma che poi si cambiò in un grido di dolore che aveva qualche cosa d’umano, poi abbandonando bruscamente il ramo, con un secondo salto guadagnò la piattaforma protettrice.

— È colpito! — gridò Antao, passando la sua carabina ad Alfredo.

Delle larghe goccie di sangue, filtrando attraverso i rami incrociati del nido, cadevano al suolo bagnando le erbe ed una era andata a colpire il portoghese, lordandogli la camicia.

Alfredo, sempre impassibile, aveva rialzata la seconda carabina per mandare al mostro una seconda palla, ma non poteva scorgerlo.

— Che sia morto? — chiese Antao, che ricaricava prontamente l’arma del compagno.

— Non lo credo, — rispose il cacciatore. — Odo i rami della piattaforma scricchiolare.

— E la ragazza?...

— Credo che non ci resti che vendicarla, Antao.

— Ma troveremo almeno il suo cadavere.

— Bada!...

— Eccolo, padrone!... — urlò Asseybo.

Il gorilla era tornato a balzare sul ramo. Con una mossa fulminea sfuggì alla seconda palla del cacciatore, ma invece di scendere risalì più in alto, come se avesse intenzione di rifugiarsi sugli ultimi rami.

[93]

Alfredo gettata via l’arma scarica, prese quella di Asseybo e fece nuovamente fuoco contemporaneamente ad Antao.

La grande scimmia questa volta ricevette le due palle in pieno petto. Fu vista arrestarsi un istante portandosi una mano sulle ferite sanguinanti, poi le forze improvvisamente l’abbandonarono e quell’enorme corpo rovinò pesantemente attraverso i rami del sicomoro, e schiantandoli venne a cadere, con sordo fragore, quasi ai piedi del tronco.

— È morto!... — esclamò Antao.

— Sali Asseybo, — disse Alfredo. — Forse lassù vi è il cadavere della povera ragazza. —

Il negro s’aggrappò ai rami bassi del sicomoro e si mise ad arrampicarsi lungo il tronco con quell’agilità sorprendente che è una particolarità delle razze negre. In meno di venti secondi giunse alla biforcazione dei rami e aggrappatosi ai margini della piattaforma, vi si issò con un solo slancio.

— Nulla? — chiesero Alfredo ed Antao, con ansietà.

— Nulla, — rispose il negro.

— Non vi è alcuna traccia della ragazza, nemmeno un lembo delle sue vesti?...

— Non vi sono che dei ciuffi di peli e dei rimasugli di frutta. —

Una sorda esclamazione irruppe dalla labbra del portoghese.

— Nulla!... —

Poi incrociando le braccia e guardando l’amico che pareva immerso in profondi pensieri, gli chiese.

— Cosa faremo ora?...

— Cosa faremo?... — rispose Alfredo. — Frugheremo la foresta, nè la lasceremo se prima non avremo trovato il cadavere della giovane negra.

— Torniamo al campo?...

— Più nulla abbiamo da fare qui. Sono impaziente di rivedere i due dahomeni.

— Temi qualche cosa?...

— Non so, ma da qualche minuto un sospetto mi tormenta, Antao.

— E quale?...

— La inesplicabile sparizione delle nostre casse.

— Morte di Saturno!... È vero, Alfredo. Mi pare stranissima la sparizione e stento a credere che siano stati i gorilla a portarle [94] via, specialmente ora che sappiamo che non ve n’era che uno su quest’albero.

— È precisamente per questo che attribuisco ad altri il furto.

— Ma a chi?...

— Alle spie che ci seguivano.

— Uragani e folgori!... — esclamò Antao, colpito da quella risposta. — Questo sospetto non mi era venuto in mente e temo che....

— Che cosa?...

— Che quel povero gorilla non avesse preso parte alcuna nel rapimento della ragazza.

— Lo credo anch’io, Antao, ma dai due dahomeni sapremo forse qualche cosa.

— Ma a quale scopo le spie avrebbero rapito l’amazzone?...

— L’avranno riconosciuta per una loro compatriota, forse avranno creduto che noi la tenessimo prigioniera per giovarci della sua conoscenza del Dahomey e l’avranno portata con loro, credendo di liberarla.

— Torniamo presto al campo, Alfredo. Bisogna dilucidare questo mistero e se i nostri sospetti sono fondati, dare la caccia ai ladri.

— È ciò che faremo, poichè le casse rubate contengono ciò che più m’interessa e sopratutto le nostre munizioni e gli oggetti di scambio. —

Affrettarono il passo rifacendo il cammino percorso, ed un quarto d’ora dopo giungevano al campo dinanzi al quale, fedeli alla minacciosa consegna ricevuta, vegliavano i due dahomeni appoggiati ai loro fucili.

Capitolo XIV. Le tracce dei ladri

Come avevano già sospettato, nè l’amazzone, nè i cavalli erano ritornati al campo.

I due dahomeni avevano vegliato l’intera notte dinanzi ai fuochi, ma non avevano udito nè alcuna voce umana, nè alcun [95] nitrito che annunciasse la vicinanza degli animali, nè alcun altro rumore che facesse sospettare la presenza delle spie che avevano seguita costantemente la carovana dopo la sua partenza da Porto Novo.

Interrogati cosa ne pensassero dei sospetti manifestati da Alfredo e dell’esito negativo della spedizione, si mostrarono concordi nell’affermare che la scomparsa misteriosa della giovane negra, degli animali e soprattutto delle casse, si dovesse più attribuire alle spie che forse si erano nascoste a breve distanza dal campo, che ai gorilla.

Senza dubbio avevano approfittato del terrore dei due dahomeni e della loro fuga dopo l’improvvisa comparsa del mpungu, per gettarsi rapidamente sugli animali e sulle casse e quindi internarsi nei folti boschi.

Quantunque fossero ormai tutti convinti di ciò, pure Alfredo mandò i tre negri a frugare le macchie vicine, per accertarsi che la giovane negra non era stata uccisa, quindi assieme al portoghese si mise a esaminare le alte erbe della piccola radura, per scoprire le tracce dei ladri.

Essendo il suolo della foresta umido, non permettendo il folto fogliame degli alberi che i raggi del sole penetrassero, gli riuscì facile a scoprire, al di là della radura, le tracce dei cavalli che erano chiaramente impresse sullo strato erboso.

— I nostri sospetti sono giusti, — diss’egli ad Antao che lo seguiva. — I nostri cavalli non sono fuggiti per paura del mpungu.

— Da cosa lo arguisci?... — chiese il portoghese.

— Se i nostri cavalli fossero stati spaventati, sarebbero di certo fuggiti in diverse direzioni, mentre le loro tracce sono tutte unite ma.... toh!... Lo dicevo io? Guarda su questo terreno umido che è sprovvisto d’erbe.

— Diavolo!... — esclamò Antao, curvandosi. — Se non m’inganno, queste sono le tracce di due piedi nudi.

— Sì, Antao, — rispose Alfredo, — e qui vedo due altre orme di piedi nudi, più grandi delle prime.

— Allora non vi sono più dubbi: i negri che ci seguivano ci hanno derubati.

— Le tracce lo indicano.

— Ma a quale scopo?... Per privarci delle casse.

— È probabile, essendo i negri, in generale, tutti ladri, ma [96] anche per impedirci di proseguire il viaggio. Forse si sono accorti che noi cercavamo d’ingannarli.

— Ma vorrei trovare qualche traccia della ragazza.

— Continuiamo le ricerche. —

Il passaggio dei cavalli attraverso la foresta era visibile anche per degli occhi meno acuti e meno esperimentati di quelli d’Alfredo. Gli zoccoli avevano calpestato profondamente l’umido terreno ed i corpi, nel passare, avevano tracciato come un sentiero fra i cespugli ed i rami bassi degli alberi, spezzando anche i più deboli.

Percorsi cinquecento passi, i due bianchi s’arrestarono mandando un grido di gioia. In mezzo alle erbe avevano trovato uno di quei piccoli fiocchi che ornavano la casacca della giovane negra.

— Finalmente!... — esclamò Antao, raccattandolo e mostrandolo con aria trionfante al compagno. Ora abbiamo la prova che i ladri l’hanno rapita e mi duole sinceramente di aver ucciso quel povero gorilla.

— Sì, — disse Alfredo, lieto di quella scoperta — ora possiamo dedicare tutti i nostri sforzi nell’inseguire quegli audaci bricconi.

— Riusciremo a raggiungerli?...

— Lo spero Antao.

— Ma saremo costretti a tornare verso la costa?...

— No poichè le tracce finora si dirigono verso l’ovest ossia verso il Todji che scorre presso le frontiere degli Ascianti.

— Che quei furfanti abbiano intenzione di recarsi in quel regno a scambiare i nostri oggetti, prima di tornare in patria.

— È probabile, ma non lasceremo loro il tempo nè di giungere a Teki, nè ad Anum che sono le prime borgate degli Ascianti. Mentre io seguo le tracce torna al campo, fa’ caricare sui due cavalli che fortunatamente ci sono rimasti, le nostre tende e le poche casse lasciateci e raggiungimi più presto che puoi. —

Il portoghese lieto per quella felice scoperta che chiariva la scomparsa della giovane negra, non si fece ripetere l’ordine due volte e tornò precipitosamente al campo, chiamando i negri a piena voce.

In un baleno le tende furono levate, gli arnesi della cucina furono collocati nel sacco, le casse caricate sui due cavalli e la carovana si mise frettolosamente in marcia per raggiungere il capo, il quale si spingeva celeremente innanzi, dietro le tracce.

 
— Qui, padrone!... Presto, qui, padrone!... — (Pag. 102).

[97]

— Sono sempre visibili? — gli chiese Antao, che lo aveva raggiunto a passo di corsa.

— Sempre, — rispose Alfredo. — Finchè la foresta è così fitta, abbiamo la speranza di non perderle.

— Ma poi?...

— Se possiamo seguirle fino al Todji non chiederei di più, poichè allora avrei la certezza che i ladri cercano di spingersi fino ai mercati di Teki o di Anum.

— Credi che abbiano molte ore di vantaggio su di noi?

— Avranno marciato tutta la notte, ma saranno costretti ad accordare oggi un po’ di riposo ai cavalli. Forzando le marce, spero di poterli raggiungere prima di tre o quattro giorni.

— Ma si lascieranno inseguire senza cercare d’arrestarci?...

— Tutto dipenderà dal loro numero. Se sono pochi si limiteranno a fuggire colla massima celerità, se sono in parecchi cercheranno di certo di crearci degli imbarazzi o d’impedirci di stringerli troppo da vicino, ma non siamo uomini da inquietarci. È bensì vero che tutti i dahomeni sono coraggiosi, ma anche noi non abbiamo certo paura di loro. —

I due cavalli intanto, vivamente aizzati dai due schiavi, li avevano raggiunti, quantunque fossero eccessivamente carichi, mentre Asseybo si era spinto più innanzi dietro alle tracce, essendo più abile del suo padrone.

La foresta si manteneva sempre assai fitta e solo di quando in quando, a grandi distanze, si trovavano delle radure. Era un continuo caos di tronchi, di rami, di foglie, di liane e di radici. Ora erano macchioni di cedri i cui fiori spandevano all’intorno acuti profumi, o gruppi immensi di ebani che avrebbero fatto la fortuna di qualche tribù che avesse voluto approfittarne, o di acajù dal legno non meno prezioso e non meno ricercato per la fabbricazione dei mobili di lusso, o di constiawa dai quali alberi si ricava una tintura molto pregiata, di colore giallo zafferano, di enormi cauciù che danno la gomma e non pochi tek, alberi che raggiungono delle altezze imponenti e dai quali si ricava un legname così resistente da sfidare perfino le palle di cannone.

In mezzo a quei vegetali che confondevano reciprocamente le loro fronde ed i loro rami, si vedevano svolazzare bande di pappagalli grigi e verdi, di grossi avvoltoi e anche alcune aquile, mentre sui tronchi si vedevano correre miriadi di bellissime [98] lucertole colla testa gialla, il corpo grigio ferro e la coda a tre colori ossia rossa, bianca e nera.

Questi animaletti si trovano dappertutto nei paesi della Costa d’Avorio e soprattutto nelle capanne dei negri dove si vedono, a tutte le ore del giorno, correre sui soffitti e lungo le pareti, occupati a dare la caccia agli ospiti pericolosi, ossia agli scorpioni dal morso doloroso, alle tarantole ed ai terribili ragni-vampiri.

Come si può immaginare, sono animaletti rispettati da tutti i negri per i servigi immensi che rendono e perciò si propagano straordinariamente.

Non mancavano le scimmie in mezzo a quelle grandi foreste. Di tratto in tratto, sulle cime di qualche albero fruttifero, si vedevano delle piccole truppe di quelle scimmie chiamate drilli, quadrumani affini ai mandrilli, ma non pericolose come questi ultimi.

Sono molto più piccole, non essendo più alte di settanta centimetri, hanno il pelame olivastro sul dorso, ma biancastro sotto, mentre il muso è nerissimo e le mani ed i piedi color del rame.

La loro barba, che è folta assai e che poi sale fino sul cranio formando una specie di cappuccio, dà loro un aspetto comicissimo.

Vedendo passare la carovana s’affrettavano a guadagnare le più alte cime degli alberi, mettendosi fuori di portata dai loro assalti e di lassù, manifestavano le loro inquietudini con grida assordanti.

Dopo il mezzogiorno però, la carovana fece l’incontro d’un branco di scimmie ben pericolose. Stava passando attraverso ad un macchione di goyavi e di sicomori, quando un ramo di considerevole grossezza cadde dinanzi ad Antao, il quale per poco non ne ebbe spaccato il cranio.

Il portoghese, furioso, afferrò rapidamente la carabina credendosi assalito da qualche negro nascosto su qualche albero, ma invece d’un uomo vide sulla cima d’un’acacia una orribile scimmia che rideva a crepapelle, come fosse lieta di quel pessimo scherzo che per poco mandava il brav’uomo all’altro mondo.

Doppiamente arrabbiato, Antao, che si trovava a cinquanta passi dai compagni, puntò il fucile e senza curarsi se commetteva una imprudenza, fece fuoco.

[99]

Il quadrumane, colpito nel cranio, interruppe le sue risa per mandare un urlo acuto e piombò al suolo come un sacco di cenci, fracassandosi le ossa.

Quella scimmia era senza dubbio la più brutta che Antao avesse fino allora veduta. La sua testa era veramente spaventosa con quelle due rigonfiature rigate che gli deturpavano le gote, con quella bocca larga e sporgente, armata di acuti denti, con quella barba arruffata color arancio vivo e quel cranio piramidale.

Il suo corpo massiccio, robusto, coperto d’un pelame ispido, aveva tutte le tinte immaginabili. Era verde oliva e nera sul dorso, bruno chiaro sul ventre e sui fianchi, il petto giallognolo, le mani e gli orecchi neri ed il naso rosso fuoco.

La sua statura poi oltrepassava il metro, non compresa la coda che era appena visibile.

— Ehi, Antao!... — gridò Alfredo, vedendo l’amico assorto in una lunga contemplazione. — Contro chi hai fatto fuoco?...

— Contro la tavolozza d’un pittore, — rispose il portoghese, ridendo.

— Contro una tavolozza?...

— Vieni a vederla e sarai persuaso. —

Alfredo, quantunque fosse certo che l’amico scherzasse, tornò indietro, ma appena ebbe dato uno sguardo alla scimmia, afferrò Antao per un braccio, dicendogli:

— Fuggi!... Simili tavolozze sono pericolose, mio caro.

— Ma è una scimmia e non già un gorilla.

— È un mandrillo e questi quadrumani hanno tali denti da farti a pezzi. Fuggiamo prima che giungano i compagni del morto.

— Non chiedo di meglio, amico, — rispose Antao. — Ne ho avuto abbastanza del gorilla, per attirarmi ora addosso la collera di altre scimmie. —

Fortunatamente nessun mandrillo si fece vedere, sicchè poterono raggiungere tranquillamente la carovana senza essere inquietati.

Asseybo intanto, che precedeva tutti per non smarrire le tracce dei ladri, aveva trovato un altro oggetto appartenente alla giovane negra, e cioè la sua fascia rossa che era rimasta appesa ad un ramo basso d’un grande cedro.

Non si poteva ammettere che l’amazzone l’avesse perduta, [100] avendogliela veduta attorno ai fianchi, strettamente annodata. Doveva indubbiamente averla lasciata cadere per indicare il suo passaggio attraverso quella vasta boscaglia, certa che gli uomini bianchi, derubati dei loro effetti e dei loro animali, avrebbero seguite le tracce dei fuggiaschi.

Verso il tramonto, sull’opposta riva dell’Aka, fiume che scaricasi nel lago Anglo, nei pressi di Krikor, fu trovata anche la cartucciera dell’amazzone pendente da un altro ramo, ma, in modo da poter essere veduta dal primo individuo che fosse passato per di là.

Accanto alla pianta si scorgevano gli avanzi d’un fuoco e ciò indicava che i fuggiaschi dovevano essersi fermati colà per preparare il pasto e per far riposare i cavalli.

— Ora non possiamo più dubitare della fedeltà di quella brava ragazza, — disse Antao ad Alfredo.

— Sì, — rispose questi. — Mantiene il suo giuramento.

— Però quelle canaglie devono sempre avere un grande vantaggio su di noi e sarà difficile che noi possiamo raggiungerli.

— Non spero di poterli sorprendere nella foresta, Antao. I nostri animali sono troppo carichi per poter gareggiare con quelli che ci hanno rubato, ma a me basta che continuino a fuggire verso l’ovest, ossia verso gli Ascianti.

— Ma non avremo delle noie in quel paese di barbari?...

— Gli Ascianti non sono più civili dei dahomeni, è vero, ma non osano molestare gli Europei, dopo che hanno provato la forza delle armi inglesi.

— Quale pericolo potrebbero correre se ci tendessero una imboscata e ci massacrassero tutti?... Chi andrebbe a raccontarlo agli Europei della Costa?...

— È vero, ma una superstizione fortunata rende inviolabile la vita degli uomini bianchi.

— Forse che gli Ascianti ci credono uomini discesi dal cielo?...

— No, ma in causa d’una profezia che rimonta alla fine del primo quarto di questo secolo. In quell’epoca i grandi cumfos, ossia i profeti del regno, hanno predetto che giungerebbe un tempo in cui il loro paese sarebbe stato costretto a cambiare religione, usi e costumi per opera di uomini bianchi protetti dai feticci, aggiungendo che se uno di quegli uomini venisse ucciso, le più spaventevoli calamità avrebbero colpito la dinastia ed il suo popolo.

[101]

In seguito a quella profezia, per tema di uccidere uno di quegli uomini protetti dai feticci, fu decretata una legge speciale colla quale si proibisce severamente a qualunque, anche ai re, di sacrificare qualsiasi europeo che metta i piedi sul territorio degli Ascianti.

— Allora non temo più per la mia pelle.

— Puoi vivere tranquillo, specialmente nella nostra qualità d’italiani e di portoghesi. Se fossimo inglesi, chissà, potremmo aspettarci qualche brutta sorpresa.

— Si dice che gli Ascianti non abbiano torto ad odiare gli Inglesi.

— La guerra mossa dall’Inghilterra a quel popolo non è stata giusta, Antao, e l’odio se lo sono meritato. Non ha avuto altro scopo, si può dire, che di derubare gli Ascianti della grande quantità d’oro che possedevano.

Dopo d’aver incendiata la capitale e di aver imposto ai vinti un enorme tributo di guerra, accorgendosi che gli Ascianti erano ancora ben forniti d’oro, cercarono altri cavilli per imporne un secondo che colle minaccie ottennero.

Come puoi immaginarti, gli Ascianti amano l’Inghilterra come il fumo negli, occhi e se noi appartenessimo a quella nazione, potremmo pagare cara l’imprudenza di avventurarci sulla riva del Volta. —

In quel momento si vide Asseybo, che si trovava a dieci passi da loro, cadere al suolo fracassando un ramo che pareva fosse stato appositamente gettato attraverso quella specie di sentiero, quindi rialzarsi prontamente, gridando coll’accento del più vivo terrore.

— Fuggite!... Fuggite!... —

Capitolo XV. La caccia ai rapitori

Il negro, i due dahomeni e perfino i due cavalli, presi da un inesplicabile terrore, si erano dati ad una fuga precipitosa, quantunque nessun animale fosse comparso dinanzi a loro.

[102]

Antao ed Alfredo, credendo che sotto le macchie si celasse qualche leone o qualche leopardo, invece di seguire i loro uomini si erano arrestati, armando precipitosamente i fucili, pronti a far fronte al pericolo.

Con loro non poca sorpresa, non udirono alcun ruggito, nè alcun urlo che potesse giustificare la paura dei negri e dei due cavalli, nè videro in alcun luogo muoversi i rami delle macchie.

— Ma cosa avrà veduto Asseybo? — chiese il portoghese, sempre più stupito. — Eppure quel negro è coraggioso e non si spaventa per un nonnulla.

— Che abbia scambiato qualche grossa radice nera per un serpente?... — mormorò Alfredo. — Guardo dappertutto, ma non vedo assolutamente nulla che possa spaventarci. —

Ad un tratto però udì in aria un acuto ronzìo ed alzati gli occhi, vide volarsi incontro uno sciame d’insetti un po’ più grandi delle nostre vespe. Un grido di terrore gli sfuggì:

— Antao!... Fuggiamo!... Le elovas!... —

Il portoghese, quantunque si meravigliasse che il compagno avesse tanta paura di uno sciame di vespe, vedendolo levarsi rapidamente la giacca, coprirsi la testa ed il viso e quindi fuggire a precipizio, credette saggia cosa imitarlo, correndogli dietro.

Le vespe però volavano rapidamente e come fossero furiose di vendicarsi, li perseguitavano senza posa, ronzando attorno a loro e cercando d’introdursi fra le pieghe delle giacche.

Alfredo, quantunque non potesse vederci bene, cercava dirigersi verso il luogo ove si udivano le grida dei negri. Pareva che avessero trovato un ricovero contro gli assalti di quegli ostinati insetti, poichè urlavano senza posa:

— Qui padrone!... Presto, qui padrone!... —

Attraversato un lembo della foresta, i due fuggiaschi scorsero i loro uomini ed i due cavalli tuffati in uno stagno che pareva fosse profondo, poichè non sporgevano che le loro teste.

Alfredo vi balzò dentro senza esitare ed il portoghese, che si sentiva addosso quelle dannate vespe, gli tenne dietro, mentre i negri, coi loro cappelli di foglie di cocco, respingevano i piccoli assalitori con abbondanti getti d’acqua.

Parve che quegli spruzzi riuscissero molto incomodi alle vespe perchè si affrettarono ad innalzarsi e quindi a volare verso i boschi in gruppo serrato.

[103]

— Se ne sono andate? — chiese Antao, che non sapeva ancora decidersi a levarsi la giacca protettrice. — Morte di Urano e di Saturno!... Ma erano idrofobe adunque?...

— L’acqua non fa per loro, — rispose Alfredo. — Fortunatamente i nostri uomini hanno trovato questo stagno che ci ha salvati.

— Bah!... Convengo che le punture delle api non sono piacevoli, Alfredo, ma anche senza quest’acqua non ci sarebbe toccato un guaio serio.

— T’inganni, Antao. Conosci quelle vespe?...

— No, ma mi parvero simili alle nostre.

— Ma tu ignori che veleno terribile iniettano quegli insetti che dai negri sono chiamate elovas. Ti produce un tale dolore, da impazzire o poco meno e che ti dura due o tre giorni.

Le elovas sono più temute delle mosche ibolai, le quali posseggono dei pungiglioni così acuti da passare perfino i calzoni. Non vi è alcun negro che osi avvicinarsi agli alberi dove hanno costruito il loro nido.

— Ma chi le ha disturbate?...

— Io, — rispose Asseybo. — Ho incespicato in qualche cosa che era stata tesa attraverso il sentiero, forse qualche liana e sono caduto addosso ad un ramo che era stato appoggiato appositamente al cespuglio abitato dalle elovas. Sentendo muoversi i rami sui quali avevano costruiti i nidi, temendosi forse assalite, si sono affrettate a darci addosso.

— Un ramo appoggiato appositamente? — chiese Alfredo.

— Sì, padrone, e qualcuno lo aveva collocato attraverso il sentiero, per far scatenare le elovas contro l’imprudente che lo avesse urtato.

— Ma chi credi che sia, quel «qualcuno?»

— Uno dei ladri che inseguiamo, padrone.

— Furbi, quei furfanti! — esclamò Antao. — Forse speravano che le api ci cacciassero in corpo tanto veleno, da diventare gonfi come otri.

— Ed immobilizzarci due o tre giorni per sfuggirci, — aggiunse Alfredo. — Di queste astuzie bisogna attenderne ben altre, ma non ci avanzeremo che con prudenza. —

Essendo intanto calata la notte, risolsero di accamparsi presso quello stagno, quantunque non fosse prudente arrestarsi in quel luogo, che poteva servire di abbeveratoio a tutti gli animali [104] della foresta. Avevano però la probabilità di ammazzare qualche capo di selvaggina ed un buon arrosto di carne fresca lo desideravano tutti.

Fu con questa speranza che Antao ed Alfredo, dopo una cena frugale, essendo a corto di provviste, andarono ad imboscarsi all’opposta estremità dello stagno, nascondendosi in mezzo a quattro grossi alberi che potevano proteggerli contro qualsiasi improvviso assalto.

Quell’attesa pareva da principio promettente, poichè appena l’oscurità cominciò a diventare fitta, una banda di animali sbucò dalla foresta, correndo allo stagno per dissetarsi, ma era composta esclusivamente di sciacalli e nessuno dei due cacciatori si sentiva capace di fare onore ad un arrosto di cane selvatico.

Più tardi, allontanatisi quei notturni predatori, videro avanzarsi prudentemente un superbo leopardo, ma pareva che si dirigesse verso lo stagno più spinto dalla speranza di sorprendere qualche vittima che per dissetarsi. Accortosi però della presenza dei cacciatori e prevedendo forse che nulla avrebbe avuto da guadagnare in una lotta con loro, con un grande salto si rintanò nella foresta, andando a cercare altrove prede meno pericolose.

Non vedendo comparire altri animali, i due cacciatori, ormai disperando di abbattere qualche succulenta gazzella stavano per tornarsene al campo, quando alzando gli sguardi sui rami d’un albero vicino, scorsero parecchi punti luminosi, giallastri, che ora apparivano ed ora scomparivano.

— Sarei curioso di sapere cosa vi è lassù, — disse Antao. — Che siano uccellacci notturni?

— Sarebbero volati via, — rispose Alfredo. — Credo invece che lassù ci sia l’arrosto che cerchiamo.

— Allora saranno scimmie e se sono tali lascio l’arrosto ai tuoi negri.

— No, Antao, non sono scimmie e te lo proverò. —

Il cacciatore puntò la carabina e fece fuoco. Subito si videro quei punti luminosi balzare attraverso i rami dell’albero, mentre un corpo precipitava al suolo emettendo un debole grido.

— Non mi ero ingannato, — disse Alfredo. — L’arrosto è venuto, piccolo sì ma squisito. —

Il portoghese, senza sapere di cosa si trattasse, non volendo essere da meno del compagno mirò due punti luminosi che brillavano [105] all’estremità d’un ramo e fece capitombolare un altro corpo.

— Vediamo ora cosa sono, — disse.

Alfredo aveva raccolto le due prede e le guardava con curiosità. Erano due animaletti grossi come scoiattoli, non essendo più lunghi di diciotto o venti centimetri, col corpo esile, il pelame corto, fitto, grigio fulvo sul dorso e biancastro sul ventre e con due orecchi straordinariamente grandi per degli esseri così piccoli.

— Che animali sono? — chiese Antao.

Galangoni, — rispose il compagno. — Sono animaletti di abitudini notturne, che vivono ordinariamente sugli alberi nutrendosi d’insetti e delle gomme delle piante resinose.

— Hanno degli orecchi veramente mostruosi!

— Ma utili per loro, poichè per dormire senza venire disturbati, li ripiegano chiudendo perfettamente l’udito.

— Quest’arrosto lo serberemo per la colazione. —

Essendo prossima la mezzanotte, i due cacciatori tornarono al campo per gustare un po’ di riposo sotto la guardia di un dahomeno.

Ai primi albori la carovana, attraversato il Dschawoe in prossimità delle sue sorgenti, un fiume d’un corso non breve e che va a scaricarsi nel Volta, si rimettevano in marcia dietro le tracce dei fuggiaschi che erano state ritrovate, dopo però lunghe ricerche, sull’opposta riva. Quelle tracce si dirigevano ora in linea retta, verso l’ovest, in direzione del Volta, fiumana grandissima che forma la frontiera orientale del potente regno degli Ascianti. Ormai non vi era più da ingannarsi: i ladri si recavano in qualche cittadella di quel regno per disfarsi degli oggetti rubati ai due bianchi con maggior profitto, essendo i villaggi dei Krepi troppo poveri per fare simili acquisti e sprovvisti specialmente di metalli preziosi.

Alfredo aveva creduto per un momento che avessero avuta l’intenzione di recarsi a Kpandu, una delle più grosse borgate dei Krepi, situata al di là del 7° di latitudine settentrionale, ma la linea quasi diritta che mantenevano le tracce e sempre verso occidente, lo aveva convinto del contrario. I ladri ormai dovevano mirare ad Abetifi, che è una delle più importanti città degli Ascianti, celebre pei suoi mercati settimanali che attirano numerose carovane e molti ricchi negozianti di Cumassia, la capitale del regno.

[106]

Le foreste che si estendevano al di là dello Dschawoe, permettevano fortunatamente di procedere con maggior lestezza, non essendo ingombre di liane e di radici. Gli alberi erano riuniti in grandi gruppi, ma lasciavano qua e là degli spazi liberi abbastanza vasti ed affatto privi di quegli intricatissimi cespugli che ordinariamente occupano le radure delle foreste africane.

Asseybo che si manteneva sempre alla testa della carovana, osservava scrupolosamente le piante vicine alle tracce lasciate dai fuggiaschi, le quali erano sempre visibili, mantenendosi il suolo umido, ma non riusciva più a scoprire alcun segnale della giovane negra. Era da supporre che i suoi rapitori si fossero accorti degli oggetti lasciati cadere per guidare gl’inseguitori e che ora la sorvegliassero attentamente.

Sospettando poi sempre qualche nuova astuzia, il bravo negro guardava attentamente anche il suolo, per tema di porre i nudi piedi su qualche spino avvelenato nascosto entro terra o di cadere in qualche profonda buca armata di un palo aguzzo e ricoperta accuratamente in modo da ingannare perfino le fiere, astuzie ben note ai dahomeni.

Sentiva per istinto che quei furfanti, dopo il primo tentativo di arrestarli per alcuni giorni colle atroci punture delle pecchie, non avrebbero tardato a tendere altre insidie e forse più pericolose, per sbarazzarsi di loro.

I suoi timori, pur troppo, dovevano ben presto avverarsi.

La carovana, dopo una breve fermata sull’opposta riva del Deise, altro affluente del Volta, erasi da qualche ora messa in marcia, quando l’olfatto del negro fu colpito da un odore di bruciaticcio, che il vento portava dall’ovest.

Non era però quell’odore particolare che tramandano le piante resinose che vengono divorate dalle fiamme, ma un altro più acuto, più sgradevole e che pareva prodotto da ammassi di carne bruciata.

— Padrone, — disse, tornando rapidamente indietro. — Qualche cosa succede in mezzo od ai confini della foresta.

— Che quei furfanti abbiano incendiata la boscaglia per costringerci a retrocedere? — si chiese Alfredo, con inquietudine. — Questo odore di bruciaticcio può annunciarci un grave pericolo.

— Non sarà facile che questa immensa foresta prenda fuoco come uno zolfanello, — disse Antao.

[107]

— Possono aver incendiati dei macchioni d’alberi resinosi, — rispose Alfredo.

— Ma si direbbe che mille cuochi stanno arrostendo dei milioni di costolette. Non senti che odore?...

— Sì, Antao.

— Da cosa provenga?...

— Non lo so.

— Mandiamo Asseybo su un albero. Di lassù potrà forse vedere se è la foresta che brucia. —

Il negro fu lesto a obbedire. Avendo osservato che un grosso tek lanciava la sua cima molto più in alto di tutti gli alberi vicini, aiutato dai due schiavi potè raggiungere i primi rami e quindi issarsi fino agli ultimi.

Dall’alto di quell’osservatorio il suo sguardo potè spaziare liberamente sopra tutta la foresta e scorgere distintamente, a meno di due chilometri di distanza, alcune colonne di fumo che s’innalzavano presso un largo fiume, il quale tagliava tutto l’orizzonte occidentale.

Pareva però che invece degli alberi bruciassero delle erbe, poichè in quella direzione non si vedevano che rade piante e nessuna ardeva.

Ad un tratto i suoi sguardi videro avanzarsi fra gli alberi vicini, come un largo serpente di colore oscuro, il quale minacciava di tagliare in due la foresta.

— Canaglie, — mormorò. — Ora comprendo tutto. —

Si lasciò cadere di ramo in ramo con rapidità fulminea e giunto a terra afferrò per la briglia il primo cavallo e si mise a correre, gridando:

— Presto, padrone, o non potremo giungere al fiume prima di tre o quattro giorni. Frustate i cavalli o sarà troppo tardi. —

Senza chiedere spiegazioni, comprendendo che se Asseybo così agiva doveva avere le sue buone ragioni, i due europei ed i dahomeni si precipitarono dietro a lui, bastonando i cavalli per farli galoppare.

Il negro correva sempre, descrivendo un semicerchio, come se volesse sfuggire un gran pericolo che pareva dovesse venire dal nord-ovest e gettava intorno sguardi smarriti come se temesse da un istante all’altro di venire assalito.

— Diavolo d’un paese, — brontolava Antao, che trottava a fianco dei cavalli. — Si può mai essere un po’ tranquilli? Cosa [108] sta per accadere ora?... Ieri le vespe ed oggi avremo qualche nuova specie di calabroni o di pipistrelli!... —

Ad un tratto udirono Asseybo a gettare un grido di trionfo.

— Ehi, negro del malanno!... — urlò Antao. — Sono fuggiti anche i calabroni?... Se mi fai correre ancora un po’ scoppio o mi prendo un colpo di sole.

— Presto!... — gridò Asseybo. — Siamo giunti in tempo!...

— In tempo di cosa?... — chiese Antao, che con un ultimo sforzo lo aveva raggiunto.

— Di passare salvando la nostra pelle.

— Da chi?...

— Guardate!... —

Il portoghese guardò sotto gli alberi, vide e scoppiò in una risata fragorosa.

— Un gorilla mi strangoli se costui non è pazzo!... — esclamò.

— No, Antao, — disse Alfredo. — Asseybo non è pazzo e se sei ancora vivo, puoi ringraziare lui solo.

— Ma.... non vedi che sono formiche?...

— Sì, delle formiche, ma che non lascierebbero un brano di carne nè addosso a te, nè addosso ad un feroce leopardo. Mio caro, siamo sfuggiti ad un grave pericolo ed ancora una volta i ladri hanno fatto un buco nell’acqua. —

Capitolo XVI. Le formiche carnivore

Se il portoghese avesse abitato per qualche anno in quelle regioni equatoriali, non avrebbe di certo riso vedendo avanzarsi, attraverso alla foresta, quella colonna di formiche che si distendeva come un serpente gigantesco e tanto meno avrebbe chiamato pazzo il negro, se avesse conosciuto da quale specie di insetti stavano per venire assaliti.

L’Africa, al pari dell’America meridionale, è straordinariamente popolata di formiche di varie specie, quasi tutte assai più grandi di quelle che abbiamo in Europa e, cosa davvero strana per insetti di così piccole dimensioni, quasi tutte avidissime di carne e quindi ferocissime.

[109]

Alcune, come le bianche per esempio, che vivono in nidi di forma piatta che rassomigliano a giganteschi funghi, si limitano a divorare i legni vecchi delle piante di cotone o le travi delle capanne dei negri, compromettendo la sicurezza delle abitazioni; altre nere, che si tengono nascoste nelle sabbie, si accontentano di mordere ferocemente i piedi dei negri, causando acuti dolori, ma vi sono altre ancora che vogliono delle vittime da scarnare.

Tali sono le termiti, le più grandi delle specie e le formiche rosse, le quali si nutrono di carne, cercandola dovunque con una avidità senza pari.

Guai all’uomo o all’animale che sorprendono addormentati presso i loro formicai od anche in piena foresta durante le loro peregrinazioni!... In un momento li coprono, mettono in opera le loro piccole ma formidabili tenaglie e malgrado la resistenza disperata della vittima in poco tempo, anzi in pochi minuti, la divorano viva non lasciando che le ossa, ma così ripulite che il migliore preparatore anatomico non farebbe di più.

Ma ve ne sono altre ancora bene più formidabili delle termiti, delle rossastre, delle biancastre, delle formiche acqua bollente, ecc. e queste sono quelle conosciute dai popoli dell’Africa equatoriale con nome di lascicuai.

Questi insetti sanguinari sono gli zingari della specie, poichè non hanno dimore stabili, quindi non fabbricano nidi. Errano continuamente in mezzo alle foreste, marciando in file lunghe parecchi chilometri, divorando sul posto quanti animali, piccoli o grossi, feroci o inoffensivi possono sorprendere ed obbligando perfino i negri a fuggire, quando quei piccoli mostri incontrano sulla loro via dei villaggi.

Quelle formiche che s’avanzavano attraverso al bosco in fitti battaglioni, dovevano essere state cacciate in quella direzione dai negri fuggiaschi, onde cercare di sbarrare la via agli inseguitori e forse per far loro perdere gli animali.

L’incendio che avvampava in direzione del fiume, bruciando una prateria di erbe secche, non doveva aver avuto altro scopo e le lascicuai, che hanno una così grande paura del calore da tenersi persino al riparo dei raggi solari, si erano affrettate a deviare, fuggendo nel bosco.

Fortunatamente Asseybo le aveva scorte a tempo e sospettando un tiro birbone da parte dei ladri, con quella rapida [110] marcia era riuscito a far passare la piccola carovana, prima che la via fosse stata tagliata da quell’esercito di feroci insetti.

— Un ritardo di pochi minuti e noi venivamo arrestati e forse per parecchi giorni, — disse Alfredo, che si era affrettato ad allontanarsi da quella fiumana di corpicini nerastri.

— Ma credi che queste emigrazione continui molto?... — chiese Antao.

— Chissà di quanti miliardi di formiche si comporrà quell’esercito. Non vedi come la colonna si mantiene stretta?...

— Infatti non è più grossa d’un serpente, ma che ordine di marcia!... I nostri soldati non camminerebbero meglio.

— E guarda come quei battaglioni mantengono una linea rigorosamente diritta e compatta.

— È vero Alfredo e neppure un insetto si sbanda.

— Gli ufficiali non lo permetterebbero.

— Gli ufficiali?...

— Sì, Antao. Se noi potessimo avvicinarci senza correre il pericolo di venire assaliti, potrei farti vedere i capi che marciano sui fianchi delle colonne per impedire qualsiasi sbandamento.

— Oh!... È incredibile!... Quanta intelligenza in insetti così piccoli!...

— Quegli ufficiali appartengono alle caste guerriere.

— Ma come, forse che le formiche sono divise in caste?...

— Certamente, Antao. Le termiti, per esempio, sono divise in due caste nettamente distinte che non si possono mai mescolare: le guerriere, che sono le più forti e le più grandi, incaricate esclusivamente di difendere i formicai e le industriali che devono solamente occuparsi dello scavo delle gallerie sotterranee e del fornimento dei viveri.

— È incredibile! — esclamò Antao, al colmo dello stupore.

— Ma vi è di più, amico mio. Certe specie di formiche, oltre queste due caste ne hanno una terza costituita dagli schiavi.

— Morte di Saturno!... Ma vi sono anche le formiche schiaviste?...

— Sì, Antao e queste sono le formiche chiamate amazzoni e quelle color sangue che abitano l’America meridionale.

— Ma le formiche schiave appartengono alla stessa specie?...

— Mai più. Quando le amazzoni o le color sangue hanno bisogno di schiavi, intraprendono delle spedizioni contro le formiche dette nero-cineree, nè più nè meno come fanno i cacciatori [111] di schiavi dell’Africa centrale. Essendo più forti, vincono facilmente le avversarie, invadono i loro formicai, non senza però incontrare là dentro una tenace resistenza, e s’impadroniscono delle larve nero-cineree. Più umane dei cacciatori di negri, non le maltrattano, nè incrudeliscono contro i vinti, ma se le portano nei loro formicai, le affidano alle cure di altre schiave, le fanno nutrire al pari delle altre e quando sono completamente sviluppate le obbligano a lavorare, ma senza adoperare la violenza.

— E non pensano a ribellarsi, quelle disgraziate prigioniere?...

— Tutt’altro, Antao, poichè fra le diverse caste, tra le quali non vi è differenza di trattamento, regna una buona armonia invidiabile e le guerriere e le schiave finiscono coll’amarsi come appartenessero ad una stessa famiglia.

— Quanto avrebbero da imparare certi popoli da quei piccoli esseri!... — esclamò Antao. — Si può dire che sono maestri di civiltà.

— Padrone, — disse in quel momento Asseybo. — Prima che le lascicuai s’accorgano della nostra presenza, affrettiamoci a frapporre il fiume fra noi e loro.

Le erbe della prateria vanno spegnendosi e le formiche potrebbero deviare ancora.

— Ma ritroveremo le tracce dei fuggiaschi, ora che la cenere le avrà ricoperte?...

— Se i ladri hanno attraversato il fiume in questo luogo, vuol dire che esiste un guado da loro conosciuto. Se lo troviamo anche noi, sulla sponda opposta ritroveremo anche le loro tracce.

— È vero, Asseybo. Andiamo a cercare questo guado. —

L’incendio della prateria, che si estendeva dalle rive del Volta ai primi alberi della grande foresta, era già cessato in parecchi luoghi per mancanza di combustibile e si poteva tentare il passaggio senza correre alcun pericolo. Avvampava però ancora verso il nord, seguendo il corso del fiume, lanciando in aria nuvoloni di fumo denso e nembi di scintille, ma i grossi tronchi degli alberi pareva che opponessero una barriera insuperabile e forse più di tutto era il terreno umido che impediva alle fiamme di estendersi.

La piccola carovana, che non voleva perdere troppa via per [112] non lasciare tempo ai ladri di dileguarsi dopo di essersi sbarazzati del bottino, si avventurò sulla cenere ancora calda che copriva la pianura, ma i tre negri, che erano scalzi, furono ben presto costretti a salire sui cavalli per non guastarsi le piante dei piedi.

La traversata si compì senza incidenti e mezz’ora dopo i cinque uomini ed i due animali si trovavano sulla riva sinistra del Volta.

Questo fiume, che è uno dei più grandi che solcano le regioni della Costa d’Avorio, quantunque bagni il possedimento inglese, è ancora oggidì poco conosciuto e non si sa quale sia la lunghezza del suo corso, nè si conosce precisamente dove abbia le sue sorgenti.

Pare però che venga formato da due considerevoli corsi d’acqua ai quali furono ultimamente imposti i nomi tedeschi di Schwarger e di Weisser e che avrebbero le loro sorgenti l’uno nella regione dei Tiebas, verso il 12° di lat. N e 13° di long. E e l’altro sulla regione dei Gurunssi verso il 13° di lat. ed il 16° di long.

Si sa che si apre il passo attraverso le regioni dei Dafina, dei Mandinghi e dei Gamman, che poi piega verso l’est scorrendo lungo la frontiera degli Ascianti per scaricarsi in mare per un largo estuario, nei dintorni della cittadella di Ada, una delle più piccole del possedimento inglese della Costa d’Avorio.

Là dove era giunta la piccola carovana, il fiume aveva una larghezza considerevole, superiore ai quattrocento metri, ma l’acqua era bassa e poteva permettere il guado, senza il pericolo di un assalto da parte dei coccodrilli che sono numerosi su quel corso d’acqua.

— Il passaggio sarà facile, — disse Asseybo, che era sceso sulla sponda per misurare la profondità della corrente. — Se i ladri lo hanno attraversato, noi possiamo fare altrettanto.

— Credi che siano passati di qui? — chiese Alfredo.

— Sì, padrone poichè laggiù vedo che il fiume si restringe e l’acqua sarà tanto alta da affogare un cavallo grande quanto un elefante. —

I due europei si spogliarono non conservando che le maglie, poi tenendo nella sinistra le carabine scesero nel fiume dietro ad Asseybo, seguiti dai due schiavi che conducevano i cavalli.

 
Era un elefante selvaggio, uno dei più grossi e dei più belli.... (Pag. 125).

Sott’acqua, ad una profondità di un metro, pareva che si [113] estendesse un banco di sabbie di notevole larghezza, poichè nè a destra nè a sinistra il fondo non accennava a mancare. Se si prolungava molto innanzi, vi era la probabilità che la carovana potesse guadare il fiume senza bagnare le casse contenenti le provviste e le munizioni.

La corrente, che era debole, favoriva la traversata; il negro però non procedeva che con estrema prudenza e se non dopo d’aver ben esplorato il fondo con un bastone acuminato, non ignorando quali ospiti pericolosi ricovera il fiume.

Quelle precauzioni gli salvarono la vita, giacchè nel momento che stava per varcare un canaletto aperto nel banco di sabbia, mise i piedi su di una massa ruvida che subito gli sfuggì, facendogli quasi perdere l’equilibrio.

Immaginandosi di cosa si trattava, fu pronto a retrocedere e fu una vera fortuna per lui, perchè tutto d’un tratto una coda mostruosa, armata di grosse scaglie ossee, emerse sferzando l’acqua a destra ed a sinistra, col fragore del tuono.

— Morte di Urano! — gridò Antao. — Un ippopotamo?...

— Un coccodrillo! — gridò Alfredo. — Fermi tutti!... —

Il mostro, che forse sonnecchiava in fondo al fiume, sentendosi disturbare, aveva avventato quel poderoso colpo di coda sperando di abbattere l’importuno; vedendo però che nessuno era caduto sul banco, cacciò fuori la sua orribile testa, mostrando la sua enorme gola e battendo le potenti mascelle armate di lunghi denti.

Comprese senza dubbio con quali nemici aveva da fare, perchè subito s’immerse e contrariamente a quanto si aspettava il portoghese, s’affrettò ad allontanarsi.

— Ecco un coccodrillo pauroso, — disse Antao, che aveva armata la carabina. — Mi avevano detto che erano formidabili, ma sembra che questo non lo fosse affatto.

— Che i coccodrilli siano realmente terribili predatori è vero, sono però anche eccessivamente prudenti, — rispose Alfredo. — Se ti hanno narrato che assalgono sempre quando si vedono delle persone vicine, hanno mentito.

— L’avevo anche letto sui libri di molti viaggiatori.

— Fole, Antao. Questi sauriani si tengono quasi sempre lontani dagli uomini e si guardano bene dall’assalirli. Non dico però che se tu cadessi in un fiume popolato da quei bestioni ti lascierebbero raggiungere tranquillamente la sponda.

[114]

— Si dice che è pericoloso attingere acqua nei fiumi da loro abitati.

— È vero, per le donne che sono inermi. Quei mostri le attendono nascosti presso le rive e quando quelle disgraziate si curvano per riempire i loro vasi, con un salto le afferrano e le trascinano nel letto del fiume.

Del resto sono così diffidenti, che basta la vista di un battello qualunque per metterli in fuga. Se sono molti si lasciano talvolta anche avvicinare; se sono pochi prendono il largo e difficilmente si lasciano uccidere.

— Ed il coccodrillo che abbiamo fatto fuggire non verrà, nuotando sott’acqua, a tagliarci le gambe?

— Non crederlo. Basterà che Asseybo batta l’acqua col suo bastone per farlo fuggire. —

Il negro, passato il primo istante di sorpresa, si era rimesso in cammino continuando a frugare il fondo per accertarsi della sua solidità e per non mettere i piedi su di un secondo rettile che poteva ammazzarlo con un solo colpo di coda.

Il banco fortunatamente si prolungava attraverso a tutto il fiume e mantenendosi sempre compatto, sicchè la piccola carovana potè, dopo venti minuti, giungere felicemente alla riva opposta, la quale era coperta da alberi altissimi e frondosi.

Asseybo stava per salire il pendìo, quando mostrò ai due europei un banco semi-nascosto da un gruppo di rocce, sul quale stavano raggruppati dodici o quindici coccodrilli fra grandi e piccoli, scaldantisi ai torridi raggi del sole.

— Che magnifica collezione! — esclamò Antao. — Mi sentirei tentato di sparare qualche palla contro quei mostruosi animali.

— Sarebbe polvere sprecata, — rispose Alfredo. — Le loro scaglie sono così dure, da far rimbalzare la palla della tua carabina. I soli punti vulnerabili sono le ascelle e la gola, ma da rettili che ci tengono alla loro pelle, non mostrano nè le prime, nè la seconda.

— Ma.... guarda, Alfredo!... — esclamò il portoghese, stupito. — Non vedi tu degli uccelli entrare nelle gole aperte di quei mostri?...

— Sì, — rispose il cacciatore, sorridendo.

— E non chiudono le bocche per mangiarli?... È vero che mi sembrano piccoli.

— Sono gli amici dei coccodrilli.

[115]

— Quegli uccelli?...

— Sì, Antao. Sono i troichilus, volatili che mai si separano da quei formidabili rettili quando questi si tengono a galla e che rendono a quelle bestiaccie dei buoni servigi, sbarazzando le loro mandibole dei numerosi insetti che le ingombrano.

— Ed i coccodrilli rispettano quei piccoli volatili?

— Lo vedi come si cacciano impunemente fra le potenti mascelle, soffermandovisi a lungo.

— Non avrei mai creduto che quei bruti sapessero cos’è la riconoscenza.

— Ah!...

— Cos’hai?...

— Vedi quei piccoli animali che s’avanzano prudentemente sulle sabbie della riva?... —

Il portoghese guardò nella direzione indicata e vide, a due o trecento passi, quattro animali grossi un po’ più d’un gatto, ma col corpo più lungo, le gambe corte, il muso assai acuto, gli orecchi corti ma larghi, ed il pelame lanoso, lungo, giallo ruggine, a riflessi fulvi verso la coda.

Procedevano lentamente, procurando di tenersi celati dietro le ripiegature del terreno, ma di quando in quando si arrestavano per rimovere le sabbie con un lesto colpo di zampa.

— Dei gatti qui! — esclamò Antao. — Forse dei gatti selvatici?

— No, sono i più fieri nemici dei coccodrilli.

— Quegli animali così piccoli?... Vuoi burlarti di me?...

— Non ne ho mai avuta l’intenzione. Quegli animaletti sono icneumoni e fanno guerra ai coccodrilli divorando le uova che questi depongono fra le sabbie onde il sole le faccia schiudere.

— I furbi!...

— Ma quanto sono utili, mio caro. Senza gli icneumoni ben presto i coccodrilli diventerebbero così numerosi, da rendere i fiumi dell’Africa inaccessibili anche alle grosse barche. Orsù, lasciamo quegli animaletti alle loro occupazioni e pensiamo ai ladri o guadagneranno tanta via da non poterli più raggiungere. Stiamo in guardia, poichè ora siamo sul territorio degli Ascianti. —

[116]

Capitolo XVII. Il regno degli Ascianti

L’Ascianti, che la piccola carovana stava per attraversare per raggiungere i ladri, è il più vasto ed anche il più ricco regno dell’Africa occidentale, stendendosi fra il 1° ed il 4° di long. ovest di Greenwich ed il 6° e l’8° di lat. settentrionale.

Al sud ha per confini i piccoli regni di Akim, di Aspin, di Deukera e parte del possedimento inglese; all’ovest il fiume Comoe e al nord ed all’est il fiume Volta e la regione dei Mandinghi.

Questo vasto paese compreso entro i suddetti limiti, si divide in due parti nettamente distinte che ben poco si rassomigliano fra di loro.

Dalla parte dove scorre il Volta la regione è quasi tutta piana, pochissimo abitata, attraversata da una sola strada che si chiama del Nord, frequentata dagli Ascianti che si recano a Serim. Essendo però ricca di corsi d’acqua, di tratto in tratto s’incontrano delle foreste che sono abitate da numerosi stuoli di animali selvatici, di antilopi di varie specie, da gazzelle, da cinghiali, da leoni, da leopardi, da iene, da scimmie d’ogni genere, soprattutto da quelle nere col lungo pelo e la barba bianca ed anche da truppe di colossali elefanti.

È in quelle immense pianure che si raccolgono milioni di quintali di quelle grandi lumache grigie, delle quali se ne fa un consumo veramente enorme dal popolo e soprattutto dagli abitanti della capitale che ne mangiano mezza tonnellata ogni giorno.

La parte invece dove scorre il Comoe è montagnosa essendo attraversata da parecchie catene che percorrono il regno in ogni senso, tutta coperta di boschi superbi e soprattutto più popolata, essendo il terreno molto fertile.

È là che si trovano Kumassia, la capitale del regno ora riedificata dopo che gl’Inglesi la diedero alle fiamme, Wiawoso, Manso, Kintampo e Bontuku, le città principali e più popolose.

Quantunque gl’Inglesi abbiano cercato tutti i mezzi per dissanguarlo, l’Ascianti può considerarsi ancora come il regno più [117] ricco della Costa d’Avorio ed anche il più potente, tale da far fronte a tutti i popoli vicini.

È anche la regione più salubre di tutta la costa, poichè il suo clima, sebbene sia molto caldo, non è malsano e forse si deve attribuire ciò alla quantità straordinaria dei suoi torrenti che scendono dalle montagne dell’interno.

In certe parti dominano, specialmente nell’estate, le febbri, ma non sono mortali come a Widah, a Porto Novo, nel Grande e Piccolo Popo e nei possedimenti inglesi e francesi. Nemmeno attorno alla capitale l’aria è insalubre, quantunque vi siano paludi e l’atmosfera sia sovente carica delle esalazioni pestilenziali, emanati da centinaia di cadaveri umani gettati sui letamai chiamati appetismi, specialmente dopo le feste del sangue che si fanno anche tuttora, alla morte di un monarca e durante l’incoronazione del principe successore.

················

La piccola carovana, giunta sull’opposta riva del Volta, si trovò in mezzo ad un’altra foresta che pareva dovesse prolungarsi verso l’Afram, un grosso affluente di destra, formata per lo più da acacie mimose, alberi grandi quanto i nostri olmi e fors’anche di più, col tronco del diametro di due a tre piedi, colla corteccia azzurrognola, coi rami carichi di foglie lucenti che al calare del sole si piegano l’una sull’altra come le sensitive e munite all’estremità di certi nodi, dai quali escono dei piccoli tubi formanti un fiore complicatissimo, rassomigliante ad un calice e di tinta violetta.

Queste piante, molto apprezzate nel Sudan ma trascurate dai popoli della Costa d’Avorio, producono gran copia di eccellente gomma, la quale trasuda dal tronco formando dei globi rossastri che pesano sovente perfino due libbre, quantunque quella materia sia leggerissima.

Oltre alle mimose vi erano pure macchioni di platanieri, di elais, d’alberi del cotone di enorme grossezza, di cedri, di datteri spinosi e di ebani popolati da bande di uccelli chiassosi e dalle penne variopinte e di scimmie di varie specie; di sicomori, di tamarindi già carichi di frutta rinfrescanti e di phavor, i quali producono delle frutta simili alle ciliegie ed egualmente saporite.

Asseybo, appena salita la sponda, cercò subito le tracce dei ladri e fu tanto fortunato di ritrovarle duecento metri sopra il [118] guado, in un luogo dove era stato acceso il fuoco e dove si vedevano gli avanzi di foglie mezzo rôse dai cavalli. —

Fu subito deciso di non accordare tregua ai fuggiaschi e quantunque i due animali si mostrassero molto stanchi per l’eccessivo carico e pei brevi riposi loro accordati, la piccola carovana si mise subito in marcia, certa ormai di raggiungere i negri ad Abetifi, avendo notato che le tracce piegavano leggermente verso il sud-ovest.

Camminarono incessantemente tutto il giorno, spingendo innanzi gli animali a legnate, ma prima del tramonto si videro costretti ad arrestarsi sulle rive dell’Afram. Uno dei cavalli era caduto rifiutandosi ostinatamente di rialzarsi e l’altro non poteva proseguire per molto ancora.

Essendovi ancora qualche ora di luce, Alfredo ed Antao ne approfittarono per battere le macchie vicine, colla speranza di poter tornare al campo con un po’ di selvaggina.

Avendo rimarcato in una radura umida che scendeva verso un corso dell’Afram, delle tracce di zoccoli che parevano appartenere a delle antilopi, andarono ad imboscarsi in mezzo ad alcuni folti cespugli, a circa cinquecento passi dall’accampamento.

Contando di ritornare molto tardi, si erano improvvisato un giaciglio di foglie fresche ed avevano accese le pipe in attesa che le tenebre calassero, quando in distanza parve a loro che fosse echeggiata una detonazione.

Sapendo Alfredo che quella regione doveva essere deserta, non essendovi villaggi lungo la frontiera, quella detonazione lo fece balzare in piedi.

— Qualcuno caccia a due o tre chilometri da noi, — disse.

— Sarà qualche Asciante, — rispose Antao.

— No, — disse Alfredo, crollando negativamente il capo.

— E chi vuoi che sia stato a sparare quel colpo?

— I negri che inseguiamo.

— Bah!... Saranno lontani, quei bricconi.

— Qualcuno di loro può essere rimasto indietro.

— A quale scopo?...

— Per cercare di crearci degli imbarazzi.

— Sarebbe una bella occasione per prenderlo e fucilarlo.

— Se non per fucilarlo, almeno per averlo in nostra mano e farlo parlare. Toh!... Odi?... Un altro sparo e questo molto più vicino.

[119]

— Questo colpo di fucile non deve essere stato sparato che ad un paio di chilometri da noi, Alfredo.

— Antao, vuoi seguirmi?

— Se si tratta di prendere uno di quei furfanti, sono pronto a seguirti fino nella capitale degli Ascianti.

— Vieni, Antao, ma non commettere imprudenze. —

I due cacciatori lasciarono il loro nascondiglio e quantunque la notte cominciasse a calare, si misero rapidamente in cammino, seguendo il corso d’acqua, la cui riva permetteva di avanzarsi più comodamente che sotto i boschi.

Avevano percorso appena un chilometro procedendo sempre verso l’ovest, quando udirono una terza detonazione e poco dopo una quarta, ma così vicine, da far sospettare che il cacciatore si trovasse ad un solo miglio di distanza.

— Che laggiù si combatta? — chiese Antao. — Mi sembra impossibile che quel cacciatore trovi tanta selvaggina, mentre qui non vi è nemmeno uno sciacallo da abbattere.

— Se combattessero si udrebbero delle grida, — rispose Alfredo.

— Ma mi sembra di udire dei fragori, Alfredo.

— Dove?...

— Vengono dall’ovest.... Zitto, ascolta!... —

Il cacciatore si fermò e si curvò verso terra, tendendo gli orecchi e gli parve di udire realmente come un lontano muggito, somigliante all’irrompere di una fiumana o all’avanzarsi fragoroso di parecchi squadroni di cavalleria o di parecchie batterie d’artiglieria.

— È vero, — mormorò, con una certa inquietudine.

— Cosa credi che sia?... — chiese Antao.

— Non lo so, ma si direbbe che una truppa d’animali colossali galoppa attraverso la foresta.

— Ma quali animali potrebbero produrre tale fragore? Delle antilopi o dei leoni no di certo.

— Gli elefanti, Antao.

— Morte di Nettuno!... Una banda di elefanti?...

— Sono ancora numerosi in questi paraggi. Vuoi un consiglio?...

— Parla, Alfredo.

— Arrampichiamoci su di un albero ben alto e robusto.

— E se invece tornassimo al campo per mettere in guardia i nostri uomini?

[120]

— Ci mancherebbe il tempo. Su, lesto o verremo stritolati!... —

Non vi era che da scegliere, essendo gli alberi d’alto fusto numerosi presso le rive di quel corso d’acqua. I due cacciatori s’aggrapparono ad alcune liane ed in pochi istanti si trovarono in salvo sui grossi rami d’un bombax, celandosi in mezzo al fitto fogliame.

Intanto il fragore continuava con un crescendo spaventevole. Pareva che dieci treni ferroviari si avanzassero all’impazzata attraverso la boscaglia, tutto abbattendo sul loro vertiginoso passaggio. La terra rimbombava come fosse sollevata da scosse potenti di terremoto, si udivano gli alberi a schiantarsi e precipitare al suolo come se venissero svelti da una tromba ed in mezzo a tutti quei fragori si udivano dei suoni paurosi, dei clamori assordanti che parevano prodotti da un centinaio di rauche trombe di dimensioni gigantesche.

— Morte di Giove e di Saturno!... — esclamava Antao. — Si direbbe che un uragano sta per travolgere l’intera foresta. —

D’improvviso si videro delle masse enormi sbucare fra gli alberi ed avanzarsi all’impazzata, abbattendo, con impeto irresistibile, le giovani piante, le quali cadevano a destra ed a sinistra come se venissero falciate da un’arme mossa da una banda di titani.

Era una truppa di enormi elefanti, in preda ad un panico irresistibile, che fuggiva disordinatamente attraverso alla boscaglia. Quale pauroso spettacolo offrivano quegli animalacci lanciati al galoppo, colle loro potenti proboscidi sferzanti gli alberi vicini, per aprirsi il passo in mezzo a quel caos di vegetali!...

Mescolati confusamente, maschi, femmine e piccini, tutti in preda ad un inesplicabile terrore, pareva che non avessero che un solo scopo: fuggire un grave pericolo.

Urtavano furiosamente gli alberi, sradicavano quelli che si opponevano alla loro corsa, fracassavano i cespugli con mille scricchiolii, sfondavano colle masse enormi dei loro corpi le liane e le radici, barrivano strepitosamente formando un baccano assordante e si urtavano con tale violenza, che i loro corpacci risuonavano come grancasse di mole smisurata.

Quei cinquanta e più animali passarono sotto gli occhi dei due cacciatori come una meteora devastatrice, urtando il colossale tronco del bombax in così malo modo da scuoterlo dalla base [121] alla cima, poi scomparvero verso l’est fra un clamore infernale dì barriti ed uno scrosciare d’alberi e di rami.

— Mille morti!... — esclamò Antao. — Ecco uno spettacolo da far tremare l’uomo più intrepido dei due mondi!...

— Ti credo, — rispose Alfredo. — Pensa cosa sarebbe accaduto di noi, se quella banda d’animali ci avesse trovato sul suo passaggio.

— Ma chi può aver spaventato quei colossi?...

— Forse dei cacciatori d’elefanti.

— Ma è possibile ammettere che così formidabili animali possano venire spaventati da pochi uomini?... Non lo si crederebbe, Alfredo.

— Per natura gli elefanti sono timidi, Antao, e non si rivoltano se non quando vengono feriti.

— Le detonazioni delle armi bastano per metterli in fuga?...

— Talvolta sì, ma quando si vuole farli fuggire basta scagliare contro di loro delle materie infiammate o dei rami resinosi accesi.

— Ma.... ed i nostri uomini?... Non verranno travolti da quegli animali?...

— Asseybo li avrà uditi avvicinarsi e si sarà affrettato a mettersi in salvo coi dahomeni.

— Ed i cavalli?

— Saranno fuggiti, non dubitare.

— Ah!... Come sarei stato contento di aver potuto abbattere uno di quei giganti!...

— Se si sbandano possiamo incontrarne qualcuno.

— Si dice che la tromba ed i piedi degli elefanti sono così squisiti.

— È vero, Antao, e spero di farteli assaggiare.

— Possiamo scendere?...

— Ormai non corriamo alcun pericolo. Gli elefanti devono essere già lontani. —

Il portoghese stava per aggrapparsi alle liane che gli avevano servito a salire sull’albero, quando Alfredo lo arrestò, sussurandogli agli orecchi:

— Non muoverti: guarda!... —

[122]

Capitolo XVIII. Caccia ad un elefante

Antao, udendo quelle parole pronunciate in tuono quasi imperioso, e comprendendo che stava per accadere qualche cosa di straordinario, aveva abbandonato prontamente le liane, ritirandosi sul grosso ramo che gli aveva servito di rifugio.

Alfredo, nascosto in mezzo al fogliame, gli additava silenziosamente un grande macchione di mimose che stava di fronte a loro. Girò gli sguardi da quella parte e vide due ombre uscire fra gli alberi ed avanzarsi prudentemente allo scoperto.

Quantunque la luna mancasse, gli astri proiettavano una luce sufficiente per distinguere un oggetto od un essere vivente di dimensioni non troppo piccole ed Antao, che aveva gli occhi buoni, vide subito di che cosa si trattava.

Quelle due ombre erano due negri di alta statura, quasi nudi, ma entrambi armati di fucile. Si erano arrestati a breve distanza dal bombax e curvi innanzi, pareva che ascoltassero con profondo raccoglimento.

— I cacciatori d’elefanti?... — chiese Antao ad Alfredo con un filo di voce.

— Non lo so, — rispose l’interrogato.

— O che siano i nostri ladri?...

— Lo sospetto.

— Bella occasione per fucilarli tutti e due.

— E per far fuggire gli altri colle nostre casse e coll’amazzone. No, Antao, non bisogna far loro sapere che noi siamo così vicini o chissà dove potremo raggiungerli.

— Ma....

— Taci!... —

I due negri dopo d’aver ascoltato per parecchi minuti, si erano rialzati e certi di essere soli in mezzo a quel bosco, si erano scambiati delle parole in lingua uegbè, che Alfredo ben conosceva:

— Più nulla, — aveva detto l’uno.

— No, — aveva risposto l’altro.

— Credi che gli elefanti avranno continuata la loro corsa indiavolata?...

[123]

— Hanno avuto troppo paura dei nostri tizzoni infiammati e delle nostre scariche, per arrestarsi. Sono capaci di continuare la corsa fino all’alba.

— Allora possiamo sperare che abbiano incontrato i bianchi e che li abbiano fatti a pezzi.

— Sì, se ci seguivano sempre.

— Non vorrei essermi trovato al loro posto.

— Lo credo, Cobbena.

— Una bella fortuna, se ci fossimo sbarazzati di loro.

— Almeno potremo giungere tranquillamente ad Abetifi e vendere i loro effetti senza la tema di vederceli giungere addosso.

— Se quella dannata donna non avesse gettata via la sua fascia forse non avrebbero trovate le nostre tracce, è vero Amadù?

— Se avessimo saputo che parteggiava pei bianchi, non l’avremmo di certo condotta con noi, credendo di liberare una nostra compatriota, ma Kalani od il re s’incaricheranno più tardi di infliggerle la punizione che si merita. Quando ci saremo sbarazzati di quelle casse e avremo realizzato una bella cifra, ripasseremo il Volta e marceremo su Abomey quasi senza arrestarci.

— Sì, Amadù. Ormai non ci rimangono più dubbi sulla direzione degli uomini bianchi. Credevano d’ingannare le spie del re, ma invece troveranno Kalani pronto a riceverli. Orsù, torniamo. Abbiamo almeno cinque miglia da percorrere, prima di giungere all’accampamento. —

I due negri, ricaricati i loro fucili e certi ormai che gli elefanti avessero continuata la loro terribile corsa attraverso alla foresta, si rimisero in cammino a passi rapidi, allontanandosi verso l’ovest.

Quando Antao non li udì più, chiese ad Alfredo con stupore:

— E tu hai lasciato che se ne andassero, mentre avremmo potuto fucilarli colla massima facilità. Hai avuto torto, amico.

— No, Antao, — rispose il cacciatore. — I loro compagni, te lo dissi già, non vedendoli ritornare, si sarebbero facilmente immaginato che noi li avevamo o uccisi o catturati e sarebbero fuggiti forse verso il sud, facendoci perdere ogni speranza di poterli raggiungere.

«Ora sappiamo che si recano ad Abetifi e che ci sono poco lontani, quindi non ci possono più sfuggire. Lasciamo loro credere di essere stati massacrati dagli elefanti o fatti a pezzi dalle formiche e li prenderemo più facilmente.

[124]

«Penso anzi che abbiamo marciato troppo e che possiamo riposarci una mezza giornata, per lasciare loro il tempo di giungere tranquillamente nella cittadella degli Ascianti.

— Hai ragione, Alfredo. Tu sei più astuto di me.

— Scendiamo Antao e andiamo a vedere che cosa è accaduto dei nostri uomini. —

Si lasciarono scivolare lungo le liane e giunsero felicemente a terra, mettendosi tosto in marcia per giungere al campo.

Non sapendo quale direzione avevano presa gli elefanti nella loro pazza corsa, temevano che quella formidabile banda fosse piombata in mezzo alle tende, uccidendo gli animali e gli uomini, perciò affrettavano il passo ansiosi di calmare le loro inquietudini.

Già calcolavano di trovarsi a poche centinaia di passi dall’accampamento, quando videro avanzarsi, correndo, un uomo, che subito riconobbero pel fedele Asseybo.

— Padrone!... — esclamò il negro, con voce affannata. — Credevo che ti fosse accaduta una disgrazia. Hai veduto gli elefanti?...

— Sì, ma come vedi siamo entrambi vivi, — rispose Alfredo. — Hanno distrutto l’accampamento?...

— No, padrone. Ci siamo accorti a tempo dell’avanzarsi di quegli animalacci e ci siamo rifugiati in mezzo al fiumicello salvando ogni cosa.

— Cominciavo a essere inquieto per voi.

— Ma il pericolo non è cessato, padrone.

— Cosa c’è ancora?...

— Uno di quegli elefanti, un maschio di statura gigantesca, forse ferito, si è sbandato e si aggira sulla riva del fiume in preda ad un furore spaventevole.

I nostri uomini si sono salvati sulla riva opposta ma corrono il pericolo, di momento in momento, di venire fatti a pezzi.

— Amico Antao, — disse Alfredo, rivolgendosi al portoghese. — Credo che domani mattina assaggieremo un delizioso arrosto di tromba d’elefante.

— Vuoi assalire quel colosso furibondo?...

— Sì, Antao, se mi aiuti.

— Ma potremo ucciderlo colle nostre carabine?...

— Sì, purchè tu cerchi di colpirlo intorno agli occhi o sotto la gola o meglio ancora, nelle giunture delle spalle.

[125]

— Mi proverò, Alfredo.

— Guidaci, Asseybo.

— Sta’ in guardia, padrone. Quell’elefante deve essere un vecchio maschio e tu sai che quelli sono terribili.

— Ci avvicineremo con prudenza. —

Il negro, sapendo per prova quanto il padrone fosse audace e abile cacciatore, non esitò più e si mise in cammino seguendo le rive del fiumicello.

Ben presto i due bianchi udirono il formidabile avversario. Dei frequenti barriti, un po’ rauchi, echeggiavano sotto la foresta, seguiti da strani gorgoglii che parevano prodotti da una pompa che si scaricava dell’acqua.

Probabilmente l’elefante era stato colpito ed assorbiva fragorosamente l’acqua del fiume per inondare la ferita.

Asseybo aveva rallentata la marcia e non si avanzava che con estrema prudenza, temendo di schiantare qualche ramo e di attirare l’attenzione dell’animale.

Intanto i barriti diventando più potenti e più frequenti, destavano tutti gli echi della selva. Pareva che perfino le foglie tremassero.

— Ci darà da fare, — disse Alfredo ad Antao. — Quando sono feriti, non esitano a scagliarsi anche contro un reggimento di cacciatori. Sii prudente e non scaricare la tua carabina se non sei certo del tuo colpo o ti farai schiacciare come una nocciuola.

— Provo un certo tremito che non è rassicurante, — rispose il portoghese, — ma dinanzi al pericolo e trattandosi di salvare la pelle, passerà! Non udranno i nostri spari, i negri che abbiamo veduto?...

— Bah!... A quest’ora devono essere ben lontani e poi queste masse di verzura non permettono alle detonazioni di espandersi a grandi distanze.

— Padrone! — esclamò in quel momento Asseybo. — Eccolo!... —

Presso la riva del fiume, semi-nascosta da un macchione di bambù, una massa mostruosa giganteggiava, colla tromba tesa innanzi, come se si preparasse a caricare un nemico od a prevenire un improvviso assalto.

Era un elefante selvaggio, ma uno dei più grossi e dei più belli che Alfredo avesse veduto fino allora, un animale degno [126] di stare a fronte dei più colossali merghee delle regioni indo-malesi.

Gli elefanti africani, checchè se ne dica, sono più maestosi di quelli del continente asiatico e sebbene nelle forme generali siano quasi eguali, sono un po’ diversi nei particolari.

Generalmente sono più larghi di fianchi, più robusti fors’anche dei coomareah che sono i più forti ed i più massicci della razza asiatica; hanno la fronte convessa invece di averla concava, hanno quattro zoccoli nei piedi posteriori invece di tre, le orecchie più sviluppate che si riuniscono sopra le spalle e che pendono poi sul petto e le zanne d’una bellezza straordinaria e d’una mole enorme, perchè pesano sovente perfino quattrocento libbre, mentre quelle degli elefanti asiatici di rado sorpassano le cento.

Anche le femmine sono diverse da quelle asiatiche, perchè mentre queste sono sprovviste di zanne o le hanno appena visibili, le prime le hanno molto sviluppate, non tanto però come i maschi.

L’elefante che gl’intrepidi cacciatori stavano per affrontare, doveva essere rimasto indietro in causa di qualche ferita ad una gamba anteriore, vedendolo alzare di tratto in tratto la destra.

Pareva che non si fosse ancora accorto della presenza di quei nuovi nemici che contavano di regalarsi un pezzo di proboscide arrostita, essendosi avvicinato al fiume per bagnarsi la ferita invece di assalirli, ma non doveva tardare a sentirli trovandosi sottovento.

— Adagio, — aveva detto Alfredo ai suoi due compagni. — È necessario che ci mostri la fronte o le nostre palle non otterranno altro successo che quello d’irritarlo maggiormente. —

Si erano nascosti tutti e tre dietro un gruppo di teck, i cui tronchi colossali dovevano essere sufficienti a difenderli contro qualunque carica del pachiderma, e di là attendevano il momento propizio per fare una scarica.

Vedendo però che il colosso non si decideva ad abbandonare il fiume, Alfredo, che era impaziente di finirla, si risolse a costringervelo.

Raccomandò ai compagni di non abbandonare quel rifugio e strisciò all’aperto, tenendosi celato dietro una fila di ebani, i quali in caso di pericolo potevano preservarlo da un attacco furioso.

[127]

Giunto a trenta passi dal mostruoso animale, armò risolutamente la carabina, poi lanciò un fischio acuto.

L’elefante, sorpreso, cessò di colpo dall’assorbire l’acqua per versarsela sulla gamba ferita, poi risalì lestamente la sponda camminando a ritroso, quindi si volse emettendo un barrito assordante che tradiva dell’inquietudine, ma che annunciava anche un imminente scoppio di collera. Quasi nel medesimo istante due lampi balenarono dietro ai tronchi dei tek, seguìti da due strepitose detonazioni.

Antao e Asseybo, vedendo il colosso presentarsi di fronte, avevano fatto fuoco.

Disgraziatamente le palle non dovevano essere giunte a destinazione esatta. Di fatti il pachiderma, invece di cadere lanciò una possente nota metallica e si scagliò con impeto irresistibile verso gli alberi, roteando furiosamente la terribile tromba.

— Fuggite!... — aveva gridato Alfredo.

Il portoghese ed il negro non avevano atteso quel consiglio. Spaventati dall’irrompere di quell’enorme massa, erano balzati fuori dal rifugio, dandosi a precipitosa fuga attraverso la foresta.

Alfredo aveva veduto ogni cosa ed era diventato pallido. Guai se non riusciva ad arrestare il furioso animale: i due imprudenti non avrebbero continuata per molto la loro corsa, non ignorando che gli elefanti, malgrado la loro mole, possono spiegare un’agilità straordinaria e gareggiare talvolta perfino coi cavalli.

Balzò rapidamente fuori dagli ebani e si slanciò innanzi mandando alte grida, per attirare su di sè l’attenzione dell’animale.

Questi, credendo forse di avere i nemici dietro le spalle invece che dinanzi, fu pronto a volgersi e vedendo a pochi passi il cacciatore, lo assalì a testa bassa, colle zanne tese e la proboscide alzata.

Alfredo non era fuggito. Facendo appello a tutto il suo coraggio ed a tutto il suo sangue freddo, si era appoggiato al tronco d’un sicomoro, tenendo la carabina puntata.

A quindici passi fece fuoco.

Il colosso, colpito alla giuntura della spalla sinistra, s’inalberò come un cavallo sotto un violento colpo di sproni, poi lanciò un lungo barrito, ma che aveva qualche cosa di lamentevole, di straziante, quindi riprese la corsa.

[128]

Alfredo era passato prontamente dietro al tronco per evitare le zanne e la proboscide, poi dietro un altro che gli stava un po’ discosto e scivolò in mezzo ad un intricato macchione di cespugli.

L’elefante, trasportato dal proprio slancio, continuò la corsa sferzando furiosamente i tronchi degli alberi, ma ad un tratto le forze lo abbandonarono e cadde sulle ginocchia, lanciando una nota più lamentevole e meno possente.

In quel momento Antao e Asseybo, non vedendosi più inseguiti ed avendo udito lo sparo del compagno, erano ritornati sul campo della lotta.

Avevano ricaricate le armi ed accorrevano in aiuto del valoroso cacciatore.

Vedendo l’elefante dibattersi in mezzo alle piante e fare sforzi disperati per rialzarsi, gli si avvicinarono ed a soli dieci passi fecero una nuova scarica.

Fu il colpo di grazia!... Il povero animale, che era già moribondo, alzò un’ultima volta la tromba vomitando un getto di sangue spumoso, poi stramazzò pesantemente al suolo, rimanendo immobile.

— Alfredo!... — gridò Antao, raggiante di gioia. — È morto!... —

Il cacciatore, che aveva allora ricaricata la carabina, balzò fuori dai cespugli, dicendo:

— Ecco una colazione ben guadagnata e condita con trecento cinquanta libbre d’avorio per lo meno. Asseybo, puoi preparare il forno per cucinare un piede di questo povero animale. —

Capitolo XIX. Sulle terre degli Ascianti

Mentre il negro, aiutato dai due dahomeni che si erano affrettati ad attraversare il fiume coi cavalli, scavava una buca profonda che doveva servire di forno e facevano raccolta di rami secchi per riscaldarla per bene, Alfredo, armatosi d’una scure, tagliava a gran colpi i piedi anteriori del colosso e faceva a pezzi la proboscide.

 
— Gli uomini bianchi non hanno da fare colla giustizia del re! — (Pag. 142).

[129]

Il portoghese da canto suo girava e rigirava attorno a quella montagna di carne che sarebbe bastata a nutrire una tribù affamata, ammirando quella testa enorme, quel corpo mostruoso e soprattutto quelle magnifiche zanne che potevano rendere almeno tremila lire sui mercati della Costa e ben di più in Europa.

— È una pazzia uccidere questi colossi, — diceva. — Ecco qui parecchie tonnellate di carne perduta e che saremo costretti a regalare alle fiere della foresta.

— Vorresti portarti via questa colossale carcassa, Antao? — rispondeva Alfredo, che si accaniva contro le due zampe. — Ci vorrebbe un treno ferroviario e poi non credere che tutta questa carne sia succolenta.

I negri la mangiano, ma è coriacea quanto la carne d’un mulo vecchio. Accontentati quindi di assaggiare i pezzi scelti.

— Dimmi, Alfredo, si uccidono molti elefanti in Africa? Mi pare che simili mostri debbano fare paura a tutti.

— Che facciano paura, quando sono irritati, è vero, ma l’avidità rende coraggiosi anche i negri. L’avorio è un articolo troppo ricercato sulle coste africane, per lasciare in pace questi colossi.

Ti dirò che si è calcolato che in Africa se ne uccidano annualmente dai sessanta ai settantamila.

— Settantamila, hai detto!... — esclamò il portoghese.

— Sì, Antao e per ottenere sette od ottocentomila chilogrammi d’avorio.

— E solamente per i suoi denti?...

— Solamente, poichè i cacciatori di elefanti non si curano della carne. Tutt’al più fanno come noi, cioè si accontentano di cucinarsi qualche piede o qualche pezzo di proboscide per la colazione o pel pranzo.

— Ma continuando queste stragi finiranno col fare scomparire la razza.

— Certo, Antao. In certe regioni, specialmente del sud, gli elefanti sono già diventati rari e se non si pone un freno a quei cacciatori, fra venti o trent’anni non se ne troverà più uno in tutta l’Africa.

Devi poi notare, che l’elefante africano si riproduce molto lentamente. Prima di vent’anni non è atto alla riproduzione e alla femmina occorrono tre anni prima che dia alla luce il figlio e questo è sempre uno solo.

[130]

In India si segano i denti agli elefanti senza fare agli animali alcun male, onde non compromettere gravemente la conservazione della specie, ma qui invece si uccidono, abbandonando le spoglie alle iene ed agli sciacalli.

— Eppure quali preziosi servigi potrebbero rendere anche questi colossi del continente nero!

— Questi animali, che sono i più filosofici, i più intelligenti ed i più tenacemente laboriosi, addomesticati come quelli indiani, sarebbero d’una utilità immensa per la loro forza prodigiosa. Non ci sarebbe più bisogno di organizzare quelle numerose e costose carovane d’uomini, per portare i prodotti delle regioni interne alla costa.

— Pure anticamente i cartaginesi si servivano degli elefanti africani nelle guerre.

— È vero, Antao ed anche dopo la distruzione di quel popolo se ne servirono per parecchi secoli i Numidi ed i Romani, ma nell’enorme scompiglio politico e sociale che nel medio evo sconvolse le popolazioni d’Europa e dell’Africa settentrionale, si trascurò l’arte di addomesticare quegli utilissimi animali e da allora più nessuno se ne occupò.

Quando si penserà a utilizzare ancora gli elefanti, probabilmente la razza sarà stata distrutta dall’avidità insaziabile dei cacciatori d’avorio.

— Ma le colonie delle nazioni europee, non hanno fatto alcun tentativo?

— Pare che ora si cerchi di addomesticarne alcuni. La cosa non è difficile e quali vantaggi ne trarrebbero i coloni, specialmente quelli delle stazioni interne!... Pensa che i negri portatori più robusti non possono caricarsi d’un peso superiore ai venticinque chilogrammi, nè percorrere oltre venti chilometri al giorno, mentre gli elefanti possono portare parecchie diecine di quintali percorrendo in media dai sessanta ai settanta chilometri ogni dodici ore.

— Ma il vitto!...

— Se lo procurano loro nelle foreste, quindi quasi nulla verrebbero a costare. Orsù, il forno è pronto e finchè i piedi e la tromba si cucinano, possiamo dormire alcune ore. —

Asseybo e i dahomeni avevano sbarazzato la buca dai tizzoni, avendovi acceso nel fondo un grande fuoco. Avvolsero i pezzi della tromba ed i due piedi entro grandi foglie di banano [131] unitamente a delle erbe aromatiche trovate nella foresta e ve li gettarono dentro, coprendoli con cenere calda e poi con terra.

Livellato il terreno, vi accesero sopra un altro fuoco che dovevano conservare per un paio d’ore.

Antao ed Alfredo, dopo d’aver assistito a quegli ultimi preparativi, si ritirarono sotto la tenda che era stata nuovamente rizzata, addormentandosi profondamente.

Non si svegliarono che verso le sei del mattino, alle insistenti e rumorose chiamate del bravo Asseybo.

I dahomeni avevano aperto il forno e levati i due piedi ed un grosso pezzo di proboscide, i quali fumavano sopra una grande foglia di banano selvatico, spandendo all’intorno un delizioso profumo.

I due cacciatori, ai quali l’aria fresca del mattino aveva stuzzicato straordinariamente l’appetito, non si fecero pregare per dare l’assalto all’arrosto.

Antao dovette confessare che quei pezzi del colosso africano potevano gareggiare coi migliori dei più grassi buoi e dei più grassi maiali. I negri poi fecero tanto onore a quell’arrosto, da non essere quasi più capaci di muoversi.

Fortunatamente Alfredo aveva accordato una mezza giornata di riposo, per lasciare tempo ai ladri di giungere ad Abetifi e per tagliare i due superbi denti del colosso, non volendoli abbandonare al primo venuto. Rappresentavano una bella cifra e potevano servire di gradito regalo al governatore di Abetifi per renderselo propizio e per avere aiuti contro le spie di Geletè.

Fu verso le quattro pomeridiane, quando il gran calore cominciava a scemare, che la piccola carovana si rimise in marcia, portando con sè i due colossali denti che i negri, dopo molto lavoro, erano riusciti a troncare a gran colpi d’accetta.

Le tracce dei fuggiaschi erano state smarrite forse perchè distrutte dall’irrompere impetuoso degli elefanti selvaggi, i quali avevano sconvolto la foresta, ma ormai Alfredo sapeva dove erano dirette le spie e questo gli bastava.

Essendo munito d’una buona carta e d’una bussola, era certo di giungere ad Abetifi anche passando attraverso la foresta e poi sapeva che al di là di quegli alberi doveva estendersi la gran pianura, sulla quale una città considerevole non poteva sfuggire agli sguardi.

[132]

Un’ora prima del tramonto, la carovana ripassava l’Afram e superati pochi macchioni si trovava sul margine della grande pianura che doveva estendersi, quasi senza interruzione, fino alla capitale degli Ascianti, a Cumassia.

Non essendo interrotta che da pochi gruppi d’alberi o da piante isolate, appena volti gli sguardi verso il sud-ovest, Alfredo ed Antao scorsero, ad una distanza di otto o dieci miglia, un gruppo di dadi biancastri, attorno ai quali si stringevano moltissimi coni di colore oscuro.

— Abetifi? — chiese il portoghese.

— Sì, — rispose Alfredo. — Non è possibile ingannarsi.

— È vero padrone, — dissero i due schiavi dahomeni.

— Siete stati in quella cittadella?...

— Sì, padrone.

— Credete che le vostre bestie possano resistere fino a quelle case?... È necessario che penetriamo in Abetifi prima dell’alba od i ladri ci fuggiranno.

— Lo potranno, rallentando un po’ la marcia.

— Sapete se domani vi è mercato in città?...

— Sì, padrone.

— Allora siamo certi di sorprendere quei furfanti. —

Fu concesso un riposo di quattro ore ai due cavalli, durante le quali ne approfittarono anche gli uomini, prevedendo che non avrebbero potuto chiudere gli occhi prima dell’indomani sera.

Alle dieci di sera, abbeverati abbondantemente gli animali, essendo scarsissima l’acqua in quelle vaste pianure calcinate dal sole, la carovana riprendeva la marcia attraverso a quegli strati d’erbe disseccate.

Procedevano lentamente, con precauzione, colle carabine armate sotto il braccio, servendo quelle alte erbe di ricovero ad una grande quantità di pericolosi animali, a serpenti pitoni lunghi sei e perfino sette metri che fra le loro formidabili spire stritolano un uomo come se fosse una semplice pagliuzza; a piccoli serpenti neri che posseggono un veleno quasi fulminante e contro il quale è vano ogni rimedio; a grossi ragni della specie dei migali che producono delle ferite gravissime e talvolta incurabili ed a molti leoni, a leopardi ed a iene macchiate, le più audaci della famiglia, poichè osano perfino gettarsi contro gli uomini.

Di tratto in tratto, in mezzo ai gruppi di cespugli che si elevavano [133] qua e là, si udivano scoppi di risa, dei ruggiti bassi e profondi, delle urla di sciacalli e talvolta anche quei fischi strani, rauchi, che annunciano la presenza dei rinoceronti, i più brutali ed i più irritabili animali della creazione.

I poveri cavalli udendo quel concerto tremavano come se avessero la febbre ed esitavano a tirare innanzi, ed anche i due dahomeni non erano tranquilli, ma Asseybo si mostrava calmo sapendo quanto valevano i suoi padroni.

Verso la mezzanotte, quando le casette della cittadella cominciavano ad imbiancarsi sotto i primi raggi dell’astro notturno il quale allora spuntava all’orizzonte, un grosso leone che stava sdraiato in mezzo ad un cespuglio, presso il quale doveva passare la carovana, s’alzò con un grande salto, mostrando delle intenzioni poco pacifiche, ma vedendo i due cacciatori muovere incontro a lui colle carabine spianate, dopo un momento di esitazione credette miglior partito di prendere il largo.

Con quattro o cinque balzi mostruosi si rintanò sotto un altro cespuglio e non si mosse più, limitandosi a far udire dei bassi brontolii.

Più tardi due grosse iene macchiate che stavano appiattate dietro alcune rocce che si ergevano solitarie sulla vasta pianura, tentarono di gettarsi improvvisamente sui cavalli nel momento in cui questi passavano a breve distanza, ma Asseybo appioppò sul muso della più vicina un così potente colpo col calcio del suo fucile da costringerla ad una precipitosa fuga, urlando di dolore. La compagna, spaventata da simile accoglienza, s’affrettò a seguirla con tutta la rapidità delle sue agili gambe.

Alle tre, quando ad oriente gli astri cominciavano ad impallidire, la carovana giungeva dinanzi ai primi villaggi di Abetifi i quali formano una specie di sobborghi intorno alla città.

Più che villaggi erano minuscoli attruppamenti di capanne abbastanza male costruite.

Quelle catapecchie, di forma conica, dove vivevano nell’interno, alla rinfusa, persone ed animali domestici, erano tutte fabbricate con tronchi d’alberi spalmati d’argilla ed avevano il tetto di foglie intrecciate.

Dinanzi però ad ognuna, per quanto fosse piccola e malandata, si scorgeva l’oquiamis duah ossia l’albero dio, il quale consisteva in un piuolo con tre o quattro rami sostenenti un [134] vaso, entro cui cresceva una pianticella ed in un monticello di terra che i proprietari della dimora hanno il dovere d’imbiancare tutti i giorni o di tingerlo di color rosso pallido.

È sotto quel monticello che ordinariamente si nascondono le vittime sacrificate alle diverse divinità del regno e non è rado che i ricchi vi nascondano anche dell’oro, ma che nessun ladro però oserebbe toccare.

— Che strane credenze, — disse Antao, udendo le spiegazioni che gli dava Alfredo su quelle pentole svariate, contenenti quelle pianticelle venerate.

— Ma non si accontentano di avere gli oquiamis duah, — disse il cacciatore. — Hanno altri amuleti più stravaganti. Guarda quella capanna, presso la cui porta vedi quel piuolo alto un metro.

— A cosa serve?... Forse per impalare i miscredenti?...

— No, rappresenta un altro feticcio di molta importanza. Come vedi, quel piuolo sostiene una pietra che gli Ascianti, in buona fede, credono sacra e d’intorno vi è un piccolo recinto di fibre di palmizio che si mantiene accuratamente unto d’olio di palma.

Tutte le volte che i padroni della capanna mangiano, sono obbligati a deporre su quella pietra una porzione dei loro cibi, con grande consolazione dei topi o degli uccelli.

— Si vede che gli Ascianti sono amanti dei pali.

— Oh, venerano anche gli alberi che crescono nell’interno della città. A Cumassia, per esempio, ogni pianta viene rispettata e adorata come fosse un feticcio ed a nessuno è permesso di tagliarla, anche se i rami impedissero il passaggio alle persone.

Vi sono poi alcuni alberi che godono tale venerazione, che vengono tappezzati di offerte consistenti per lo più in pezzi di stoffe più o meno di valore. Quelle piante sono circondate da palizzata per proteggerle e se un uragano spezza qualche ramo, il re s’affretta a sacrificare immediatamente una o più vittime umane. Se poi l’albero venisse sradicato si fanno dei veri costumi del sangue con grande uccisione di schiavi‍[6].

— Morte di Urano!... — esclamò Antao, indignato. — Ma in questi orribili paesi la vita umana ha adunque meno valore di un albero?... Che razza di barbari!...

[135]

— Vale ancora meno, Antao.

— Ma quante divinità adorano questi popoli, se innalzano a tale onore perfino le piante?...

— Hanno una grande quantità di dei e tutti sono gli uni più strani degli altri. I principali però sono Bassomrù grande protettore dei palazzi del re e che consiste in una scatola di legno adorna d’oro e contenente piume, pezzi di varii metalli, perle di vetro, ecc.; Bassomprak che è il protettore del fiume omonimo segnante la frontiera del regno verso il paese dei Fanti e si festeggia ogni mercoledì; Bassomunè protettore del lago che si trova a venti miglia dalla capitale si festeggia alla domenica e forse per tale motivo chiamato il feticcio dei bianchi; poi Tano che abita i boschi e che è ritenuto il più cattivo e molti altri rappresentati da pietre, da piante, ecc.

Ogni persona deve scegliersi un feticcio protettore e il giorno stabilito per la festa del dio, deve scrupolosamente astenersi dal bere vino di palma e dal mangiare certi cibi. Trascurando queste cose, ognuno ha il diritto di ucciderlo ed il suo cadavere deve essere privato della sepoltura e gettato invece in un carnaio qualunque, a pasto degli avvoltoi e dei corvi.

— Una religione da pazzi, insomma.

— Se non da pazzi, certo da selvaggi, Antao. —

Erano allora giunti a tre o quattrocento passi dalla città, dinanzi ad una grande tettoia un po’ cadente, che pareva avesse servito un tempo di riparo alle carovane provenienti dalle regioni del sud.

Alfredo fece cenno ai suoi uomini di condurre là sotto gli animali, poi rivolgendosi ad uno dei dahomeni, gli chiese.

— Conosci il dikero di Abetifi?

— No, padrone.

— Sai però dove abita?...

— No, ma sarà facile saperlo.

— Asseybo, — continuò Alfredo volgendosi al servo, — tu andrai con quest’uomo dal dikero e se sarà necessario anche dall’assafo oinè (capo della città) ed esporrai loro ciò che ci è accaduto, reclamando giustizia contro i ladri. Dirai loro che noi non siamo inglesi, ma europei amici della loro nazione.

— Sono pronto a partire, padrone, — rispose Asseybo.

— Non ho ancora finito. Coi negri nulla si ottiene se non vi sono dei doni. —

[136]

Aprì una delle casse, levò una dozzina di fazzoletti di seta rossa, colore molto apprezzato da quasi tutti i discendenti di Caam, alcune file di perle di vetro, dei galloni d’oro, un paio di bottiglie di tafia gelosamente conservate fino allora e fece un pacco che mise in groppa ad uno dei cavalli, unitamente alle due zanne d’elefante.

— Va’ e cerca di trovare il dikero prima che si cominci il mercato. Noi ti attenderemo qui, poichè se gli abitanti ci vedessero, la notizia dell’arrivo di uomini bianchi si spargerebbe tosto ed i ladri approfitterebbero per prendere il largo.

— Sta bene, padrone, — rispose Asseybo. — Spero di essere di ritorno fra una mezz’ora. —

Il fedele servo ed il dahomeno s’affrettarono ad allontanarsi, mentre i due europei, per sfuggire alla curiosità delle persone dei vicini villaggi, si coricavano fra le casse, sotto la guardia del secondo schiavo.

Capitolo XX. Il supplizio d’un ladro nell’Ascianti

La mezz’ora era trascorsa, ma nè Asseybo nè il suo compagno erano ritornati, poi un’altra era pure trascorsa senza che nessuna nuova fosse giunta ai due europei, di già molto inquieti per quell’inesplicabile ritardo.

L’alba era sorta e numerosi abitanti dei vicini villaggi ed anche alcune carovane, provenienti certamente dalle regioni meridionali, erano passati per recarsi al mercato della città.

Il dahomeno, rimasto di guardia, più di venti volte si era spinto sulla via per vedere se i due negri si scorgevano, ma alle impazienti domande dei padroni non aveva risposto che con un desolante: — Nulla. —

Cosa era accaduto dei due messi?... Erano stati sorpresi dai ladri che forse vegliavano, temendo la improvvisa comparsa dei due europei od il dikero, sospettando in loro due persone pericolose o due spie degli inglesi, li aveva fatti imprigionare, cosa non improbabile per quei giudici capricciosi e diffidenti?...

[137]

Alfredo che già aveva perduta la pazienza, stava per prendere una risoluzione decisiva, recandosi in persona dal giudice o dal capo della città col pericolo di far fuggire i ladri, quando il dahomeno, che era uscito sulla via per la venticinquesima volta, annunciò il ritorno di Asseybo e del suo compagno, seguìti da otto negri che portavano due amache sospese a quattro grossi bastoni formanti un parallelogrammo e riparate da un piccolo tetto di foglie.

Alfredo, ed Antao si erano affrettati ad uscire sulla via, dove s’incontrarono con Asseybo, il quale era corso innanzi agli otto portatori.

— Padrone, — disse con voce lieta. — I ladri sono stati presi!...

— Presi di già! — esclamarono Alfredo ed il portoghese.

— Cioè uno solo è stato preso vivo, poichè un altro che si era ribellato agli uomini del dikero è stato ucciso ed il terzo è scomparso.

— E la negra?...

— È in casa del dikero.

— In buona salute?... — chiese Antao.

— Guarita completamente delle sue ferite.

— E le nostre casse e gli animali? — chiese Alfredo.

— Sono state ricuperate intatte.

— Ma cosa vengono a fare questi uomini con quelle amache?...

— Te li manda il dikero per condurre te ed il signor Antao a casa sua.

— Ha gradito i regali adunque?...

— Lo puoi comprendere dalla rapidità con cui ha fatto radunare le sue guardie e piombare addosso ai ladri.

— Andiamo da quel brav’uomo. —

I portatori si erano arrestati dinanzi alla tettoia ed attendevano gli europei. Alfredo ed Antao salirono in quelle comode amache, i negri si posero sulla testa, difesa da cuscini bene imbottiti, i quattro angoli dei parallelogrammi e si misero lestamente in marcia preceduti da Asseybo e seguiti dai due dahomeni che conducevano l’ultimo cavallo.

Nell’Ascianti quelle lettighe sono grandemente usate, sia per trasportare i passeggieri, sia per le merci. Si può dire non conoscono altro mezzo di locomozione perchè, cosa davvero strana, quantunque posseggano molti buoi e non siano rari, nel loro [138] paese, anche i cavalli e gli asini, non si servono mai di questi animali e non conoscono poi affatto nessuna specie di ruotabile.

Gli otto portatori, che procedevano speditamente, in pochi minuti entrarono in Abetifi, aprendosi faticosamente il passo attraverso una folla di negri colà radunata pel mercato.

Abetifi è una delle più importanti e più popolose città del regno, situata a circa ottanta chilometri dal Volta, ed a cento da Cumassia, che è la capitale degli Ascianti.

Non ha che poche case di legno che servono d’abitazione all’assafo oinè, al dikero ed ai cumfos o sacerdoti incaricati di vegliare sui feticci; le altre sono semplici capanne circondate però quasi tutte da giardini e da orticelli, nei quali si coltivano ignami, manioca, fagioli di varie specie, ananas, popoya e certe specie di pimento assai forte largamente usato nella preparazione del fu-fu.

Ordinariamente la sua popolazione non supera le otto o diecimila anime, ma nei giorni di mercato il numero si raddoppia.

I due europei, fatti segno della curiosità di tutti i negri affollati sul mercato, in pochi minuti attraversarono la città e furono deposti dinanzi ad una casetta di legno, costruita con un certo gusto e decorata di stuoie variopinte.

Un negro già vecchio, perchè era molto rugoso, ma ancora robusto, coperto d’una lunga camicia bianca e colle gambe adorne di strani amuleti o sumieno, consistenti in cordoni di fibre di palmizio annodati ed arricchiti da pallottoline di vetro, da granelli d’oro traforati, da penne di pappagallo e da ciuffetti di peli, li attendeva dinanzi alla porta.

Era il dikero in persona, il quale voleva ricevere degnamente i due europei che erano stati così larghi di doni.

Per darsi l’aria d’un uomo civile, porse la destra ad Alfredo ed Antao e li invitò a seguirlo, conducendoli in una stanza adorna di stuoie colorate ammonticchiate contro le pareti, in modo di formare dei sedili discretamente comodi e da alcuni feticci di terra grossolanamente plasmata, rappresentanti delle figure umane ma che nella destra impugnavano una sciabola e nella sinistra una testa ed accuratamente imbiancati, essendo questa tinta il colore preferito dalle deità asciantine.

Alcuni schiavi recarono tosto un grande vaso di terra ripieno di vino di palma affinchè i forestieri, prima di cominciare la conversazione, si dissetassero, poi quando ebbero bevuto, il dikero [139] con una amabilità poco comune in quel popolo sospettoso e crudele, diede agli ospiti il benvenuto, ringraziandoli contemporaneamente dei regali.

— Siamo noi invece che dobbiamo ringraziarti, dikero, — rispose Alfredo in uegbè. — Senza il tuo pronto agire, i ladri sarebbero forse fuggiti.

— Contenevano dei tesori le tue casse?...

— No, — rispose prontamente il cacciatore, che conosceva l’avidità insaziabile di quei giudici. — Più che gli oggetti racchiusi nelle casse, mi premeva salvare la giovane negra.

— Non te la ruberanno più, poichè uno dei ladri è stato ucciso, il secondo è fuggito ma spero che lo ritroveranno ben presto, ed il terzo è in mia mano e non uscirà vivo da Abetifi.

— Cosa vuoi farne di quell’uomo?...

— Lo uccideremo.

— Non ti chiedo tanto, dikero.

— È stato riconosciuto per una spia di Geletè, ed era qui venuto altre volte per farci forse sorprendere dai cacciatori di schiavi dei Dahomey e quell’uomo morrà.

— Ma ti ho detto che non è necessario che quell’uomo lo si uccida. A me basta che rimanga prigioniero presso di te qualche mese.

— È un nemico e morrà, — disse il dikero con incrollabile fermezza. — Così il nostro re vuole e se disobbedissi, Mensah mi farebbe tagliare la testa.

— Ma hai tu le prove che sia realmente la spia che tu cerchi?

— No, ma sapremo presto se egli è quello che io sospetto. Negherà, come ha negato di aver rubato le tue casse, ma l’odum mostrerà se è veramente colpevole. Ho già dato ordine che la prova abbia luogo stamane sulla piazza del mercato, dovendo essere pubblica. Vuoi venire?... Il ladro deve essere già stato condotto sulla piazza.

— Ma dov’è la giovane negra? Vorrei prima vederla.

— Dorme presso le tue casse. Era così stanca che non si reggeva più in piedi.

— La rivedremo più tardi. Siamo pronti a seguirti. —

Il dikero si era alzato invitando i suoi ospiti a seguirlo. Al di fuori li attendevano dodici portatori con tre amache seguìti [140] da parecchi negri armati di vecchi fucili e di lancie, i quali dovevano servire di scorta al rappresentante della giustizia.

Quegli uomini erano comandati da un corriere del re, giunto forse di recente ad Abetifi, personaggio molto importante e che col suo costume dava un’idea del lusso della corte di S. M. Mensah.

Era coperto di piastre d’oro massiccio e d’un peso tale, da rendergli molto malagevole il camminare, e sul capo portava un casco adorno di penne d’aquila formanti una specie di ventaglio. In una mano poi portava un piccolo scettro reale, una specie di spada coll’impugnatura coperta da un pezzo di pelle di leopardo.

I due europei, il dikero ed il seguito riattraversarono la città e s’arrestarono sotto una grande tettoia eretta in mezzo alla piazza del mercato e guardata da alcuni negri armati, i quali respingevano la folla che si pigiava attorno a quella costruzione, con un’abbondante ed incessante distribuzione di legnate.

In mezzo alla tettoia vi era il ladro, con la destra chiusa entro un anello di ferro infisso in un grossissimo macigno e colle gambe incatenate.

Era un negro ancor giovane, poichè non doveva avere più di venticinque o trent’anni, dall’aspetto furbo, dagli sguardi intelligenti, ma dai lineamenti duri, quasi feroci.

Quantunque dovesse essere ormai convinto di non uscire vivo dalle mani dei suoi nemici, guardava alteramente la folla e scherzava coi suoi guardiani.

Quando però vide i due europei, manifestò una viva inquietudine ed i suoi sguardi divennero cupi.

— Ci riconosci?... — gli chiese Alfredo, avvicinandoglisi.

— Sì, — rispose il prigioniero.

— Non credevi di vederci qui così presto.

— È vero. Credevo che le formiche o gli elefanti vi avessero uccisi. —

Poi, dopo alcuni istanti di silenzio, aggiunse con fatalistica rassegnazione:

— Ho perduto e pagherò.

— Posso tentare di salvarti, — disse Alfredo.

— È inutile: gli Ascianti sono miei nemici e mi uccideranno, e poi, se non lo facessero loro, non mi perdonerebbero nè Kalani, nè Geletè.

[141]

— Kalani!... Ah! tu conosci quell’uomo?... Era stato lui ad incaricarti di spiarmi?... —

Il negro non rispose.

— Parlami di Kalani. È vero che non farà male a mio fratello?... È vero che non si vendicherà su quel povero ragazzo?... —

Nemmeno questa volta il prigioniero aprì le labbra.

— Odimi, — disse Alfredo, con viva commozione. — Io ti strapperò alla morte, te lo prometto, ma dimmi cosa ne ha fatto Kalani del fratellino mio.

— Non so nulla, — rispose il negro. — D’altronde fra poche ore sarò morto. —

Poi si rinchiuse in un silenzio feroce e rimase sordo ed impassibile a tutte le domande, a tutte le promesse d’Alfredo. Sapendo di morire, pareva che provasse una gioia crudele delle ansietà dell’uomo bianco.

Il dikero pose fine a quell’interrogatorio che esasperava il cacciatore, ordinando che si recasse l’odum pel giudizio dei numi.

Questo odum non è altro che la corteccia d’un albero a cui gli Ascianti attribuiscono delle proprietà miracolose, strabilianti. Serve ad indicare i veri colpevoli, a torto od a ragione, non importa.

Si dà al reo da masticare un pezzo di quella corteccia, poi gli si fa inghiottire una grande quantità d’acqua. Se la rigetta e ciò non succede quasi mai, è dichiarato innocente, ma se la trattiene e ciò succede quasi sempre, è subito punito, essendo tutti convinti che egli sia realmente colpevole.

Ad un ordine del dikero il ladro, che non voleva confessare di essere una spia di Geletè, fu seduto su di uno sgabello, poi il carnefice, riconoscibile pel suo berretto di pelle di leopardo e pei due coltellacci pendentigli sul petto, gli diede da masticare il pezzo di odum, ingiungendogli di tenerlo in bocca parecchi minuti, fino a ridurlo in bricciole.

— Credo che quel povero diavolo sia spacciato, — disse Antao, che seguiva con curiosità quella strana prova.

— È convinto anche lui di non poter provare il contrario, — rispose Alfredo.

— E lo uccideranno?

— Non avrà alcun scampo. Se fosse a Cumassia potrebbe avere [142] qualche speranza di salvarsi, ma qui non vi è alcun luogo inviolabile.

— Forse che a Cumassia vi è un luogo dove i condannati possono salvare la pelle?...

— Sì, è un piccolo villaggio che si chiama Butama e che è separato da Cumassia da un piccolo corso d’acqua. Qualunque condannato che varchi quel ruscello è al sicuro contro la collera di tutti i dikeri e perfino del re, perchè là sorgono le tombe della famiglia reale e perciò quel territorio è sacro. —

In quell’istante le loro parole furono soffocate da un urlìo feroce, emesso dalla folla. Il dahomeno aveva bevuto l’acqua e, come era da aspettarselo, non l’aveva rigettata.

Pronto come il lampo, il carnefice aveva afferrata la vittima pel collo e secondo l’uso gli aveva trapassato, con un lungo ed acuto coltello, le gote e la lingua, per impedirle di pronunciare il gran giuramento del re, formula che le avrebbe dato il diritto di salvare la vita per un certo tempo e di venire fucilato invece di torturato.

Antao ed Alfredo, spinti dal loro animo generoso, si erano lanciati verso il prigioniero per cercare di strapparlo alla morte, ma il corriere del re ed i suoi uomini si erano affrettati a chiudere loro il passo, dicendo con tono minaccioso:

— Gli uomini bianchi non hanno da fare colla giustizia del re! —

Intanto il carnefice aveva approfittato per piantare nelle spalle del paziente due lunghe forchette e legatogli una corda al collo, l’aveva tratto sulla piazza, costringendolo a camminare, mentre la folla gli si precipitava dietro urlando e ridendo ed agitando dei tizzoni accesi.

— Vieni, Antao, — disse Alfredo. — Ciò è ripugnante. — E presolo per una mano lo trasse verso la casa del dikero, seguito da Asseybo.

— Ma cosa faranno ora di quel disgraziato? — chiese Antao, che porgeva ascolto alle urla crescenti della folla.

— Lo conducono in giro per la città, costringendolo a ballare in ogni via.

— Ma se non lo potesse?...

— La folla lo costringerebbe coi tizzoni accesi.

— E poi lo decapitano?...

[143]

— C’è del tempo. Gli Ascianti non sono meno crudeli dei Dahomeni e prima lo tortureranno diabolicamente.

Quando avrà finita la passeggiata, il carnefice avrà tagliato parecchi pezzi di carne sul corpo di quel disgraziato.

— Ma allora lo ucciderà?

— No, poichè i carnefici sono abili e sanno che se uccidono la vittima prima che sia giunta l’ora, devono prenderne immediatamente il posto.

— Ma quando finiranno di torturarlo?...

— Non prima di questa sera. A mezzodì gli accorderanno un po’ di riposo e gli daranno una zucca di vino di palma per rinvigorirsi, poi lo costringeranno a riprendere la passeggiata e le danze innanzi alle autorità. Se si presterà volentieri a quei salti, la sua testa non tarderà a cadere sotto il coltello del carnefice, ma se si rifiutasse, disgraziato lui.

Prima di perdere la testa, quei mostri gli troncheranno una ad una le membra.

— Che razza di canaglie!... Il diavolo si porti il dikero e tutti i suoi negri. Prendiamo le nostre casse ed i nostri animali ed andiamocene, Alfredo. Rinuncio all’ospitalità di quel selvaggio sanguinario.

— Non chiedo di meglio, Antao. Preferisco andare ad accamparmi nella pianura od in mezzo ai boschi. —

Dinanzi all’abitazione del giudice trovarono i due dahomeni e la giovane negra, la quale attendeva ansiosamente il ritorno dei due bianchi.

Quando se li vide dinanzi, un vero grido di gioia irruppe dalle labbra della brava ragazza e fu tale la contentezza d’Antao, nel rivederla, che non potè fare a meno di abbracciarla.

— Morte di Giove, Venere, Urano e di tutti pianeti del firmamento!... — esclamò. — Ti giuro, mia povera giovane, che io sono commosso. —

Stava per tempestarla di domande, ma Alfredo gli troncò le parole dicendo:

— Più tardi, Antao. Pensiamo a prendere il largo prima che il dikero ritorni. —

I due dahomeni e Asseybo bardarono i cavalli che erano stati ricoverati in una vicina tettoia, dai servi del dikero si fecero consegnare le casse rubate, le caricarono in fretta sul dorso [144] degli animali e partirono di corsa seguiti dai due europei e dall’amazzone, la quale era già perfettamente guarita.

Mezz’ora dopo erano tanto lontani, da non udire più le urla feroci della popolazione martirizzante la spia di Kalani.

Capitolo XXI. Attraverso la regione dei Krepi

La carovana marciò senza interruzione fino a notte tarda attraverso alla pianura, spingendo i cavalli ad un mezzo galoppo e non si arrestò che sul margine della grande foresta, che doveva guidarli alle rive del Volta.

Uomini ed animali non ne potevano più dopo quella corsa indiavolata fatta sotto un sole ardente e senza aver mai trovato un palmo d’ombra, ma i primi erano contenti di trovarsi così lontani da quella città dei cui abitanti era meglio diffidare, malgrado le premure e l’aiuto prestato dal dikero.

Quand’ebbero cenato e le tende furono rizzate presso i fuochi accesi per tenere lontane le fiere, Alfredo chiamò attorno a sè tutti, dicendo:

— Ed ora, parliamo.

— Per Giove!... — esclamò Antao. — Credo che sia giunto il momento di sciogliere un po’ la lingua. Quella corsa precipitosa non mi ha concesso di scambiare una parola con questa ragazza.

— Puoi parlare a tuo comodo, Antao, o meglio le parleremo insieme. Anch’io sono curioso di sapere tante cose che deve ormai conoscere, essendo stata quattro giorni coi suoi rapitori. È vero Urada?...

— Sì, padrone, — rispose la negra, sorridendo. — Credilo però, padrone, sono stata rapita contro la mia volontà.

— Ne siamo convinti, — disse Antao. — Se così non fosse, non avresti gettati nel bosco quei segnali.

— Li avete trovati?... Dunque avevate seguito le tracce dei ladri?

— Certo, Urada. Ma in quale modo ti hanno rapita? — chiese Alfredo.

 
.... non avendo che una sola mira: quella d’impadronirsi della testa di un avversario.... (Pag. 150).

[145]

— Io dormivo sotto la tenda, quando fui svegliata dagli spari dei due schiavi. Uscii all’aperto per vedere cosa succedeva e mi vidi dinanzi un orribile mpungu.

Spaventata, mi preparavo a fuggire, quando comparvero improvvisamente tre negri armati di fucili. Il gorilla fuggì ed i negri ne approfittarono per caricare le casse sui cavalli e rientrare nella foresta dopo d’avermi gettata nella lettiga.

Seppi più tardi che mi avevano rapita credendo che io fossi una vostra prigioniera, essendosi accorti che io era una loro compatriota.

Dapprima avevo sospettato di essere caduta nelle mani di alcuni negri predoni, ma seppi ben presto che erano le spie che vi seguivano da Porto Novo, attendendo l’occasione propizia per tendervi un agguato o immobilizzarvi nei boschi.

— Erano spie di Kalani?...

— Sì, padrone, me lo dissero poi. Erano stati incaricati di seguirti, onde avvertire il loro padrone nel caso che tu avessi marciato verso la frontiera del Dahomey.

— E di mio fratello, hai udito parlare?...

— Sì e non fecero che confermare quanto io ti dissi. Kalani te lo ha rapito non per ucciderlo, ma per obbligare te a gettarti nella bocca di quella lurida iena. Il tuo antico schiavo era certo che tu ti saresti recato ad Abomey.

— Ecco delle parole che mi tranquillizzano sulla sorte di quello sventurato fanciullo. Ah!... Kalani spera che io cada nei suoi agguati?... Sarà lui che cadrà nel laccio che gli tenderò ad Abomey.

— Ma come faremo ad entrare inosservati nella capitale di Geletè? — chiese Antao. — Non me lo hai ancora detto, Alfredo.

— Ora che abbiamo ricuperate le nostre casse, ti prometto di farti fare un’entrata trionfale ad Abomey.

— Devono contenere dei talismani miracolosi le tue casse. Mi spiegherai almeno in cosa consistono.

— È per questo che vi ho radunati tutti attorno a me.

— Getta fuori adunque i tuoi progetti.

— Dimmi, ti piacerebbe entrare in Abomey come ambasciatore?...

— Come ambasciatore!...

— Sì, Antao come un ambasciatore di qualche reame negro, di quello del Borgu, per esempio, che è confinante col Dahomey.

[146]

— Io, un bianco, un europeo?...

— Non saremo più bianchi allora.

— Cosa vuoi dire?... Possibile che la mia pelle sia diventata così nera da credermi un discendente di Caam?...

— Lo diverrai: ho portato con me tutto l’occorrente per darci sulla pelle una superba tinta color fuliggine o cioccolata. —

Antao scoppiò in una fragorosa risata.

— Ridi pure, ma ti dico che noi ci dipingeremo così bene, da ingannare anche Kalani.

— E ci vestiremo anche da negri?...

— Sì, Antao ma da negri d’alto lignaggio. Nelle mie casse vi è tutto l’occorrente.

— Ecco perchè ci tenevi tanto alle casse che ti avevano rubato!...

— Certo, e soprattutto pei regali che ho destinato a Geletè ed ai suoi cabeceri.

— Ma credi tu, Alfredo, che tale mascherata sarà possibile, senza destare dei sospetti in quel furfante di Kalani?...

— Vedrai che nessuno più ci riconoscerà! Ho portato con me perfino delle bellissime barbe nere come portano i ricchi del Borgu e delle parrucche da negro.

— E cosa andremo a proporre a Geletè?...

— Qualche trattato d’amicizia, un’alleanza difensiva od offensiva per esempio. Geletè sa che gli uomini del Borgu sono valorosi e si guarderà bene dal rifiutare e ci riceverà coi dovuti onori.

— Magnifico progetto!... — esclamò il portoghese.

— Ne convieni?...

— Certo, Alfredo.

— Credi possibile la sua riuscita?...

— Ho piena fiducia, ma quando saremo entrati in Abomey, come faremo a liberare tuo fratello?...

— Lo si vedrà.

— E Kalani?...

— Lo ucciderò, — disse freddamente il cacciatore, mentre un lampo d’odio gli balenava negli sguardi.

Poi volgendosi verso Urada:

— Hai compreso tutto?...

— Sì, padrone, — rispose la giovane negra.

— Hai delle obbiezioni da fare?

[147]

— No, poichè credo che in nessun altro modo potresti giungere ad Abomey senza allarmare Kalani.

— Ora sono tranquillo.

— E quando faremo la nostra toeletta? — chiese Antao. — Sono impaziente di vedere quale figura farò tinto di nero.

— Quando avremo varcato il Volta e saremo entrati nel territorio del Dahomey. Per ora è inutile.

— Padrone, — disse Asseybo, che fino allora non aveva pronunciato una sillaba. — Vuoi un consiglio?...

— Parla, — disse Alfredo.

— Marciamo a grandi tappe e cerchiamo di giungere ad Abomey nel minor tempo possibile.

— Perchè dici questo?...

— Uno dei ladri è fuggito e noi non sappiamo se gli uomini del dikero saranno riusciti ad arrestarlo. Può passarci dinanzi ed avvertire Kalani delle nostre intenzioni.

— Speriamo che l’abbiano preso. Quell’uomo però, solo, forse inerme, privo d’un quadrupede, non sarà in grado di lottare in celerità con noi. D’altronde non ci potrà riconoscere.

Ed ora, amici, riposiamo. Domani marceremo verso il Volta e quando avremo attraversata la regione dei Krepi, diverremo tutti negri. —

L’indomani, dopo una notte tranquillissima, la carovana ripartiva a marcie forzate, per guadagnare il fiume prima che calasse la notte.

La traversata dei boschi si compì senza difficoltà e senza cattivi incontri, e verso il tramonto s’accampava sulla riva opposta del fiume.

Nei giorni seguenti marciò, quasi senza interruzione, salvo alla notte per riposare, attraverso la regione dei Krepi; un vasto territorio compreso fra il Volta ed il possedimento inglese della Costa d’Avorio ed il fiume Mono, e che gli Ascianti ed i Dahomeni ben sovente scorrazzavano per provvedere di schiavi da macellare nelle atroci feste del sangue.

Questa regione, che da alcuni anni si trova sotto il protettorato della Germania, era allora abitata da un grande numero di piccoli reami, assolutamente incapaci di far fronte ai due potenti vicini. I Krepi occupano la parte settentrionale ed i Togo la meridionale. Pochi sono i centri popolosi; fuorchè Hpandu, presso il Volta, Waya presso il Todij a breve distanza [148] dalla frontiera del possedimento inglese, Kpetu sullo stesso fiume e Atakpam molto al nord, nella regione degli Akposso, tutti gli altri non sono che piccoli villaggi di nessuna importanza.

In cinque giorni la piccola carovana, dopo d’aver superata la regione montuosa che si estende dal sud-ovest al nord-est attraverso il 7° di latitudine e di aver fatto delle brevi fermate nei villaggi di Tota, di Misahohe, di Pelome e di Togodo, per provvedersi di viveri freschi, giungevano presso il fiume Mono il quale scorre a poche miglia di distanza dalla frontiera, e quattro ore più tardi si accampavano sul territorio del feroce Geletè.

Il Dahomey è un regno che come vastità di territorio e come popolazione non può competere con quello degli Ascianti, ma come potenza militare lo supera, essendo i suoi abitanti i più bellicosi di tutta la Costa d’Avorio.

Fondato circa due secoli or sono, si è mantenuto indipendente fino in questi ultimi anni e di certo lo sarebbe ancora, se la baldanza e la ferocia di Behanzin, successore di Geletè, non avesse decisa la Francia ad invaderlo, mettendo fine ai secolari bagni di sangue, che sotto varii pretesti, si facevano annualmente nella capitale o nella città santa di Kana.

La sua superficie è vasta, poichè si estende dal mare al nono grado di latitudine nord, ossia fino allo spartiacque del bacino del Niger con quello dei fiumi che si gettano lungo la costa della Guinea occidentale, e dal paese dei Togo a quello dell’Opara che scaricasi presso Porto Novo, su una distesa di duecentottanta chilometri dall’ovest all’est.

Il suo clima è però uno dei più micidiali, e dei più insopportabili di tutte le regioni della Costa d’Avorio, essendo quella regione proprio sotto l’equatore, esposta ad una vera pioggia di fuoco che rende quasi impossibile il soggiorno agli Europei, anche sugli altipiani dell’interno.

Verso il mare poi è peggiore ancora, poichè le paludi ed i grandi boschi ne fanno un covo di febbri algide mortali a tutti coloro che non si sono acclimatizzati, e pericolosissime perfino agli indigeni.

Verso la costa il paese è tutto boscoso, ricco di piante colossali e di palme d’elais, ma di passo in passo che si allontana, la grossa vegetazione sparisce, gli altipiani si succedono in forma d’immense terrazze coperte solamente da un’erba alta due metri, chiamata erba di Guinea.

[149]

È su quegli altipiani che sorgono le città più importanti del regno, Abomey che è la capitale, Kana detta la città santa dove sorgono le tombe dei re e dove si fanno i grandi sacrifici umani, Agu, Akpuel, Doko e Bobek, ma queste quattro ultime si possono considerare, più che città, grosse borgate.

Sulla costa invece non sorge che Widak, la sola città dove era permesso agli europei di soggiornare e di trafficare e dove pagavano i loro contributi al re in bottiglie di rhum e di cognac.

Pochi però erano, prima dell’occupazione francese, i dahomeni che entravano in questa città e non vi andavano senza manifestare un vivo ribrezzo, credendola contaminata dalla presenza degli Europei.

Una sola volta all’anno i preti si recavano colà in processione portando i loro feticci e per sacrificare, alle divinità marittime, una delle più belle fanciulle del regno, la quale veniva spinta in mare a pasto dei numerosi pescicani che infestano le spiagge della Costa d’Avorio.

La popolazione di questo regno, diventato così tristamente celebre per le sue barbarie, sembra composta di due razze distinte. Quella inferiore, composta per la maggior parte di schiavi rapiti ai paesi vicini, caratterizzata da una estrema bruttezza fisica e da un vero degradamento morale; quella superiore alla quale appartengono la famiglia reale e la classe dominante, caratterizzata da una intelligenza svegliatissima e da lineamenti regolari che s’avvicinano al tipo europeo.

Queste due razze non superano il milione d’anime, di cui i due terzi sono costituiti dagli schiavi, povere vittime che erano destinate a venire macellate nelle feste del sangue, quando mancavano i prigionieri di guerra.

Nazione eminentemente guerresca, il Dahomey ha sempre dato del filo da torcere ai suoi vicini, ai Togo, ai Krepi ed agli Yoruba. Per secoli e secoli si è mantenuto non solo indipendente, ma ha respinto vittoriosamente le aggressioni dei nemici, affermandosi come potenza militare valorosissima.

Cosa strana, forse unica in tutti i popoli non solo dell’Africa ma del mondo, la sua forza soprattutto veniva costituita dai suoi reggimenti di amazzoni, reclutate fra le più belle, le più robuste e le più crudeli ragazze del regno.

Allevate con estrema cura, rinvigorite con lunghi esercizi [150] militari, addestrate nelle armi e sottoposte ad una ferrea disciplina, per lunghi anni quelle intrepide donne mantennero alta la fama guerresca. Erano loro che entravano in campo quando i soldati dahomeni cominciavano a piegare e si narra che i loro attacchi erano così irresistibili e la loro ferocia tale, da assicurare sempre la vittoria.

Il loro numero non ha mai superato le tremila e costituiva la guardia reale. Il loro armamento consisteva in fucili e larghi coltellacci che sapevano adoperare con una destrezza spaventosa.

Scaricate le armi, si scagliavano come furie contro le orde nemiche col coltello in pugno, non avendo che una sola mira: quella d’impadronirsi della testa d’un avversario da regalare al loro re.

La stirpe reale del Dahomey, cessata pochi anni or sono coll’esilio di Behanzin successore di Geletè, debellato dalle armi vittoriose del generale Doods, era una delle più giovani, poichè la sua fondazione non risaliva che al 1724, nella cui epoca Guagiah-Truda, piccolo principe di Abomey, ma valoroso guerriero, riusciva a formarsi un vasto regno riunendo sotto il suo potere i reami di Adrah, Toffoa, Allahda, di Xavy e di Wydak dopo d’averli vinti.

L’autorità di quei monarchi sanguinari, era però potentissima, anzi senza limiti.

I personaggi più importanti del regno, non erano, rispetto a loro, che i primi schiavi; il popolo invece una massa di animali da macellare di quando in quando, per placare le ire della divinità o dei sovrani defunti.

Potevano disporre a loro talento della vita di tutti gli abitanti del regno e dei loro averi e come ne abusavano!... Quando gli schiavi da sacrificare mancavano, non si peritavano di scegliere le vittime fra i sudditi, senza che questi mai avessero osato di ribellarsi.

Sul numero degli uomini che macellavano nelle feste delle grandi usanze, basti sapere che il governatore portoghese dell’isola di S. Tommaso riusciva a riscattarne, in una sola volta, milleduecento, destinati a perire in una festa secondaria!...

[151]

Capitolo XXII. Assediato in una trappola da elefanti

Prima di avventurarsi sul territorio dahomeno, Alfredo aveva deciso di accordare un riposo di un paio di giorni alla carovana, per non rovinare i poveri animali, già molto affaticati da quelle lunghe marcie compiute sotto un sole bruciante ed in mezzo a mille ostacoli, e per rinnovare le loro provviste essendo già quasi esauste.

Trovando quel luogo molto boscoso, i due cacciatori speravano di abbattere alcuni capi di selvaggina per seccarne la carne, temendo di non trovarne nelle pianure erbose degli altipiani e sapendo di non poter contare sui villaggi che sono molto scarsi nel Dahomey, specialmente nelle regioni occidentali.

Essendo il tramonto ancora lontano, dopo un riposo di qualche ora sotto la tenda, chiamarono Asseybo e s’internarono nella foresta, tenendosi nelle vicinanze d’un fiumicello per sorprendere la selvaggina che doveva accorrere per dissetarsi.

La temperatura era ardentissima anche all’ombra di quei grandi alberi ed eccessivamente snervante essendo umida, ma i cacciatori, quantunque fumassero come zolfatare e si sentissero zampillare il sudore da tutti i pori inzuppandosi le vesti, procedevano egualmente, avendo scoperto, in certi tratti, delle numerose tracce di animali di piccola e grossa taglia.

Asseybo, che come sappiamo era un abilissimo cercatore di piste, aveva già rilevato delle tracce di elefanti, di antilopi, di facocheri e di zebre, animali piuttosto comunissimi in quelle regioni ed i due cacciatori speravano di non ritornare al campo a mani vuote.

Camminavano da una mezz’ora tenendosi sempre a poche centinaia di metri dal corso d’acqua, quando Antao, che si trovava dinanzi a tutti, s’arrestò bruscamente, mandando un grido di meraviglia, seguito poco dopo dalla «morte» di tutti i pianeti da lui conosciuti.

— Ehi, Antao!... — gridò Alfredo, armando la carabina. Hai scoperto qualche colossale elefante?...

— Se non è un elefante è un colosso di certo, ma del regno vegetale. —

[152]

Il portoghese si era arrestato dinanzi ad un albero ma d’una mole così enorme, che mai prima di allora ne aveva veduto uno eguale.

Quel colosso della vegetazione, che si rizzava maestosamente, formando da solo una piccola foresta, era tale da meravigliare anche lo stesso Alfredo.

Il suo tronco non aveva più di cinque metri d’altezza ma era così grosso da averne almeno dieci di circonferenza.

Sopra quell’ammasso di legno si dipartivano dei rami lunghi una ventina di metri, i quali s’incurvavano verso terra formando una cupola immensa, forniti di folto fogliame e sostenenti certe specie di capsule di forma ovoidale, assai accuminate ad una delle estremità e grosse come la testa d’un uomo.

Una numerosa banda di scimmie della specie dei cercopitechi verdi, aveva preso stanza fra i rami del colosso, divorando avidamente quelle grosse frutta che dovevano essere molto deliziose pei palati di quei coduti quadrumani.

— Un baobab forse?... — chiese Antao ad Alfredo.

— Sì, amico mio.

— Ebbene, Alfredo, non credevo che tali alberi avessero delle dimensioni così mostruose. Ma guarda che tronco enorme!... Nel suo interno vi potrebbero danzare venti persone.

— Lo credo, Antao, ma probabilmente la sala sarà occupata da dei funebri personaggi, ben brutti da vedersi.

— Cosa vuoi dire?...

— Voglio dire che forse l’interno sarà occupato da qualche dozzina di negri mummificati, essendovi in questi paesi l’abitudine di servirsi dei tronchi di baobab come di camere mortuarie.

— Sistema niente affatto comodo, se i becchini devono scavare questi colossi.

— Non così difficile come credi, essendo il legno di questi alberi molto tenero.

— E non servono a null’altro, questi giganti?...

— Sì, poichè i negri sanno trarre altri vantaggi da queste piante.

— A me sembra che servano solamente alle scimmie, le quali fanno una vera strage di quelle frutta.

— Sono ricercate anche dai negri. Quelle capsule che vengono comunemente chiamate pane di scimmia, contengono una polpa [153] di sapore dolcigno e che spremuta ed unita ad un po’ di zucchero, dà una bevanda gradevole, molto indicata per combattere efficacemente le febbri.

— Buono a sapersi, in questo paese delle febbri.

— Dalle frutta sanno poi ricavare una cenere ricca di soda e che mescolata ad un po’ d’olio di palma costituisce un buon sapone. Ma anche le foglie e la corteccia, che godono di virtù emollienti, sono largamente usate dai negri per moderare l’eccesso della loro traspirazione.

— È poco per questi giganti. Comunque sia, sono piante meravigliose.

— Ma ve ne sono di più grandi, Antao.

— Più di questa?...

— Alla foce del Senegal si sono misurati dei baobab che avevano l’enorme circonferenza di cento piedi, ossia di trentatrè metri.

— Morte di tutti i pianeti!...

— Il dottor Livingstone, il celebre esploratore dell’Africa meridionale e centrale, ha veduto un baobab scavato, nel cui interno vi potevano stare comodamente trentatrè uomini e Humboldt ne vide una nella Senegambia, nel cui tronco una tribù di negri teneva le sue assemblee.

— Questi enormi vegetali devono vivere un bel numero di secoli, Alfredo.

— Adanson afferma di aver studiato dei baobab che dovevano contare cinque ed alcuni seimila anni d’esistenza.

— Corna del diavolo!... Che bella età!... E tu mi hai detto che quell’albero può essere pieno di mummie di negri?...

— È probabile.

— E si conservano bene?

— Perfettamente, forse meglio delle mummie egiziane.

— Andiamo a vedere, Alfredo. —

S’accostarono all’enorme tronco girandovi attorno per vedere se vi era qualche strappo nella corteccia, ma la trovarono intatta dappertutto.

Stavano per raccogliere alcune capsule lasciate cadere dalle scimmie, onde assaggiarne la polpa, quando Asseybo, che si trovava a quindici passi da loro, nascosto dietro il tronco d’un cedro selvatico, con un leggiero sibilo li fece accorrere.

— Cos’hai? — chiese Alfredo.

[154]

Il negro additò loro un macchione di cespugli, i cui rami si agitavano. Quasi contemporaneamente udirono dei grugniti che parevano emessi da una banda di suini.

— Dei porci qui? — chiese Antao, con stupore.

— Credo che siano facocheri, — rispose Alfredo, che pareva esitasse ad impugnare la carabina. — La loro carne vale una palla, ma vi è il pericolo di farci sventrare dalle lunghe zanne di quei cignali coraggiosi.

— Non abbiamo avuto paura dei leoni e dei leopardi e meno ne avremo di quei signori facachi o facuchi che siano.

— Facocheri, Antao.

— Sia pure. Orsù, una buona scarica là in mezzo.

— Temo che siano molti.

— Meglio per la nostra cucina.

— Ma i sopravviventi alla scarica ci assaliranno.

— E noi li respingeremo.

— Giacchè lo vuoi, proviamo. —

In mezzo al macchione si scorgevano, ad intervalli, dei robusti dorsi coperti di lunghe e grosse setole e delle code attorcigliate che si agitavano.

I due cacciatori ed Asseybo puntarono le carabine mirando per alcuni istanti, poi fecero fuoco.

Il fumo si era appena diradato che videro irrompere dai cespugli dodici o quindici brutti cignali, di taglia grossissima, armati di zanne arcuate, lunghe parecchi pollici.

Due caddero dopo pochi passi, ma gli altri, che parevano in preda ad un furore tremendo, continuarono la corsa, scagliandosi impetuosamente sugli assalitori.

Alfredo e Asseybo, che si trovavano vicini ai rami del baobab, i quali, come si disse, si curvavano verso terra, con due salti furono lesti ad aggrapparvisi mettendosi in salvo, ma il povero portoghese, che si trovava più lontano e che forse era rimasto scombussolato da quell’improvviso assalto, si raccomandò alle proprie gambe, fuggendo a precipizio in mezzo alla foresta.

Sette od otto facocheri s’arrestarono sotto il baobab grugnendo rabbiosamente e cercando, con salti disordinati, di mordere le gambe d’Alfredo e del negro, ma altri tre, guidati da un vecchio maschio, si misero dietro al fuggiasco.

Fortunatamente Antao aveva buone gambe e correva come un daino, girando attorno ai tronchi per far perdere tempo ai [155] feroci animali, balzando agilmente sopra le piccole macchie, guizzando in mezzo alle radici ed alle liane, ma allontanandosi sempre più dai compagni, colla cattiva prospettiva di smarrirsi fra quelle migliaia di vegetali.

Galoppava da una buona mezz’ora, sempre più inoltrandosi nella boscaglia e sempre incalzato dagli ostinati cignali, quando tutto d’un tratto sentì mancarsi il suolo sotto i piedi. Ebbe appena il tempo di mandare un grido, che si trovò, semi-intontito in fondo ad una larga buca.

Non potè subito rendersi conto di quanto era accaduto, poichè nel battere il capo in terra, aveva ricevuto tale scossa, da non sapersi più raccapezzare.

Gli parve però di sentirsi cadere addosso una massa pesante, quindi di udire presso di sè un urlo acuto che terminò in un grugnito rauco, strozzato.

— Morte di Giove ed anche di Febo!... — esclamò, quando si fu un po’ rimesso. — Un passo più innanzi e m’infilzavo come questo dannato facafuchero o facafocoro che sia. Si vede che sono ancora un uomo fortunato, dopo tutto. —

Il brav’uomo aveva ben ragione di chiamarsi fortunato, poichè era miracolosamente scampato al più orribile dei supplizii, cioè alla morte col palo.

La sua fuga precipitosa lo aveva condotto sopra uno di quei pericolosi trabocchetti che i negri sogliono scavare per impadronirsi, senza correre alcun pericolo, dei grossi animali, come gli elefanti ed i rinoceronti.

Era una buca profonda tre metri, larga e lunga sei, munita nel mezzo d’un aguzzo palo profondamente impiantato e coperta superiormente da uno strato di canne di terra e di foglie.

Il portoghese, invece di cadere sul palo e terminare la sua esistenza come un turco od un persiano, trasportato dal proprio slancio, era andato a stramazzare in un angolo del trabocchetto; invece sua si era infilzato il vecchio maschio che gli stava alle calcagna e che ora presentava il comico spettacolo di un maiale enorme, messo allo spiedo intero.

— In fede mia che sta meglio su quella punta questo irascibile porco che io, — disse Antao. — È una vera disgrazia che non vi sia qui della legna per arrostirlo. —

Il suo buon umore si cambiò però in un subitaneo impeto di collera, udendo sopra la sua testa dei grugniti furiosi.

[156]

— Ancora quegli ostinati maiali!... — esclamò. — Ora vi mando a tenere compagnia al vecchio maschio. —

Gli altri tre facocheri, che avevano avuto il tempo di trattenersi dinanzi al trabocchetto, correvano all’impazzata intorno alla buca grugnendo rabbiosamente, come fossero furibondi per non aver potuto vendicarsi del disgraziato portoghese.

Di tratto in tratto s’arrestavano allungando i loro brutti musi verso la fossa e battendo fortemente le loro lunghe zanne che producevano un rumore simile a quello delle mascelle dei caimani allorchè si rinchiudono, poi cercavano di avanzarsi sullo strato di canne mezzo sfondato, ma comprendendo che correvano il pericolo di seguire il vecchio maschio, s’affrettavano a retrocedere.

Antao raccolse la carabina che era caduta in un angolo, ma quando volle caricarla, s’avvide che la fiaschetta della polvere erasi spezzata, spargendo le munizioni sul fondo limaccioso della trappola.

— Morte di tutti i facucheri della terra!... — esclamò, dando un calcio alla fiaschetta sventrata. — Eccomi in un bell’impiccio!... Se Alfredo e Asseybo non vengono a liberarmi, quei dannati animali non mi lascieranno uscire da questa dannata buca!... Uscire!... Credo che anche senza quei porci non vi riuscirei di certo!... Ma toh!... L’idea mi pare buona ed il coltello vi può giungere. —

Senza più occuparsi dei facocheri, i quali d’altronde non potevano giungere fino a lui, si levò la cinghia che gli sorreggeva i calzoni, poi estrasse il coltello da caccia che pendevagli dal fianco, un’arma lunga un buon piede e di una tempra eccezionale, quindi la legò saldamente all’estremità della canna del fucile, formando una specie di lancia.

— Sbarazziamoci per ora dei porci, — disse. — Poi vedremo se vi sarà il mezzo di uscire dalla trappola. —

Guardò in alto e vide i tre facocheri riuniti, i quali lo guardavano coi loro occhietti neri, digrignando i denti e grugnendo.

Allungare rapidamente il fucile e piantare il coltello in mezzo al ventre del più vicino, fu la cosa d’un istante.

L’animale, trapassato fino alla spina dorsale, mandò un urlo acuto e piombò nella buca, dibattendosi fra le strette dell’agonia. Gli altri due, spaventati, fecero un rapido volta faccia e fuggirono a tutte gambe in mezzo alla foresta.

[157]

— Per Giove! — esclamò Antao, ridendo. — Per poco che la continui, questa buca diverrà la bottega d’un macellaio!... Disgraziatamente è sempre il fuoco che mi manca.

Orsù, cerchiamo di lasciare l’alloggio, per ora. Più tardi manderò i due dahomeni a ritirare i viveri. —

Fece il giro della buca, sperando che in qualche luogo il terreno fosse tanto friabile da permettergli di scavarsi dei gradini, ma s’avvide che quella trappola era stata aperta fra degli strati di natura rocciosa, i quali dovevano opporre una resistenza considerevole.

— Diavolo!... — mormorò il disgraziato portoghese, che cominciava a perdere il suo buon umore ed a diventare inquieto. — Temo di dover passare la notte in fondo a questa umida tana, in compagnia di questi due porci.

Chissà se Alfredo ed Asseybo riusciranno a trovarmi, prima che tramonti il sole. In queste foreste è così facile a smarrirsi!...

Orsù, bisogna rassegnarsi e fare buon viso alla fortuna. D’altronde una notte passa presto.

Se la fiaschetta non si fosse spezzata e il fondo di questa fossa, invece di essere così limaccioso fosse stato bene asciutto, avrei potuto richiamare l’attenzione di Alfredo con delle scariche ma bah!... Domani mi ritroveranno. —

Le tenebre calavano rapidamente ed al prigioniero non rimaneva altra prospettiva che di trovarsi un cantuccio per riposare e d’armarsi di pazienza fino all’alba, certo che Asseybo avrebbe ritrovato le sue tracce.

Disgraziatamente il fondo della trappola era una pozzanghera e non era possibile coricarsi su quel fango saturo d’acqua.

— Che debba rimanere in piedi tutta la notte?... — brontolò il portoghese. — Non sono già nè un’airone, nè un fenicottero per dormire in piedi. Toh!... non avevo pensato che posso avere un letto abbastanza comodo!... —

Quella buona idea gli era stata suggerita guardando i due facocheri. Con non poca fatica riuscì a tirare giù quello che si era impalato, poi li trascinò tutti e due in un angolo mettendoli l’uno vicino all’altro e vi si sdraiò sopra, mandando un sospiro di soddisfazione.

— Pare che anche i morti qualche volta possano essere utili, — disse, ridendo. — Cerchiamo di chiudere gli occhi e di schiacciare [158] un sonnellino. Speriamo che finchè dormo qualche stupido elefante non venga a gettarsi nella trappola. —

Il sole era allora tramontato da alcuni minuti e la notte era scesa, ma una notte oscurissima, non essendovi luna.

Il portoghese, invitato dal profondo silenzio che regnava nella foresta e vinto dalla stanchezza, non tardò ad addormentarsi profondamente, come se fosse coricato sul più soffice letto di tutto il Portogallo.

Il suo sonno però, dopo alcune ore, fu bruscamente interrotto da scrosci di risa sgangherati che scendevano dall’alto.

— Il diavolo si porti la gente allegra! — esclamò il portoghese, alzandosi di assai cattivo umore. — Pare che si divertano nella foresta. Che ridano della mia disgrazia?... —

Lasciò il suo comodo giaciglio, sul quale contava di russare beatamente fino all’alba e guardò verso l’orlo della buca.

— Altro che gente allegra!... — mormorò. — Sono bestie affamate, che sarebbero ben contente di banchettare col mio corpo. —

Quattro paia d’occhi a riflessi verdastri, che brillavano come quelli dei gatti, erano fissi su di lui, con un’ostinazione da fare accapponire la pelle al più coraggioso cacciatore del continente nero.

Ci volle poco al portoghese, per sapere a chi appartenevano. Erano gli occhi di quattro grosse iene macchiate, le quali, accortesi che in fondo alla buca vi erano delle prede, si erano affrettate ad accorrere colla speranza di divorarsele.

Se però la discesa era facile, la salita era difficile e quei ributtanti carnivori non avevano nessuna intenzione di andarsi a cacciare in quella trappola.

— L’ingordigia vi tenta, ma la paura di venire a tenermi compagnia vi trattiene, — disse il portoghese, ormai rassicurato. — D’altronde ho qui uno spiedo che può servire anche contro di voi. —

Le quattro iene, vedendolo alzarsi, si erano ritirate di qualche passo, cominciando un concerto indiavolato a base di scrosci di risa, tutt’altro che gradito per gli orecchi del prigioniero.

Per un po’ Antao pazientò, sperando che le iene si allontanassero, vedendo però che si ostinavano a rimanere presso l’orlo della trappola, si rialzò furioso, e salito sui facocheri, vibrò un [159] terribile colpo di punta all’animale più vicino, squarciandogli il petto.

Le compagne, spaventate da quella brutta accoglienza, s’affrettarono a sbandarsi, mentre quella ferita, nell’agitarsi fra le ultime convulsioni, sfondava parte dello strato di canne, precipitando in fondo la buca.

— Per Giove!... — esclamò il portoghese. — Ecco un altro materasso che mi permetterà d’allungare anche le gambe. Approfittiamone per riprendere il sonno. —

Trascinò il cadavere della iena accanto ai due facocheri e si sdraiò comodamente sul suo letto di morti, ma era destinato che quella notte non dovesse continuare il sonno.

Aveva appena richiusi gli occhi, che un altro concerto più indiavolato lo costrinse a riaprirli. Via le iene erano giunti gli sciacalli, ma in grosso numero e quei furfanti si permettevano il piacere di offrirgli una serenata così strepitosa, da svegliare anche il più ostinato dormiglione della terra.

— Orsù!... — esclamò Antao, che perdeva la sua flemma. — Non vi è caso che mi lascino tranquillo un solo momento. Il diavolo si porti tutte le bestie dell’Africa!... —

In quell’istante gli parve udire una lontana detonazione echeggiare sotto i grandi alberi.

— Che sia Alfredo?... — mormorò. — Giungerebbe in buon punto per fugare questi arrabbiati concertisti. —

Tese gli orecchi, ma le urla degli sciacalli gl’impedivano di ascoltare.

— Mi cercano, speriamo adunque che mi trovino, — disse. — Se questi furfanti stessero un momento zitti potrei, urlando a piena gola, forse farmi udire, ma non cesseranno prima dell’alba. Se potessi pagarli con quattro buoni colpi di spiedo, credo che di simile moneta ne avrebbero abbastanza per andarsene a tutte gambe. —

Salì sui tre cadaveri cercando di avventare qualche colpo di punta a quella banda affamata, ma quegli animali erano troppo lesti, e meno curiosi delle iene, e si tenevano lontani dall’orlo della buca appena scorgevano l’arma alzarsi verso di loro.

Il portoghese, dopo vari tentativi infruttuosi, dovette rassegnarsi ad ascoltare, di buona o cattiva voglia, quella seconda serenata.

Per più di un’ora quelle lugubri urla risuonarono nella foresta, [160] impedendo al disgraziato prigioniero di udire le detonazioni delle armi da fuoco dei suoi amici, ma poi tutto d’un tratto cessarono.

— Toh!... — mormorò, un po’ inquieto. — Chi può aver interrotto quegli arrabbiati concertisti?... Che sia giunto qualche maestro armato di zanne e d’artigli?... La fuga precipitosa degli sciacalli mi mette dei sospetti, ma prenderò le mie precauzioni. —

Si cacciò dietro ai cadaveri della iena e dei due facocheri che potevano servirgli di barricata, avendoli messi l’uno sull’altro, puntò in alto il suo spiedo e stette in ascolto, cogli occhi fissi sui margini della buca.

Essendo la foresta ridiventata silenziosa, dopo alcuni istanti gli parve di udire un soffio poderoso, seguìto dallo scricchiolìo di alcune foglie secche.

— Qualcuno s’avvicina, — mormorò Antao, che si sentiva imperlare la fronte da alcune gocce di freddo sudore. — Che dopo le iene e gli sciacalli vengano i grossi carnivori?... Bella notte che mi si prepara e tutto per colpa di quei dannati porci. —

Tese nuovamente gli orecchi, ma cercando nel medesimo tempo di rannicchiarsi meglio che poteva dietro ai cadaveri e udì nuovamente il soffio poderoso e le foglie scricchiolare come sotto una violenta pressione.

Poco dopo, un oggetto lungo e grosso, di colore oscuro, scese nella buca, soffiando con tale forza da far rimbalzare l’acqua fangosa.

Il portoghese si sentì rizzare i capelli.

— Dio me la mandi buona, — mormorò, facendosi più piccino che poteva. — È un serpente od è la tromba d’un elefante?... —

Guardò in alto e vide ferma, sull’orlo della trappola, una massa gigantesca che spiccava paurosamente fra le tenebre.

Era un elefante di taglia enorme, forse uno di quei vecchi solitarii che vivono rintanati in mezzo alle più folte foreste e che sono i più pericolosi di tutti, poichè sono sempre d’un umore intrattabile.

Certo si era accorto della vicinanza dell’uomo ed aveva cacciata la proboscide nella buca, per cercare d’afferrarlo e scaraventarlo contro qualche albero.

 
... quando tutto d’un tratto sentì mancarsi il suolo sotto i piedi. (Pag. 155).

— Morte di Urano e di Saturno, — mormorò Antao. — Non [161] mancherebbe altro che mi cadesse addosso!... Mi hanno detto che i vecchi solitari sono così cattivi, da scagliarsi contro tutti gli uomini che incontrano. Se la proboscide mi afferra, per me è finita!... —

Vedendo la tromba agitarsi in tutti i sensi e cercare lungo le pareti della trappola, Antao si gettò a terra, tirandosi addosso il cadavere della iena. Sperava in tale modo di non venire scoperto, ma ben presto s’accorse che l’estremità di quella formidabile appendice, cercava d’insinuarsi fra i cadaveri per afferrarlo.

Pazzo di terrore, si sbarazzò della iena e si rifugiò dall’altra parte della buca, impugnando il suo spiedo.

Vedendo la tromba a due passi, con uno sforzo disperato le vibrò un colpo di punta, ma non potè constatare gli effetti di quella coltellata, poichè ricevette in pieno corpo una scarica di fango e d’acqua così impetuosa, da ruzzolare colle gambe all’aria.

— Sono morto!... — urlò.

Quasi nel medesimo istante udì echeggiare, a breve distanza, due spari, seguìti dal barrito formidabile del gigantesco animale.

Capitolo XXIII. L’imboscata dei Krepi

Quando il povero Antao, inzaccherato di fango dai piedi ai capelli, si rialzò per scuotersi di dosso quel sudiciume, invece dell’elefante, vide sull’orlo della trappola Alfredo ed Asseybo, che tenevano nelle mani due rami resinosi accesi.

— Morte di tutti gli elefanti dell’Africa!... — urlò. — Tu Alfredo?... Un momento di ritardo e ti giuro, amico, che Antao non avrebbe mai veduto il muso di quel furfante di Kalani, nè quello di Geletè!...

— Ma cosa fai in quella trappola!... — esclamò Alfredo, abbassando il ramo per vederlo.

— Cosa faccio?... — rispose Antao, che aveva riacquistato subito il suo buon umore. — Lo vedi, tengo compagnia ai morti.

[162]

— Ai morti?... Sei pazzo, Antao?

— Non mi sembra che l’elefante abbia guastato il mio cervello, quantunque m’abbia fatto provare un così cattivo momento, che non lo augurerei nemmeno ad un antropofago. Non vedi che sono in compagnia di tre cadaveri?...

— Ma chi ti ha gettato lì dentro?...

— I facucheri.

— I facocheri!...

— Sì, i facocheri, come li vuoi chiamare.

— E sei lì dentro da ieri sera?...

— E ci sarei rimasto chissà fino a quando, senza di voi.

— Oh!... Disgraziato amico!...

— Lascia andare i compianti e gettami una corda. Sono imbrattato di fango peggio d’un maiale. Quell’indiavolato elefante aveva una tonnellata di zavorraccia nello stomaco e mi meraviglio che non mi abbia accoppato con quella scarica. Auff! Pareva una tromba marina!... —

Asseybo ed Alfredo si erano affrettati a levarsi le cinture di cotone che portavano ai fianchi, lasciandole pendere nella trappola. Il portoghese stava per aggrapparvisi, ma le lasciò subito andare.

— Non sali?... — chiese Alfredo.

— Aspetta un po’, amico, — rispose Antao. — Vi è la bottega d’un macellaio in questa buca. Che la carcassa della iena rimanga qui a imputridire non m’interessa, ma i due porci voglio portarmeli via.

— Lasciali andare, Antao. Durante il nostro assedio ne abbiamo uccisi sei o sette.

— L’assedio?... Oh diavolo!... Io nella buca e voi sul baobab! Non avrei mai supposto che questi brutti porci fossero così ostinati. Tenete saldo!... —

S’aggrappò alle fascie e si lasciò tirare in alto. Quando si trovò fuori da quella trappola, che per poco diventava la sua tomba, forse per la prima volta in vita sua lasciò in pace i pianeti per lanciare un interminabile «oh!...» di soddisfazione.

— Grazie, Alfredo, — disse poi, — ma mi dirai almeno come avete fatto a trovarmi fra questa oscura foresta.

— Te lo racconterò camminando. Affrettiamoci a ritornare al campo, poichè questa foresta mi pare che pulluli di animali [163] feroci. Abbiamo già veduto un leone e due leopardi. Ma come sei caduto in quella trappola da elefanti?... —

Il portoghese s’affrettò a raccontargli la sua avventura, che se da principio lo aveva fatto ridere, aveva però finito col farlo tremare.

— Se non giungevate voi, — concluse, — quell’elefante non avrebbe tardato a ridurmi in un ammasso di carne o in una enorme bistecca.

— Ringrazia il caso che ci ha guidati da questa parte ed in così buon punto, — disse Alfredo. — Povero amico!... Che ore angosciose avrai passate in fondo a quella buca.

— Non quanto credi, poichè una parte di quelle ore l’ho passata russando pacificamente. Ma voi, come vi siete sbarazzati dei porci?...

— Abbiamo subìto un vero assedio da parte di quegli animali e che è durato fino a sera inoltrata, malgrado le nostre frequenti scariche.

Quando potemmo discendere ci mettemmo in cerca di te, temendo che ti fosse toccata qualche grave disgrazia.

Essendo però le tenebre già calate, ci fu impossibile scoprire le tue tracce, sicchè ci vedemmo costretti ad avanzare a casaccio, sperando di udire la tua voce o qualche sparo.

Avevamo marciato tre ore, scaricando di quando in quando le nostre armi, quando scorgemmo quel vecchio elefante e udimmo il tuo grido. Con due scariche lo mettemmo in fuga, lanciandogli dietro una torcia per spaventarlo vieppiù; e il resto lo sai.

— Ed al campo non siete tornati?...

— No, Antao.

— Saranno inquieti per la nostra prolungata assenza.

— Ci crederanno occupati a cacciare i grossi animali all’agguato. Affrettiamoci, amico; devono essere già le due antimeridiane.

— Ma dov’è il campo?...

— Odo il fiume a scorrere alla nostra destra. Seguendolo non ci smarriremo.

— Ma i vostri porci dove li avete lasciati?...

— Ne abbiamo appesi due ai rami del baobab per sottrarli ai denti degli sciacalli e delle iene, in quanto agli altri non troveremo che gli scheletri. —

[164]

Piegando a destra trovarono ben presto il fiume che doveva guidarli all’accampamento, secondo i loro calcoli. Le sue rive però erano coperte d’una vegetazione così fitta, da impedire a loro di poterlo costeggiare, sicchè si videro costretti a rientrare nella foresta, dove potevano trovare dei passaggi meno faticosi.

Dopo un breve consiglio si erano rimessi animosamente in marcia, ansiosi di giungere all’accampamento dopo tante ore d’assenza, quando furono bruscamente arrestati da una grande ombra che s’avanzava lentamente, muovendo loro incontro.

— Morte di Giove!... — esclamò Antao. — È un altro elefante che viene a romperci le tasche?... È proprio scritto che questa notte dobbiamo fare dei cattivi incontri?... Comincio ad averne fino ai capelli, delle bestie africane.

— Non mi sembra che sia un elefante, — rispose Alfredo, che si era arrestato dietro il tronco d’un grosso albero. — Stiamo in guardia, amici, perchè temo che quella massa enorme sia un rinoceronte.

— Od un ippopotamo in cerca di cibo?... — disse Asseybo. — Il fiume è vicino, padrone.

— Credo che tu abbia ragione. Se si trattasse d’uno di quei bruti rinoceronti, a quest’ora ci avrebbe caricati.

— Cosa facciamo? — chiese Antao. — Se è un ippopotamo, lasciamolo pascolare a suo comodo.

— Ma mi pare che si occupi più di noi che delle radici che costituiscono il suo piatto favorito. Non vedi che si dirige proprio qui?...

— Sarà un curioso.

— Ma un curioso pericoloso, Antao.

— Lo saluteremo con una buona scarica

— Stiamo prima a vedere cosa farà. Mi pare che non abbia intenzioni cattive, almeno per ora. —

Veramente quell’ippopotamo, tale almeno doveva essere a giudicarlo dalla sua andatura pesante ed incerta, pareva che non avesse idee bellicose, poichè continuava placidamente la sua marcia, semi-tuffato fra le alte erbe che crescevano sotto gli alberi.

Doveva aver scorto i tre uomini od udite le loro voci, pure continuava ad avvicinarsi all’albero dietro a cui si tenevano celati, senza però affrettarsi e con certi movimenti così impacciati che facevano ridere il portoghese.

[165]

— Questa è strana!... — esclamò ad un tratto Alfredo. — Simili animali, quando sono a terra, evitano l’incontro degli uomini o li assalgono con furore, mentre questo non s’inquieta. Se continua ad avanzarsi, fra mezzo minuto sarà qui.

— Vuole farsi fucilare a bruciapelo, — disse Antao, che aveva armata la carabina.

— Mi sembra però.... Toh!... Guardalo bene, Asseybo. Ti sembrano naturali le sue mosse?...

— No, padrone, ma mi viene un sospetto.

— E quale?

— Che quell’animale sia gravemente ferito.

— Comincio a crederlo anch’io.

— Ah!... —

L’ippopotamo che da qualche istante si era arrestato, come se le forze gli fossero venute meno, tutto d’un tratto si era coricato al suolo, rovesciandosi pesantemente su di un fianco. Pareva che fosse morto, poichè non si udivano più a scrosciare le foglie.

— È spirato, — disse il portoghese. — Che abbia ricevuto qualche grave colpo di lancia?...

— È possibile, — rispose Alfredo. — I negri di queste regioni, assalgono sovente questi mostri, per fare delle scorpacciate di carne succolenta.

— In tal caso andremo a tagliare un pezzo di quella bestia per la nostra colazione.

— Sì, ma dopo che ci saremo assicurati della sua morte, — rispose il cacciatore.

S’avanzò di dieci o dodici passi guardando l’enorme massa che conservava una immobilità assoluta, poi puntò il fucile mirando la testa e fece fuoco.

L’anfibio ricevette la scarica, ma non si mosse.

— È morto, — disse Alfredo. — Possiamo avvicinarsi senza timore. —

Si avanzò verso l’enorme cadavere seguito dal portoghese e dal negro e si misero a girargli intorno per vedere ove aveva ricevuta la ferita.

— Guarda qui, — disse Alfredo. — Mi pare di scorgere una bucatura. —

Entrambi si erano curvati per meglio vederla, essendo l’oscurità ancora fittissima, ma d’improvviso videro quel corpaccio [166] alzarsi bruscamente, mentre si sentivano prendere pei piedi ed atterrare di colpo, prima ancora che avessero potuto far uso delle armi.

Sette od otto individui erano sgusciati di sotto all’ippopotamo e si erano scagliati, con rapidità fulminea addosso ai due bianchi riducendoli all’impotenza, mentre due altri si erano gettati contro Asseybo che era rimasto un po’ indietro.

Il bravo servo però, non si era lasciato cogliere di sorpresa. Vedendo sorgere quei misteriosi individui, era balzato prontamente indietro armando precipitosamente il fucile.

— Canaglie!... — urlò.

Con una palla fece stramazzare il primo avversario colla testa fracassata, con un poderoso calcio ben applicato mandò il secondo a gambe levate, poi fuggì attraverso la foresta, inseguito da altri negri che erano sbucati dai cespugli vicini.

Intanto Alfredo ed il portoghese erano stati in un baleno disarmati e legati strettamente, senza che avessero avuto tempo di opporre la menoma resistenza, tanto era stato rapido l’assalto.

— Morte di Giove, di Urano e Saturno — urlò Antao, tentando, ma invano, di spezzare le robuste liane che lo stringevano. — Cosa significa quest’aggressione?... Chi sono questi negri che si nascondono sotto la pelle d’un ippopotamo per prenderci di sorpresa?

— Spero che lo sapremo presto, — disse Alfredo, che aveva ricuperato prontamente il suo sangue freddo.

Poi rivolgendosi verso i negri che li circondavano, guardandoli in silenzio, chiese a loro in lingua uegbè:

— Cosa volete voi da noi bianchi?... Non vedete che non siamo negri?... Sciogliete queste corde e ridateci la libertà od i nostri compagni verranno qui e vi fucileranno tutti. —

I negri invece di rispondere si guardarono in viso l’un l’altro con una certa inquietudine, si scambiarono rapidamente alcune parole, poi si gettarono sui due bianchi e li deposero su di una barella fatta di rami d’albero intrecciati e solidamente legati.

— Furfanti!... — gridò Alfredo, che cominciava a perdere la sua calma. — Cosa fate?... —

Nemmeno questa volta i negri risposero. Otto di loro, i più robusti, afferrarono la barella, la sollevarono sulle spalle e si [167] misero senz’altro in marcia a passo di corsa, seguiti da tutti gli altri che erano armati di lancie e che parevano incaricati di proteggere la ritirata.

— Morte di Nettuno!... — urlò Antao. — Cosa significa questo rapimento, Alfredo?...

— Non ne so più di te, mio povero amico.

— Ma chi credi che siano questi negri?...

— Dei Krepi senza dubbio.

— Che crepino davvero. Ci hanno proprio teso un agguato.

— Ci aspettavano, Antao.

— Nascosti nella pelle d’un ippopotamo!... L’idea è stata almeno assai originale.

— Si vede che ci temevano e che non osavano assalirci di fronte.

— E Asseybo, che lo abbiano preso?... —

— Credo che sia riuscito a prendere il largo poichè non abbiamo udito nessun altro colpo di fucile, anzi mi pare d’aver veduto ritornare coloro che si erano lanciati dietro di lui.

— Alfredo!... — esclamò ad un tratto il portoghese, con ispavento.

— Cosa vuoi?...

— Ed il nostro accampamento?... Che questi negri l’abbiano assalito?...

— Non avrebbero mancato di saccheggiarlo ed io non ho veduto nè una cassa nè un cavallo, e poi avremmo udito degli spari.

— Allora questi misteriosi rapitori l’avevano solamente con noi.

— Così sembra.

— Ma cosa vorranno farci?... Ucciderci forse?...

— Non ho questo timore. I negri di queste regioni rispettano gli uomini bianchi e li temono troppo per osare d’ucciderli. Spero che avremo ben presto la spiegazione di questo rapimento. —

Intanto i negri continuavano la loro corsa precipitosa attraverso alla grande foresta. Quei robusti ed infaticabili camminatori, filavano come cavalli lanciati al galoppo, seguendo un sentiero forse noto a loro soli, seguìti sempre da vicino dalla scorta armata.

Ad un tratto giunsero sul margine d’una vasta pianura coperta [168] d’alte erbe. Cominciando a diradarsi le tenebre, Alfredo ed Antao, spingendo lontani gli sguardi, scorsero verso il nord un ammasso di capanne che parevano costituissero un grosso villaggio.

— Ci conducono là, — disse Alfredo.

— Dobbiamo essere già ben lontani dal nostro campo, — disse il portoghese, con inquietudine.

— Almeno sei miglia.

— Come farà a ritrovarci Asseybo?... Spero che non ci abbandonerà.

— Sono invece certo che ci segue per sapere dove ci conducono questi negri.

— Che venga a liberarci?...

— Per lo meno lo tenterà, aiutato dai dahomeni e dalla ragazza.

— Ma sai che abbiamo alle spalle due dozzine di negri armati di lancie.

— Lo so.

— E che quel villaggio mi sembra ben grosso?

— È vero, ma ti dico che i nostri uomini non ci abbandoneranno. Da questo lato sono tranquillo. —

In quell’istante si udì in lontananza, verso la borgata, la quale era ormai perfettamente visibile essendo già spuntato il sole, un fracasso indiavolato di tamburelli, unito a grida discordi.

Una grossa banda di negri era uscita dal villaggio e muoveva incontro ai rapitori. Anche quegli abitanti erano però armati, poichè il sole faceva scintillare numerose lancie.

— Il diavolo mi porti se io ci capisco qualche cosa, — disse Antao. — Pare che quei messeri festeggino la nostra scorta.

— Saranno lieti dell’esito felice della spedizione. —

La scorta, udendo quel fracasso, aveva risposto con alte grida ed aveva affrettata la corsa, impaziente di giungere alla borgata, attorno alla quale si vedevano formicolare masse di negri.

In pochi minuti attraversò la distanza che ancora la separava e s’arrestò dinanzi alle prime capanne, in mezzo ad una folla di negri vociferanti, i quali si accalcavano attorno alla barella con tale impeto da rovesciare quasi i portatori.

Alfredo e Antao si erano alzati guardando tutti quegli uomini ma, con loro grande sorpresa, non videro su tutti quei volti nessuna traccia ostile. Parevano anzi tutti allegri e più disposti [169] a venerare i prigionieri come fossero esseri superiori, che ad usare a loro la menoma scortesia.

Alcuni anzi, che erano riusciti a rompere le file della scorta, si erano affrettati ad offrire ad Antao e ad Alfredo delle zucche ripiene di birra di miglio fermentato, dei banani e delle noci di calla.

— Buon segno, — disse il portoghese, che s’era rassegnato. — Questi negri mi sembrano assai gentili. Che abbiano intenzione di adorarci?...

— Non ci sarebbe da stupirsi, — rispose il cacciatore

— Disgraziatamente abbiamo troppa fretta e non siamo affatto disposti a farci adorare.

— Vedremo come finirà questa singolare avventura, Antao. —

La scorta, disorganizzata dal primo impeto della folla, era riuscita, distribuendo legnate a destra ed a manca, a respingere tutti quei curiosi ed a fare avanzare la barella.

Fece attraversare ai due prigionieri la via principale della borgata, aprendosi il passo, con gran fatica, fra la folla e li depose dinanzi ad una vastissima capanna che sorgeva sulla piazza del mercato, una costruzione assai barocca, terminante in tre cupoloni e circondata da un gran numero di statuette d’argilla bianca rappresentanti uomini, animali e uccelli, probabilmente degli idoli adorati dalla tribù.

Un vecchio negro dai capelli bianchi, dalla pelle incartapecorita, vestito con una logora sottana adorna di galloni d’oro sfilacciati, di code di sciacalli e di buoi, col petto ed il collo carichi di collane di perle turchine ed il capo coperto da un elmetto da pompiere, tutto ammaccato, si avanzò verso i due prigionieri e pronunciò un discorsetto, che nè Antao nè Alfredo riuscirono a comprendere.

Dalle sue gesta però s’accorsero che quel minuscolo monarca li trattava con grande deferenza, anzi con molto rispetto.

— Orsù, morte di Giove e di Saturno!... — esclamò il portoghese. — Ti dico Alfredo che noi siamo stati rapiti per arricchire la collezione di feticci del capo.

— Ora lo sapremo, — rispose Alfredo. — È impossibile che qui non si comprenda l’uegbè. —

Si volse verso il re negro il quale pareva che aspettasse una risposta e lo interrogò nella lingua usata dai negri della Costa d’Avorio.

[170]

— Capo, — disse, — noi non comprendiamo il tuo linguaggio, ma qui vi sarà qualcuno che possa rispondermi.

— Tu parli la lingua dei Popos?... — chiese il vecchio negro con gioia.

— Sì, e sono lieto che tu mi abbia capito. Mi dirai ora il motivo per cui hai fatto rapire noi che siamo uomini bianchi.

— Perchè voi siete due fabbricatori di pioggia. —

Udendo quella risposta, Alfredo non potè trattenere una irriverente risata.

— Hai capito, Antao? — disse. — Credono che noi possiamo fabbricare la pioggia.

— Fabbricare la pioggia?... — esclamò il portoghese, stupito. — Cosa vuol dire ciò?...

— Pare che questi negri abbiano bisogno dell’acqua del cielo per fecondare le loro terre, arse forse da una siccità troppo prolungata e che ci abbiano presi credendo, in buona fede, che noi abbiamo il potere di far accorrere le nubi.

— Bel paese di pazzi!... E così?...

— Vediamo se possiamo far capire a loro che hanno preso un grosso granchio. —

Si volse verso il capo che attendeva ansiosamente una risposta, dicendogli:

— Tu hai sognato, vecchio mio. Gli uomini bianchi non hanno mai avuto questo potere. —

Il negro non parve che si indispettisse per quella risposta, poichè rispose con tutta calma e quasi sorridendo:

— L’uomo bianco crede che la mia tribù sia avara e che non voglia compensarlo, ma s’inganna. Noi daremo a te buoi, pecore, burro e birra di sorgo e di miglio.

— Ti ripeto che gli uomini bianchi non sono mai stati fabbricatori di pioggia.

— Tu vuoi burlarti di noi. Sappiamo che gli uomini dalla pelle bianca sanno fare mille cose che noi non possiamo ottenere.

— Ti ripeto che t’inganni.

— No, poichè l’uomo che veniva dai lontani paesi del sole che tramonta, ci ha detto che voi possedete la magìa di far tuonare le nubi e cadere la pioggia.

— Di quale uomo parli?... — chiese Alfredo, con viva sorpresa.

— Di un negro il quale è già partito perchè aveva fretta di tornare nel suo paese, nel Dahomey, ma prima di lasciarci ci [171] aveva detto che voi eravate accampati sul mio territorio, affermando che solamente voi avreste potuto salvarci dai danni enormi prodotti dalla siccità prolungata ed io vi ho fatti prendere e condurre qui. Volete ritornare nei vostri paesi?... Dateci la pioggia o non lascierete più mai la terra dei Krepi. —

Capitolo XXIV. I fabbricatori di pioggia

Alfredo si era vivamente alzato in preda ad una inquietudine così viva, da strappare al portoghese una esclamazione di profondo stupore.

Il cacciatore aveva ormai compreso da chi era partito quel colpo che aveva lo scopo di immobilizzarlo nella regione dei Krepi, onde tardasse, più che fosse possibile, la sua marcia verso le frontiere del Dahomey. Le ultime parole del capo erano state per lui una rivelazione fulminea, ma d’una gravità eccezionale, poichè si trattava della salvezza di tutti e soprattutto della perdita del piccolo Bruno.

— Antao! — esclamò, con voce strozzata. — Noi stiamo per perdere il frutto di tante fatiche e tutte le nostre speranze. Se non troviamo il mezzo di liberarci presto, alle frontiere del Dahomey troveremo le genti di Kalani.

— Di Kalani!... — esclamò il portoghese. — Che questi negri ci abbiano fatti prigionieri per ordine di lui?...

— Non mi hai compreso, Antao. Questi stupidi hanno obbedito, senza saperlo, ad uno dei nostri nemici, il quale ha sfruttato la loro ingenuità a nostro danno.

— Spiegati meglio, Alfredo.

— Sai chi era l’uomo che veniva dai lontani paesi del sole che tramonta e che ha dato da intendere a questi negri che noi eravamo capaci di fabbricare la pioggia?...

— Non lo so.

— Era una delle spie, quella fuggita dal paese degli Ascianti.

— Morte di Urano!... — esclamò Antao, impallidendo. — Come può aver fatto a precederci?...

[172]

— Io non lo so, ma ormai non ho più alcun dubbio. Per fermarci, onde avere il tempo di giungere nel Dahomey prima di noi, egli ha suggerito a questi negri l’idea di tenderci un agguato nella foresta.

— Doveva adunque essersi accorto della nostra presenza in questa regione.

— Di certo, Antao.

— Il miserabile!... Ma che gambe hanno quei dahomeni?... Ci siamo avanzati a marcie forzate, galoppando dall’alba al tramonto ed egli ha potuto giungere qui prima di noi!... Che avesse avuto un cavallo?...

— Lo suppongo.

— E cosa conti di fare ora?... Se quell’uomo giunge nel Dahomey prima di noi, metterà in guardia Kalani e ci troveremo addosso quelle bande sanguinarie.

— Certo, Antao. Se non riusciamo ad acquistare prontamente la libertà, perderemo la vita alle frontiere del Dahomey.

— Ma come faremo a sbarazzarci di queste mignatte?... Noi non siamo in grado di far piovere.

— Cercheremo d’ingannarli.

— In quale modo?...

— Lo si vedrà; credo però d’avere una buona idea e se riesco a persuaderli, domani saremo liberi.

— Agisci senza ritardi, Alfredo. —

Il cacciatore si rivolse verso il capo negro che aspettava sempre una risposta e gli disse:

— Odimi, capo. Noi ti accontenteremo e faremo cadere dal cielo tanta pioggia da inaffiare abbondantemente la terra e da farti fare dei raccolti prodigiosi, ma voglio prima sapere una cosa da te.

— Parla, uomo bianco, — disse il negro.

— L’uomo che ti disse che noi sappiamo fabbricare la pioggia, quando è giunto qui?...

— Ieri mattina.

— Montava un cavallo?...

— Sì, ma l’aveva ridotto in condizioni così miserande, che appena giunto morì. Lo abbiamo mangiato ieri sera e ti assicuro che era eccellente.

— Quando è ripartito quell’uomo?...

— Poco prima che i miei guerrieri ti conducessero qui.

[173]

— Era giovane?...

— Sì, giovane e robusto.

— Credi che sia già molto lontano?...

— Lo dubito perchè aveva una gamba ferita che lo faceva zoppicare. Aveva ricevuto un colpo di lancia da non so quali negri e mi parve che soffrisse assai.

— Grazie, capo, — disse Alfredo, respirando.

— Farai cadere ora la pioggia?... — chiese il negro, con ansietà. — Il sole minaccia di abbruciare tutti i nostri raccolti e l’acqua manca nelle fonti, sicchè non sappiamo come abbeverare il nostro bestiame.

— Sì, ma per far venire le nubi mi occorrono molte cose che io qui non posso trovare.

— I miei sudditi sono tutti a tua disposizione. Ordina e avrai tutto quello che vorrai.

— I tuoi sudditi non possono trovare certe piante che io solo conosco.

— Ti occorrono delle piante?...

— Sì.

— Per cosa farne?...

— Devo farle bollire in una grande pentola ed il fumo che si alzerà nell’aria, basterà per far accorrere da tutti i punti dell’orizzonte delle nubi gravide di pioggia.

— Sai dove trovarle?...

— Sì, nella grande foresta.

— Ti condurremo colà con una scorta numerosa e bene armata.

— No, numerosa. Deve essere composta di soli dodici guerrieri giovani o le nubi si spaventeranno e non verranno.

— Ed io non potrei venire?... Vorrei imparare anch’io a fabbricare la pioggia, — disse il capo.

— Verrai anche tu e ti mostrerò come si deve fare.

— Io ti regalerò quattro buoi e tanta birra quanta ne vorrai.

— Grazie capo, ma voglio anche la libertà. Sono atteso al mio paese e tu sai che i bianchi abitano molto lontani.

— Ti prometto la libertà, ma dopo che sarà caduta la pioggia.

— Voglio anche le mie armi, perchè mi sono necessarie per chiamare le nubi.

— Le porteremo con noi.

— Allora slegaci, cerca i dodici guerrieri e partiamo subito.

[174]

— Fra mezz’ora saremo in cammino, — disse il capo, con viva gioia.

Ad un suo cenno Alfredo ed Antao furono slegati, condotti nella capanna reale e serviti di birra, di carne di bue arrostita e di focaccie di sorgo, ma alla porta si erano collocati dieci uomini per impedire a loro di prendere il largo prima di aver fatto cadere la pioggia.

— Sono curioso di sapere come finirà quest’avventura, — disse Antao, fra un boccone ed un sorso di birra. — Come faremo a sbarazzarci del vecchio negro e della sua scorta?...

— Vedrai che tutto finirà bene, — rispose Alfredo. — Noi li condurremo verso l’accampamento e vedremo allora se sapranno resistere ai fucili di Asseybo e dei dahomeni. Il mio servo è astuto e chissà che a sua volta non prepari un’imboscata.

— Lo speri.

— Sono certo che Asseybo ci ha seguìti da lontano, per vedere dove ci hanno condotti. Egli è d’una affezione a tutta prova.

— Che abbia già avvertito la ragazza ed i dahomeni?

— Non ne dubito, Antao. Egli deve essere tornato all’accampamento per concertarsi con Urada.

— Staremo attenti per approfittare della paura e della sorpresa di questi superstiziosi negri che si ostinano a crederci fabbricatori di pioggia. Strana idea che si sono cacciati in capo.

— Non è da farne meraviglia, Antao. Vi sono molti dei loro sacerdoti o stregoni che pretendono di essere fabbricatori di pioggia, come li chiamano questi negri.

— Una professione un po’ difficile.

— Ma fruttifera, Antao. D’altronde quei furboni si prendono molto tempo prima di farla cadere, pretendendo di dover prima cercare delle piante difficili a trovarsi. Finchè fingono di cercare per mesi e mesi, la pioggia finisce col venire e si addossano il merito di essere stati loro.

— Sono dei volponi astuti.

— Che sfruttano abilmente l’ingenuità di questi poveri diavoli di negri. Ah!... Ecco la scorta!... Partiamo Antao e andiamo a frugare la foresta. Avremo da ridere. —

Il capo, vestito di gala, coll’elmetto adorno di piume, le braccia e le gambe cariche di braccialetti d’avorio e di perle di vetro, e con un sottanino nuovo di color rosso, li attendeva al di fuori, assieme a dodici giovani guerrieri armati di lancie e di coltelli.

[175]

I due bianchi vuotarono un’ultima zucca di birra e uscirono, dicendo:

— Partiamo. —

Prima però di mettersi in marcia guardarono se i guerrieri portavano le loro carabine e le videro infatti indosso al più giovane della scorta, unitamente alle cartucciere.

La piccola banda lasciò il villaggio con passo sollecito, sfilando fra due fitte ali di popolo, il quale però manteneva un silenzio religioso e s’avanzò fra le alte erbe della pianura, già però quasi bruciate dal sole.

La traversata di quel terreno scoperto, dove regnava un calore infernale, essendo appena il mezzodì, si compì senza incidenti e verso le tre pomeridiane il drappello giungeva nella grande foresta.

Dopo un breve riposo, i due bianchi diedero nuovamente il segnale della partenza studiandosi di avvicinarsi al fiume, essendo certi che seguendo il suo corso non avrebbero tardato a giungere in prossimità del loro accampamento.

Pur camminando, per meglio ingannare il capo e la scorta, fingevano di cercare le miracolose piante che dovevano servire ad attirare le nubi, fermandosi di tratto in tratto a frugare certi cespugli, e mandando alte grida di trionfo quando riuscivano a scoprire qualche ciuffo d’erbe. Il capo e la scorta, per non mostrarsi meno soddisfatti, mandavano a loro volta acute urla, con grande piacere d’Alfredo, il quale era certo, con quel baccano, di attirare l’attenzione di Asseybo e dei suoi uomini.

Verso sera, i due bianchi che avevano raccolte alcune pianticelle, diedero il segnale della fermata presso le rive del fiume, in un luogo che secondo i loro calcoli non doveva essere molto lontano dall’accampamento.

Il capo negro volendo manifestare la sua gioia pel felice esito della spedizione, avendolo ormai Alfredo assicurato che all’indomani avrebbero trovato anche le altre piante, fece fare una larga distribuzione di birra a tutti, vuotando quasi tutte le zucche che aveva fatte portare dalla scorta.

Accesi parecchi fuochi e terminata la cena composta di focaccie, miele di api selvatiche, burro cotto e frutta, si accomodarono fra le erbe per gustare un po’ di riposo. Quattro guerrieri dovevano però vegliare per turno per tener lontano le fiere, ma soprattutto per impedire ai due bianchi di fuggire prima d’aver mantenuta la promessa.

[176]

Avevano appena chiusi gli occhi, quando una detonazione improvvisa venne a spargere l’allarme, facendoli balzare tutti in piedi.

— Un segnale di Asseybo?... — chiese Antao ad Alfredo.

— Lo credo, — rispose questi. — Egli ha voluto segnalare di tenerci pronti a tutto.

— Che si prepari ad assalire i negri?

— Giungerebbe in buon punto. Il vecchio capo ed i suoi giovani guerrieri mi sembrano spaventati.

— Stiamo attenti ad afferrare le nostre carabine.

— Il negro che le custodisce non lo lascierò fuggire, Antao. —

Mentre così parlavano, il capo ed i suoi uomini si consigliavano, a quanto pareva, sul da farsi. Sembravano assai impressionati e guardavano sospettosamente i due prigionieri.

Forse cominciavano a temere anche loro una sorpresa.

— Uomo bianco, — disse il vecchio negro, avvicinandosi ad Alfredo. — Hai udito?...

— Sì, un colpo di fucile.

— Chi credi che lo abbia sparato.

— Forse qualche cacciatore.

— Ma i negri di questa regione non posseggono armi da fuoco.

— Può essere qualche negro del Dahomey. Tu sai che i soldati di Geletè sono armati di fucili.

— È vero, ma Abomey non è vicina. Cosa mi consigli di fare?... —

Alfredo stava per dargli qualche risposta, quando tutto d’un tratto, in mezzo ad un fitto macchione di cespugli, si vide balenare una luce intensa, seguita da una detonazione così formidabile che pareva dovesse crollare l’intera foresta.

I negri della scorta ed il loro capo si sentirono atterrare da una spinta irresistibile, ma subito si rialzarono fuggendo in pieno disordine da tutte le parti, gettando via le armi e mandando urla di pazzo terrore.

Alfredo ed Antao, passato il primo istante di sorpresa, erano pure balzati in piedi, tenendo però in pugno le loro carabine che erano state abbandonate sul terreno.

Stavano per fuggire verso il fiume, quando udirono una voce gridare:

— Presto, padrone!... Qui, venite qui!... I cavalli sono pronti. —

Si volsero e videro Asseybo seguìto da uno dei due dahomeni.

 
Sturò una di quelle bottiglie, bagnò il pennello e cominciò a tingere.... (Pag. 178).

[177]

— Tu!... — esclamarono, correndogli incontro.

— E chi volete che fosse stato a far scoppiare quella mina?...

— Una mina?...

— Di due chilogrammi di polvere. Era l’unico mezzo per spaventare quei negri e metterli in fuga.

— Ci avevi adunque veduti?...

— Vi avevo seguìti sempre, padrone. Spicciamoci prima che i negri tornino. —

Si slanciarono tutti e quattro attraverso la foresta e giunti in una radura, trovarono i cavalli già insellati e l’amazzone in arcione.

Senza perdere tempo balzarono in sella e partirono di galoppo, dirigendosi verso l’est.

Tutta la notte continuarono la fuga precipitosa, ma all’alba si arrestavano sul margine della grande foresta, a quaranta e più miglia dal villaggio dei Krepi.

— Credo che ora più nulla abbiamo da temere, — disse Alfredo scendendo da cavallo. Ci fermeremo qui tutt’oggi per prendere un po’ di riposo e per trasformarci in africani, onde poter rappresentare la nostra carica d’ambasciatori del Borgu.

— E quel dannato spione che ci precede?...

— Giungeremo ad Abomey prima di lui, Antao. Ora che so che è zoppo e senza cavallo, non lo temo più. Quando vorrà rivedere Kalani, non lo troverà più vivo. Orsù, amico mio, dormi fino a mezzodì, poi prepareremo la nostra toeletta.

Affranti da due notti quasi insonni, i due bianchi si cacciarono sotto la tenda che era stata subito rizzata dai dahomeni, e dormirono profondamente fino all’ora del pasto.

Dopo una buona scorpacciata di carne di facochero secca, diedero principio alla loro toeletta.

Alfredo aveva fatto racchiudere nelle sue misteriose casse tutto l’occorrente per ottenere quella trasformazione, così necessaria soprattutto per lui.

Fece sedere Antao su di uno sgabello improvvisato con alcuni rami, lo denudò fino alla cintola, senza che il bravo portoghese protestasse, poi da una delle casse levò alcune bottiglie contenenti dei liquidi di colore oscuro ed alcuni pennelli.

— Speriamo che quelle bottiglie non contengano dei veleni o dei liquidi corrodenti, — disse Antao, ridendo.

— Sono stati estratti da vegetali perfettamente innoqui, — rispose [178] Alfredo. — Quando però la nostra missione sarà terminata, dovrai consumare del buon sapone, se vorrai ridiventare bianco come prima.

— Così almeno non vi sarà il pericolo di giungere ad Abomey mezzo bianco e mezzo nero. Temevo che il sudore potesse guastare la mia toeletta.

— Non dubitare; la tua tinta resisterà all’acqua ed al sudore. Fermo, amico: lasciati dipingere. —

Sturò una di quelle bottiglie, bagnò il pennello e cominciò a tingere, deponendo sul viso, sul collo, sul petto, sulle braccia e sulle mani del portoghese un superbo strato bronzino ma che aveva dei riflessi rossastri, perfettamente identico al colore della pelle dei negri delle alte regioni e dei rivieraschi del Niger.

Il portoghese lasciava fare, ma di tratto in tratto prorompeva in scrosci di risa, ai quali facevano eco quelli di Urada, di Asseybo e dei due dahomeni.

Essendo quell’operazione stata fatta al sole, bastarono pochi minuti perchè il gran calore asciugasse la tinta.

Alfredo, che agiva colla maggiore serietà, appese allora agli orecchi dell’amico due grossi anelli di rame dorato, come usano portare gli indigeni del Borgu, poi gli mise attorno al collo parecchie file di perle rosse ed azzurre, quindi gli appiccicò al mento una barbetta nera piuttosto rada che doveva dargli un aspetto più fiero e gli mise sul capo un ampio fazzoletto rosso annodato sul di dietro, adorno di alcuni ricami e che doveva produrre un grande effetto anche nella capitale del potente Geletè.

— Un negro magnifico!... — esclamarono Asseybo e Urada. — In tutto il Borgu non se troverebbe uno più fiero, nè più bello.

— Per Giove!... — esclamò Antao. — Quale disgrazia il non possedere uno specchio, fosse pure da due soldi.

— Forse ad Abomey ne troveremo qualcuno, Antao, — rispose Alfredo. — Ti basti per ora sapere che sei il più bel negro dell’Africa equatoriale.

— Hai finito?...

— Non ancora. Bisogna pensare a tutto. Infatti che cosa direbbe Geletè, se tu ti presentassi cogli stivali e le calze?... Occorre essere negri dai piedi alla testa. —

[179]

Con poche pennellate anche le gambe ed i piedi del portoghese furono dipinti, poi Alfredo gli fece indossare un paio di corti calzoni di tela bianca stretti alla cintura da una larga fascia rossa, gli mise sulle spalle un ampio mantello pure bianco adorno di fregi rossi che rassomigliava ad un taub arabo o sudanese, e gli fece calzare delle babbucce rosse a punta rialzata.

— Credo ora, — disse il cacciatore, — che tu possa fare una splendida figura ad Abomey. Geletè non avrà mai ricevuto un ambasciatore simile. Ora aiutami, Antao. —

Mezz’ora dopo anche la sua toeletta era terminata e la trasformazione era riuscita così completa, che Antao stesso non l’avrebbe di certo riconosciuto pel suo amico, se non l’avesse dipinto colle proprie mani.

— È impossibile che Kalani ti possa ravvisare, — disse il portoghese; stupito. — Tu non sei più un europeo.

— Credi adunque che io possa affrontare quel miserabile, senza il pericolo di venire scoperto?...

— Sì, Alfredo.

— Allora mio fratello è salvo.

— E Kalani è perduto.

— Oh sì, Antao. Quell’uomo non mi sfuggirà, te lo giuro.

— Quanto impiegheremo per giungere ad Abomey?...

— Fra cinque giorni possiamo essere a Kana, nella città santa del regno, dove saremo costretti a fermarci finchè piacerà a Geletè di riceverci nella capitale. Oltrepassato questo bosco non troveremo altri ostacoli, poichè la grande pianura si estende fino a quelle due città.

— È lontana la pianura?...

— Questa sera possiamo accampare sui margini del bosco.

— Allora partiamo.

— Ma come ambasciatori. Possiamo incontrare, da un istante all’altro, delle truppe di Geletè e non bisogna suscitare sospetti. D’ora innanzi marceremo sempre a cavallo come i grandi personaggi del Borgu. —

Avendo consumate parte delle provviste e delle munizioni, le casse vuote furono gettate nel fiume, sbarazzando quindi i due migliori cavalli che vennero adornati di fiocchi rossi e di ricche gualdrappe ricamate in oro.

Anche i negri furono vestiti riccamente, con calzoncini bianchi, fascie rosse, mantelli arabescati, fazzoletti di seta dai vivaci [180] colori ed armati di carabine, compresa l’amazzone che doveva assumere le importanti funzioni d’interprete, potendo passare per un bel giovanotto del Borgu e di porta-parasoli, essendosi Alfredo provvisto anche di due ombrelli rossi adorni di frange, distintivo dei personaggi di sangue nobile e reale.

Capitolo XXV. La Città Santa del Dahomey

Alle 4 del pomeriggio, la carovana si metteva in marcia verso il nord-est, direzione che doveva condurla nella borgata di Toune e quindi nella città santa del Dahomey.

La traversata dell’ultimo tratto della grande boscaglia si effettuò senza incidenti e prima che il sole declinasse, giungeva sul margine della grande pianura la quale si estendeva a perdita d’occhio verso il nord e verso l’est, coperta da un’erba assai fitta, alta da un metro a due, ma già mezza disseccata dagli implacabili raggi dell’astro diurno.

Guardando verso il nord-est, Alfredo ed Antao scorsero distintamente una serie di altipiani che s’innalzavano in grandi scaglioni o piattaforme immense, cosparsi di gruppi di punti biancastri indicanti attruppamenti di capanne. Sui fianchi di quelle alture dovevano esservi numerosi villaggi.

Anche nella pianura si vedevano sorgere, fra le alte erbe, le punte aguzze di molti casolari, ma pareva fossero disabitati, poichè nessuna colonna di fumo si vedeva innalzarsi, quantunque fosse l’ora del pasto serale.

— È la guerra che qui ferve quasi sempre, che ha scacciati i proprietari, — disse Alfredo. — Triste paese questo, condannato a diventare un cimitero immenso, se le nazioni civili non imporranno a questi re sanguinari di abolire le orrende feste dei costumi.

— Credi che le bande del Dahomey abbiano fatto delle scorrerie su queste terre?...

— Lo temo, Antao. Quando non riescono a sorprendere le popolazioni dei regni vicini ed a raccogliere schiavi pei sacrifici, [181] si gettano contro i loro stessi compatriotti delle frontiere. Sono negri al pari degli altri, uomini eguali agli altri e basta.

— Ma distruggono la popolazione del regno.

— Che importa a Geletè?... Si rifarà più tardi rubando altri schiavi ai Krepi ed ai Togo, agli Yoruba del Benin, al povero Tofa, alle repubbliche del Piccolo e Grande Popo o agli Egbas di Abeokuta.

— Che sia capace di fare schiavi anche noi?...

— Non l’oserà, Antao. Geletè è sanguinario, ma non è così barbaro come si crede e rispetterà gli ambasciatori che appartengono ad una nazione bellicosa, che potrebbe creargli dei gravi imbarazzi sulle lontane ed indifese frontiere del settentrione.

— Credi che ti riceverà cortesemente adunque?...

— Porto a lui dei regali che mi costano una somma non lieve, Antao.

— A quel furfante!...

— Ed anche a Kalani ne porto.

— Anche a lui?...

— È necessario per rendercelo propizio. È lui che custodisce mio fratello e solo da lui potremo avere il permesso di vederlo.

— Ed hai quei regali nelle tue misteriose casse?...

— Sì, Antao.

— Ora comprendo perchè ti premeva acciuffare i ladri.

— Se non riuscivo a riaverle, saremmo stati costretti a tornare a Porto Novo per ricorrere ai magazzini delle fattorie europee. Nemmeno nella capitale degli Ascianti sarebbe stato possibile trovare ciò che ci era necessario. —

Mentre chiacchieravano, Asseybo ed i dahomeni avevano rizzate le tende sul margine della foresta ed allestita la cena.

I due cacciatori, avvertiti che tutto era pronto, scesero dalle cavalcature e s’accomodarono presso i fuochi accesi, trattenendosi molto tardi con l’amazzone e coi tre negri a discorrere dei loro futuri progetti.

Alle quattro antimeridiane, dopo un sonno di sei ore, non interrotto da alcun avvenimento, si avventurarono, sulla grande pianura, impazienti di giungere a Toune ed a Tado.

S’accorsero ben presto di calpestare quella terra inaffiata dal sangue di tante migliaia di vittime. Ogni qual tratto, in mezzo alle folte erbe, vedevano alzarsi stormi immensi di corvi e di avvoltoi e vedevano fuggire branchi di sciacalli e di iene, occupate [182] a spolpare numerosi cadaveri umani, già imputriditi dall’intenso calore.

Incontravano poi capanne mezze distrutte, alcune abbattute ed altre semi-divorate dal fuoco, palizzate sfondate, poi altri scheletri d’uomini ed anche non pochi d’animali.

Pareva che le feroci bande di Geletè avessero fatto delle razzìe in quei luoghi ed in un’epoca molto recente, forse qualche settimana prima.

Temendo d’incontrare i razziatori, la carovana evitò di accostarsi a Toune, grossa borgata che si trova quasi ad eguale distanza fra i fiumi Mono e Koufo, e cominciò ad avanzarsi con grande prudenza. Quella seconda notte non accese fuochi, per non attirare l’attenzione di quelle bande di predoni che potevano catturarla, e saccheggiarla. Essendo però gli animali feroci numerosi fra quelle alte erbe, e non potendo tenerle lontane coi fuochi, dovette rifugiarsi in una capanna.

Non ostante quelle precauzioni, il terzo giorno, a quattro o cinque miglia da Tado, altro popoloso borgo che si trova più al nord di Toune, fecero improvvisamente l’incontro d’una truppa di dahomeni, la quale formava forse la retroguardia delle colonne predatrici.

Si erano inoltrati in una boscaglia, quando si videro circondare da una cinquantina di guerrieri che pareva si fossero fino allora tenuti nascosti in mezzo ai più fitti cespugli, per piombare addosso alla carovana all’improvviso.

Erano tutti bei pezzi di negri dalla tinta bronzina a riflessi rossastri, dai lineamenti più regolari degli abitanti della Costa, vestiti con una giacca bianca e sottanino dell’egual colore e col capo coperto da uno stravagante berretto che si rialzava ai lati, in forma di due corna.

Erano tutti armati di fucili di varii calibri, alcuni moderni ma altri assai antiquati e di larghi coltellacci dalla lama assai pesante, ma tagliente come un rasoio.

— Morte di Nettuno!... — esclamò Antao. — Ecco i lupi di Geletè!...

— O meglio i leopardi del Dahomey, — disse Alfredo, arrestando i suoi uomini che si preparavano ad armare le carabine ed a disporre in circolo gli animali, onde servissero di barriera ai loro padroni.

I guerrieri dahomeni, quantunque dieci volte superiori di numero [183] e coraggiosissimi, invece di gettarsi impetuosamente sulla carovana come insegna la loro tattica, si erano arrestati, guardando con un certo stupore Alfredo ed Antao, i cui ricchi costumi dovevano produrre un certo effetto su di loro, e soprattutto i due ombrelli, distintivi di persone altolocate o di famiglia principesca.

Il loro comandante, un negro di statura gigantesca, che indossava una lunga camicia di color verde, stretta alla cintura da una larga fascia rossa, dopo una lunga esitazione si fece innanzi avvicinandosi ad Alfredo, il quale guardava alteramente tutti quegli armati, senza fare alcun gesto.

— Chi siete voi e dove vi recate?... — chiese il capo.

— Chi sei tu, innanzi a tutto?... — domandò Alfredo, con tono imperioso.

— Un capo banda delle truppe del re.

— Non è con te adunque che io ho da fare.

— Ma tu non sei del paese.

— E cosa intendi di dire?...

— Che io posso catturarti ed anche ucciderti, se ciò mi aggrada.

— Tu!... — esclamò Alfredo, fissandolo con due occhi pieni di disprezzo. — I principi del Borgu non sono schiavi tuoi.

— Ah!... Voi siete principi?... — disse il capo, con tuono più umile. — Ma cosa fate qui, sulle terre del mio re?...

— È a Geletè che vedrò fra due giorni, che devo dirlo.

— Al re!... — esclamò il negro, spaventato.

— Sì, a Geletè.

— E tu ti rechi da lui?...

— E mi attende.

— Potevi dirlo prima ed io non avrei osato arrestare degli uomini che il re aspetta.

— È sgombra la via che conduce a Kana?... — continuò Alfredo, coll’egual tono altero.

— Troverai altre bande.

— Che mi fermeranno e che mi costringeranno a lamentarmi con Geletè.

— Non farlo, principe, od il re farà tagliare la testa a tutti noi della retroguardia. Io ti darò una scorta che ti farà largo.

— Basterà uno dei tuoi uomini. Una scorta numerosa mi sarebbe d’imbarazzo. —

[184]

Il capo si volse verso i suoi guerrieri e fece cenno ad uno di loro di avvicinarsi:

— Tu condurrai questi uomini a Kana, — gli disse. — Il re li aspetta e mi risponderai di loro colla tua testa.

— Sta bene capo, — rispose il soldato.

— Buon viaggio, — disse poi, rivolgendosi verso i due ambasciatori. — Più nessuno vi susciterà ostacoli. —

Ad un suo ordine la truppa si divise e la carovana sfilò fra quei feroci negri che le presentavano le armi come i soldati europei.

— Morte di Giove!... — esclamò Antao, respirando a pieni polmoni. — Non credevo che questo incontro terminasse così felicemente; sei un diplomatico da dare dei punti ai più astuti.

— Ho voluto prendere sul serio la mia parte, — disse Alfredo, ridendo, — ed ho voluto cominciare con un felice colpo di testa. Non era d’altronde una cosa così difficile come sembrava, sbarazzarci da quelle canaglie. In questo paese basta pronunciare il nome del re, per far tremare grandi e piccoli.

— Ma tu hai detto a quel capo che il re t’aspetta, mentre non è vero.

— Che importa?...

— Se Geletè sapesse che tu hai mentito?...

— Nessuno oserebbe andarglielo a dire, Antao.

— Ma cosa faremo ora di quella mignatta, che il capo ci ha appiccicato ai fianchi?...

— Del negro che ci serve di salvacondotto?... Quando saremo a Kana, lo manderemo indietro con qualche regalo pel capo.

— Temo che tu giuochi delle carte pericolose, Alfredo.

— Lo so anch’io, ma non possiamo fare diversamente. È giunto il momento di giuocare d’audacia per salvare la nostra pelle e mio fratello.

— Quando saremo a Kana, farai avvertire il re del nostro arrivo?...

— Certo, Antao.

— Speri di venire ricevuto?...

— Lo credo.

— Sai che mi sento venire la pelle d’oca, pensando che dovremo trovarci con quel barbaro sanguinario, a cui un solo sospetto sarebbe sufficiente per mandarci all’altro mondo?...

— Non temere, Antao. Nessuno potrà sospettare in noi degli [185] europei, purchè non ti lasci sfuggire uno dei tuoi pianeti morti o vivi.

— Comincerò da quest’oggi a sopprimerli tutti, — disse il portoghese. — Morte di Net.... Diavolo! Bisognerà che mi tagli la lingua o mi scapperà fuori sempre qualche pianeta.

— O renderla muta, Antao.

— Bella trovata!... Dinanzi a Geletè fingerò di essere muto.

— E credo che farai bene. —

Mentre così chiacchieravano, cavalcando l’uno vicino all’altro, il soldato dahomeno, un giovane negro, ma dall’aspetto marziale e dagli sguardi assai intelligenti, marciava con passo rapido attraverso a dei sentieri aperti fra la foresta e forse a lui solo noti.

Giunti sulla vetta d’una piccola collina, la carovana raggiunse un’altra banda di soldati composta d’un centinaio d’uomini tutti armati, i quali si spingevano innanzi due dozzine di prigionieri fra maschi e femmine.

Questi disgraziati, destinati molto probabilmente a venire sacrificati nella prima festa dei costumi, procedevano su due file, legati gli uni agli altri con solide corde e sotto una continua pioggia di bastonate, date senza misericordia e ricevute con una rassegnazione inaudita.

Per impedire loro di gridare, i feroci guardiani avevano messo sulle bocche di quelle future vittime dei bavagli di legno in forma di croci, che dovevano farli anche crudelmente soffrire, poichè l’estremità a punta era applicata sulla lingua, in modo che questa non potevano muoverla in modo alcuno, nè articolare qualsiasi suono.

Alcuni soldati, vedendo la carovana, armarono precipitosamente i fucili, ma una parola della guida bastò per arrestarli, anzi tutti si ritrassero precipitosamente per far largo ad Alfredo ed al suo compagno, i quali tenevano ben alti i loro ombrelli per dimostrare la loro alta posizione sociale.

— Canaglie!... — borbottò Antao, gettando uno sguardo compassionevole sui prigionieri. — Se non vi fosse da salvare il ragazzo, vorrei trattare come si meritano questi soldatacci.

— E credi che io non frema, — disse Alfredo, — che allungava involontariamente le mani verso la carabina sospesa all’arcione. Ma un allarme perderebbe noi ed anche il mio Bruno e non dobbiamo commettere una tale imprudenza. —

[186]

Aizzando i cavalli per tema di non sapersi frenare, i due bianchi sorpassarono ben presto quella colonna ridiscendendo nella pianura, in mezzo alle cui erbe si scorgevano dei piccoli villaggi.

Ma anche laggiù altri drappelli di soldati s’incontravano di frequente e quasi tutti avevano dei prigionieri. La guida però apriva dovunque il passo alla carovana, pronunciando semplicemente il temuto nome di Geletè.

Alla sera i viaggiatori fecero alto a Tado, un villaggio popoloso che si trova a dieci miglia dai fiume Koufe. All’intorno si erano accampate altre bande armate, le quali fecero tutta la notte un baccano infernale, impedendo ai due bianchi di chiudere gli occhi. Urlavano a squarciagola, bevevano grandi quantità di liquori per festeggiare il felice esito della loro triste spedizione, ma anche altercavano di frequente, adoperando le armi da fuoco.

Quando Alfredo ed i suoi compagni ripresero la marcia, numerosi cadaveri erano sparsi per gli accampamenti. Alcuni forse erano di schiavi, ma molti di soldati, uccisi durante quelle risse.

— Auff!... — esclamò Antao. — Ne ho abbastanza di queste canaglie e sarei contento di giungere a Kana senza la loro pericolosa compagnia. Finirò per perdere la calma e commettere qualche imprudenza.

— Saremmo costretti ad inerpicarci sugli altipiani attraverso a boscaglie pullulanti di serpenti, — rispose Urada, che cavalcava presso di loro, — mentre in breve possiamo giungere sulla via reale che è una delle più belle di tutto il paese e la più comoda.

— È vero, — disse Alfredo. — Ho udito parlare della bellezza della strada reale.

— Ma sarà piena di soldati, Antao.

— È probabile, ma cercheremo di lasciarceli dietro.

— Ed assisteremo ad altri orrori.

— Pur troppo, Antao, la prudenza però ci consiglia di chiudere gli occhi e di non intervenire. Quegli orrori si commettono per volere di Geletè, e non possiamo suscitare sospetti su di noi. Siamo ambasciatori e come tali dobbiamo conservare la più stretta neutralità. D’altronde prima del tramonto giungeremo forse a Kana, è vero Urada?...

[187]

— Sì, padrone, — rispose la giovane negra, — e là potrò offrirvi un comodo alloggio nella casa di mio padre.

— Sei di Kana adunque?...

— Sì, padrone.

— E tuo padre vive ancora?...

— Lo spero.

— Ma chi è tuo padre?...

— Un tempo era un cabecero addetto alla vigilanza delle tombe reali e che godeva la fiducia del re, ma intrighi di corte e gelosie d’altri aspiranti a quel posto importante, lo fecero cadere in disgrazia.

— Ah!... Tuo padre era un cabecero!... — esclamarono i due bianchi.

— Sì, — rispose Urada, con tristezza.

— Ma tu, figlia d’un capo, perchè sei diventata una semplice amazzone?... — chiese Alfredo, con sorpresa.

— Per calmare il re la cui collera poteva tornare fatale a mio padre. Le amazzoni del nostro paese non sono ragazze appartenenti a famiglie di bassa condizione, come da taluni si crede.

Si reclutano fra le fanciulle rimaste orfane, ma appartenenti alla classe dominante, fra le ragazze che per malvagità s’imputano di offese alla casa reale e che s’intende di punire coll’arruolamento e fra le figlie di coloro che sono caduti in disgrazia. Questo è il miglior modo per stornare le collere feroci di Geletè e salvare i genitori da una morte certa.

— È numeroso il corpo delle amazzoni?...

— Conta tremila ragazze, padrone.

— E formano una guardia destinata esclusivamente pel servizio del re?...

— Sì,... ma guarda lassù, padrone, — disse in quell’istante Urada, indicandogli un attruppamento di punti biancastri, appollaiati sul margine d’un altipiano che s’alzava al di là del Koufo.

— Kana forse?... — chiese Alfredo.

— Sì, la Città Santa padrone, la mia città natìa, — rispose Urada, con una viva emozione.

— La rivedrai volentieri?

— Per mio padre.

— E poi ci lascerai, — disse Antao, con un tono di voce che aveva qualche cosa di triste.

[188]

— No, — disse la ragazza, con accento risoluto. — Urada non abbandonerà gli uomini bianchi, ai quali deve la vita e la libertà.

— Lasceresti il tuo paese senza rimpianti?... — chiese Alfredo.

— Sì, ma con mio padre. Il nostro paese è cattivo, dovunque si uccide e mio padre, un dì o l’altro, potrebbe venire sacrificato come tanti altri caduti in disgrazia. Qui non si è sicuri di poter vivere ventiquattro ore, senza tremare.

— Ebbene Urada, rimani con noi, — disse Antao. — Conto di acquistare anch’io sulla Costa d’Avorio una fattoria e tuo padre non avrà da lamentarsi di noi, è vero Alfredo?...

— Sì, Antao, rispose l’amico. Ti abbiamo salvata la vita, Urada, e penseremo noi al tuo avvenire. —

La conversazione fu interrotta dall’incontro di nuove bande di guerrieri che conducevano lunghe colonne di schiavi incatenati e gran copia di bottino, consistente in un numero considerevole di buoi, destinati forse, al pari di quei disgraziati prigionieri, a cadere sotto i coltelli dei sacrificatori nelle feste dei costumi.

La guida, come già altre volte, aprì il passo ai due ambasciatori, quantunque quei feroci soldati avessero già preparate le armi per gettarsi sulla carovana, malgrado gli ombrelli protettori.

Alfredo ed Antao, nauseati dal modo con cui quei bruti percuotevano a sangue i prigionieri per farli marciare rapidamente, quantunque quei miseri fossero enormemente carichi di grandi panieri ricolmi di provvigioni rubate nei loro villaggi, spinsero i cavalli al galoppo per lasciarsi alle spalle quelle bande di predoni.

Alle 10 del mattino, dopo una marcia rapidissima di quattro ore, la carovana, che aveva già passato a guado il Koufo, il quale è uno dei più importanti fiumi del Dahomey, incrociava la strada reale che dalla capitale del regno mette capo a Widah sulla costa.

Questa strada, che ha una lunghezza di circa ottanta miglia è una delle migliori, ombreggiata per un grande tratto da splendidi palmizii, ma è anche una delle più faticose, essendo aperta fra terreni composti, specialmente sugli altipiani, d’una specie di minerale granuloso che stanca assai uomini ed animali.

[189]

Alfredo, che non voleva affaticare troppo i cavalli, i quali potevano diventare preziosissimi nel caso che il colpo di mano ideato non dovesse riuscire e che una rapida fuga diventasse necessaria per salvare la vita di tutti, concesse un riposo di parecchie ore.

Alle 3 pom., la carovana però ripartiva, volendo giungere a Kana prima del tramonto, avendo detto Urada che era vietato l’ingresso nella città dopo calate le tenebre.

Attraversata la palude di Co, allora asciutta, la guida si diresse verso Vodu, altro grosso villaggio, poi verso le sei della sera faceva salire ai cavalieri l’ultimo altipiano, su cui si eleva la Città Santa.

Un’ora più tardi, quando il sole cominciava a tramontare dietro gli altipiani dell’ovest, Alfredo ed i suoi compagni entravano nella città natìa dell’amazzone.

Capitolo XXVI. Il padre di Urada

Kanna o, meglio ancora Kana, come la chiamano gl’indigeni, per numero di abitanti è la terza città del regno avendone meno di Widah, ma viene considerata come la seconda pel titolo che gode, cioè di essere chiamata la Santa.

È situata sullo stesso altipiano ove giace Abomey da cui dista solamente tre leghe ed è composta di case dalle mura bianche, e raggruppate in diverse sezioni formanti altrettanti salam, ossia quartieri.

In questa città i re possedevano due vasti palazzi, distrutti più tardi dai francesi, di dimensioni colossali, ma più rassomiglianti ad immense caserme che a vere abitazioni reali e occupati ordinariamente da un corpo di trecento amazzoni, essendo esse sole destinate a vegliare sulla sicurezza della Città Santa.

[190]

Contava inoltre parecchi templi pieni di feticci, informi statue di legno alle quali gli abitanti offrivano collane di cauris, ossia di conchigliette bianche aventi valore come le nostre monete e bottiglie di liquori, ma il più celebre era il tempio destinato ai serpenti, dove si tenevano parecchie centinaia di ributtanti rettili che venivano nutriti colle carni di poveri schiavi o di prigionieri di guerra.

Il titolo di Città Santa le spettava perchè entro le sue mura si facevano ogni anno delle feste dei costumi, onde placare le collere dei feticci o dei re defunti.

Il re non vi si recava che in quell’occasione per dirigere in persona quei massacri spaventevoli, i quali si compivano innanzi alla capanna sacra, una piccola casetta quadrangolare, costruita con fango secco, colle muraglie imbiancate e adorne di grossolane pitture di color rosso, rappresentanti animali fantastici e paurosi.

La carovana, mercè la guida che gridava a piena gola:

«Largo!... Ordine del re!...» fece la sua entrata in città senza subire alcun ritardo da parte delle amazzoni che vegliavano dinanzi ai malandati terrapieni circondanti la città, e si accampò sotto un apatam, specie di tettoia, situata di fronte ad uno dei palazzi reali e destinata ai forestieri d’alta distinzione.

Alfredo, dopo d’aver fatto disporre ogni cosa per passare alla meglio la notte, essendo troppo tardi per recarsi in persona dal gran cabecero che funzionava da governatore, chiamò il soldato che stava respingendo, con vigorose bastonate, alcuni negri che erano accorsi attirati dalla curiosità e postogli in mano uno stipo che doveva contenere dei regali, lo pregò di portarlo al capo della città, come primo presente dell’ambasciata.

— Credi che lo accetterà anche senza il consenso del re? — chiese Antao.

— Non dubitare, — rispose Alfredo. — Quel cofanetto contiene una grossa collana d’argento che mi costa un migliaio di lire ed il gran cabecero sarà ben lieto del regalo. In questi paesi sono tutti avidi.

— Conti di fartelo amico?...

— È necessario o dovremo attendere l’ordine del re per chissà quante settimane. Aggiungi poi che quel soldato ci era di troppo per questa notte.

[191]

— Cosa vuoi dire?...

— Che mi premeva sbarazzarmi di lui fino a domani.

— Per quale motivo?...

— Perchè voglio vedere il padre di Urada. Se egli è vissuto alla corte di Geletè, può darmi dei preziosi consigli e narrarmi molte cose sul conto di Kalani.

— E ti fiderai di lui?...

— Urada dirà a lui chi siamo noi e cosa abbiamo fatto per sua figlia e poi, se è caduto in disgrazia, sarà ben contento di aiutarci contro Geletè e Kalani.

— Hai ragione Alfredo, io però non oserei recarmi da lui. Se si accorgono che noi abbiamo delle relazioni con un uomo caduto in disgrazia, questi negri sospettosi potrebbero allarmarsi.

— Non saremo noi che andremo da lui, Antao. Urada è già partita ed a mezzanotte lo condurrà qui colle dovute cautele.

— Morte di Nettuno!... Sei più astuto d’un diplomatico!...

— Bisogna esserlo, specialmente in questo paese.

— E domani andremo a visitare il gran cabecero?...

— Sì, Antao.

— Speriamo di sbrigarci presto. L’aria del Dahomey è troppo pericolosa per noi.

— Appena fatto il colpo, fuggiremo senza più arrestarci.

— E da qual parte?...

— Attraverseremo il regno per raggiungere le frontiere orientali che sono le meno popolate e quasi sempre sprovviste di truppe. Più saremo lontani dalla capitale, meno avremo da temere e oltrepassato il fiume Sou potremo riderci dei furori di Geletè.

— E di Kalani.

— Oh!... Kalani allora non sarà più vivo, — disse Alfredo, con voce cupa. — Quell’uomo morrà presto.

— Ed io ti aiuterò a torcergli il collo, amico mio.

— Silenzio, Antao, non è prudente parlare qui di Kalani. Corichiamoci fra le nostre casse ed attendiamo il padre di Urada. —

Alfredo ed il portoghese stavano per coricarsi, quando videro tornare il soldato seguito da quattro amazzoni armate di fucile e da sei negri quasi nudi che portavano dei grandi canestri.

Venivano da parte del grande cabecero, il quale, lietissimo del regalo ricevuto, mandava agli ambasciatori del Borgu una copiosa cena e due schiavi per servirli.

[192]

Alfredo fece deporre le ceste sotto la tettoia, regalò ad ognuna delle quattro amazzoni un fazzoletto di seta rossa, poi rimandò tutti dal cabecero dicendo di non aver bisogno di schiavi avendo i proprii, ed incaricandoli di ringraziarlo della sua generosità.

Il soldato che li aveva guidati, desiderando forse di prendere parte alla cena, tentava di rimanere coi due ambasciatori, ma Alfredo, che voleva sbarazzarsi di quel pericoloso testimone, lo incaricò di portare al gran cabecero un altro regalo consistente in una fascia di seta verde ricamata in oro e per consolarlo della perdita del pasto, regalò a lui una cartucciera di pelle azzurra ed una libbra di polvere da sparo, ingiungendogli però non ritornare che al mattino seguente.

Il capo della Città Santa si era mostrato generoso verso i due ambasciatori, segno evidente che la collana d’argento era stata assai gradita ed apprezzata.

Le ceste infatti contenevano tanti viveri da nutrire quaranta persone. Vi erano due pentole di canalu, dei polli, del bue arrostito, dei legumi, delle noci di kalla, delle frutta, due bottiglie di ginepro d’importazione europea, delle zucche ripiene d’una specie di birra ottenuta col miglio fermentato e parecchie candele di sego.

In una cesta scoprirono perfino due scatole di sardine di Nantes, acquistate certamente dai negozianti francesi di Widdah, ma il caldo aveva ridotto il contenuto in tale stato, da riuscire sgradevolissimo ai palati europei.

Alfredo ed Antao fecero onore ai polli, al bue, alle frutta ed alla birra, ma abbandonarono il canalu ai due dahomeni, essendo talmente condito di pimento da non potersi inghiottire.

Vuotato un bicchiere di ginepro e accese le sigarette, si sdraiarono sulle casse in attesa di Urada e di suo padre.

La piazza era diventata deserta. Gli abitanti che dapprima ronzavano attorno alla tettoia attirati dalla curiosità, si erano tutti ritirati nelle loro case, forse dietro ordine del grande cabecero. Solamente dinanzi ai due palazzi del re vegliavano alcune amazzoni armate di fucili e di coltellacci, ma erano così lontane da non poter scorgere una persona che si fosse avvicinata alla dimora degli ambasciatori.

Verso la mezzanotte, Alfredo che si alzava di frequente guardando verso tutti gli sbocchi delle vie, scorse due ombre umane [193] che si avanzavano lentamente e con precauzione, tenendosi presso le pareti delle capanne.

 
— Al re! — esclamò il negro spaventato. — Sì, a Geletè! (Pag. 183).

— Sono Urada e suo padre, — disse ad Antao.

— Benone! — mormorò il portoghese. — La notte è oscura e potremo riceverli senza che vengano scorti. —

Urada e suo padre si erano arrestati presso l’ultima capanna, come se avessero voluto prima accertarsi di non essere spiati, poi attraversarono velocemente la piazza e si cacciarono sotto la tettoia.

Alfredo mosse loro incontro e strinse ad entrambi la mano, poi li condusse fra le casse che erano state disposte in modo da formare un piccolo recinto, mentre i due schiavi dahomeni, dietro ordine del portoghese, si mettevano alle due estremità dell’apatam, onde impedire a qualsiasi persona d’avvicinarsi.

Il padre dell’amazzone era un bel negro d’alta statura, dai lineamenti quasi regolari, dalla pelle non nera ma abbronzata con certe sfumature rossastre. Gli anni e forse anche il cruccio della sua disgrazia, gli avevano incanutiti i capelli e la rada barba che coprivagli il mento e coperta la fronte di profonde rughe.

I suoi occhi però, intelligentissimi e assai espressivi, erano ancora vivaci e ripieni di fuoco.

Appena sedutosi diede ad Alfredo e ad Antao il tradizionale saluto nella lingua del paese, Yevo oku, che significa: bianco buon giorno, saluto usato in qualunque ora, sia pure in piena notte, poi strinse nuovamente la mano ad entrambi, alla moda europea.

Ciò fatto si sbarazzò dell’ampio mantello di cotonina bianca che lo copriva dalle spalle ai piedi e offrì ai due europei del tabacco ed una bottiglia di ginepro, dicendo con una certa malinconia:

— Tiefo Nieneguè è povero, avendo tutto perduto nella sua disgrazia, ma gli uomini bianchi accettino di buon cuore l’offerta del vecchio padre di Urada, insieme ai ringraziamenti per tutto quello che hanno fatto per la sua unica figlia.

— Grazie, — risposero Alfredo ed Antao, dopo che Urada ebbe tradotte quelle parole, non conoscendo il vecchio negro la lingua uegbè.

La giovane amazzone prese poi la parola.

[194]

— Ho narrato tutto a mio padre ed abbiamo parlato a lungo del vostro progetto. Quantunque sia caduto in disgrazia, conta ancora degli amici ad Abomey e può esservi molto utile coi suoi consigli e coi suoi aiuti.

Egli mi ha giurato che non tradirà il segreto degli uomini bianchi, anzi che mette la sua vita e le sue forze a disposizione dei salvatori di sua figlia. Geletè e Kalani sono ormai suoi nemici e sarà ben lieto di vendicarsi contro di loro della sua immeritata disgrazia.

— Eravamo certi di poter contare su tuo padre, Urada, — rispose Alfredo. — Noi accetteremo i suoi consigli ed i suoi aiuti, ma cercheremo di non comprometterlo. Cosa dice del nostro progetto?...

— Che è assai pericoloso ma che con dell’audacia e dell’astuzia si può riuscire.

— Conosce Kalani?...

— Sì, padrone.

— Sa del fanciullo rapito?...

— Lo ha saputo.

— Dove lo custodiscono?....

— Nella casa dei feticci di Abomey.

— Non correrà alcun pericolo?...

— Nessuno padrone, poichè ormai è considerato come persona sacra. Se Kalani volesse ucciderlo, Geletè glielo impedirebbe e tu sai che nessuno oserebbe disobbedire al re.

— Crede tuo padre che Geletè ci riceverà?...

— Sì, ma prima di lasciare Kana dovrete attendere il recade del re.

— Cos’è questo recade?...

— L’ordine verbale di Geletè.

— Incaricheremo il gran cabecero di annunziarci al re.

— Vi avverto però che giungeremo ad Abomey in brutto momento.

— Perchè?...

— Perchè in questo mese hanno luogo le feste dei costumi.

— Così dovremo assistere a quegli atroci macelli di schiavi. Preferirei ritardare la nostra partenza per Abomey.

— E faresti male, padrone.

— Cosa vuoi dire?...

— Mio padre mi ha detto che non potresti trovare una occasione migliore per mettere in esecuzione il tuo audace progetto. [195] Durante le feste dei costumi, se si sparge molto sangue si beve molto ginepro ed in quei terribili giorni, re, principi, cabeceri, sacerdoti, soldati e popolo sono tutti ubriachi e la sorveglianza è quasi nulla.

— È vero, Urada, — disse Alfredo, colpito da quelle osservazioni. Ho udito narrare anch’io che durante quei macelli il ginepro scorre a fiumi e che l’ubriachezza diventa generale.

Chiedi a tuo padre se crede possibile, durante quella confusione, entrare inosservati nel tempio sacro dei feticci e rapire il fanciullo.

— Lo crede, — rispose Urada, dopo d’aver interrogato il vecchio, — e aggiunge che potresti vendicarti, con maggiore probabilità, di Kalani.

— Un’ultima domanda. Verrà con noi ad Abomey, tuo padre?

— Sì, ma si fingerà un tuo schiavo e bisognerà che tu lo renda irriconoscibile. Mio padre vuole aiutarti ed esserti vicino per consigliarti su quanto dovrai fare.

— È deciso ad abbandonare il Dahomey?...

— Ti seguirà dove tu vorrai condurlo. Ormai più nulla lo trattiene in questo paese e rinuncia ben volentieri alla sua patria, avendo più da temere per la propria vita, che la speranza di tornare nelle grazie di Geletè.

— Verrà adunque con noi e ti prometto, Urada, che non si pentirà di aver abbandonato il suo tristo paese. Riconducilo nella sua capanna, premendomi che non lo si veda qui. Uno dei due schiavi vi scorterà, poi tu ritornerai, avendo bisogno dei tuoi consigli. —

Alfredo regalò al vecchio negro alcune bottiglie di ginepro mandategli dal gran cabecero della Città Santa, una rivoltella con una scatola di cartuccie ed ottanta piastre di caures, somma non lieve nel Dahomey, pregandolo di accettare tuttociò per amicizia, poi lo congedò promettendogli di recarsi, l’indomani notte, a visitarlo.

— Ed ora, — disse, quando padre e figlia si furono allontanati col dahomeno, — possiamo riposare Antao. Domani andremo a visitare il gran cabecero, per ottenere il permesso del re di recarci ad Abomey.

— Morte di Urano e di tutti gli altri pianeti!... — esclamò il portoghese. — Ecco avvicinarsi il terribile momento!...

[196]

— Ormai non possiamo più tornare indietro e giocheremo risolutamente le nostre ultime carte.

— Lo credo. Si tratta di salvare il fanciullo e anche la nostra pelle e ci guarderemo bene di non lasciarla a quell’antropofago di Geletè. Sarebbe capace di farne dei tamburi per le sue amazzoni. Diavolo!... Dei tamburi colla pelle di uomini bianchi!... Che onore pei suoi reggimenti in sottane!...

— Speriamo di farli fare colla pelle di Kalani, Antao.

— Sarà più resistente. Buona notte, Alfredo. —

I due bianchi si ricoricarono fra le casse e malgrado le loro apprensioni s’addormentarono tranquillamente, come se si trovassero ancora nel paese dei Krepi o dei Togo.

L’indomani furono svegliati, verso l’alba, da un fracasso indiavolato che s’avvicinava. Era un insieme di suoni strani, di flauti, d’istrumenti a corda, di cembali e di voci umane con accompagnamento di gran cassa.

Antao ed Alfredo, svegliati di soprassalto, s’affrettarono a balzare fuori per vedere di cosa si trattava. Urada, che era già tornata e che si trovava in piedi, s’affrettò ad informarli che la banda musicale di Geletè veniva a prenderli per condurli dal gran cabecero.

— Morte di Giove! — esclamò Antao, messo in buon umore da quel concerto assordante. — Che onore!... Si manda a prenderci colla banda reale!... Che lusso!... Vediamo almeno questi bravi ma formidabili musicanti. —

Urada non si era ingannata. Era veramente la banda reale di Kana che si dirigeva verso l’apatam per condurre, coi dovuti onori, l’ambasciata dal gran cabecero.

Quella banda che formava l’orgoglio del sanguinario re, era composta d’una cinquantina di artisti negri, preceduti da quattro amazzoni in assetto di guerra e dal soldato che aveva guidati gli ambasciatori‍[7].

Venivano primi dieci o dodici ahpolos, ossia poeti erranti che cantavano le lodi di Geletè e che declamavano dei proverbi o le leggende relative alle gesta eroiche degli antichi monarchi, di Guagiah Truda fondatore delle dinastie, di Doherthy e di Bahadu; [197] poi seguivano una dozzina di ragazzi che agitavano delle frutta secche ripiene di sabbia e di sassolini, quindi dei suonatori di flauti di bambù che cavavano dai loro istrumenti delle note atrocemente strazianti, di dovron, specie di chitarre formate con mezze noci di cocco ricoperte con pelle di serpenti e finalmente veniva un negro gigantesco il quale picchiava furiosamente un ghedon enorme, specie di tamburo formato d’un pezzo di tronco d’albero scavato ed ornato di sculture di genere bizzarro.

Quell’orchestra fragorosa fece due volte il giro dell’apatam sempre preceduta dagli ahpolos che cantavano e danzavano come se fossero stati colti da un improvviso accesso d’alienazione mentale, poi si arrestò dinanzi ai due ambasciatori, raddoppiando il fracasso.

Il soldato s’avvicinò ad Alfredo, gli diede il tradizionale buon giorno, poi lo invitò, assieme ai compagni, a recarsi dal gran cabecero il quale desiderava vederlo prima di mandare dei corrieri a Geletè per informarlo dell’ambasciata.

— Andiamo, Antao, — disse il cacciatore. — Sangue freddo ed audacia e lascia in pace tutti i pianeti del cielo.

— Dirai che sono muto, — rispose il portoghese.

Si fecero condurre i loro cavalli, fecero aprire gli ombrelli, ma incaricarono uno dei due dahomeni di vegliare sulle loro casse, non fidandosi troppo dell’onestà molto dubbia della popolazione.

Saliti in sella, si misero in marcia preceduti dai poeti erranti e dalle amazzoni che gridavano a piena gola: ago!... ago!... (largo!... largo!...) e seguiti dai musicisti.... che si sfiatavano per dare un saggio della robustezza dei loro polmoni.

Attraversarono la piazza fra due fitte ali di popolo, il quale guardava con viva curiosità i due ambasciatori, ammirando soprattutto la ricchezza delle loro vesti e le bardature infioccate, e giunsero in breve dinanzi ad uno dei palazzi reali, alla cui porta, circondato da una compagnia di amazzoni, li attendeva Ghathing-Gan, gran cabecero della Città Santa e confidente di Geletè, riparato sotto un monumentale ombrello verde decorato d’un mostruoso coccodrillo.

[198]

Capitolo XXVII. Il cabecero Ghating-Gan

Ghating-Gan era un uomo sulla quarantina, di forme robuste, quasi atletiche, dalla fisonomia dura, arcigna, quasi feroce, ma anche astuta, con gli occhi piccoli, neri, penetranti‍[8].

Per la circostanza aveva indossato una specie d’ampio mantello di cotonina rossa, annodato alla spalla sinistra e che gli scendeva fino ai piedi e si era adorni i polsi di braccialetti d’oro e d’argento, mentre al collo si era appesa la grossa collana regalatagli da Alfredo.

Alla cintura di lana rossa portava quattro code di cavallo, distintivo di grande importanza nel Dahomey, e che solo il re può concedere ai suoi più fidati e più grandi personaggi del regno.

Vedendo gli ambasciatori mosse loro incontro, li salutò con molta grazia, giungendo dapprima le mani, poi avvicinandole al viso e finalmente allungandole sul petto; Alfredo ed Antao credettero bene d’imitarlo, guardandosi dallo stendergli la mano per non tradirsi.

Scambiato così il saluto, Ghating-Gan li invitò a seguirlo nel palazzo reale e li condusse in una vasta sala, certamente in quella del trono, decorata di grandi parasoli di tutti i colori e di tutte le specie, adorna di idoli strani rappresentanti mostri d’ogni forma e dinanzi ai quali erano state deposte delle offerte consistenti in bottiglie di liquore ed in collane di cauris. In un angolo vi era il trono di Geletè, un seggiolone enorme che un tempo doveva aver servito a qualche teatro europeo, ricco di fregi e di dorature e collocato su di un’alta piattaforma coperta di vecchi tappeti scoloriti.

Ghating-Gan invitò gli ambasciatori a sedersi su alcuni sgabelli [199] che erano allineati dinanzi alla piattaforma, poi fece servire loro una bottiglia di un certo liquore limpido e spumante che portava la marca dello champagne, ma che doveva essere invece abbominevole miscela di gin, di sidro e di vetriolo. Il gran cabecero però doveva trovarlo squisitissimo, poichè ne tracannò lui solo più di mezza bottiglia.

Bagnata la gola, Alfredo ebbe la parola ed espose, in lingua uegbè, lo scopo dell’ambasciata. Si trattava di proporre a Geletè, da parte dei capi del Borgu, una alleanza offensiva e difensiva contro i bellicosi Yoruba che devastavano incessantemente le frontiere dei due Stati con disastrose scorrerie, unitamente ad un trattato di commercio. Alfredo, che parlava come un vecchio diplomatico, asseriva che un simile trattato sarebbe stato d’immenso giovamento ai due Stati confinanti e che i Borgani avrebbero prestato man forte a Geletè anche contro le incessanti invasioni della razza bianca, marea pericolosa che poteva, col tempo, compromettere l’indipendenza del Dahomey.

Aggiungeva poi che era incaricato di portare doni di molto valore al re Geletè da parte dei più cospicui capi del Borgu ed altri doni pei grandi cabeceri, onde cooperassero alla buona riuscita dell’ambasciata.

Quand’ebbe terminato di esporgli lo scopo della sua missione, Ghating-Gan fece portare una bottiglia di ginepro, avendo l’abitudine gli africani di non cominciare le loro palabre, ossia conversazioni d’importanza, se prima non si sono ben bagnati l’ugola, poi disse:

— Ciò che chiedono i capi del Borgu è giusto e lo credo un buon affare anche pel nostro re, il quale conta più nemici che amici. Le genti del Dahomey sono fiere e non temono alcuno, ma sanno pure che sono fiere anche le popolazioni del Borgu e saranno liete di combattere insieme i Yoruba del Benin, tanto più che noi siamo già scarsi di prigionieri di guerra da sacrificare nelle feste dei costumi.

Gli antenati di Geletè diventano sempre più esigenti e chiedono più vittime e siamo ora costretti a sacrificare anche i nostri stessi sudditi per placare le loro ire. Già tre volte quest’anno la terra tremò, scuotendo perfino le tombe reali, e due volte il fulmine celeste è caduto sulle capanne di Abomey e ciò significa che i monarchi passati nell’altra vita, non sono soddisfatti.

[200]

I capi del Borgu possono quindi essere certi di poter concludere il trattato d’alleanza che propongono, ma i loro ambasciatori dovranno attendere la fine della festa dei costumi, non potendo il nostro re occuparsi per ora di un così importante affare. In questi giorni è occupato, coi sacerdoti, nei preparativi e nelle preghiere.

— Sia pure, — rispose prontamente Alfredo, — ma noi vorremmo venire presentati a S. M. Geletè prima che le grandi feste comincino, rimandando ben volentieri la conclusione del trattato a più tardi.

— Ah!... — esclamò Ghatin-Gan, sorridendo. — Voi siete curiosi di assistere alle nostre grandi feste!

— È vero, — disse Alfredo.

— Io credo che il nostro re avrà piacere di avervi al suo fianco.

— Lo farete avvertire del nostro arrivo a Kana?...

— Quest’oggi stesso gli manderò uno dei miei corrieri, onde farvi ottenere un recade che vi permetta di proseguire il cammino per la capitale.

— Dovremo attendere molto?...

— Il re non prende mai, lì per lì, alcuna decisione. Trattandosi di ricevere un’ambasciata, farà prima radunare i grandi del regno ed i principi di sangue reale per consigliarsi, quindi io credo che non potrete partire prima di otto giorni. In questo frattempo però sarete miei ospiti nel palazzo reale.

— Grazie, gran cabecero, — disse Alfredo, — ma noi preferiamo alloggiare sotto l’apatam. Io e mio fratello siamo assai amanti della caccia e sapendo che i dintorni di Kana sono ricchi di selvaggina, rimarremo sotto la tettoia onde poter alzarci a qualunque ora della notte, senza importunare le vostre genti.

— Fate come volete, ma non rifiuterete i miei viveri ed alcuni schiavi per servirvi.

— Accettiamo di cuore i viveri, ma per gli schiavi sono inutili avendo i nostri, i quali conoscono meglio le abitudini dei loro padroni. —

Ciò detto prese dalle mani di Urada un cofanetto d’acciaio cesellato e lo porse al gran cabecero, dicendo:

— È per S. M. Geletè e contiene i regali dei capi del Borgu.

— Ghating-Gan impegna la sua parola che saranno consegnati al re a nome dell’ambasciata, — rispose il cabecero.

[201]

Offrì ancora da bere, poi si alzò. Alfredo comprese che la palabra era terminata e si affrettò ad imitarlo. Scambiarono nuovamente il saluto, poi l’ambasciata uscì e fece ritorno all’apatam, sempre preceduta dalla banda musicale e da una folla di curiosi.

Appena entrati, le quattro amazzoni intimarono minacciosamente alla popolazione di allontanarsi, tale essendo l’ordine del gran cabecero, poi ricondussero l’orchestra ed i poeti nel palazzo reale.

— Auff!... — esclamò Antao, appena si trovarono soli. — Ero arcistucco di dover fare la parte del muto e se la durava ancora un po’, mi sfuggivano di bocca tutti i pianeti del firmamento.

— Per farci tradire, — disse Alfredo. — Guardati dal commettere simili imprudenze, in questo regno di barbari.

— Cosa vuoi?... I pianeti sono la mia passione.

— Sì, burlone.

— Ora però spero di poter mettere in opera la mia lingua.

— Parla finchè vuoi.

— Allora permettimi una domanda.

— Venti se vuoi.

— Perchè hai rifiutato l’ospitalità del gran cabecero?... Saremmo stati più comodi nel palazzo reale che sotto questa catapecchia.

— È vero, Antao, ma non avremmo potuto più ricevere il padre di Urada. Se l’avessimo fatto, il gran cabecero avrebbe potuto nutrire dei sospetti verso di noi.

— Hai ragione, Alfredo. Io sono sempre stato uno sventato, mentre tu eri nato per diventare un furbo diplomatico. Hai delle attitudini veramente meravigliose.

— Sviluppate col continuo contatto dei negri.

— Possibile che i negri siano diplomatici.

— E di gran lunga più astuti di quelli europei, Antao, te lo dico io. Toh!... Ecco delle provviste che giungono.

— È la colazione che c’invia il cabecero, — disse il portoghese. — Sia la benvenuta. —

Quattro schiavi preceduti da un’amazzone, s’avvicinavano all’apatam portando sul capo delle grandi ceste di vimini che sembravano molto pesanti.

Le deposero dinanzi alla capanna, poi s’allontanarono frettolosamente.

[202]

— Che lusso!... — esclamò Antao, che aveva fatto aprire i canestri. Oggi abbiamo anche del montone, del capretto e del tabacco. Lasceremo il canalu ai negri ma attaccheremo questa carne tenera e deliziosa che sembra arrostita a puntino. Cosa ne dici, Alfredo?...

— Dico che tu cominci a diventare un ghiottone, Antao, — rispose il cacciatore.

— Pensa, amico, che durante la nostra lunga marcia non abbiamo mangiato che del pesce secco e del biscotto.

— E la tromba d’elefante, ed i pappagalli, e le scimmie?...

Briccone! Il profumo di questo quarto di montone arrostito ti atrofizza la memoria.

— Può essere, — rispose il portoghese con aria grave, accomodandosi davanti ad una cesta. — Orsù attacchiamo!... —

Mentre i due dahomeni assalivano ingordamente il canalu, i due bianchi e Urada misero a sacco le ceste, facendo onore al montone, alle atrapas, ed alle frutta che inaffiarono con alcuni sorsi di ginepro.

Durante la giornata i due ambasciatori, o meglio Alfredo poichè Antao doveva fingersi muto dinanzi ai dahomeni, in causa dei suoi pianeti diventati eccessivamente pericolosi in quel regno, ricevette la visita di parecchi dignitari, di cabeceri e di moce ossia di funzionari del re, i quali non miravano altro che a spillare cortesemente regali ai supposti principi del Borgu e possibilmente a vuotare le loro casse. Portavano in regalo qualche bottiglia di ginepro o di rhum imbevibile o qualche capretto, ma se ne tornavano con dei bei fazzoletti di seta rossa, o con delle cartucciere, o con dei braccialetti di rame dorato.

Fortunatamente le casse di Alfredo contenevano una grande quantità di quegli oggetti, ma doveva pensare anche ai capi, ai cabeceri, ai moce, ai corrieri reali di Abomey e più d’uno lo rimandava colla sua bottiglia, fingendo di non comprenderlo o facendo dire dai suoi uomini che dormiva o che stava pranzando.

Alla mezzanotte il padre di Urada, come aveva promesso, fece ritorno all’apatam. Recava la notizia che il corriere del cabecero era partito per la capitale, onde avvertire Geletè dell’arrivo dell’ambasciata.

— Sono contento di questa notizia ma sono anche inquieto, — disse Alfredo.

[203]

— E per quale motivo? — chiese Antao, stupito.

— Sono parecchie ore che un timore mi tormenta.

— Quale?...

— Che Kalani sospetti dell’ambasciata.

— È impossibile, Alfredo.

— Egli mi attende ad Abomey. Sa che io non sono uomo da lasciargli nelle mani mio fratello.

— Diavolo!... — mormorò il portoghese. — Ciò può essere vero, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro. Penso però che siamo così bene dipinti, che nessuno potrebbe sospettare in noi degli europei. Tu poi, sei assolutamente irriconoscibile.

— Padrone, — disse Urada, — Vuoi un consiglio?...

— Parla, ragazza, — disse Alfredo.

— Manda mio padre ad Abomey ad esplorare il terreno e ad informarsi di ciò che si dice su questa ambasciata.

— L’idea è bellissima, Urada, ma può tuo padre lasciare Kana?

— È libero e può andare dove gli piace senza chiedere il permesso a chicchessia.

— Io gli darò uno dei nostri cavalli e dell’oro. Può esserci molto utile nella capitale, farci avvertire se Kalani ha dei sospetti su di noi e darmi anche notizie di mio fratello.

— E preparare ogni cosa per poterlo rapire, — aggiunse Urada. — Mio padre ha conservato delle amicizie in Abomey, può avvicinare dei dignitari del re e può quindi avere delle informazioni che possono esserti preziose.

— Accetterà il difficile incarico?...

— Mio padre farà tutto quello che desiderano i salvatori di sua figlia.

— Grazie, brava ragazza. Non ci eravamo ingannati sulla tua affezione. —

Urada espose al vecchio negro il desiderio degli uomini bianchi.

— Domani all’alba, parto, — rispose egli. — Gli uomini bianchi possono contare interamente su di me. —

Alfredo, lieto di quella risposta, fece bardare uno dei cavalli, consegnò al negro un gruzzolo d’oro che poteva scambiare in kauri ed una rivoltella con cinquanta cariche, arma che poteva essergli di grande aiuto nella sua pericolosa missione.

[204]

Alle due del mattino il negro, dopo d’aver abbracciata Urada e stretta la mano ai due bianchi e d’aver promesso di far giungere ben presto sue notizie, lasciava l’apatam per recarsi nella capitale del Dahomey.

Capitolo XXVIII. Il ritorno di Gamani

Tre giorni erano trascorsi dalla partenza del corriere di Ghating-Gan e del padre di Urada, senza che più alcuna notizia fosse giunta ai due europei. Pareva che Geletè fosse troppo occupato nei preparativi della festa dei costumi per pensare all’ambasciata dei capi del Borgu e che il vecchio negro avesse trovato o dei grandi ostacoli, o nessun messaggiero da fidarsi per mandare sue nuove.

Alfredo, le cui inquietudini aumentavano, non sapendo a che cosa attribuire quei ritardi e temendo sempre una sorpresa da parte dell’astuto Kalani, aveva proposto al cabecero di mandare degli altri corrieri ad Abomey per indurre Geletè a decidersi a ricevere l’ambasciata, ma senza alcun risultato.

Non era prudente irritare il feroce monarca, il quale avrebbe potuto prendersela col cabecero e far tagliare, senza tante cerimonie, la testa ai messaggeri importuni. Era necessario attendere il suo beneplacito ed armarsi di pazienza.

La sera del quarto giorno però, quando Alfredo ed Antao, dopo d’aver cenato, si preparavano a coricarsi, videro un negro attraversare rapidamente la piazza, come se avesse temuto di esser visto dalle amazzoni che stavano di guardia dinanzi ai palazzi reali, e precipitarsi sotto l’apatam.

Temendo che fosse qualche importuno, si erano alzati per farlo allontanare, quando il negro si gettò impetuosamente dinanzi ad Alfredo, dicendo con voce soffocata:

— Oh mio padrone!... —

Il cacciatore, stupito, lo aveva prontamente afferrato per guardarlo in viso. Un grido, a malapena frenato, gli sfuggì:

— Gamani!... Tu!... Vivo ancora!...

[205]

— Sì, padrone, — rispose il negro, ridendo. — Il tuo fedele Gamani, che tu credevi morto fra le foreste dell’Ouzmè, la notte che fu incendiata la tua fattoria.

— Lave dell’Etna!... Gamani!... Ma chi ti ha mandato qui?... Come hai saputo che noi ci troviamo a Kana?... Parla, spicciati!...

— Morte di Urano, Nettuno e di tutti i pianeti conosciuti ed ignoti!... — esclamò Antao. — Gamani!... Sei vivo o sei un’ombra?...

— Sono in carne ed ossa, padron Antao, — rispose il negro.

— Ma parla!... — esclamò Alfredo. — Non vedi che io muoio d’impazienza?... Chi ti ha mandato qui?...

— Un vecchio negro, padre d’una amazzone che è con voi.

— Il padre di Urada!... — esclamarono Antao ed il cacciatore.

— Sì, sua figlia si chiama Urada.

— Ma eri ad Abomey?... — chiese Alfredo.

— Sì, padrone.

— Schiavo di Kalani forse?...

— Sì, ma addetto al tempio dei serpenti e dei feticci.

— E di mio fratello, cos’è accaduto?... Parla, parla Gamani!

— È vivo e porto i suoi saluti a te ed al padrone Antao.

— Ah!... bravo piccino!... — esclamò il portoghese, che era vivamente commosso. — Si è ancora ricordato di me!...

— Siedi Gamani, — disse Alfredo, spingendo innanzi una cassa. — Tu mi sembri assai stanco.

— È vero, padrone. Ho percorso le tre leghe che separano Kana dalla capitale, quasi tutte d’un fiato, per tema di venire ripreso e sono sfinito. —

Antao sturò una bottiglia di ginepro, riempì una tazza e gliela porse, dicendogli:

— Bevi questo, poi parlerai. —

Il negro tracannò d’un colpo solo il forte liquore, poi riprese:

— Ho molte cose da raccontare. Sappi innanzi a tutto, padrone, che tuo fratello sta bene e che non corre alcun pericolo, essendo sotto la protezione del re e dei sacerdoti. Egli è diventato una specie di feticcio che lo mette al coperto dalle vendette di Kalani.

— Sa ormai che noi siamo qui?...

[206]

— Sì, padrone e vi aspetta presto ad Abomey. Il padroncino è ben trattato, ma sospira il momento di abbandonare la sua prigione e di poterti abbracciare.

— Povero Bruno, — mormorò Alfredo, con commozione. — Quali terribili momenti avrà passati, nelle mani di quei barbari.

— E Kalani? — chiese Antao.

— È sempre potente e gode la fiducia di Geletè e di Behanzin, il futuro re del Dahomey. Si può dire che tutti tremano dinanzi a lui.

— Si vede che nel Dahomey i bricconi fanno fortuna, — disse Antao. — Se i miei affari andranno male, diverrò un furfante e verrò qui.

— Ma perchè Kalani ti ha risparmiato? — chiese Alfredo.

— Non lo so, padrone, ma forse per dare un compagno a tuo fratello. Non è il padroncino che Kalani odia, ma te e lo ha rapito solamente per poter averti nelle mani.

— Lo avevo sospettato. Quel miserabile era certo che io sarei venuto nel Dahomey.

— Sì ed aveva mandato numerosi drappelli di soldati verso le frontiere meridionali, per farti sorprendere ed imprigionare.

— Ed ora, spera ancora di vedermi giungere?...

— Lo teme sempre. Sente per istinto che un giorno o l’altro tu gli piomberai addosso e vive in continue inquietudini. Sa che tu non sei un uomo da lasciargli nelle mani il padroncino.

— I suoi soldati, la notte che ci tesero un agguato sulle rive dell’Ouzmè, ti sorpresero sul sicomoro?...

— Sì, padrone. Avevano circondato l’albero in venti o trenta, minacciando di fucilarmi come fossi un pappagallo. Ne ammazzai due, ma poi dovetti discendere per non farmi fracassare le ossa.

Fui legato e condotto verso la laguna, da dove assistetti, impotente, alla distruzione della tua fattoria ed al rapimento di tuo fratello.

— Ha fatto altri prigionieri Kalani?...

— Nessun altro.

— Ma come hai conosciuto il padre di Urada?...

— Avendo saputo che io ero un servo di tuo fratello, dopo d’aver ottenuto il permesso di entrare nella casa dei feticci, ieri venne a trovarmi e mi parlò di voi. Dapprima non lo credetti, anzi sospettai un tranello, ma ben presto mi persuasi della verità delle sue parole e tramammo la mia fuga.

[207]

Non essendo io strettamente sorvegliato come tuo fratello, potei uscire dalla capanna dei feticci e abbandonare la città prima che i sacerdoti se ne fossero accorti.

— E quali notizie rechi da parte del vecchio negro?

— Buone per noi. Domani mattina giungerà il recade del re ed una scorta per condurvi ad Abomey. Sembra che a Geletè prema di farvi assistere alle feste dei costumi e che accetti di buon grado le vostre proposte.

— Cioè quelle dei capi del Borgu, — disse Antao, ridendo.

— Ancora poche domande, poi ti lascierò riposare, — disse Alfredo.

Poi incrociando le braccia e guardandolo fisso, gli chiese con voce sibilante:

— Credi che io lo possa uccidere?...

— Kalani?... — chiese il negro.

— Sì, lui!...

— Bada, padrone, Kalani è potente quasi quanto Geletè.

— Ti dico che non lascierò il Dahomey se non l’avrò ucciso.

— Sarà una cosa difficile ma non impossibile.

— Potrò adunque vendicarmi di tutto il male che mi ha fatto e liberare la terra da quel mostro sanguinario?

— Sì, ma bisognerebbe approfittare della festa dei costumi, quando tutti sono ubriachi.

— Me lo ha detto anche il padre di Urada.

— So dove potremo sorprenderlo.

— E tu mi condurrai colà?...

— Sì, padrone; anch’io odio Kalani e sarei ben contento di ucciderlo, come il popolo di Abomey sarebbe lieto di vederlo morto. Egli è l’anima dannata di Geletè e di Behanzin.

— Sta bene: lo ucciderò, — disse Alfredo con accento terribile. — Ora puoi riposarti. —

Gamani, che non si reggeva quasi più, sfinito dalla lunga e rapidissima marcia, s’affrettò ad approfittare del permesso sdraiandosi su di una cassa.

Alfredo ed Antao fecero il giro dell’apatam per accertarsi che la piazza era deserta, poi s’accomodarono anche loro fra le casse, vicini ad Urada.

L’indomani, ai primi albori, venivano svegliati dalla banda di Ghating-Gan, la quale si dirigeva verso la capanna facendo un fracasso tale da svegliare anche un sordo.

[208]

Questa volta però era preceduta non da quattro sole amazzoni, ma da una mezza compagnia ed era seguita dal cabecero, da un inviato reale in alta tenuta, vestito di rosso e armato d’una spada coll’impugnatura d’oro e adorna del sigillo reale e da otto vigorosi negri i quali portavano due comode amache, riparate superiormente da una piccola tenda di cotone azzurro ed infioccata.

Ghating-Gan salutò, con maggiore deferenza del solito, i due ambasciatori, poi disse:

— È giunto un gran moce col recade. Siete attesi ad Abomey, dove verrete ricevuti cogli onori che spettano alla vostra posizione di ambasciatori d’una nazione potente e guerresca. —

Il gran moce od inviato del re si fece allora innanzi, s’inginocchiò posando la fronte al suolo, dovendo parlare in nome del suo potente signore, poi disse:

— Do ai due ambasciatori il buon giorno in nome di S. M. Geletè e reco l’ordine di condurli tosto ad Abomey: attendo. —

Alfredo, per mezzo di Urada che serviva d’interprete, fece rispondere che ringraziava il grande monarca della decisione di ricevere l’ambasciata dei capi del Borgu, prima che avesse luogo la festa dei costumi, ma che prima di partire chiedeva qualche ora di tempo per preparare le sue casse, pregando il gran moce di attenderlo al palazzo reale.

— Sono agli ordini degli ambasciatori del Borgu, — rispose il moce.

Ad un suo cenno le amazzoni, la banda musicale ed il seguito abbandonarono l’apatam per attendere l’ambasciata dinanzi al palazzo reale.

— Ma perchè questo ritardo?... — chiese Antao ad Alfredo quando furono soli.

— Dimentichi Gamani?... — rispose il cacciatore. — Se lo conduciamo con noi sarebbe finita per l’ambasciata, poichè Kalani non tarderebbe a riconoscerlo.

— Cosa vuoi farne di lui?...

— Trasformarlo in un magnifico borgano. Gamani ci è necessario, conoscendo ormai le abitudini di Kalani e la capanna dei feticci che serve di prigione al mio piccolo Bruno. Affrettiamoci, poi partiremo. —

 
— .... Il padroncino è ben trattato, ma sospira il momento di abbandonare la sua prigione.... (Pag. 206).

Mentre i due dahomeni cominciavano a caricare le casse sui cavalli, Alfredo prese i suoi vasetti di colore ed in pochi minuti [209] depose sulla pelle rossastra del suo servo un bello strato di nero intenso, poi appiccicò sul viso del fedele servo una lunga barba nera.

Attese che la tinta fosse bene asciutta, poi ordinò a Gamani d’indossare un paio di calzoni rossi fiammanti, di stringersi le reni con una larga fascia di seta gialla e di gettarsi sulle spalle un grande mantello bianco infioccato e adorno di rabeschi rossi. Un ampio turbante che gli nascondeva mezzo viso, bastò per completare la trasformazione.

— Credo che nessuno più lo riconoscerà, — disse ad Antao, guardando con viva soddisfazione il negro.

— Stavo chiedendomi da dove era sbucato quest’uomo, — rispose il portoghese. — È assolutamente irriconoscibile e potrà avvicinare Kalani senza tema di venire riconosciuto. Ma tu sei un vero artista.

— Se non lo fossi non sarei italiano, — rispose Alfredo. — Siete pronti?...

— È tutto caricato, — dissero Urada ed i due schiavi.

— Partiamo. —

Alfredo ed Antao salirono a cavallo, la giovane amazzone e Gamani aprirono i due grandi ombrelli a smaglianti colori e la piccola carovana si diresse verso il palazzo reale, destando, coi suoi costumi pittoreschi, l’ammirazione della folla che gremiva la piazza.

L’orchestra diede fiato ai suoi istrumenti con un crescendo spaventoso, mentre le amazzoni, schierate su due file, presentavano le armi all’ambasciata, con un insieme ammirabile, facendo poscia due scariche in aria.

Il gran moce pregò gli ambasciatori di scendere dai loro cavalli e di prendere posto nelle due amache inviate a loro dal re onde non si affaticassero durante il viaggio, poi diede il segnale della partenza.

Il drappello, scortato da otto amazzoni e seguito da Urada, Gamani e dai due schiavi che conducevano i cavalli, si pose in marcia fra le grida della popolazione ed il fracasso dell’orchestra.

Attraversata la città fra due fitte ali di popolo plaudente, prese la via reale di settentrione, la quale corre, quasi diritta, fino alla capitale del regno.

Alfredo ed Antao, comodamente sdraiati nelle loro amache [210] che i portatori sostenevano, avevano accese le loro sigarette e fumavano beatamente scambiando qualche parola con Urada o con Gamani che si erano collocati ai loro fianchi.

La via reale era davvero bellissima, larga tanto da permettere il passaggio a otto cavalli di fronte, ma composta d’una specie di minerale granuloso e rossastro che doveva stancare straordinariamente i portatori al pari dei terreni sabbiosi o ghiaiosi.

Una doppia fila di splendidi palmizii la ombreggiava, mentre al di là si estendevano immense pianure coperte da un’erba alta assai e fitta e da gruppi d’alberi, per lo più palme d’elais. Qualche volta però si vedeva giganteggiare anche la mole imponente d’un baobab.

Il drappello procedeva rapido, malgrado la pessima qualità del terreno. I portatori, uomini robustissimi ed abituati alle lunghe marcie, si avanzavano quasi correndo, scambiandosi di mezz’ora in mezz’ora.

Ben presto la regione, che dopo Kana era ridiventata deserta, cominciò ad apparire popolata. Sparsi sui pendii di quei grandi scaglioni o sugli altipiani, si vedevano popolosi villaggi e di quando in quando qualche forte costruito con grossi terrapieni e con alte e robuste palizzate. Probabilmente quei recinti fortificati dovevano guardare le vie che dall’est e dall’ovest mettevano capo alla capitale.

I portatori, giunti sull’ultimo altipiano, dopo una faticosa salita durata quasi tre ore, segnalarono Abomey, i cui bastioni di terra rossastra si disegnavano nettamente, a meno di due miglia. Urada, che si trovava presso all’amaca d’Alfredo, mostrò a questi una costruzione che doveva essere gigantesca e che s’alzava in mezzo alle cinte bastionate.

— Cos’è, — chiese il cacciatore, con una certa emozione.

— Il palazzo del re, — rispose Urada.

— Credevo che fosse quello dell’uomo che odio.

— Non si troverà lontano, padrone.

— Credi Urada, che quell’uomo si troverà presente, quando verremo ricevuti dal re?...

— Sì, purchè si trovi ancora in città.

— Temi che non vi sia?...

— L’alta sua carica lo avrà forse costretto ad occuparsi dei prigionieri destinati alla festa dei costumi, e può aver lasciata momentaneamente la capitale per radunarli.

[211]

— Sarei ben contento, per ora, di non trovarmi dinanzi a lui. L’idea che possa riconoscermi, malgrado io sia pronto a tutto, mi fa gelare il sangue nelle vene.

— Sei irriconoscibile padrone e poi sono alcuni anni che non ti ha più veduto.

— È vero, Urada. —

I portatori ed il gran moce acceleravano allora il passo per giungere in città prima del pasto del mezzodì. La via reale era diventata piana, essendo aperta sull’altipiano, in mezzo ad una immensa prateria disseminata di gruppi considerevoli di capanne e di capannuccie, le quali formavano i sobborghi della capitale.

Di tratto in tratto s’incontravano bande di soldati armati di fucili e di coltellacci, che traevano in città qualche drappello di schiavi destinati probabilmente alla festa dei costumi. Tutti quei disgraziati tenevano in bocca il tormentoso bavaglio di legno ed avevano gli occhi schizzanti dalle orbite. Certamente non ignoravano a quale terribile sorte erano stati votati.

Di passo in passo che Antao ed Alfredo s’avvicinavano alla capitale del temuto Geletè, le traccie della sue orrende carneficina diventavano più numerose. Pareva che i dintorni della città fossero diventati un immenso cimitero, messo sossopra da un esercito di iene.

Sotto i più grandi alberi si vedevano a dozzine teschi di morti, poi stinchi, tibie e costole umane, poi scheletri interi non ancora ben ripuliti dal becco degli uccelli da preda e che esalavano nauseabondi odori. Erano gli avanzi dei poveri prigionieri sacrificati nelle feste e poi colà trasportati a pasto delle belve feroci e degli avvoltoi.

Qualche scheletro si vedeva perfino inchiodato al tronco degli alberi ed Alfredo ed Antao ne videro uno, di alta statura, crocifisso sul tronco d’una palma con tre lunghe zagaglie e che teneva legato ai polsi un ombrello di cotone, simile a quello che adoperavano i missionari della costa, ed un paio di scarpe.

Probabilmente quel martire era stato sorpreso dalle guardie di Geletè mentre cercava di convertire alcuni abitanti e trattato in quel barbaro modo per ordine dello stesso re, facendogli appendere, per amara derisione, le scarpe, distintivo degli uomini bianchi e dei liberi negri della Repubblica di Liberia.

A duecento passi dalla capitale il drappello fu incontrato da un gran moce e da due cabeceri, scortati da due dozzine di [212] amazzoni in pieno assetto di guerra. Venivano a salutare gli ambasciatori a nome di Geletè e per guidarli nell’abitazione a loro assegnata.

Cinque minuti dopo facevano la loro entrata nella capitale del sanguinario monarca.

Capitolo XXIX. Nella tana del leone

Abomey era la città più popolosa del Dahomey ed anche la più fortificata, essendo la sede dei monarchi e delle principali forze dello stato.

Un grande bastione di terra battuta, capace di far fronte a qualsiasi assalto di soldati negri, ma non di opporre una lunga resistenza ad una batteria di cannoni europei, la circondava. Alcune breccie, aperte sopra dei ponti gettati attraverso il fossato, servivano di porte.

La città nulla però aveva d’attraente. Era un ammasso di tuguri dalle pareti di terra e coi tetti di stoppia, divise in parecchi salam, ossia quartieri con vie strette, sudicie, puzzolenti, dove marcivano carogne d’animali ed anche gran numero di corpi umani dopo le feste delle grandi usanze o dei costumi.

La sola cosa notevole era la grande piazza del Mercato, un quadrilatero immenso in gran parte occupato dalla reggia formata da un palazzo di dimensioni enormi, la cui facciata misurava oltre seicento metri, tutto traforato da un numero immenso di finestre senza imposte e dall’aspetto minaccioso. Due vaste terrazze che servivano pei sacrifici umani, guardate da parecchi pezzi d’artiglieria, lo fiancheggiavano, mentre un alto e solido muro lo proteggeva ai lati e nella parte posteriore.

Due sole porte, difese da enormi battenti in legno ed in ferro e guardate giorno e notte da una compagnia di amazzoni, permettevano l’accesso.

Pure su quell’ampia piazza sorgeva il tempio dedicato ai serpenti e quello dei feticci, contenente questo un gran numero di divinità le une più barocche delle altre, mostri informi di terra [213] cotta dorata, o di legno malamente scolpito, o di avorio, o di rame.

La sua popolazione, comprese le tremila amazzoni che formavano la guardia reale, ordinariamente non superava le ventimila anime, ma durante le feste delle grandi usanze si triplicava, accorrendo curiosi da tutte le vicine borgate, quantunque un non piccolo numero di quei poveri sudditi del barbaro re più non dovesse tornare alle natìe capanne.

Alfredo ed Antao a cavallo, fiancheggiati dai loro porta-ombrelli e preceduti dal gran moce, dai cabeceri e dalla scorta armata e seguìti dai loro uomini, attraversarono la capitale destando fra la popolazione la più viva curiosità e furono condotti in una grande capanna circolare, colle pareti di mattoni cotti al sole ed il tetto di foglie di palma, situata quasi di fronte al palazzo reale.

Per ordine del re vi erano state portate delle sedie, due brande, un tavolo, dei viveri, delle legna, del vasellame e mandati quattro schiavi per servire i due ambasciatori.

Il gran moce osservò se nulla mancava, ordinò agli schiavi di tenersi agli ordini dei due grandi personaggi ospiti del re, minacciando di far loro troncare il capo alla più piccola disobbedienza, poi salutati Alfredo ed Antao, fece cenno di volersi ritirare per recarsi ad informare il suo potente signore.

Alfredo con un gesto lo trattenne, e da Urada gli fece chiedere quando gli ambasciatori del Borgu avrebbero potuto vedere il re.

— S. M. è troppo occupato per ora per trattare cose tanto importanti, — rispose il gran moce, — ma credo che si degnerà ricevere ben presto i saluti dei guerrieri del Borgu. Dopo le grandi feste dei costumi si potrà discutere il trattato d’alleanza.

— Sta bene, — rispose Alfredo. — I rappresentanti del Borgu attenderanno pazientemente le decisioni del potente monarca del Dahomey, intanto manderanno a lui i regali dei principi borgani. —

Ciò detto mise nelle mani del gran moce e dei due cabeceri tre cofanetti di metallo lavorato, che aveva fatto estrarre dalle sue casse.

I tre dignitari li ricevettero con una specie di venerazione e s’affrettarono a lasciare la capanna, ringraziando i due ambasciatori.

[214]

— Morte di Giove, Marte, Venere, Sat....

— Basta, — disse Alfredo, vedendo che il portoghese stava per continuare. — Mi hai detto che erano proprio morti pel Dahomey.

— È vero, — disse Antao, ridendo, — ma non ne potevo più. Pensa che sono muto dalle cinque di stamane e che la mia lingua minacciava di atrofizzarsi per sempre, se il mio supplizio continuava. Il diavolo si porti gli ambasciatori, il Borgu, i moci, i cabeceri ed anche quell’animalaccio di Geletè!... Tutte queste cerimonie mi fanno venire l’emicrania e ti confesso che sarei ben più felice di trovarmi ancora sulle rive dell’Ouzmè, a cacciare gli ippopotami. Almeno là avrei potuto far crepare tutti i pianeti mille volte al giorno, a mio piacimento.

— Sii paziente per un po’ di giorni ancora, mio povero amico, — rispose Alfredo. — Ormai il più è fatto e in breve rivedremo ancora le rive dell’Ouzmè.

— Spero che quei ciarlatani dalle code di cavallo ci lascieranno in pace qualche giorno.

— Sono troppo occupati nelle loro feste, per badare a noi per ora.

— Ma a quell’antropofago di Geletè, cos’hai mandato?...

— Delle collane d’oro, dei braccialetti, degli anelli ed una corona da re d’argento dorato. Bisogna essere un po’ generosi con Geletè.

— Purchè non paghi la tua generosità tagliando il collo a noi?... Quel furfante sarebbe capace, ma.... che questi schiavi comprendano ciò che diciamo?...

— Non aver questo timore, Antao. Puoi parlare a tuo bell’agio, poichè non comprendono il portoghese e tanto meno l’italiano.

— Sarei più contento che tornassero da Geletè!

— Se li rimandassimo, il re sarebbe capace di farli decapitare.

— Padrone, — disse in quel momento Urada, avvicinandosi ad Alfredo. — Ho veduto mio padre passeggiare dinanzi al palazzo reale.

— Fallo venire, — disse Antao.

— No, — rispose Alfredo. — Il vecchio è prudente e aspetterà che tutti questi curiosi che ci spiano si siano allontanati, per venire qui.

— Cacciamoli via, Alfredo. Giacchè Geletè ha messo a nostra disposizione i suoi schiavi, facciamoli un po’ lavorare.

[215]

— L’idea non è cattiva, Antao. —

Urada avvertì gli schiavi del desiderio dei loro nuovi padroni. Non aveva ancora terminato di parlare che i quattro negri, armatisi rapidamente di canne lunghe e flessibili, si scagliarono contro la folla urlando a squarciagola e bastonando senza misericordia.

Bastarono pochi istanti perchè quei curiosi si dileguassero in tutte le direzioni come un branco di cervi spaventati, anzi Antao ed Alfredo dovettero intervenire per moderare l’eccessivo zelo dei quattro schiavi, i quali minacciavano di accoppare due o tre disgraziati che erano stati travolti dai fuggiaschi.

— Calma, bollenti diavoli, — disse Antao. — Sta bene che percuotiate in nome del re, ma non vogliamo che storpiate nessuno. Morte di Marte!... Che gragnuola e che fuga!...

— Ma è stata una gragnuola provvidenziale, — disse Alfredo. — Ecco il padre di Urada che si avvicina alla nostra dimora.

— Facciamo rientrare i negri o lo accopperanno, Alfredo. —

Il vecchio dahomeno, fingendo di guardare ora il palazzo reale, ora la vasta piazza ed ora le capanne come un tranquillo curioso, s’avvicinava lentamente alla dimora degli ambasciatori.

Dopo d’aver girato e rigirato per dieci minuti, sempre più avvicinandosi, passò dietro la grande capanna e guizzò celeremente entro la porta, senza quasi essere stato veduto dai curiosi che si tenevano sugli angoli delle vie.

— Finalmente! — esclamò Alfredo, prendendolo per una mano e conducendolo entro la dimora.

Il vecchio negro salutò i due bianchi con un amabile sorriso, abbracciò Urada, poi accomodatosi su di una cassa, accennò a voler parlare. L’amazzone gli si sedette accanto per tradurre le sue parole.

— Come già avrete saputo, non ho perduto il mio tempo, — diss’egli, guardando Gamani. — Quel vostro negro vi avrà già detto che io ho visitato il tempio dei serpenti, dove si trova prigioniero il fanciullo che cercate.

— Sì, lo sappiamo, — rispose Alfredo. — L’hai riveduto mio fratello?

— Sì, stamane. Volevo bene imprimermi nel cervello la topografia del tempio, per poter agire con sicurezza quando noi tenteremo il colpo.

— Sta bene il fanciullo?...

[216]

— Gode ottima salute e vi aspetta.

— Ah!... Mio povero Bruno!... — esclamò Alfredo, con un sospiro. — Come gli sembreranno lunghe le ultime ore della sua prigionìa. Credete possibile la sua liberazione?...

— Sì....

— E troverò colà anche Kalani?...

— So che qualche volta dorme nel recinto sacro, ma non sempre però.

— Si trova in città ora?

— È tornato quest’oggi, dopo d’aver raccolti gli schiavi destinati alla festa di domani.

— Di domani hai detto?

— Sì, Geletè ha paura ad indugiare. Anche ieri notte la terra ha tremato e ciò indica che i suoi avi sono malcontenti di lui e che reclamano nuove offerte di vittime umane. Questa sera si prepareranno le grandi piattaforme pel getto delle ceste.

— Canaglie, — brontolò Antao.

— Ma dove potrò assalire Kalani?... — chiese Alfredo.

— Ti consiglierei di sorprenderlo a casa sua. Domani sera tutti saranno ubriachi, anche le sue guardie e potremo introdurci nella sua abitazione con maggior facilità e ucciderlo.

— È lontana la casa di Kalani?...

— È situata nel salam vicino.

— Allora è necessario che tu non ci abbandoni più per poterci guidare.

— Rimarrò qui e vi attenderò.

— Padrone, — disse in quel momento Gamani, che vegliava presso la porta della capanna. — Un gran moce, scortato da un drappello d’amazzoni, si dirige a questa volta.

— Cosa vorrà il re da noi?... — chiese Alfredo, aggrottando la fronte.

— Vi manderà l’invito per le feste di domani, — disse il vecchio negro.

Il gran moce, giunto dinanzi alla capanna, ordinò alle amazzoni di salutare militarmente i due ambasciatori che si erano affrettati ad uscire, poi disse:

— In nome di S. M. Geletè e del principe Behanzin-Aidjeri, invito gli ambasciatori della potente nazione del Borgu alla festa dei grandi costumi che avrà luogo domani, dopo i sacrifici notturni. I principi del Borgu avranno un posto d’onore.

[217]

— Grazie, — rispose asciuttamente Alfredo, mentre Antao, dopo udita la traduzione, aggiungeva:

— Che il diavolo impicchi quell’antropofago di Geletè e tutti i suoi abominevoli satelliti, per tutti i pianeti del cielo! Se qualcuno vi piombasse sul cranio, sarebbe un gran bravo pianeta!... —

Capitolo XXX. Le stragi della «festa dei costumi»

Quella notte i due europei ed i loro uomini, non furono capaci di chiudere gli occhi un solo momento.

Bande di soldati giungevano ad ogni istante sulla vasta piazza, spingendosi innanzi, fra grida, minaccie e bastonate gli schiavi destinati ai sacrifici orrendi dell’indomani e facendo salve a polvere per annunciare agli spiriti irritati dei monarchi, che Geletè si preparava a mantenere la promessa.

Dietro ai soldati venivano turbe di negri accorsi da tutti i vicini villaggi, per prendere parte alla distribuzione di vesti e di liquori che suole fare la corte reale in quelle atroci circostanze.

Quei negri chiassosi, già mezzi ebbri di birra di sorgo, si accalcavano dinanzi alle due enormi piattaforme che sorgevano ai due lati della porta principale del palazzo del re, onde essere i primi a decapitare le sciagurate vittime che dovevano essere gettate sulla piazza.

Prima della mezzanotte fra soldati, amazzoni e abitanti vi erano almeno ventimila persone stipate sulla piazza, in attesa dello spuntare del sole, momento indicato pel principio delle esecuzioni pubbliche.

Diciamo pubbliche, poichè nel palazzo reale dovevano essere già cominciate quelle private che si fanno ordinariamente di notte. Infatti, fra tutti quei clamori, dalle numerose finestre dell’enorme palazzo, di quando in quando uscivano delle urla acute, strazianti, che facevano fremere di sdegno Alfredo e andare in furia l’ottimo portoghese, il quale si sfogava distribuendo legnate all’impazzata ai negri che si pigiavano contro le pareti della capanna.

[218]

— Stupidi!... — gridava il brav’uomo, dimenticandosi di dover fingersi muto. — Scannano i vostri fratelli e voi applaudite!... Meritereste la forca degli schiavi, canaglie!... —

Fortunatamente la sua voce veniva coperta da quei clamori sempre più assordanti e ben pochi facevano caso a lui. Tutt’al più si tiravano da una parte guardando, con stupore, quell’indemoniato che picchiava con un vigore non comune e con un’abbondanza straordinaria.

Alfredo, suo malgrado, dovette intervenire per frenare il bollente amico, temendo che nei dintorni della capanna si aggirasse qualche spia del re incaricata di sorvegliare il contegno degli ambasciatori.

Quando l’alba spuntò, la vasta piazza era completamente stipata. Una moltitudine di braccia armate di coltellacci i quali dovevano servire per decapitare le povere vittime della superstizione, si agitava burrascosamente.

Quei negri sanguinari chiedevano, con urla formidabili, con scoppi di veri ruggiti, il principio delle esecuzioni.

— Morte di tutti i pianeti!... — esclamò Antao, che dall’alto d’una cassa, spingeva gli sguardi su quelle masse tumultuanti. — Ma questi non sono esseri umani, sono dei leoni in furore assetati di sangue!... Ci vorrebbe qui il mio amico Conshelloz con la sua batteria di cannoni per mitragliare a dovere questi negracci. Ma dov’è quel gaglioffo di Geletè, il gran beccaio ed i suoi aiutanti?...

— Comparirà presto, — rispose Alfredo che si teneva al suo fianco. — Vedo che le amazzoni si sono disposte in forma d’immenso triangolo dinanzi al palazzo e ciò indica che Geletè sta per venire.

— E noi, rimarremo qui?...

— Verranno ad offrirci un posto d’onore.

— Io lo rifiuterò. Non posso assistere tranquillo a questi massacri.

— Ti guarderai bene dal rifiutare un invito del re, Antao. Una risposta negativa o scortese, equivarrebbe alla perdita della nostra vita.

— Siamo ambasciatori.

— Ma nelle mani del più feroce e del meno scrupoloso dei monarchi africani. Guarda!...

— Cosa vedi?...

[219]

— Un drappello d’amazzoni guidato da un corriere del re, che si avanza verso la nostra capanna.

— Vengono a prenderci?

— Sì, Antao.

— E dovremo accettare l’invito!

— È necessario, Antao, — rispose Alfredo, con voce grave.

— E Kalani?...

— Spero che non ci riconoscerà.

— Lo troveremo presso Geletè?...

— Lo temo. Hai le pistole?.

— Le ho nascoste sotto la giacca.

— Sii pronto a tutto: stiamo per giuocare una carta terribile.

— Morte di Nettuno!...

— Sii calmo, amico.

— Lo sarò, te lo prometto, Alfredo.

— Te lo domando pel mio Bruno, — disse il cacciatore, con voce commossa.

Il portoghese gli prese la destra e gliela strinse in silenzio.

In quel momento il corriere del re e le amazzoni erano giunti dinanzi alla capanna. Come Alfredo aveva previsto, venivano ad invitare i principi del Borgu, in nome del re, affinchè assistessero alla grande cerimonia in onore dei defunti monarchi del Dahomey.

Ad un cenno del cacciatore, Urada e Gamani aprirono i due grandi ombrelli, mentre i due dahomeni si collocavano dietro i due ambasciatori portando in ispalla i fucili, ma col calcio in aria e la bocca verso terra.

Le amazzoni formarono un cerchio attorno a loro e l’ambasciata attraversò la piazza lentamente, aprendosi faticosamente il passo fra la folla che si accalcava sul suo passaggio.

Giunta dinanzi ad una delle due grandi piattaforme, il corriere del re condusse Alfredo ed il seguito sulla più elevata, facendoli accomodare su di alcuni scanni che erano coperti di pelli di leone, poi si coricò dinanzi a loro come per far comprendere alla folla che quelle persone erano sotto la protezione del potente e temuto monarca.

Intorno ai due ambasciatori ed ai loro servi si erano intanto seduti, ma ad una certa distanza, i grandi dignitari del regno, cabeceri insigniti di una, due, tre e perfino quattro code di cavallo, gran moci e comandanti di truppe.

[220]

Alfredo ed il portoghese avevano gettato un rapido sguardo su tutti quei negri impettiti e orgogliosi, che si pavoneggiavano nelle loro larghe e variopinte vesti ricamate d’oro, credendo di scorgere fra di loro Kalani, ma non lo videro.

— Meglio così, — disse Alfredo a voce bassa, rivolgendosi ad Antao.

— Che sia col re? — chiese questi.

— Lo credo.

— Allora ci sarà lontano.

— Lo vedremo sull’altra piattaforma. Il posto del re è là, poichè vedo che stanno aprendo il grande parasole reale.

— È una vera cupola; i nostri fanno una ben meschina figura nel paragone. —

Alcuni cabeceri, aiutati da una mezza dozzina di negri, avevano portato l’ombrello reale e l’avevano aperto per riparare dagli ardenti raggi del sole S. M. negra.

Era di dimensioni veramente gigantesche, di stoffa rossa con frange bianche e su di un lato si vedeva dipinto un mostruoso coccodrillo colle mascelle aperte, lo stemma della casa reale del Dahomey.

Quasi subito i clamori della folla si spensero ed un silenzio profondo, che aveva un non so che di pauroso, successe come per incanto.

— Cosa sta per succedere? — chiese Antao ad Alfredo.

— Sta per comparire il re, — rispose il cacciatore.

— Il gran macellaio!...

— Taci, imprudente. —

Una porta aperta nella grossa parete della cinta e che comunicava colla piattaforma si era aperta e S. M. negra era comparsa, seguìta da una dozzina di cabeceri e di gran moci e da uno stuolo di stregoni e di guardiani dei templi, recanti i feticci prediletti di Geletè, dei mostri di creta dorata che avevano le bocche aperte, dei serpenti pure di creta dorata di dimensioni enormi e certi fantocci che volevano rassomigliare ad esseri umani ma che invece del capo avevano dei becchi d’uccelli di rapina.

Il feroce monarca aveva il viso quasi interamente nascosto da una specie di turbante di seta verde ricamata in oro ed il corpo avvolto in un ampio mantello di seta bianca, stretto alla cintura da una fascia di lamine d’oro.

[221]

Si tenne un momento ritto in mezzo alla piattaforma, guardando la folla che stipava la piazza, poi si sedette su di un gran seggiolone coperto da un arazzo giallo, mentre ai suoi piedi, si sdraiava, su di un cuscino, Behanzin, il futuro re del Dahomey ed anche l’ultimo.

Ad un tratto Alfredo, che teneva gli sguardi fissi sul palco reale, strinse fortemente un braccio d’Antao.

— Cos’hai? — gli chiese il portoghese, stupito.

— Guardalo!...

— Chi?... Il re?...

— No, Kalani!... — rispose Alfredo, coi denti stretti.

Un negro d’alta statura, coperto da un ampio mantello di cotone bianco adorno di serpentelli dipinti in rosso e col capo irto di penne d’uccelli di rapina, si era avanzato fino all’orlo della piattaforma.

Era un uomo dai lineamenti arditi, dallo sguardo vivo, penetrante, intelligente e dalla carnagione assai cupa. Si capiva anche a prima vista che non apparteneva alla razza dahomena, ma si capiva pure che quel negro doveva possedere una energia ben superiore ai suoi snervati compatrioti delle regioni del sud. La sua voce, potente come quella d’un leone, echeggiò nella vasta piazza, dominando il fracasso della banda reale e le grida degli ahpolos celebranti le truci imprese del sanguinario monarca.

Kalani invitava i capi tribù ed i capi dei salam, ossia dei quartieri delle varie città dei Dahomey, a deporre ai piedi del re il dono cui erano obbligati ad offrire in segno di sudditanza.

Tosto Alfredo ed Antao, dal loro elevato posto, videro avanzarsi attraverso la piazza, strisciando nella polvere come tanti serpenti, oltre cento negri, ognuno dei quali portava seco un sacchetto di tela contenente il dono.

Salirono, sempre strisciando e tenendo la testa china al suolo, come se fosse loro vietato di guardare in viso il monarca, le gradinate della vasta piattaforma e andarono a deporre le offerte dinanzi al trono, ritirandosi poi dietro ai cabeceri, ai moci ed ai guardiani del tempio.

Kalani aveva ripresa la parola, rivolgendosi alla popolazione ed alle amazzoni schierate dinanzi alle due piattaforme. Parlava con aria da ispirato, cogli sguardi fissi sul sole che allora si mostrava, in tutto il suo splendore, sugli ultimi altipiani. Avvertiva [222] gli abitanti dei Dahomey delle lagnanze dei defunti monarchi per la scarsità dei sacrifici umani, delle loro tremende minaccie di mandare a soqquadro il regno e della decisione presa dal potentissimo Geletè di raddoppiare il numero delle vittime onde calmare gli sdegni dei fondatori della dinastia, e quindi la necessità d’intraprendere altre guerre coi popoli vicini per avere un gran numero di prigionieri da macellare. Terminò promettendo, in nome del re, una grande spedizione guerresca nei paesi dei Krepi e dei Togo e contro gli Jesa di Ckiadan, da intraprendersi dopo i raccolti.

Poco dopo, mentre il sanguinario capo dei sacerdoti si rinvigoriva lo stomaco tracannando una mezza bottiglia di ginepro, datagli dal re, le amazzoni allargavano le loro file per lasciare uno spazio sufficiente alle esecuzioni.

Venti schiavi, tutti uomini, colla testa adorna di penne d’uccelli e le braccia e le gambe coperte di numerosissimi anelli di rame, furono condotti sulla piazza. Quei disgraziati erano tutti capi di tribù, fatti prigionieri un mese innanzi al di là del Mono. Parevano rassegnati al loro triste destino, poichè non opponevano alcuna resistenza ai soldati che li spingevano verso la piattaforma reale, anzi mostravano una calma ammirabile.

Quei venti capi erano destinati a recarsi dai defunti monarchi del Dahomey per avvertirli, che d’ora innanzi, Geletè avrebbe meglio osservate le feste dei grandi costumi e che avrebbe sacrificato un maggior numero di vittime.

Prima che se ne andassero all’altro mondo a trovare i defunti, il re ordinò che si rinvigorissero con un bicchiere di ginepro e che si consegnasse a loro una fila di cauris (circa lire 2,50) per provvedersi di che mangiare lungo il viaggio ed una bottiglia di rhum di tratta per dissetarsi, poi fece cenno al carnefice di cominciare le esecuzioni.

Fu l’affare di pochi istanti. Il gran giustiziere del re, un negro gigantesco che doveva essere dotato d’una forza prodigiosa, in pochi istanti, colla sua larga e affilatissima sciabola, aveva fatto cadere al suolo le venti teste.

Antao nauseato, aveva fatto atto d’alzarsi per prorompere forse in invettive contro il sanguinario re, a rischio di compromettere la propria vita e quella dei compagni, ma Alfredo, con un gesto imperioso, l’aveva costretto a riprendere subito il suo posto.

[223]

— Un gesto solo basta per perderci tutti, — gli mormorò all’orecchio. — Se vuoi farci assassinare, alzati e parla.

— Non commetterò mai simile imprudenza, Alfredo, — rispose il portoghese, — ma queste atroci esecuzioni mi fanno diventare idrofobo.

— E credi che io sia tranquillo?... Darei dieci anni di vita per balzare alla gola di Geletè e di quella canaglia di Kalani. Queste scene mi fanno orrore, eppure sono costretto a frenarmi per salvare la nostra vita e quella del piccolo Bruno.

— Non mi muoverò, Alfredo. —

Intanto i sacrifici in grande erano cominciati dinanzi alla piattaforma reale. Dopo la decapitazione di quei venti capi, erano stati sacrificati sessanta buoi, dodici cavalli ed un coccodrillo, poi una banda di sessanta negri fra uomini e donne.

Il sangue che usciva da quell’ammasso di corpi, scorreva per la piazza, arrossando i piedi di quelle migliaia di spettatori, mentre un odore nauseante si espandeva in aria, quell’acre odore che si sente nei macelli.

Il popolaccio ed i soldati applaudivano freneticamente l’abilità del gigantesco carnefice e guazzavano in mezzo a quel sangue come se fossero diventati tigri. Con urla spaventevoli, reclamavano nuovi sacrifici per placare gli spiriti irritati dei defunti monarchi.

Geletè non si faceva pregare. Ad un suo ordine nuove truppe di schiavi terrorizzati venivano spinti, a legnate, a pugni, a calci, in mezzo al vasto triangolo formato dalle amazzoni e nuove teste rotolavano a destra ed a manca.

Al grande giustiziere del re si erano uniti altri due carnefici e le pesanti ed affilate lame cadevano senza misericordia, mietendo le file di quei disgraziati prigionieri di guerra, mentre altri, forse gli aiutanti, raccoglievano le teste formando ai due lati della piattaforma due orribili piramidi.

Ad un tratto si fece un profondo silenzio. Sulla cima delle muraglie del palazzo reale erano saliti dei robusti soldati portando delle grandi ceste, specie di panieri che avevano una sola apertura dalla quale si vedeva uscire una testa umana.

In ognuna di quelle ceste era stato rinchiuso un povero negro, destinato a soddisfare le brame sanguinarie del popolo.

— Gran Dio?... — esclamò Antao, inorridito. Cosa sta per succedere?...

[224]

— Il re sta per lanciare i suoi regali al popolaccio, — rispose Alfredo.

— Dei regali viventi che quelle canaglie si affretteranno a fare a brani.

— A decapitare, Antao, poichè ogni testa si può cambiare con una bottiglia di rhum o di ginepro o una fila di cauris. Sarà l’ultimo sacrificio per oggi. —

I soldati intanto avevano deposti sul margine del muraglione quelle cinquanta o sessanta ceste. Le vittime che vi stavano rinchiuse dimenavano disperatamente la testa e mandavano urla di terrore, ma si trovavano nell’assoluta impossibilità di reagire, avendo le braccia e le gambe strettamente imprigionate.

Ad un cenno di Kalani tutti quei panieri furono precipitati nel vuoto, schiacciandosi contro le pietre della piazza. Allora accadde una scena mostruosa. La folla, come se fosse improvvisamente impazzita, si era scagliata con impeto irresistibile su quelle ceste. Quei truci negri avevano impugnati i loro coltellacci e si disputavano ferocemente le teste delle vittime che per loro rappresentavano una solenne ubriacatura.

In pochi istanti i panieri furono sventrati, i poveri schiavi, vivi o moribondi o morti in causa della caduta, furono strappati fuori e decapitati e le teste sanguinanti furono tosto cambiate contro file di cauris e bottiglie di ginepro o di rhum di tratta.

Era il segnale dell’orgia. Dalla piattaforma reale Geletè, Kalani, i cabeceri ed i moci gettavano sul popolo, per vedersele disputare, pezze di tela, file di cauris e bottiglie di liquori, mentre sulle piattaforme venivano portate casse di bottiglie di ginepro.

Il re, i suoi ministri, i cortigiani, i soldati ed il popolo si ubriacavano per chiudere solennemente la prima giornata della festa dei costumi, mentre sulla piazza sanguinante si dibattevano, fra le ultime convulsioni, le vittime.....

 
Il carnefice aveva fatto cadere al suolo le venti teste. (Pag. 222).

[225]

Capitolo XXXI. La spedizione notturna

Era calata la notte da qualche ora, ma la capitale del Dahomey era ancora in orgia.

Sulla grande piazza ove erano state scannate tante vittime, e nelle vie adiacenti, la folla beveva e danzava furiosamente attorno a dei falò giganteschi, al suono dei più barbari e più strani istrumenti che si possa immaginare.

La birra di sorgo, il ginepro ed il rhum di tratta scorrevano a fiumi, ma quegli insaziabili bevitori non ne avevamo mai abbastanza. Vuotati dei barili, altri se ne portavano accanto ai fuochi, e danzatori e suonatori ricominciavano la gazzarra.

Dovunque si udivano a echeggiare urla, spari d’armi da fuoco e dovunque scoppiavano risse furibonde che terminavano a colpi di coltello, di lancia o di fucile, ma chi si occupava dei morti?... Era molto se lasciavano ancora in vita i feriti.

Nell’ampio palazzo reale l’orgia doveva aver raggiunto il colmo. Tutte le strette finestre, che avevano l’aspetto di feritoie, erano illuminate e da quelle uscivano pure urla e canti di gente già ebbra e spari d’armi. Di tratto in tratto delle palle uscivano e sibilavano per la piazza abbattendo qualche negro e qualcuna delle amazzoni che intrecciavano danze dinanzi alle piattaforme.

Era Geletè che si divertiva a mandare quei pericolosi regali ai suoi fedelissimi sudditi o che provava qualche nuovo fucile, ricevuto in regalo dai capi della costa.

Mentre la popolazione tutta della capitale, il re, i ministri, i soldati e le amazzoni continuavano la gazzarra con crescente animazione, una piccola truppa d’uomini, che era uscita quasi di nascosto dall’apatam dell’ambasciata, attraversava rapidamente le vie meno frequentate e meno illuminate, tenendosi rasente le pareti delle capanne.

Era composta d’Alfredo, d’Antao, di Gamani, dell’amazzone e di suo padre. Nessuno portava lo splendido costume dei borgani, ma tutti erano armati di fucili.

Chi li avesse veduti, avrebbe potuto crederli un piccolo gruppo [226] di soldati del re incaricati di mantenere l’ordine nei quartieri più lontani della città o di eseguire qualche segreta missione.

Passarono dinanzi a parecchi falò, senza rispondere all’invito dei bevitori e delle danzatrici di arrestarsi per vuotare un bicchierino e scomparvero fra un dedalo di viuzze oscure e assolutamente deserte, arrestandosi in una piccola piazza coperta da sette od otto gigantesche palme.

— Ci siamo, — aveva detto il padre di Urada, arrestandosi, in un luogo dove maggiore era l’oscurità.

— Dove si trova?... — chiese Alfredo, con una viva emozione.

— Dietro a quella muraglia, — rispose il dahomeno, indicando un’alta e massiccia parete che univa le grandi capanne occupanti i due angoli della piazza.

— Sei certo di non ingannarti?

— Oh!... Certissimo.

— I sacerdoti veglieranno però nella stanza del mio Bruno!...

— Stanno gozzovigliando nella capanna centrale che contiene i feticci più pregiati ed a quest’ora saranno tutti ubriachi, avendo io veduto introdurre nel recinto due casse piene di bottiglie di ginepro mandate dal re.

— Sì, — disse Gamani, che aveva osservata attentamente la muraglia. — Il padroncino deve trovarsi dietro a questa cinta, nella piccola capanna sacra.

— Allora andiamo a torcere il collo ai sacerdoti ed a liberare il ragazzo, — disse Antao. — Mi vendicherò su quelle canaglie delle terribili emozioni fattemi provare quest’oggi dal gran macellaio Geletè I.

— Sì, affrettiamoci, — rispose Alfredo. — Finchè dura l’orgia della popolazione non abbiamo da temere di venire importunati, ma è meglio sbrigarsi presto. Hai la fune, Gamani?...

— Sì, padrone.

— Sei capace di giungere sulle muraglia?...

— Sì, purchè abbia un punto d’appoggio qualunque.

— L’avrai. —

Si appoggiò contro la parete piantandosi per bene sulle gambe e inarcando la robusta schiena, poi disse ad Antao:

— Sali che io non cederò. —

Il portoghese, con un solo slancio, si trovò sulle spalle dell’amico.

— Ci sono, — disse.

[227]

— Manca molto alla cima?...

— Meno di due metri, Alfredo.

— Tocca a te, Gamani. —

Il negro, agile e lesto come tutti quelli della sua razza, s’arrampicò rapidamente su quei due corpi, posò i piedi sulle spalle del portoghese, poi si slanciò in alto aggrappandosi all’orlo superiore della muraglia.

Issarvisi sopra, mettersi a cavalcioni, sciogliere la fune a nodi che portava stretta attorno al corpo e gettare un capo ai compagni, fu l’affare di un solo momento.

Alfredo fu pronto a salire ed a raggiungerlo, gettando uno sguardo nell’interno della cinta.

Quantunque l’oscurità fosse profonda, vide delle palme che formavano dei grandi gruppi, parecchie grandi capanne disposte in semi-cerchio ed alcune più piccole che stavano disseminate lungo le muraglie.

Tutte quelle abitazioni erano oscure e parevano disabitate, ma una, la più vasta e la più lontana, era illuminata ed anche abitata, poichè vi si sentivano voci rauche, grida, scrosci di risa e canti.

— Sono i sacerdoti che vuotano le bottiglie del re, — disse Gamani ad Alfredo. — Credo che non ci daranno alcun disturbo.

— E la capanna abitata da Bruno?... La vedi, Gamani?... — chiese Alfredo, con ansietà.

— È quella laggiù, — rispose il negro, indicandogli una piccola costruzione, col tetto piatto, che si rizzava fra quattro grandi sicomori. — La riconoscerei fra mille.

— Ah!... È là, il povero ragazzo!... E forse ci aspetta da parecchie notti e chissà fra quali ansie!... Ma noi questa notte lo salveremo. —

Intanto Antao, Urada e suo padre, dopo d’aver fatto il giro della piazza per essere certi di non essere stati spiati, li avevano raggiunti.

Gamani lanciò la fune dall’altra parte della muraglia e pel primo si calò nel recinto, nascondendosi sotto la cupa ombra d’un albero di dimensioni gigantesche. Alfredo e tutti gli altri, nel più profondo silenzio, lo seguirono.

— Finalmente!... — mormorò Antao, che non poteva stare zitto due minuti. — Se quei beoni non lasciano le bottiglie, rapiremo il nostro piccolo Bruno. Che bella sorpresa per Kalani!... Creperà di rabbia.

[228]

— Non gli rimarrà il tempo, — disse Alfredo, con voce sorda. — Dopo Bruno mi occuperò di lui. Guidaci, Gamani.

— Perlustriamo prima i dintorni, — consigliò il padre di Urada. — Se qualche sacerdote ci scorge darà l’allarme ed allora più nessuno di noi uscirebbe vivo di qui.

— Quanti sacerdoti vi sono nel recinto?... — chiese Alfredo.

— Ordinariamente ve n’erano dodici, — rispose Gamani.

— Anche se ci sorprendono, non saranno tanti da darci dei fastidi.

— Tanto più che saranno ubriachi, — aggiunse Antao.

— Andiamo a perlustrare il recinto, Gamani, — disse Alfredo. — Questo luogo ti è famigliare?

— Sì, padrone, — rispose il negro.

— Voi ci aspetterete qui, — continuò il cacciatore, rivolgendosi ad Antao, Urada ed al vecchio. — Sorveglierete la fune affinchè non ci venga tagliata la ritirata.

— Nessuno si avvicinerà senza il mio consenso, — disse il portoghese. — Morte di Giove!... Il primo che mi capita fra i piedi lo mando a tener compagnia ai defunti monarchi di questa grande macelleria.

— Silenzio ed aprite gli occhi. —

Alfredo e Gamani abbandonarono l’ombra cupa delle palme e tenendosi nascosti dietro ad un filare di cespugli, si diressero verso la capanna principale, dalle cui finestre, che erano assai basse, si poteva vedere comodamente quanto succedeva nell’interno.

Procedevano cauti, tenendosi curvi verso terra e girando dovunque gli sguardi per timore che vi fosse qualche sacerdote in sentinella dinanzi alle capanne contenenti i feticci, ma pareva che per quella notte i guardiani del sacro recinto si occupassero più delle bottiglie di ginepro regalate dal re che delle divinità protettrici del regno.

Giunti presso la grande capanna, Alfredo e Gamani, dopo essersi assicurati che al di fuori non vi era alcuno, guardarono cautamente attraverso una finestra. Alla luce d’una lampada fumosa, che spandeva all’intorno dei riflessi sanguigni, scorsero sette od otto negri adorni d’orpelli d’ogni specie, sdraiati attorno ad una stuoia, mentre altri tre o quattro, probabilmente ubriachi, russavano in un angolo della stanza.

Quei sacerdoti trincavano allegramente le bottiglie del re, ridendo [229] e schiamazzando. Dovevano averne bevute già parecchie, poichè non erano più in grado di mantenersi ritti e di quando in quando cadevano sconciamente a terra, non risollevandosi che dopo molte fatiche.

— Bah!... — disse Alfredo a Gamani. — Questi ubriachi non sono più in caso di opporre resistenza e non ci saranno d’impiccio. Ci sono tutti?...

— Mi sembra che non manchi alcuno, — rispose il negro.

— Allora affrettiamoci a salvare il mio Bruno. —

Tornarono rapidamente verso i compagni informandoli del felice esito della loro perlustrazione e certi di non venire inquietati da quegli ubriaconi, si diressero senz’altro verso una piccola capanna, entro la quale doveva trovarsi il ragazzo.

La capannuccia era chiusa da una specie di cancello coperto da stuoie, che impediva di vedere nell’interno, ma Alfredo, che in quel momento decisivo si sentiva tanto forte da sfondare una parete, con uno strappo violento lo scardinò, gettandolo a terra.

Senza attendere che Gamani accendesse la lanterna che aveva portato con sè, il cacciatore si slanciò nell’interno, chiamando:

— Bruno!... Bruno!... Svegliati!... Siamo noi!... —

Invece di udire la ben nota voce del fratello, udì una voce minacciosa che chiedeva:

— Chi viene a disturbare Ahantu?...

— Morte di Urano e di Nettuno!... — esclamò Antao. — Chi è che ha parlato?... —

Alfredo si era arrestato come fosse stato fulminato, ma il suo stupore fu però di breve durata. Strappò a Gamani la lanterna, impugnò una pistola e s’avanzò risolutamente nella capanna coll’arma tesa, pronto ad abbattere qualsiasi ostacolo.

Un negro, col capo coperto di penne d’uccelli di rapina ed il corpo avvolto in un ampio mantello di cotonina rossa a disegni strani che somigliavano a teschi di morto incrociati con ossa umane, si era bruscamente alzato da un lettuccio formato da stuoie sovrapposte.

Nella destra teneva uno di quei lunghi e larghi coltellacci usati dai dahomeni.

Vedendo entrare quegli sconosciuti, con un balzo repentino si gettò in fondo alla capanna sfondando, con un urto irresistibile, la leggiera parete di vimini e si slanciò all’aperto fuggendo attraverso i viali del recinto e urlando con quanta voce aveva.

[230]

Alfredo, Antao e Gamani, passato il primo istante di stupore, gli si erano lanciati dietro minacciando di ucciderlo se non si arrestava, ma il negro, che pareva fosse impazzito per lo spavento, continuava a fuggire come un cervo, girando e rigirando attorno alle capanne ed ai tronchi degli alberi.

— Fermati, non vogliamo farti male!... — gridavano Alfredo e Gamani, mentre il portoghese, furibondo, giurava su tutti i pianeti di scorticarlo vivo se non cessava dall’urlare.

Finalmente, dopo una lunga corsa, il sacerdote si cacciò in una capanna. I due bianchi e Gamani credettero di poterlo raggiungere e costringerlo al silenzio, ma si erano ingannati, poichè quell’indemoniato aveva già dato l’allarme e che allarme fragoroso!... Armatosi d’una specie di mazza, si era messo a percuotere, con una foga diabolica, una grande lastra di metallo che pendeva dal tetto della capanna, facendo un tale fracasso da svegliare anche un ubriaco. Pareva che tuonassero dei piccoli pezzi d’artiglieria.

Gamani, con un pugno poderoso, aveva mandato a gambe levate quell’ostinato, ma ormai tutti gli abitanti del recinto e dei dintorni dovevano aver udito quella campana di nuova specie.

— Siamo presi!... — aveva esclamato Antao, impallidendo. — Ma prima scorticherò vivo questo birbante!...

— Non ci hanno ancora in mano, — disse Alfredo. — Prima che gli abitanti siano qui, noi avremo superata la muraglia. Gamani, lega ben bene quest’uomo.

— È già legato, padrone, — rispose il negro. — Credo anzi che non si muoverà per un bel po’, poichè non dà segno di vita.

— Meglio così: orsù, in ritirata.

— E Bruno?... — chiese Antao.

— Andiamo a frugare le capanne prima, ma temo che non si trovi più qui. Forse Kalani l’avrà condotto seco, ma lo ritroveremo Antao, non dubitare o meglio li troveremo tutti e due. —

Abbandonarono precipitosamente la capanna e si slanciarono attraverso ai viali. Avevano veduti alcuni lumi dalla parte opposta del recinto e s’affrettavano, per tema di venire sorpresi dai sacerdoti che stavano vuotando le bottiglie del re.

Ai piedi della muraglia s’incontrarono con Urada e suo padre. Un breve e rapido dialogo s’impegnò fra il vecchio ed Alfredo.

— Nulla?...

— Nulla; il ragazzo è scomparso. Credi che si trovi da Kalani?

[231]

— Lo sospetto, — rispose il vecchio.

— Come potremo saperlo?...

— Interrogando uno dei sacerdoti.

— Ma è stato dato l’allarme.

— Portiamone via uno e andiamo ad interrogarlo in un posto sicuro.

— Hai ragione: a me Gamani!... Vieni Antao!... Voialtri salite intanto sulla muraglia. —

Stava per slanciarsi attraverso ai viali per piombare addosso ai sacerdoti che erano già usciti dalla capanna e che s’avanzavano fra le piante, tentennando e sorreggendosi l’un l’altro per mantenersi un po’ ritti, quando Urada lo trattenne, dicendogli:

— Odi, padrone?... —

Alfredo ed i suoi compagni si erano arrestati. Al di là della muraglia si udivano delle persone a schiamazzare ed interrogarsi reciprocamente.

— Hanno dato l’allarme, — dicevano alcune voci.

— Che sia scoppiato il fuoco?...

— Che i sacerdoti corrano qualche pericolo?...

— Che i feticci sieno sdegnati pei sacrifici di quest’oggi?...

— Bisogna andare a vedere.

— Andate ad avvertire i soldati.

— Morte di papà Giove e di tutti i suoi figli!... — esclamò Antao, rabbrividendo. — Vedo la mia testa nelle mani dei macellai di Geletè!...

— Non è ancora perduta la nostra testa, — disse Alfredo, con voce risoluta. — Nè Kalani, nè Geletè ci avranno così facilmente nelle loro mani. —

Poi volgendosi verso Gamani:

— È tutto chiuso il recinto?...

— Vi è una sola porta che di notte si chiude.

— Ebbene, seguitemi.

— Ma cosa vuoi fare, Alfredo? — chiese Antao.

— Lo saprai. Per ora sgominiamo i sacerdoti. —

[232]

Capitolo XXXII. L’incendio del recinto sacro

I guardiani dei feticci, strappati alle loro libazioni dallo spaventevole fracasso prodotto dal loro compagno, si erano affrettati a lasciare la capanna per vedere di che cosa si trattava, ma non erano usciti tutti. Cinque di loro, probabilmente incapaci di tenersi in piedi per aver voluto fare troppo onore alle bottiglie del re, erano rimasti sdraiati sulle stuoie e forse si erano subito riaddormentati.

D’altronde nemmeno quelli che si erano risoluti ad uscire, si trovavano in migliori condizioni, poichè s’avanzavano attraverso i viali puntellandosi gli uni cogli altri e descrivendo delle serpentine molto accentuate. Qualcuno anzi era già caduto fracassando la lanterna che portava e si arrabattava, ma invano, per rimettersi in piedi.

Alfredo, Antao e Gamani incontratisi con quei sette od otto ubriachi, li caricarono con impeto irresistibile, tempestando a destra ed a manca pugni formidabili che risuonavano come colpi di gran cassa su quelle teste lanute.

Bastarono cinque secondi per mandare a gambe levate i sacerdoti di Geletè; i pugni avevano completato gli effetti troppo alcoolici delle bottiglie reali.

— Morte di Nettuno!... — esclamò Antao, quando li vide tutti a terra e nell’assoluta impossibilità di fare un movimento, tanto li avevano storditi quella scarica di scapaccioni. — Cosa facciamo ora di questi ubriachi?... —

Alfredo, invece di rispondere, s’abbassò rapidamente su quell’ammasso di corpi, afferrò un braccio e tirò fuori il più piccolo ed il più magro di tutti. Era un negro assai giovane, poco più d’un ragazzo.

— Tieni questo, Gamani, — disse al servo — e non lasciarlo finchè te lo dirò io. Deve venire con noi.

— Nessuno me lo strapperà di mano, padrone.

— Ora spogliamo questi sacerdoti e copriamoci coi loro mantelli.

— Noi?... — chiese Antao, stupito.

[233]

— Zitti!... Affrettiamoci, se vi preme la pelle. —

In meno di mezzo minuto i sacerdoti furono spogliati e le loro vesti ed i loro orpelli furono indossati dai due bianchi e dai loro compagni.

Avevano appena terminato di camuffarsi, quando udirono picchiare furiosamente al portone della cinta. Pareva che una vera folla si pigiasse al di fuori, attirata dalla campana d’allarme di quel malaugurato negro.

— Aprite!... — si urlava.

— Sono giunti i soldati!...

— Spicciatevi!...

— Sangue di Urano!... — esclamò Antao, impallidendo. — I soldati!... Povere le nostre teste!...

— Silenzio, — ripetè Alfredo. — Agite senza perdere tempo!... —

Poi volgendosi verso il padre di Urada ed alla ragazza, disse rapidamente:

— Entrate in qualcuna di quelle capanne e portate qui alcuni idoli, i più venerati possibilmente. —

Poi mentre il vecchio e la giovane s’affrettavano ad obbedire senza chiedere spiegazione, si volse verso Antao, dicendogli:

— Tu va’ ad incendiare quel gruppo di capanne. Sono costruite di giunchi e arderanno come zolfanelli.

— E se vi sono dentro dei negri ubriachi?...

— Tanto peggio per loro. Affrettati: stanno per abbattere il portone. Io intanto vado a mettere fuoco a quella capannuccia. —

Intanto che agivano, la folla, impaziente di non ricevere risposta dai sacerdoti, temendo forse che fossero stati assassinati o che i feticci stessero per venire rubati, aveva assalito il portone per irrompere nella cinta. Picchiava furiosamente, urlava e per spaventare i supposti ladri o assassini, sparava colpi di fucile.

Fortunatamente il portone, costruito con grosse tavole e rinforzato da traverse, teneva duro, ma non poteva però opporre una resistenza lunga a quei continui urti.

Già alcune traverse erano cominciate a cadere, quando i due bianchi ed i loro compagni si ritrovarono riuniti. Le capanne avevano preso subito fuoco e le fiamme, trovando un buon elemento, divampavano rapidamente, lanciando in aria i primi turbini di scintille.

Alfredo s’impadronì d’un feticcio, una specie di leone di creta [234] coperto di carta dorata, Antao d’un mostriciattolo metà uomo e metà bestia pure coperto di carta dorata, Urada e suo padre di due strani volatili colla testa da serpente e si slanciarono tutti verso il portone seguiti da Gamani che teneva ben stretto il suo prigioniero, il quale doveva figurare come un compagno ferito.

— Gridate più che potete che è scoppiato il fuoco, — disse Alfredo a Urada ed a suo padre, — e seguitemi senza curarvi della folla. —

In quel momento il portone, sotto un’ultima e più vigorosa spinta, cadeva al suolo sfasciato. Alfredo ed i suoi compagni si precipitarono verso la folla atterrita, tenendosi stretti i feticci per nascondere il viso, mentre Urada, il vecchio e Gamani urlavano a squarciagola:

— Al fuoco!... Al fuoco!... Salvate i feticci!... —

I negri, vedendo i loro sacerdoti si ritrassero prontamente da un lato per lasciarli fuggire e porre in salvo le divinità, poi si precipitarono confusamente nell’interno del recinto fra clamori assordanti, cercando di combattere il fuoco che minacciava di distruggere tutte le capanne sacre.

I falsi sacerdoti, che ridevano in cuore loro della splendida riuscita della gherminella che li salvava dalle più terribili vendette, appena si trovarono fuori dalla folla, la quale d’altronde non si occupava più di loro, si cacciarono in mezzo ad un dedalo di oscure viuzze, galoppando furiosamente.

Sull’angolo d’una via Antao si sbarazzò del suo mostriciattolo, mandandolo a frantumarsi contro la porta d’una capanna, mentre Alfredo faceva volare in un’ortaglia il suo leone, poi il vecchio e Urada si liberarono pure dei loro volatili frantumandoli contro il tronco d’un albero. Gamani però si teneva ben stretto il prigioniero, minacciando di strangolarlo se mandava un solo grido.

Dopo mezz’ora di corsa attraverso a viuzze deserte, a ortaglie e terrapieni, il vecchio negro, che si era messo alla testa per guidarli, s’arrestava in un orticello abbandonato, cinto da un’alta siepe e dove si trovava una capannuccia quasi sventrata, col tetto sfondato.

— Qui non correremo alcun pericolo, — disse. — Quest’abitazione e quest’orto appartenevano ad un mio parente morto due anni or sono e più nessuno è venuto ad abitarvi.

[235]

— Siamo lontani dal nostro apatam? — chiese Alfredo. — Sono inquieto pei miei uomini.

— In un quarto d’ora possiamo giungervi.

— Desidererei che i due negri ed i cavalli si concentrassero qui.

— Perchè Alfredo? — chiese Antao.

— Per essere più pronti a lasciare la città.

— Ma Bruno?...

— Questa notte lo salveremo.

— E Kalani?...

— Questa notte lo ucciderò.

— Ma se non sappiamo ancora dove si trovano?...

— Ce lo dirà il prigioniero.

— Parlerà?...

— Ve lo costringeremo. Dopo quanto è accaduto questa notte, noi non possiamo rimanere qui ad aspettare che Geletè si risolva a riceverci. Un solo sospetto può costare la vita a tutti noi.

— L’ambasciata adunque ha finita la sua missione, — disse il portoghese, ridendo. — Geletè andrà in furia di vedersi burlato dai famosi principi del Borgu.

— E ci farà inseguire, Antao, ma mentre i suoi soldati ci cercheranno verso il nord noi fuggiremo verso l’est e quando avremo attraversato l’Okpa, potremo ridercene dei furori di Geletè.

— Padrone, se tu lo vuoi, io vado ad avvertire i due schiavi di venire qui, — disse Gamani.

— No, andrò io, — disse il vecchio negro. — Conosco meglio di tutti la via e certe scorciatoie deserte per le quali farò passare i cavalli senza che alcuno s’accorga della fuga dell’ambasciata. Urada basta per servire d’interprete nell’interrogatorio del sacerdote.

— Allora partite senza indugio, — disse Alfredo. — Sono già le undici e vorrei, prima dell’alba, trovarmi lontano da Abomey. Questa notte tutti sono in orgia e ci sarà facile lasciare la città inosservati.

— Fra mezz’ora sarò di ritorno, — concluse il vecchio negro.

Poi aggiunse, con aria misteriosa:

— Chissà?... Posso recare qualche notizia su Kalani. —

Mentre il negro si allontanava, Gamani aveva trascinato il prigioniero sotto la capanna ed aveva accesa la lanterna che aveva portata con sè. Il povero sacerdote era più morto che vivo, credendo che i suoi rapitori si preparassero ad assassinarlo.

[236]

Urada, già istruita da Alfredo, aveva subito cominciato l’interrogatorio.

— Se ti preme salvare la vita, tu parlerai, — gli aveva detto. — Questi uomini, che sono nemici di Geletè, sono terribili e se ti ostinerai a tacere ti scorticheranno vivo, mentre se parlerai ti regaleranno tanto oro da comperare diecimila cauris. —

Il giovane sacerdote, udendo parlare d’oro, ebbe un sorriso da ebete, ma i suoi occhi mandarono un lampo di cupidigia. Come tutti i suoi compatrioti doveva essere venale.

— Guarda quest’uomo, — continuò Urada, indicando Alfredo che era allora entrato assieme ad Antao. — È il fratello del ragazzo dalla pelle bianca, che Kalani teneva prigioniero nel recinto sacro. Mi comprendi?...

— Sì, — rispose il sacerdote.

— Quest’uomo che non è un negro come ti sembra, ma un bianco, vuole riavere suo fratello che Kalani gli ha rapito e lo avrà, dovesse uccidere Geletè e mandare un esercito di europei a distruggere il Dahomey. Se tu ti ostinerai a tacere e ti rifiuterai ad aiutarlo, fra un mese Abomey verrà presa d’assalto dagli uomini bianchi e data alle fiamme.

— Ma sa il re del pericolo che corre il suo regno? — chiese il sacerdote, con voce tremante.

— Lo saprà domani: intanto comincia tu a parlare, se vuoi risparmiare al Dahomey questo disastro.

— Cosa devo fare?...

— Dire dove è stato condotto il fanciullo dalla pelle bianca, che fino a ieri si trovava prigioniero nel sacro recinto.

— Ma io lo so.

— Allora ce lo dirai.

— Si trova nella casa di Kalani.

— Da quando?...

— Da stamane.

— Perchè l’ha condotto nella sua casa?...

— Aveva dei timori. Un negro che veniva dai paesi dei Krepi lo aveva avvertito che degli uomini bianchi avevano lasciato il regno degli Ascianti per venire qui a rapire il ragazzo. —

Udendo la traduzione di quelle parole, Antao e Alfredo si erano guardati in viso con stupore e con inquietudine.

— Chi può averci traditi?... — chiese il portoghese. — Nessuno poteva sapere che noi eravamo venuti dal paese degli Ascianti.

[237]

— Urada, — disse Alfredo, che era in preda ad una viva agitazione. — Domanda spiegazioni su quel negro. Bisogna sapere chi è quel negro, per metterci in guardia da questo nuovo e gravissimo pericolo. —

La risposta fu pronta.

— È un negro che aveva seguiti gli uomini bianchi da Porto Novo, — aveva detto il sacerdote.

— Morte di Saturno!... Ora comprendo tutto!... — esclamò Antao. — È lo spione che ci ha fatti imprigionare dai Krepi.

— Quello che è sfuggito ai soldati del giudice, — aggiunse Alfredo. — Non credevo che quel briccone potesse giungere vivo fin qui. Amici miei, il pericolo ingrossa e se restiamo qui ancora domani, non risponderei più delle nostre teste. È necessario questa notte rapire Bruno o nessuno di noi lascierà più mai la capitale del Dahomey.

— Ma ne avremo il tempo, Alfredo?

— Ora lo sapremo. —

Si rivolse verso Urada e la istruì su quanto doveva chiedere al prigioniero. La brava ragazza s’affrettò a obbedire.

— Tu devi dirci altre cose ancora che ci preme di sapere, — disse al prigioniero. — Bada di non ingannarci, poichè noi non ti lasceremo libero, nè ti daremo l’oro promesso se non quando avremo le prove che tu avrai detto la verità.

— Sono pronto a parlare, — rispose il sacerdote. — Sono troppo giovane per morire ed amo l’oro.

— Dove sarà a quest’ora Kalani?...

— Dal re.

— Credi che si fermerà presso Geletè tutta la notte?...

— No, poichè prima dell’alba deve partire per Kana onde portare, sulle tombe dei defunti monarchi, le teste recise quest’oggi.

— Quante persone vi sono nella casa di Kalani?...

— Due schiavi e due soldati.

— I quali avranno festeggiati i sacrifici di quest’oggi colle bottiglie del padrone.

— Tutti bevono in tale occasione.

— Gamani, — disse Alfredo, — lega ed imbavaglia quest’uomo e se opporrà resistenza accoppalo con due pugni. Lo porteremo con noi e se non avrà mentito, riceverà il premio promesso. —

Avendo Urada tradotto quell’ordine, il prigioniero disse:

— Sono pronto a seguirvi, poichè so che gli uomini bianchi [238] mantengono sempre le loro promesse. Se vi avrò ingannati, mi ucciderete. —

In quell’istante, al di fuori, si udirono degli scalpitii che s’avvicinavano rapidamente. Antao ed Alfredo si erano precipitati nell’ortaglia temendo di venire sorpresi dai soldati di Geletè, ma tosto emisero un grido di gioia.

Erano il vecchio negro e i due dahomeni coi cavalli.

— Ho mantenuto la parola, — disse il padre di Urada, muovendo sollecitamente verso i due bianchi. Abbiamo abbandonato l’apatam senza che alcuno se ne accorgesse.

— La popolazione bivacca sempre nelle vie? — chiese Alfredo.

— Non finirà l’orgia prima di domani. Tutti sono ubriachi, compresi i soldati e le amazzoni, ma ho potuto sapere egualmente dove si trova Kalani.

— Dal re, è vero!...

— Sì, ma prima dell’alba tornerà a casa, dovendo poi partire.

— Lo so e sarà là che noi lo aspetteremo. Sapreste guidarci, per vie poco frequentate, alla casa di quel miserabile?...

— Sì, facendo il giro delle ortaglie.

— Allora partiamo subito. Quando il sole sorgerà, Kalani sarà morto e noi saremo lontani da Abomey.

Capitolo XXXIII. La morte di Kalani

Pochi istanti dopo Alfredo, Antao ed i negri lasciavano la capanna diroccata per recarsi all’abitazione del loro mortale nemico.

Erano saliti tutti a cavallo, avendo abbandonato le casse vuote o semi-vuote nell’orticello, onde essere più liberi ed in grado di poter operare una precipitosa ritirata fuori dalla città, nel caso che il colpo di mano non dovesse riuscire.

Tutte le armi erano state caricate per essere pronti a respingere qualsiasi attacco, sia da parte della popolazione che delle truppe.

Il vecchio negro, che aveva inforcato uno dei più robusti quadrupedi, guidava il drappello facendolo passare fra ortaglie e [239] capanne disabitate, volendo evitare, fino che lo poteva, l’incontro degli abitanti, per non destare delle curiosità pericolose. Dietro a lui venivano i due bianchi sempre camuffati da sacerdoti, poi Gamani, il quale si teneva sul dinanzi della sella, ma ben stretto, il prigioniero, quindi Urada ed i due dahomeni i quali tenevano le carabine in pugno.

Quella parte della città, che doveva essere la meno abitata, era oscura e silenziosa, ma in lontananza si scorgevano i falò attorno ai quali beveva e danzava la popolazione e si udivano le urla scordate di quegli ubriachi, accompagnate sempre dai suoni selvaggi dei barbari istrumenti musicali.

Pareva che l’orgia avesse raggiunto il più alto grado, poichè i clamori talvolta erano così assordanti, che Antao ed Alfredo penavano assai a udirsi.

— Che gole!... — esclamava il bravo portoghese. — Sfido io che quei cantori abbiano sempre sete!... Berrebbero tutta l’acqua del Koufo, se i loro sacerdoti fossero capaci di tramutarla in tanto ginepro.

— Quest’orgia colossale favorisce i nostri progetti, Antao, — rispondeva Alfredo. — Non potevamo scegliere una notte migliore per tentare l’audace colpo.

— Allora anche Kalani sarà ubriaco.

— Sì, e sarà peggio per lui.

— Vuoi proprio ucciderlo?...

— L’ho giurato la notte che m’incendiò la fattoria e che mi rapì Bruno e manterrò la parola. Quel mostro è l’anima dannata di Geletè e di Behanzin, e liberando il Dahomey della sua presenza risparmierò la vita a migliaia d’infelici.

— È vero, Alfredo. Quel Kalani è il capo dei macellai.

— È lui che ordina i massacri poichè è lui il capo dei sacerdoti.

— Furfante!... Gli farò vomitare sangue e rhum insieme. Ma dove lo attenderemo?

— A casa sua.

— Entreremo nella sua abitazione?...

— Sì, ma dopo d’aver legati e ridotti all’impotenza i suoi uomini.

— E se non venisse?...

— Verrà: il prigioniero ha detto che deve partire per Kana ed il padre di Urada ha confermata la notizia. —

Mentre così chiacchieravano, il vecchio negro continuava ad [240] inoltrarsi fra ortaglie e viuzze deserte ed oscure, procurando di tenersi sempre lontano dalle vie illuminate dai falò.

Dopo d’aver fatto fare al drappello dei lunghi giri, s’arrestò dinanzi ad un’alta palizzata formata però di sottili tronchi d’albero, la quale pareva che racchiudesse un vasto giardino.

— Ci siamo, — disse.

— Da Kalani?... — chiese Alfredo.

— Sì: questo è il suo giardino e laggiù vi è la sua casa.

— Dov’è l’entrata?...

— È qui vicina, ma vi saranno i due soldati a guardia.

— Li ridurremo all’impotenza. Noi siamo sacerdoti, quindi ci sarà facile avvicinarli. —

Ad un suo cenno scesero tutti da cavallo, incaricarono Gamani e Urada di guardarli e di sorvegliare il prigioniero, poi seguirono il vecchio negro.

Voltato un angolo della cinta, si trovarono dinanzi ad un cancello già aperto, ma guardato da due negri armati di fucile, i quali però pareva che non avessero bevuto meno degli altri, perchè si tenevano entrambi appoggiati alla palizzata, come se le loro gambe li reggessero a fatica. Vedendo tuttavia avvicinarsi quel gruppo di persone si raddrizzarono, tentennando e chiedendo chi fossero.

— Guardiani dei feticci che cercano Kalani, — rispose il padre di Urada.

— Il padrone è ancora dal re, — dissero.

— Tornerà questa notte?...

— Lo aspettiamo per accompagnarlo a Kana. —

In quel momento Alfredo, Antao ed i due schiavi, che si erano avvicinati, si scagliarono d’un colpo solo sui due soldati, afferrandoli per la gola onde impedire loro di gridare e con due pugni sul capo, abilmente dati, li mandarono a cadere l’uno sull’altro.

— Imbavagliateli e spogliateli, — comandò Alfredo.

— Perchè spogliarli? — chiese Antao.

— I nostri dahomeni si metteranno qui in sentinella, dopo che avremo occupata l’abitazione. Se Kalani non vedesse le due guardie potrebbe insospettirsi ed invece d’entrare prendere il largo. —

 
Entrambi erano caduti a terra, rotolandosi pel pavimento. (Pag. 245).

I due schiavi furono lesti ad eseguire quegli ordini, poi afferrarono i due negri e li trasportarono sotto una tettoia che si [241] trovava in un angolo dell’ortaglia, semi-nascosta da un gruppo di palme.

Intanto il padre di Urada si era recato ad avvertire la figlia e Gamani ed aveva fatti entrare i cavalli, facendoli nascondere, assieme al prigioniero, sotto la tettoia.

— Urada rimanga a guardia dei prigionieri e dei cavalli, — disse Alfredo. — Uno dei vostri schiavi rimanga in sentinella dinanzi al cancello per avvertirci dell’arrivo di Kalani e gli altri mi seguano.

— Andiamo a occupare la casa? — chiese Antao.

— Sì.

— Allora prepariamoci a scaricare un’altra tempesta di pugni. Bisogna picchiare, ma senza far fracasso. —

Alfredo ed i suoi compagni, attraversata rapidamente l’ortaglia, si erano arrestati dinanzi all’abitazione di Kalani.

Era una costruzione massiccia, che somigliava un po’ al palazzo reale, ma di gran lunga più piccola, con numerose finestre somiglianti a feritoie ed il tetto piatto.

Tutto all’intorno la ombreggiava una doppia fila di maestosi sicomori, i quali dovevano nasconderla o quasi, agli occhi dei vicini abitanti.

Alcune feritoie del pianterreno erano illuminate e da quelle uscivano delle voci umane assai allegre, alternate a rumorosi scrosci di risa. Probabilmente anche gli schiavi del capo dei sacerdoti festeggiavano, con del ginepro o con della birra di sorgo, la grande giornata.

Alfredo, prima di entrare, guardò attraverso una di quelle feritoie e vide quattro negri ed una donna seduti attorno ad un rozzo tavolo coperto d’una stuoia, sul quale stavano alcuni vasi, numerose tazze e qualche bottiglia rovesciata.

Quei poveri diavoli, approfittando dell’assenza del temuto padrone, facevano un po’ di gazzarra, bevendo e ridendo.

— Quegli schiavi non sono tali da opporre resistenza, — disse Alfredo ad Antao, che lo interrogava. — Tra pochi minuti, mio fratello sarà fra le mie braccia. Armate i fucili e seguitemi. —

La porta era aperta, non occorreva quindi forzare l’entrata. I cinque uomini s’inoltrarono in punta dei piedi, per piombare d’improvviso addosso ai servi. Attraversarono dapprima una stanza oscura, procedendo con precauzione per tema di urtare contro qualche ostacolo poi, dopo d’aver percorso uno stretto [242] corridoio, irruppero nella camera illuminata puntando i fucili, mentre il vecchio negro gridava, con voce minacciosa:

— Chi si muove è uomo morto!... Ordine del re!... —

I quattro schiavi e la negra si erano precipitosamente alzati rovesciando i vasi e le tazze, ma vedendo quei cinque fucili puntati e udendo quelle parole erano ricaduti sui loro sedili, tremando di spavento, mentre la loro tinta da nerastra diventava grigia, cioè pallida.

— Tutti a terra!... — disse il vecchio. — Nessuno opponga resistenza!... —

I cinque schiavi caddero in ginocchio, balbettando:

— Non uccideteci. —

Gamani ed il dahomeno, che avevano portato con loro delle corde e dei fazzoletti, imbavagliarono e legarono le braccia e le gambe a quattro, mentre il padre di Urada interrogava il quinto, minacciando di fracassargli il cranio se avesse tardato a rispondere.

— Dov’è il tuo padrone?... — gli chiese.

— Dal re, — balbettò lo schiavo.

— Tornerà questa notte?...

— Sì perchè deve partire prima dell’alba.

— Tarderà molto?...

— Non lo credo. Noi lo aspettavamo per seguirlo.

— Dove si trova il fanciullo dalla pelle bianca che Kalani ha qui condotto?...

— Nella stanza del padrone.

— Chi veglia su di lui?...

— Nessuno.

— Dorme?...

— Poco fa dormiva.

— Guidaci subito da lui. —

Gli fece cenno di precederlo, mentre Antao s’impadroniva d’una specie di torcia di fibre vegetali imbevuta d’olio d’elais.

Il negro, che era più morto che vivo per lo spavento, li condusse in un secondo corridoio il quale saliva al piano superiore e s’arrestò dinanzi ad una porta, dicendo:

— È qui. —

Alfredo ed Antao, in preda ad una viva emozione, si erano precipitati innanzi, aprendola impetuosamente.

In mezzo ad una stanzuccia quasi spoglia di mobili, ma colle [243] pareti coperte di belle stuoie dipinte a vivaci colori ed illuminata da una lampada d’argilla, su di un grande cuscino giaceva un bel ragazzo dalla pelle assai abbronzita, dai capelli neri e ricciuti, dal profilo ardito, che rassomigliava moltissimo a quello d’Alfredo, e dalle labbra vermiglie. Poteva avere dieci anni, ma il suo corpo, assai sviluppato, poteva adattarsi ad uno di tredici o di quattordici.

Quel giovanetto dormiva tranquillamente, come si fosse trovato in piena sicurezza invece che sotto il tetto del più feroce e vendicativo uomo del Dahomey. Solamente le sue nere e sottili sopracciglia che si erano incrociate, dimostravano che qualche pensiero o qualche cattivo sogno turbava un po’ il suo sonno.

Alfredo gli si era precipitato sopra mandando un grido di gioia, l’aveva afferrato fra le robuste braccia e se l’era stretto al petto coprendolo di baci ed esclamando con voce rotta:

— Bruno!... Mio Bruno!... Ti rivedo finalmente, fratellino mio!... —

Il ragazzo, svegliato bruscamente, aveva aperti i suoi grandi occhi neri guardando, come trasognato, quell’uomo che se lo stringeva al petto come fosse impazzito ed istintivamente aveva fatto un gesto come per respingerlo, ma ad un tratto aprì le braccia e le rinchiuse attorno al collo del fratello, gridando:

— Alfredo!... Sogno io?... No.... vedo anche il signor Antao!... Fratello!... Signor Antao!...

— Morte di tutte le stelle del firmamento!... — tuonò il portoghese, che non trovava più alcun nome dei suoi pianeti favoriti, tanta era la sua commozione. — Qui, fra le mie braccia, fanciullo mio!... Morte del Dahomey!... Sono tutto scombussolato!... Toh!... Che strano fenomeno!... I miei occhi sono bagnati!... —

Il bravo giovane aveva strappato il ragazzo dalle braccia d’Alfredo e se l’era stretto al petto, tempestandolo di baci, mentre Gamani, che pareva fosse impazzito per la gioia, gli ballava intorno, gridando:

— Il padroncino!... Il padroncino!... Oh Gamani è contento di vederlo libero!...

— Silenzio!... — esclamò ad un tratto il padre d’Urada, che si era avvicinato ad una feritoia. — Ho udito il fischio d’allarme di mia figlia.

— Ci segnala l’avvicinarsi di Kalani, — disse Gamani.

[244]

— Kalani!... — esclamò il ragazzo, con accento di terrore. — Alfredo, fuggi o ti ucciderà.

— Fuggire io!... — disse il cacciatore, rizzando fieramente l’alta statura. — Sarò io che ucciderò Kalani, mio Bruno. —

Poi, volgendosi verso il suo schiavo e verso Gamani:

— Scendete nell’ortaglia e appena Kalani sarà entrato chiudete il cancello onde non ci sfugga. —

Prese il giovane fratello, se lo alzò fino alle labbra e lo baciò, quindi lo ricoricò sul cuscino, dicendogli:

— Rimarrai qui con questo negro mio amico, il quale veglierà su di te. Qualunque cosa accada, non ti muoverai.

— Ma cosa vuoi fare, fratello?...

— Compiere un giuramento che feci la notte che ti rapirono. Silenzio ed aspetta il mio ritorno. —

Fece cenno ad Antao di seguirlo, mentre il padre di Urada imbavagliava e legava lo schiavo che li aveva guidati in quella stanza.

I due bianchi scesero a pianterreno, trascinarono gli schiavi in un corridoio vicino, poi si misero in osservazione alle feritoie.

Kalani era allora entrato nell’ortaglia e s’avviava verso la sua casa, scortato dalle due sentinelle che aveva trovate dinanzi alla cancellata e che di certo non sospettava che fossero nemiche.

Indossava ancora il costume di gran sacerdote che aveva sfoggiato al mattino per comandare la festa del sangue e pareva che fosse molto alticcio, poichè il suo passo era incerto, tentennante. Doveva aver bevuto parecchie bottiglie con Geletè, Behanzin ed i gran cabeceri.

Attraversò l’ortaglia canterellando fra i denti, salì i tre gradini, passò la stanza oscura ed entrò in quella illuminata, gridando:

— Schiavi dannati, entra il padrone!... Accorrete, se non volete che faccia scorticare la vostra vecchia pelle. —

Ad un tratto arretrò. Aveva scorto i vasi rovesciati e le sedie gettate a terra. Diffidente per natura, sospettò forse qualche tradimento, poichè aprì il mantello mettendo la destra sull’impugnatura del largo e pesante coltello che usano portare i dahomeni.

Non ebbe però il tempo di estrarlo: due uomini armati di fucile erano improvvisamente entrati.

Alfredo si avanzò verso il miserabile che era rimasto immobile, come pietrificato e strappandosi di dosso il mantello di sacerdote, gli chiese con accento terribile:

[245]

— Mi riconosci, Kalani?... —

Il negro aprì la bocca come se volesse rispondere, ma nessun suono gli uscì. Cogli occhi sbarrati, schizzanti dalle orbite, guardava il suo mortale nemico senza essere capace di fare un gesto. La sua pelle era però diventata orribilmente grigiastra, mentre i suoi lineamenti esprimevano un terrore impossibile a descriversi.

— Tu non mi aspettavi, è vero Kalani? — disse Alfredo con ironia. — Ora che mi hai conosciuto, preparati a morire, poichè la notte che tu hai assalito la mia fattoria e assassinati i miei negri, ho giurato di ucciderti e manterrò la promessa. —

Kalani, dinanzi a quella minaccia, ebbe un lampo di suprema quanto inaspettata energia.

Estrasse il largo coltello e balzò indietro per riparare nell’altra stanza, ma andò a urtare contro i due dahomeni che lo avevano silenziosamente seguito e che furono lesti a respingerlo coi calci dei fucili.

Vedendosi accerchiato, il miserabile volle tentare uno sforzo disperato. Fece appello a tutta la sua audacia e col coltello alzato si scagliò come una belva addosso ad Alfredo, sperando di sorprenderlo.

Antao aveva gettato un grido e si era gettato innanzi, ma il cacciatore l’aveva preceduto. Lesto come una tigre, aveva evitato il colpo mortale, poi aveva afferrato l’avversario pel collo.

Entrambi erano caduti a terra, rotolandosi pel pavimento. Antao ed i due dahomeni si erano gettati addosso a loro per cercare di uccidere il negro, ma la tema di colpire il cacciatore li faceva esitare.

Ad un tratto Kalani mandò un urlo di fiera ferita ed allargò la stretta, mentre Alfredo si rialzava prontamente, tenendo in pugno il largo e pesante coltello dell’avversario, lordo di sangue fino all’impugnatura.

Il capo dei sacerdoti, l’anima dannata di Geletè, si rotolò due volte pel pavimento, lasciandosi dietro una larga striscia di sangue, poi rimase immobile. Il cacciatore aveva mantenuto il suo giuramento, spaccandogli il cuore.

— È morto, — disse Antao, che si era curvato su Kalani.

— I miei negri sono vendicati, — rispose Alfredo con voce cupa. — Orsù, fuggiamo!... —

 
Fuggivano a precipizio, senza arrestarsi.... (Pag. 247).

[247]

CONCLUSIONE

Un quarto d’ora dopo, ricompensato il prigioniero che li aveva guidati alla casa di Kalani, Alfredo, Bruno, Antao, Urada, suo padre, Gamani ed i due dahomeni, abbandonavano la capitale, galoppando verso l’est, onde frapporre fra loro ed i soldati di Geletè il Sou.

Fuggivano a precipizio, senza arrestarsi, temendo di vedersi alle spalle le sanguinarie bande del despota, il quale non doveva tardare di certo a fare inseguire l’ambasciata, la cui fuga misteriosa doveva avergli fatto nascere dei sospetti, specialmente dopo la morte di Kalani.

Galopparono quasi tutto il giorno seguente, non facendo che delle brevissime soste per accordare un po’ di riposo ai cavalli e non si risolsero a pernottare se non quando si trovarono nei dintorni di Akpa.

I giorni seguenti continuarono quella fuga indiavolata attraverso i terreni paludosi del Dahomey centrale, attraversando successivamente il Sou e l’Akpa, i due principali affluenti dell’Ouzme, arrestandosi solo un giorno a Keton, una delle ultime borgate del regno di Geletè, poi si gettarono nei paesi degli Egbas.

Solamente allora si permisero il lusso di procedere con più calma e con frequenti fermate, non avendo ormai più da temere alcun inseguimento da parte dei dahomeni, formando gli Egbas una popolazione indipendente, una federazione di tante piccole repubbliche che godono una civiltà relativamente avanzata.

Mantenendosi presso le frontiere del Dahomey scesero lungo le rive della Zeava fino all’altezza di Pokra, poi ripiegando verso [248] l’ovest rientrarono in Porto Novo, ventiquattro giorni dopo la loro partenza da Abomey. La loro fermata presso il loro amico Tofa fu breve, avendo Alfredo risoluto di dare un addio alla Costa d’Avorio per tornarsene in patria, essendo ormai possessore d’una ingente fortuna ed Antao di far ritorno al Portogallo per curare le numerose fazende che possedeva a Santa Caterina.

Il 24 luglio, dopo d’aver accordata la libertà ai due dahomeni che li avevano serviti con tanta affezione e di averli largamente ricompensati, Alfredo, Bruno, Antao, Gamani, Urada e suo padre s’imbarcarono su di un veliero che partiva da Kotonou diretto a Monrovia, la capitale della repubblica negra di Liberia.

Quattordici giorni dopo, Alfredo, suo fratello ed il fido Gamani prendevano posto sul piroscafo che fa il servizio mensile coll’Europa, mentre Antao s’imbarcava pel Portogallo conducendo seco Urada, per la quale provava già qualche cosa più d’una semplice affezione, ed il padre di lei.

Il bravo e coraggioso portoghese aveva però promesso di fare tutti gli anni una scappata in Italia per vuotare, in compagnia del valente cacciatore della Costa d’Avorio, una bottiglia di quell’eccellente vino dell’Etna che conosceva di fama.

Antao ha mantenuto fedelmente là promessa e ancora oggi, nella stagione invernale, si reca a Catania a trovare l’amico ed il giovane Bruno, ma non giunge però solo.... Lo accompagna l’ex-amazzone del feroce Geletè, divenuta, da parecchi anni, la signora Urada Carvalho.

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INDICE

Cap.    
I Sulle rive dell’Ouzme Pag. 1
II I misteri delle foreste 8
III La scomparsa di Gamani 14
IV Il fanciullo rapito 22
V L’odio di Kalani 30
VI I tenebrosi disegni del cabecero di Geletè 37
VII Il re di Porto Novo 43
VIII La carovana 52
IX L’assalto notturno dei Leoni 59
X La repubblica dei Popos 66
XI Il «mpungu 74
XII La scomparsa dell’amazzone 81
XIII La caccia al gorilla 89
XIV Le tracce dei ladri 94
XV La caccia ai rapitori 101
XVI Le formiche carnivore 108
XVII Il regno degli Ascianti 116
XVIII Caccia ad un elefante 122
XIX Sulle terre degli Ascianti 128
XX Il supplizio d’un ladro nell’Ascianti 136
XXI Attraverso la regione dei Krepi 144
XXII Assediato in una trappola da elefanti 151
XXIII L’imboscata dei Krepi 161
XXIV I fabbricatori di pioggia 171
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XXV La Città Santa del Dahomey 180
XXVI Il padre di Urada 189
XXVII Il cabecero Ghating-Gan 198
XXVIII Il ritorno di Gamani 204
XXIX Nella tana del leone 212
XXX Le stragi della «festa dei costumi 217
XXXI La spedizione notturna 225
XXXII L’incendio del recinto sacro 232
XXXIII La morte di Kalani 238
Conclusione 247

NOTE:

1.  Informi divinità, rappresentanti per lo più mostri o persone orribili, burlescamente camuffate, che i negri della Costa adorano. Generalmente sono di legno o di creta.

2.  Questo Behanzin è lo stesso che intraprese la guerra contro i francesi, perdendo il trono e la libertà.

3.  Storico.

4.  Bottiglia di vimini contenente dei sassolini ed adorna di conchiglie bianche.

5.  Questa regione è ora un possedimento della Germania.

6.  Storico.

7.  Anche Behanzin ci teneva assai alla sua orchestra e si dice che provasse un gran dolore, quando le armi vittoriose del generale Doods la mandarono a rotoli.

8.  Questo Ghating-Gan prese parte attiva anche nella guerra contro i francesi guidati dal generale Doods. Fu questo cabecero che fece arrestare, nel 1890, i negozianti francesi di Widhah, tenendoli prigionieri per novantatrè giorni, minacciando ad ogni istante di decapitarli e facendoli sovente maltrattare dai soldati.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.