Title: Il Cantico
romanzo
Author: Antonio Beltramelli
Release date: August 19, 2025 [eBook #76704]
Language: Italian
Original publication: Milano: Treves, 1906
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)
IL CANTICO
ROMANZO
DI
Antonio Beltramelli
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1906
—
Secondo Migliaio.
PROPRIETÀ LETTERARIA
I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda.
Published in Milan, May 10th, 1906. Privilege of copyright in the United States reserved under the Act approved March 3rd, 1905, by Fratelli Treves.
Tip. Fratelli Treves.
[1]
[3]
Nessuno pianse con me nè io volli che la finzione degli uomini fosse al letto di mia madre. Ella era bastata a sè stessa per condurmi all’età del volere; aveva sentito l’orgoglio della sua creatura senza umiliarsi innanzi all’ambiguo volto della pietà; la forza che l’aveva retta, dopo il peccato, nella vita amara, dovea bastarmi ad esserle unico compagno nell’ora terribile.
Qualcuno picchiò a più riprese all’uscio sconnesso, qualche sussurro di tremula voce mi giunse, voce improntata quasi a sincerità; ma io ricordai la solitudine di mia madre, allora; ricordai le lacrime lente che avevo veduto discendere per le sue gote quando le male femmine avevan detto di lei ogni vituperio, di lei ch’era buona ed aveva le mani prodighe e le parole gentili, e non volli.
Di fronte al mio viso strano, alle mie parole rudi vidi atteggiarsi a stupore, a insolvibile maraviglia più di un volto. Come mai, se tutte quelle creature avevano l’ipocrita convinzione di recare la tradizionale parola di conforto ad un figlio che stava per rimanere [4] povero e solo nel mondo, come mai venivano accolte sì malamente quasi andassero per mendicare? Non era impazzito forse Duccio della Bella? O non aveva cuore di figlio per la sua povera madre che si moriva? Io vidi negli occhi delle creature che venivano a picchiare sommessamente all’uscio della nostra stanza, vidi questo nuovo stupore di domande. Non si chiude la porta in faccia a chi giunge per curiosare, per godere dell’altrui sofferenza, se reca sul volto l’atteggiamento della pietà e, su le labbra, la parola del conforto; è socievolmente utile ingannarci a vicenda; dire: — Povero figlio! — e pensare che la propria miseria non ha avuto ancora prova sì aspra e consolarsi nel male altrui e fingere di parteciparvi.
Non volli. Di fronte al mistero potevo essere solo. Ella mi sarebbe stata grata, nell’ultima ora sua, della mia forza d’amore.
Anche Omero sostò qualche secondo su la soglia, ma senza levare gli occhi, senza dir parola. Si era tolto il cappello lacero; stava come su la porta di un tempio. Sentii che l’anima di lui mi era vicina. Poi come si era presentato scomparve, in silenzio.
La notte volgeva al suo colmo; la città era muta sotto le tenebre. Nella triste casa dove avevamo preso dimora da tanti anni, tutte le voci note si erano spente ad una ad una, o a gruppi, trascorrendo per gli anditi bui, risonando vicine e lontane nei meandri del caseggiato.
Voci di bimbi, da prima, quando il crepuscolo aveva acceso le stelle nei cieli; pispiglio di piccole voci superate dal sonno; poi incoramenti materni, sussurrio di parole gravi, accenti d’ira, d’augurio, di preghiera come tutte le sere finchè non passasse la campana del coprifoco, il consiglio del sonno che [5] scendeva dall’antica torre lontana. Allora (abitavamo un pianterreno oscuro ed umido) si udiva uno scalpiccio lento sopra ai nostri capi, si udiva ancora la eco di qualche suono ma debole, spento, remoto, poi null’altro.
Giunse, dalla finestra socchiusa, il canto di un ubbriaco; quando si sperse in vicoli lontani, dalla vigile torre del tempo scivolò nell’aria il battere dell’ora notturna. L’alba era prossima forse, non so: queste cose tornano alla mia memoria come da un’altra vita. Mia madre mi aveva chiamato già, per dirmi: — Duccio, guarda se c’è il sole ancora — e come aveva veduto il mio capo accennare negativamente: — Chi sa se lo potrò rivedere! — aveva soggiunto.
Poi non più. Le sue mani abbandonate su le coltri erano immobili e così il viso e tutta la persona come se l’anima di lei fosse esulata già incontro al suo sole d’oro.
Mia madre aveva l’anima di una capinera: amava le cose gaie e fiorenti, ciò che è di tutti, i tesori che l’egoismo umano non può limitare a pochi. Il dolore che l’aveva costretta a prove amare, era stato impossente a turbare la serenità dell’anima di lei. Ella aveva pianto, sì, e tutte le sofferenze trascorse si risvegliavano ora a spegnere la fiamma della sua vita; ma era donna anzitutto e della sua natura non sapeva vincere a quando a quando i pieni abbandoni. Era l’esule di un regno grande, mia madre, del regno della felicità per il quale era nata sì fine e gentile e così buona. Ma se il destino le aveva volto tutto il mondo in guerra, se l’aveva condannata a tutte le angoscie, non aveva potuto turbare l’anima di lei ch’era serena ed era, come il sogno di un fanciullo, luminosa di mattutine luci.
[6]
Le nostre gioie, nei giorni di libertà, quando gli uomini ci concedevano di seguire per qualche ora la volontà nostra, erano semplici; era ciò che per altri sarebbe poco.
Prendevamo la via dei colli. C’era una selva remota che conoscevamo, una selva di roveri antiche, piena di rovi, di rosalbe e di eriche; non distava molto dalla città; copriva un colle che si vedeva dal piano come un gran velo azzurro su i cieli.
Allorquando, desto di soprassalto per le prime voci del giorno, mi levavo sul letticciolo a guardare per l’aperta finestra e gridavo: — Mamma c’è il sole! — ella si levava sorridendo, si abbigliava in un battibaleno (di poche cose aveva occorrenza la sua fiera bellezza per trionfare) e, raccolte in una pezzuola le poche provviste necessarie alla nostra fame, si partiva.
Eravamo in aperta campagna che ancora cantavano i galli usciti appena su le aie o appollaiati su qualche fico elevantesi con le rame bistorte oltre le siepi; il sole era grande e vermiglio nè aveva preso forza ancora per il suo lungo cammino. Fiorivano gli orti; nei campi era la mollezza dei grani, delle biade e delle canape folte. Ella diceva: — Respira, Duccio; l’aria del mattino è vita! — e levava la faccia contro ai cieli quasi a comprendere tutta nel suo piccolo cuore la soavità dell’ora. Incontravamo qualche bifolco che scendeva al mercato; qualche barroccio che giungeva dalla Toscana (andavano le mule travagando col muso a terra, fra il fioco tinnire dei campanacci e l’uomo, abbandonato su l’alto del carico, dormiva con le braccia pendule) e qualche bimbo che usciva da una redola o da un’aia a sogguardare. Poca gente: sceglievamo le strade solitarie.
[7]
Mia madre aveva l’anima bambina. L’aperta purezza dei campi le dava l’aspetto ed il parlar giocondo. Io l’ho veduta ridere di nulla, così per quel commovimento che l’improvvisa freschezza dei campi pone in cuore a chi ha l’abito di una schiavitù giornaliera; l’ho veduta animarsi innanzi alla gioia del rifiorire ed aveva allora le sue parole belle ch’io ricordo come una musica lontana. Per quel giorno di felicità dimenticava tutto; non una volta ho raccolta dalle sue labbra una sola frase amara; voleva dimenticare. Forse le era rimasto in core qualcuno che non poteva porre in oblio qualcuno ch’era stato nella giovinezza di lei come un compimento; ma non seppi mai dalla voce di mia madre questa sua interna pena; era troppo fiera per parlarne a me, per confessarlo a sè stessa ella che sapeva l’amore e non la servitù dell’amore.
Quando il sole toccava già le cime degli olmi, quando lo stridere delle rondini, il canto delle allodole saliva più in alto, più in alto con tutta la luce d’oro, eravamo già su le coste dei colli. E, nella selva remota, ci fermavamo ad una macera. Poco più sotto, fra le querce, era una casa dalla soglia erbita. Non ricordo aver veduto mai affacciarsi persona su la piccola soglia.
Fra i varchi delle rame (erano come occhi azzurri aperti su l’orizzonte) apparivano le bianche navi del piano: le città e, come un sorriso d’infinite gemme, le case disperse fino ai limiti del mare.
La nostra vita era, in quel tempo, simile a quella di due fanciulli che di tutto si appagano perchè l’anima loro ha la freschezza di un’acqua che rivena di continuo dalla profondità delle rocce. Poco bastava alla nostra gioia. La terra, nelle sue libere forze, c’era dimora regale.
[8]
Nulla di più si chiedeva ed anche di questo gli uomini ci furono avari.
Comunque fosse, il poco ci parve assai e la serenità ci fu compagna assidua.
Mia madre era una santa; non da altri trassi quel poco che è in me di luce; quel poco ch’è in me di buono. La parte più oscura dell’anima mia ereditai dall’uomo che non conobbi e dalla società che mi accolse.
Per quanto tempo la guardassi spegnersi a poco a poco nel suo sopore, non ricordo. Non ricordo, sentivo dentro me il vuoto di una solitudine immensa; un martirio che non ha parole perchè non ha limite di sensazione, perchè è come il mistero.
Ella era lontana, partiva; chi sa mai se, prima di varcare la soglia oscura, avesse aperto gli occhi ancora per vedermi, per recare l’immagine mia nell’ombra delle pupille; poteva essere anche che l’anima sua non riapparisse neppure nell’attimo estremo; che quell’atteggiamento soave del volto di lei, fosse già l’addio. Oh! la morte della quale gli uomini temono l’orrore, non ebbe aspetti sinistri nel nostro tugurio: venne con ali lievi; col fiato di un infante alitò il suo soffio su la face semispenta e alla creatura che la terra si tenne non tolse la soavità del sorriso.
Pareva dormisse. Era giovane ancora e bella, anche nell’agonia. La nobiltà della sua fronte pallida ed ampia si accrebbe. La bocca esangue scopriva, in un dolce atteggiamento, il candore dei denti ch’io avevo veduto brillare tante volte al sole quand’ella rideva come una bambina.
Nonostante il grande silenzio io, ritto nell’ombra vicino al capo di lei, non potevo udirne il fremito del respiro.
[9]
Due volte ebbi un brivido improvviso alla nuca e mi chinai e per due volte sentii il battere lento del suo cuore.
C’era, a capo del letto, una rama d’olivo posata sopra una pila d’acqua santa; c’era una piccola croce nera ed un nido di passeri che avevamo trovato un giorno fra l’intrichio di un roveto: qualcosa di molto vecchio, qualcosa di eterno. Un simbolo di fede ch’era per lei come una memoria dolce della sua infanzia (null’altro perchè ella non pregava che in cuor suo, mentalmente e tutto il suo Dio era in lei e nulla all’esterno, se non la terra ed i cieli glielo significavano) e un ricordo d’amore abbandonato fra i rovi, sotto la tormenta. Ella parlava in quelle poche cose; era viva in quei segni dell’anima sua.
Così sentii, durante la terribile attesa, un mondo rivivere e scomparire; ebbi coscienza improvvisa di cose lontane alle quali mi parve tornare dopo un lungo sonno ed ebbi sensazioni oscure di smarrimento durante le quali altro non vidi se non l’immobile fiamma della lucerna, nè so che pensai. Fu un continuo vedere e svedere, un disperdersi, un ritornare, un’onda alterna di luce sopra una vastità muta di mare. Forse non soffersi allora. L’essere mio non era raccolto in un unico pensiero di dolore, ma era disperso nella vertigine di un turbine.
A volte, con una lucidezza che mi destava un brivido, vivevo dell’attimo che mi toglieva l’unico mio bene su la terra: mia madre; a volte, ricaduto nell’incubo, avevo l’incerto pensiero di non dover tornare alla luce del sole mai più. Vi fu un punto in cui mi sentii il singhiozzo alla gola, in cui sentii sciogliersi la rigidezza che teneva l’anima mia, per un intenerimento derivato più dalla pietà che mi destavo anzichè dal dolore dell’estremo abbandono e allora [10] non volli, ogni mia forza alerte risorse in impeto repentino, ricacciò le sciocche lacrime che stavano per isgorgare, mi rese la mia piena coscienza. Rude ma non imbelle. L’uomo che si compiange è vile.
In quell’istante udii il cigolio di un carro per la via. L’alba era prossima, sopra i mari lontani; ai limiti delle selve e dei campi dischiudeva le sue molli ciglia. Nel vicoletto angusto era ancor buio. Tutte le case tacevano nel sonno; le case delle prolifiche gramigne. Udii un breve pispiglio di voci infantili sopra il mio capo; udii il remoto uggiolio di un cane in guerra con qualche vagabondo che gli rubava i rifiuti delle vie; e lo scalpicciare del lampionaio che andava, in quell’ora antelucana, a spegnere le rare fiammelle che vegliavano all’angolo dei vicoli, pallidamente.
Io non sapevo se la notte fosse trascorsa o se cominciasse allora; del tempo ch’era volto su la mia veglia, non avevo coscienza. M’era presente il pensiero di lei, ora, di lei sola che giaceva innanzi a me viva per gli ultimi istanti. Ogni istante trascorso mi era come una lacerazione profonda.
Batteva il cuore del tempo inesorabilmente il ritmo della piccola vita; qualcosa ch’era disceso dall’eternità, che aveva avuto una sosta al raggio di un astro, ecco, l’eternità se lo riprendeva per la sua legge ignota; batteva il cuore del tempo, ritmo della vertigine nell’immensità, batteva il palpito angoscioso della moritura. Io lo sentivo dentro: nelle tempie, nel tremito dei polsi, nel cuore; lo sentivo in me ch’ero nato di lui come tutte le creature. L’Ombra si era affacciata agli orizzonti; giungeva, di secondo in secondo, con fulminea rapidità su la via del tempo, indicibilmente precipite dai silenzi [11] dell’alto sul piccolo cuore degli uomini che non sanno. Non mai come in quella notte, come in quell’ora, in quell’attimo, mi fu presente, visse ne’ miei sensi protesi l’indicibile angoscia che non ha paragone; non mai questo lampo luminoso che diciamo vita io vidi più chiaramente nel suo mistero e per l’impeto sovrastante, per il battere fulmineo dell’ignoto cuore, per l’ansia, per la paura, per l’orrore che n’ebbi, stetti con gli occhi sbarrati finchè ad un gesto di lei, della mia santa, sorsi in un grido terribile.
Fu allora che udii un lieve cigolìo dell’uscio.
Non mi volsi; qualcosa di me intese, non io. Ella non era morta, anzi socchiuse gli occhi che vidi sì bianchi e lontani; lontani, sì, per l’anima esule ormai.
Fu quand’era chiaro, quando cantarono i primi galli. Qualcosa di primaverile tornava. Il sole era sorto dai mari, veniva a chiamarla.
Cantarono i galli da tutti i cortili, dagli orti vicini. O voce fresca, eterna tremula albata come ti intesi in quell’ora non più potrai essermi discara! Mia madre pareva dormisse. Ad un tratto le sue labbra ebbero un tremito; la bocca s’aperse un po’ più.
Non vidi, non seppi: chi sa per quanto tempo avrei spiato così quel volto immobile e sereno, se una voce non fosse giunta simile ad un singhiozzo trattenuto chè ha tema di riuscir grave:
— Duccio della Bella, preghiamo!
Quando mi volsi, inginocchiato su la terra, il capo scoperto e gli occhi chini nel pianto, vidi Omero, il pezzente.
[12]
— Ci vedremo questa sera? — chiese Omero.
— Sì, questa sera verrò. Aspettami.
— Non giuocare d’orgoglio, per il tuo bene lo dico — riprese Omero mentre stavo per avviarmi.
— Non so che potrò fare — risposi.
— Cerca vincerti. Tutti abbiamo un padrone!
— A chi ubbidisci tu?
— Io sono un miserabile. Tu devi andare per le tue vie.
— Quali vie? Ci vorrebbero ali che non ho; poi, se anche le avessi, non saprei difenderle!
— Abbi fede.
— In che cosa?
— Abbi fede nella tua volontà. A questa vita non resisteresti.
— E che ne sai tu?
— Taci, sei un bambino. Io sono vecchio ormai. Ti dico che non sapresti resistere. In fondo in fondo non sei fatto d’acciaio. L’anima tua è più forte [13] del tuo corpo. Dopo qualche mese finiresti all’ospedale. Ciò è più temibile che la morte.
— Saprei scegliere fra i due.
— Ora dici una sciocchezza! Scegli prima, fin che hai tempo. Quando si è giunti a quel termine di via non si ha più facoltà di scelta. I patimenti ti rendono come una rama recisa: è il vento che la conduce.
— E tu come hai fatto?
— Ti desto invidia?
— Sì, io ti invidio.
— E perchè?
— Perchè sei padrone di te stesso; perchè hai vinto!
— Che cosa ho vinto, di grazia?
— La società.
— Io?
— Sì, tu: riducendo i tuoi bisogni al niente; accontentandoti di occuparti or qua, or là secondo i tuoi desideri, per la tua poca fame. Io ti invidio per la libertà che ti è sorella!
Omero alzò per un attimo gli occhi azzurri, mi fissò intensamente quasi a leggermi nel viso la sincerità, poi soccallò le palpebre scuotendo il capo:
— Io sono un miserabile!
— Ma non sei contento del tuo stato? — gridai afferrandolo per un braccio.
Omero ebbe un sorriso tristissimo:
— E puoi crederlo?
Dopo una pausa si sciolse lentamente dalla mia stretta e riprese a voce spenta:
— Bada a te, Duccio della Bella!
Poi raccolse la bisaccia che gli era caduta e se ne andò per il vicolo oscuro.
Ripresi la strada. Era tardi ormai; avrei dovuto [14] trovarmi un’ora prima al mio banco di scrivano perchè il principale mi aveva sovraccaricato di lavoro la sera innanzi. Da una settimana non vedevo il sole chè, dalla mattina alla notte, stavo rinchiuso nella piccola stanza di passaggio la quale da un andito buio conduceva allo studio del mio principale e avevo appena mezz’ora di intervallo per poter inghiottire alla lesta il pane e il companatico che portavo con me. Qualche volta ero costretto a lavorare, anche in pieno meriggio, con la lampada accesa. La stanza era a un pianterreno e aveva una finestra che si apriva in un cortiluccio angusto ed umido, simile in tutto ad un pozzo abitato da uomini pallidi e macilenti. Un poco di sole non scendeva mai nel pozzo oscuro che m’era di orribile tana.
Lavoravo a quel tavolo da molti anni. Qualcuno aveva creduto compiere un grande atto di beneficenza verso mia madre imprigionandomi così, avvelenando giorno per giorno la miglior parte della mia giovinezza, del mio sangue. Nel tempo trascorso non mi ero lamentato mai; troppe mi parevano le trenta lire che con gioia trionfale recavo ogni mese alla mia santa; a ben altra pena mi sarei sottoposto senza mormorare, pur di scorgere sul viso di lei un rapido balenio di felicità; ma ora non avevo più un cuore che mi attendesse, non avevo più una scusa a quel quotidiano consumamento. La mia vita era spezzata. Dall’istante in cui ebbi la piena coscienza di essere solo, terribilmente solo nel mondo degli uomini che si acceffano e si azzannano, si scoprì in me un essere nuovo per lo innanzi assopito; un essere fiero e ribelle che non voleva scomparire supinamente nel turbine di miseria che la società muove di continuo. Io non avevo più alcuna ragione di [15] starmene sottoposto, perchè nulla temevo, perchè ero solo di fronte all’indifferente cinismo di tutti, e odiavo la pietà, la sciocca pietà lacrimante.
Che avevo fatto perchè mi si togliesse il sole? Non ero nato di donna? Non avevo gli occhi e una voce per esaltare la mia gioia? E a quanto si valutava il mio sacrificio? A niente, a qualcosa che rasentava la fame. Inoltre che cos’ero io per il mio principale? Una macchina che vive, con la quale si può scambiare qualche parola e nulla più.
Io l’ho provato l’odio che gli apostoli biasimano. Ora, forse, dal punto così diverso dal quale considero il mio stato d’allora, sento il dovere di affermare: Non è buona cosa! — ma l’essere mio non consente. Pur ridendomi della giustizia sociale che è stata il manichino di tante vesti ed ha fatto bella mostra di sè sotto varî panneggiamenti nelle vetrine dei filosofi, degli apostoli e dei parolai, sento che, in certi casi, l’odio è una necessità di vita, una imprescindibile necessità alla quale non si può trasgredire senza pericolo di rimanere inesorabilmente travolti. Da questa forza gagliarda molto si attinge di energia; in essa si rinsalda ogni virile possanza. Di fronte a certi stati inumani, l’uomo non ha che tre vie di scelta: la rassegnazione, l’indifferenza e l’odio, solo quest’ultimo, terribile assillo del pensiero, può condurre a qualche compimento.
Allora, quantunque sentissi quanta dolcezza mi sarebbe derivata dall’amore che improvvisamente mi era mancato in mia madre e che credevo non dover incontrare mai più, non poteva soverchiare in me il sentimento.
S’io avessi pianto sarei giunto forse al suicidio o all’incoscienza. Inoltre ogni cosa si trasfigura nel [16] pianto. Io volevo veder chiaro innanzi a me, distinguere con nitidezza, con sicurezza, senza ingannarmi e senza temere. Ora non mi so biasimare. Ogni uomo che abbia battuto vie aspre sarà del mio avviso.
Camminai a buon passo. L’abitudine che aggioga l’uomo al suo carro sì ch’egli più non veda e più non senta e agisca come un automa, mi traeva ancora. Oltrepassai le vie principali urtando i passanti tanto andavo a fretta; quando fui su la soglia dello studio mi soffermai un istante per riprender fiato. Dalla porta a vetri vidi, nella semioscurità del mio tugurio, due donne vestite miserabilmente. Stavano col capo reclino, non potei distinguerle in viso. Sul tavolo era accesa la lampada. La finestra che si apriva sul cortile era chiusa.
Mi volsi a sogguardare una striscia di sole che illuminava il principio dell’andito, spinsi la porta ed entrai. L’aspro tocco del campanello a scatto mi destò una commozione violenta, guardai istintivamente l’uscio di contro, pronto già a rispondere agli insulti che mi attendevo dal principale, con parole audaci. Nessuno comparve. Le due donne si levarono in piedi. Le guardai sorridendo; s’avvidero subito di essersi ingannate tanto che mi ricambiarono il sorriso e risedettero.
Gettai una rapida occhiata sul tavolo: il lavoro era aumentato forse del doppio. Ripresi la sciocca fatica di amanuense attendendo. La certezza dell’attacco da parte del mio signore, pur dandomi un poco d’ansia, mi lasciava tranquillo circa l’ultima risoluzione che avrei presa.
Ciò che avevo pensato doveva accadere per fatalità di cose. Il tempo trascorse. Ad ogni minimo scotimento [17] della porta dello studio alzavo il capo e rimanevo qualche secondo in attesa. Gli occhi miei dovettero illuminarsi di luci sinistre se le donne che mi sedevano incontro mormorarono:
— Che avete?
— Nulla — risposi e, senza badar oltre alla loro curiosità, chinai il capo su le carte.
Dopo un lungo silenzio durante il quale si udì unicamente lo stridere della mia penna e il respiro asmatico della più vecchia fra le due donne, chiesi loro:
— Vi hanno annunziate all’avvocato?
— Sì.
— E che vi ha detto?
— Di aspettare.
— Siete qui da molto tempo?
— Da due ore forse.
— Non avete fretta?
— Ne avremmo molta — rispose la giovane, levando gli occhi — molta, perchè dobbiamo partire. Non si potrebbe chiedere all’avvocato di sollecitare?
Guardai l’orologio: erano le undici. Fra non molto il principale mi avrebbe chiamato per domandarmi conto del lavoro fatto.
— Abbiate pazienza qualche minuto — risposi — e sarete ricevute.
Le donne chinarono il capo, mute e rassegnate. Parevano, all’aspetto, due contadine benchè la giovane avesse il viso pallido e gentile. La loro imperturbabile pazienza nell’attesa, la tranquilla gravità che è tutta propria della gente dei campi, rendeva palese agli occhi miei la loro origine. La vecchia, in tutto il tempo che era rimasta seduta incontro a me, non aveva neppure una volta levata una mano dal [18] grembo; nulla era sul viso di lei che tradisse la noia, l’impazienza o la stanchezza. Su la sua faccia rugosa era un’espressione indecifrabile che molto teneva dell’indifferenza. Non un muscolo di quel viso ebbe una contrazione, nè gli occhi espressero un qualsiasi risentimento per la soverchia attesa: la vecchia donna sarebbe rimasta nell’identica posa, tutto un giorno, senza lagnarsene.
La giovane di tratto in tratto traeva un sospiro lungo, tremante come per rattenuti singhiozzi; teneva le mani incrociate, in abbandono sul grembo: aveva il capo reclino verso una spalla, dolorosamente. Una pezzuola nera, annodata alla gola, le copriva in parte i capelli.
Erano in abito di lutto. La loro presenza in quel luogo mi muoveva a curiosità. Tanti tipi strani e diversi mi erano passati innanzi durante il mio lungo soggiorno in quel tugurio; tutta la delinquenza umana dalla più raffinata alla più volgare, a quella dei trivii e delle suburre, aveva sostato al mio tavolo o m’era apparsa nella gabbia, al palazzo della giustizia. Avevo l’occhio esercitato ai tratti, alle caratteristiche di innumerevoli ceffi umani, sì che non destavano ormai più la mia attenzione.
Ora quelle due creature mi avevano incuriosito e le guardavo con vivo interesse. Non conoscendo la ragione della loro comparsa in quel luogo, mi pareva che un grande dolore e una grande speranza ve le avessero condotte.
Come un’altra mezz’ora trascorse, levai risolutamente il capo:
— Siete qui per cose gravi? — chiesi loro. Le donne si guardarono un attimo consultandosi, poi la giovane si levò e disse:
[19]
— Possiamo parlare con lei?
— Io sono nulla — risposi.
— Non aiuta l’avvocato vossignoria? — riprese la vecchia levandosi a sua volta.
— Vi ripeto ch’io sono nulla qui e fuori di qui e che non avrei potere di muovere neppure una piuma per voi. Però...
— Però?... — fece la giovane chinando un poco il viso ansioso verso me.
— Però potrò sollecitare l’avvocato perchè vi riceva.
— Ve ne ringrazio. La via del ritorno è lunga, vorremmo giungere a casa prima di notte.
— Vorrà ascoltarci l’avvocato? — riprese la vecchia sorridendo. Era nella domanda di lei e nel viso tutta l’ingenua rassegnazione di chi, per lunga consuetudine, ha l’abito del tacere e dell’ubbidire.
— Ma certamente! — risposi.
— Perchè vede — riprese la giovane atteggiando il volto a dolce atto di dolore — lassù, nei nostri monti, ci hanno detto che l’avvocato può tutto e noi speriamo nel suo potere. Siamo povere...
Ad un mio gesto involontario la giovane donna si interruppe:
— Non vorrà ascoltarci se non abbiamo danaro? — chiese.
— Secondo. A causa vinta ne avrete?
— No.
— Allora...
Vidi tale abbattimento improvviso dipingersi sul volto delle due creature che non ebbi core di proseguire.
— Ma di che si tratta? — ripresi dopo breve silenzio.
[20]
La giovane mi alzò in viso gli occhi suoi belli. Vidi come una fiamma tremare in fondo a quelle pupille oscure. La bocca un poco pallida discoperse, nell’atteggiarsi alla parola, due file di denti che erano come marmo lucente.
— Mio padre è in prigione — rispose. — Siamo rimaste sole.
— Da quanto tempo è rinchiuso?
— Da un anno. Compì cinque giorni fa l’anno. Eravamo di marzo. Mio padre conduceva un podere, un poderetto accasato che poco ci dava ma tanto che l’inverno s’avesse di che sfamarci. Era a solato; tutto il nostro bene era. E si campava, Iddio lo sa, si campava benedicendo. Ma un vicino nostro nutriva rancore per noi. Io non so perchè. Molte volte erano nate parole fra mio padre e il vicino, senza conseguenza però, perchè mio padre badava a sè e pensava che c’erano due donne su la sua via e che la vita di lui era un poco anche delle donne sue. Così viveva appartato. Allora Simonetto del Monte, ch’era il nemico nostro, disse: — Bardella è un vigliacco!...
— Disse così — interruppe la vecchia — lo udiron le donne dei Masi e chi lo volle udire l’udì, perchè lo disse ad alta voce, lo gridò ai venti...
— Allora mio padre fece un giuramento: giurò che Simonetto avrebbe avuto di che pentirsi...
— Giurò anche, su l’immagine di Dio, che non l’avrebbe provocato... rimise l’anima sua nelle mani del Signore...
— Sì, era buono mio padre....
— In venticinque anni di matrimonio non c’è stata parola fra noi — aggiunse la vecchia.
— ... ci teneva come le sue pupille. Che vuole? si [21] viveva in tre, s’era come una piccola nidiata fra le roccie aspre. Una sera la mamma dormiva. Dormivate è vero? — chiese la giovanetta volgendosi a sua madre.
— Sonnecchiavo — rispose la vecchia e con la cocca della pezzuola si rasciugò una lacrima.
— Dormiva, era quasi buio, io raccoglievo un po’ d’erba su per uno sgaruglio e cantavo. È la nostra gioia cantare, non abbiamo altro. Subitamente odo un grido dalla valle e mi pongo in orecchio ed ho un gran tremo al core. Vedo qualcuno che corre giù a precipizio. — Bardella!... — gridavano dall’altra costa del monte: — Bardella abbi core!... — Io non so come non venissi meno; giungi al basso dirocciando. Fu il Signore che mi resse. Su la porta di casa trovai la mamma. Ci guardammo senza parlarci. Stavamo per prendere la viottola dell’aia quando il babbo ci si presentò innanzi. Era trafelato, aveva tutta una mano insanguinata. — Che hai fatto? — domandò la mamma che si premeva il core: — Che hai fatto? — Mio padre ci guardò, lo ricorderò fin che viva, aveva gli occhi lucenti, terribili e disse: — Ho ammazzato Simonetto! — Noi sbiancammo inorridendo.
Aveva parlato a voce bassa frettolosamente; negli occhi suoi era dipinto il terrore della scena che veniva rievocando. Il pallido volto di lei si era animato un poco a sommo delle gote, la pezzuola le era ricaduta su le spalle lasciando libero tutto il tesoro de’ suoi capelli neri e ricciuti.
— Vorrà ascoltarci l’avvocato? — riprese la vecchia e la voce corrispose al ritmo del pensiero che le batteva nel cervello una diana uguale ed assidua.
— Siamo sole — continuò la giovanetta — siamo [22] povere e sole; si andrà tutti in consumamento se qualcuno non ci aiuta!
Mi levai. La mia condizione mi parve ancora superba di fronte alla miseria delle creature che mi stavano innanzi.
— Andrò ad annunziarvi — dissi. — È l’unica cosa che posso fare per voi.
Non avevo appena dischiusa la porta dello studio che la voce aspra dell’avvocato mi accolse con un:
— Chi vi ha chiamato, ignorante?
— Due povere donne chiedono di parlarle — risposi contenendo lo sdegno.
— Aspettino; ora non posso riceverle; ritornino domani alle due. In quanto a voi, debbo dirvi che sono stanco....
— Anch’io!... — risposi seccamente.
Dovette essere nella voce mia un acerbo rancore e una sfida se l’uomo abituato alla mia continua, pecorile sottomissione levò il capo a guardarmi con aria stupefatta.
Passò una pausa durante la quale sostenni lo sguardo di lui senza scompormi. Ciò finì per inasprire la sciocca vanità del mio padrone. Dopo avere arrossito e impallidito scattò in piedi d’improvviso e gridò:
— Mascalzone!
— Perdonate — risposi facendo gran forza su me stesso per contenermi — perdonate, ma dal momento ch’io torno uomo libero, voi non avete alcun diritto di insultarmi. Fino a poco fa ero ancora il vostro servitore, voi mi davate di che non morire, avevate padronanza su me; ora, rifiutando il vostro danaro, irrisorio compenso alla mia dura fatica, ridivento uomo. Posso guardarvi in faccia.
[23]
Il tono mutato, la fermezza delle parole, la calma con la quale avevo risposto ad una fra le tante ingiurie di cui mi gratificava, lo stesso pronome usato, più che dispetto per l’inatteso avvenimento, gli destarono stupore tantochè con voce meno aspra soggiunse, ma ebbero un tremito le parole:
— Potrò rimproverarvi, mi pare!
— L’avreste potuto, ma i vostri non erano rimproveri. Io per voi non sono stato mai qualcosa di diverso da un cane; un cane che può essere utile e che si tiene incatenato in una tana. Avete avvelenato lentamente la mia prima giovinezza; debbo dirvelo: io sono debole e malato per la vita alla quale mi avete costretto...
— Chi vi ha costretto?
— Il bisogno e voi. Il bisogno inumano, voi più crudele del bisogno.
— Basta — gridò scattando — vi ho ascoltato fin troppo!
— Vi brucia la verità!
— Andatevene!
— Non cerco di meglio! Fuori di qui, potremo incontrarci talvolta a viso a viso, allora vedremo fra i due chi cederà il passo.
Quando uscii dallo studio una felicità nuova m’irradiava. Ero libero, potevo andarmene ove meglio mi piacesse.
Le due donne che mi attendevano, mi accolsero con un sorriso di speranza e mi fu cosa amara il disilluderle.
— Ha detto di tornare domani?
— È inutile, non accetterebbe la vostra difesa. Io vi indicherò persona che potrà giovarvi. Venite.
Uscimmo. Non mai come in quel giorno, in quell’ora [24] vidi più bello il sole. La gioia di vivere faceva vibrare i miei sensi; negli occhi miei doveva essere una di quelle luminosità giovanili che danno l’ebbrezza. Mi sentivo libero. Per la prima volta tale coscienza era piena in me, soverchiava il mio desiderio. Avevo sognato per tanto tempo l’ora deliziosa della libertà assoluta! Venisse pure ogni sofferenza, era pronto a tutto; il passato mi era stato maestro; che potevo rimpiangere nella vita se il poco e qualche volta il niente era stata mia legge? A che poteva condannarmi la società per la mia ribellione se non a quella miseria ch’io conoscevo già da lunga data?
Tanto valeva, allora. Servire per soffrire era da bruti, tanto valeva andarsene con le proprie bisacce su le spalle, andarsene pel mondo; essere il viatore che non ha meta perchè una meta è già un segno di prigionia, il viatore che sorge col sole e col sole riposa ove si trovi; che non teme la morte, che nulla teme se non gli uomini e la loro civiltà.
A questo aspiravo; questo potevo fare il giorno stesso se avessi voluto. La terra ed il mare sono grandi: gli uomini sono come un mucchietto d’arena fra le due vastità. Per la prima volta mi trovavo di fronte al mio volere. Che potevo temere mai? Vedevo la morte sopra un trono di porpore coronato di stelle. La mia giovinezza l’avrebbe avuta come un’amante superba e si sarebbe abbandonata a lei delirando. Io non conoscevo l’amore.
Le vie erano luminose di sole, gaie di festosità primaverili. Le due donne mi seguivano o mi precedevano fra la gente affaccendata che andava per i portici. Guardavo di tanto in tanto la superba persona della giovane; era flessuosa e fine, era come [25] un viburno. Notai che molti si soffermavano o si rivolgevano per vederla passare.
Ottenni poi, da un giovane avvocato che conoscevo, il patrocinio della causa delle sconosciute. La loro gratitudine fu grande.
— Come vi chiamate? Dove potremo venire a ringraziarvi? — chiese la vecchia tenendomi fortemente serrata una mano fra le sue.
— Io non ho casa — risposi.
— Siete solo?
— Sì.
— Allora se passate dai nostri monti venite a salutarci. Noi stiamo a San Benedetto dall’Alpe. Chiedete delle donne di Bardella.
— Sì venite — sussurrò la giovinetta alzandomi in volto quegli occhi suoi ch’erano come velluto ed avevano una indicibile dolcezza di preghiera.
— Quando andrò in Toscana, verrò.
— Il Signore vi ha posto su la nostra via — disse ancora la bella creatura; poi arrossì come vide ch’io la guardavo troppo fissamente.
Quando fummo per lasciarci le chiesi:
— Come ti chiami?
Si tirò la pezzuola su gli occhi e sorridendo rispose:
— Io mi chiamo Pavona.
Poi si mise a fianco della madre e disparve fra la folla.
[26]
Qualche cosa era in me ch’io non sapevo vincere; qualcosa ch’era disceso nell’anima mia per inavvertite vie. Nell’attimo in cui stavo per troncare ogni legame col passato mi inteneriva con tale dolcezza di rimpianto che temetti esserne vinto. Ed era un niente per sè stesso; un amore di povere, di umili cose: del poco ch’era mio, ch’era stato di mia madre. Dovevo disfarmene chè, per la vita del domani, non m’era possibile serbare gli oggetti che erano stati compagni miei nel periodo più quieto della mia esistenza; disfarmene per sempre; ed era la certezza di questa eternità ch’io ponevo volontariamente fra il passato e l’avvenire, la certezza che non avrei potuto mai più ricuperare la benchè minima parte del piccolo tesoro di dolcezza dispersa, che mi riempiva di amara perplessità.
Passò qualche giorno senza che una decisione definitiva mi si presentasse. Omero rispettò il mio dolore nè una sola volta mi chiese che pensassi fare: socchiudeva la porta, mi guardava qualche secondo [27] e ripartiva senza nulla dire. Rimanevo accasciato nel più assoluto abbandono. La crisi fu quale non mi sarei aspettata; fu improvvisa, passò come un vento di bufera; non ne fui travolto e non so perchè. Mille voci sorsero in me, e mi consigliarono la schiavitù; mille dubbi si affacciarono e riaffacciarono alla mente mia; pareva ch’io albergassi una intera tribù di persone previdenti e sagge, di persone che temono il domani, che si preparano un niduccio a modo per non soffrire il domani, che tollerano con rassegnazione, che mangiano, dormono, generano in vista di una quieta morte, di un tranquillo riposo. E perchè mai dovevo soggiacere a tale incubo, a tale spavento? Che c’era in me di così vecchio, di tanto debole ch’io non avessi conosciuto ancora?
Rividi la mia tana, il mio principale; ripensai le interminabili ore di prigionia; mi tornarono alla mente le ingiurie, i patimenti, le terribili angoscie della mia giovinezza costretta a macerarsi in una inattività bruta, eppure qualcosa fu in me che cercò scusare, smussare, attenuare ogni asprezza; qualcosa fu che mi tenne dubbioso tuttavia. Una forza ch’io temevo e alla quale non potevo ribellarmi ad un tratto. Era l’ombra dell’anima stanca della mia stirpe; della secolare condanna che per lunga consuetudine, da padre in figlio, si era connaturata nella famiglia nostra, nella grande famiglia dei servi; una debolezza innanzi alla quale mi trovavo d’improvviso e che mi lasciava stordito.
Nasceva dall’amore che avevo per le poche cose ereditate da mia madre, poneva radici profonde in un sentimento più che umano, dilagava nel misoneismo, giungeva all’aggiogazione bruta.
[28]
Quando fui per disfarmi di tutto, quando giunse il rigattiere che avevo chiamato e cominciò a sbirciare, a porre le sue mani sozze su gli oggetti che mi erano sacri perchè erano stati della mia santa, perchè serbavano ancora nel loro colore, nella loro forma, e nella disposizione un atteggiamento del pensiero di lei, del suo volere; quando con l’indifferenza del mestierante che ha l’abito di simili faccende, levando le coltri del letticciuolo ov’ella era morta disse:
— Vi compro questo per otto lire! — sentii sì violenta la profanazione, tale impeto di sdegno mi invase che balzai in piedi e gridai su la faccia al malcapitato:
— Vattene, vattene via, vattene!
— E perchè? — chiese egli maravigliando.
— Non voglio vender nulla, vattene!
Allorchè ebbe richiuso l’uscio, mi sentii un groppo di singhiozzi alla gola. Poi mi si presentò il dilemma che mi arse nel cervello come una febbre: o rinunziare al passato, lasciar cadere come il coperchio di un’arca su tutto ciò ch’era stato dolcezza di un tempo — o riprendere, chi sa fino a quando, per sempre forse, la mia vita del giorno prima.
Non m’era possibile una qualsiasi decisione allora; nel pensiero travagliato, combattuto da mille correnti, non poteva presentarsi una limpida linea risolutiva. La libertà è un sogno di assoluto egoismo; finchè il minimo sentimento permane, nessuno può raggiungerla e non v’è uomo che sia tanto vicino a Iddio o ai bruti da esser libero da ogni sentimentalità.
Io fui umile e schiavo, in quei giorni; più che nell’anima mia, sentii mia madre nelle cose; era una [29] idolatria; un feticismo che aveva ragioni di abitudine e di dolcezza. Ogni uomo che voglia disciogliere qualcuno dei molteplici nodi che lo avvincono alla società, deve portare il suo tesoro con sè, tutto nel suo cuore. Questo intendevo, questo avrei voluto, ma la forza veniva a mancarmi; finchè un giorno chiamai Omero e gli dissi:
— Io non ho coraggio che mi basti a disfarmi di queste povere cose. Ti consegno tutto, vendi tutto. Ti aspetterò questa sera al fiume.
Omero mi guardò fissamente e mi chiese:
— Hai proprio deciso?
— Aiutami — risposi — aiutami tu che mi vuoi bene!
— Bada Duccio della Bella, ti poni sopra una via che ti farà sanguinare.
— Ho deciso: non tornerò più. Perchè vuoi accrescere la mia tristezza?
— Vorrei consigliarti se fosse possibile.
— Non eravamo dello stesso avviso qualche giorno fa quando ti narrai ciò che avevo detto al mio principale?
— Io tacqui. Ti approvavo in cuor mio forse, ma tacqui.
— Ebbene taci ancora, non aumentare il mio dubbio. Ma perchè tu, che mi sei amico fraterno, non mi aiuti a seguire la via che ho eletto?
— Perchè non ci vedo chiaro, perchè non so dove riesca.
— E che t’importa?
— Poco m’importerebbe se si trattasse di me. Tu non potrai essere mai un niente come sono io; tu non potrai mai dimenticarti come io mi dimentico. Tu hai una ragione forte, hai studiato, sai ciò [30] che è scritto nei libri. A proposito: vorresti vendere anche quelli?
— Anche quelli!
— Vuoi serbare nulla?
— Nulla.
— Io ti dico che piangerai! — esclamò Omero.
Per qualche istante rimanemmo di fronte muti; quando gli chiesi, e la mia voce ebbe un tremito:
— Vuoi aiutarmi? — non rispose ma scosse il capo affermativamente.
— Allora a questa notte?
— Sì.
— Al ponte del fiume?
— Sì.
Me ne andai lentamente. Volgevano le ore pomeridiane, i quartieri popolari nei quali si trovava la mia dimora erano deserti. Su qualche porta ruzzavano gruppi di bambini sudici: erano seminudi, avevano i capelli lunghi, aggrovigliati, e i visucci a volte terrei a volte diafani e gialli, non mai animati da un’onda sana di sangue; ruzzavano fra la polvere e le immondizie. Una vecchia sedeva su l’uscio di una lurida casa agucchiando intorno ad un cencio abbandonato sul grembo; vicino al rigagnolo d’acqua nerastra che scorreva in mezzo alla via alcune galline pasturavano gracilando. La giornata era tepida chè aprile era alla soglia dei cieli.
Mentre attraversavo un vicoletto buio nel quale le alte case si aduggiavano sentii chiamarmi:
— Duccio? O Duccio?
Mi volsi. La vecchia Simona, da un uscio dischiuso, mi faceva cenno perchè mi avvicinassi:
— Dove vai? — mi chiese.
— Perchè vuoi saperlo?
[31]
— Per nulla... così! Non ti ricordi più della tua vecchia Simona? Da quanto tempo mai non ci eravamo veduti?
— Da molto tempo infatti.
— Non vieni più da queste parti! Quando c’era la tua povera mamma le cose andavano diversamente; ora sei rimasto solo, ora la fai da padrone. Dove andavi?
— Ti preme saperlo?
— No; ma non si può chiedere?
— Non saprei risponderti — dissi freddamente.
Dopo una sosta, la vecchia Simona riprese:
— Ora penserai ad accasarti, non è vero?
— Ad accasarmi? E perchè?
— Perchè? Ma chi ti può reggere la casa, chi può conservarti quel poco che hai? La vita è difficile, una compagna ci vuole: io avrei la donna adatta al tuo caso.
— Proprio per me l’hai serbata?
— Sì. Ho pensato: Duccio è solo, Duccio è un buon figliuolo, guadagna abbastanza per reggere una famiglia: procuriamogli una famiglia. Avrai così, almeno, chi curerà i tuoi panni, chi ti preparerà il mangiare quando tornerai dal lavoro, chi ti farà compagnia...
— Guarda quante belle cose!
— Sì. Poi, detta fra noi, la gente cominciava a mormorare perchè non andavi più all’ufficio, perchè ti eri dato alla vita scapestrata. Mi hanno detto anche che ti ubbriachi, io non ci ho creduto ma l’hanno detto. L’altra notte han dovuto portarti a casa perchè non ti reggevi più! Un brutto vizio, figlio mio, guardatene. Il marito di Susanna è morto l’altr’ieri all’ospedale in causa al vino!
[32]
— Si occupano tanto di me?
— Sì, ti vogliono bene, la gente fa per tuo bene. Ti biasimano perchè dispiace a tutti che tu faccia così!
— E s’io ti dicessi che in tutto ciò non c’è una parola di vero, cosa ne penseresti della gente?
— Naturalmente si esagera; tutti esagerano ma ciò avviene senza che uno se ne avveda. Nel raccontare può sfuggire una parola di più. Però ascolta: tutto ciò che è passato si dimentica, ora devi seguire il mio consiglio. Vuoi conoscere la ragazza che ti ho destinato?
— No.
— E perchè?
— Perchè no! Non ti pare che basti?
— Ma vuoi dunque rimaner solo?
— Più che solo, solissimo!
— Vuoi continuare questa tua vita?
— Fino alla consumazione di tutte le mie forze voglio rimanere così.
— Fa come credi. Però, se fosse al mondo la tua povera mamma...
— Non parlare di lei!
— S’ella ti vedesse — continuò la vecchia — non potrebbe che soffrire per questa tua decisione. Ella che sognava per te un pane, una famiglia e dei figli...
— Non è vero! — gridai — Non continuare!
— Ma sei pazzo? — domandò Simona stupefacendo.
— Sono pazzo perchè non sono un servo come tutti voi.
— Ma che vuoi dire? Non ti capisco!
— Non importa, nonna Simona. S’io ti parlassi tre [33] ore, tre lunghe ore, non capiresti ugualmente una sola parola di ciò che ti direi.
— Quanto soffrirebbe povera donna! — esclamò la vecchia scuotendo il capo. Vidi sul viso ipocrita della femmina maligna ed insensibile una smorfia che avrebbe voluto essere di dolore e che mi destò ripugnanza per la troppo vile finzione.
Simona non aveva amata mai mia madre della quale era parente prossima; in molte occasioni ch’io ricordavo con chiarezza, aveva cercato esserle dannosa, le aveva procurato continui dolori, amarezze continue. Ella era stata prima ad abbandonarla quando, per la sua dolce colpa, le ero nato, frutto di un non egoistico amore; era stata prima a denigrarla, aveva detto di lei cose infami, l’aveva indicata alle compagne come meretrice, poi, nel seguito degli anni, per necessità sopravvenute, composto il viso a dolcezza, era ricomparsa nella nostra casa, chiedendo, benedicendo, esaltando. Mia madre conosceva il perdono e perdonò; dette ciò che poteva, fu buona come sempre, come sapeva esserlo lei che regalava e pareva togliesse. Ora io sapevo perchè Simona m’era apparsa innanzi; due volte era giunta fino al mio tugurio a cercarmi. Ella aveva una nipote, una brutta figlia infingarda, una sozza ignorante che moveva a schifo per la sua volgarità — erano sole e poverissime, incapaci di qualsiasi lavoro; necessitava loro un uomo che si sobbarcasse la spesa del loro vagabondaggio e andavano cercandolo. Simona aveva pensato a me; mi credeva docile, umile, maneggiabile; aveva scambiato il profondo amore che portavo a mia madre con la debole sommissione degli impossenti e aveva creduto potermi facilmente aggiogare. Di fronte all’ira che le [34] sue parole avevano destato in me, s’era trovata sì d’improvviso sbalzata nell’inatteso che una meraviglia infantile aveva sconvolto il pensiero di lei.
Per parte mia, quell’incontro bastò perchè la decisione dei giorni innanzi mi tornasse al pensiero chiara e precisa, vincesse gli ultimi dubbi, le ultime sentimentalità; mi parve anzi che mia madre stessa mi avrebbe consigliato partire, mia madre che aveva a sdegno ogni cosa vile e volgare.
L’ambiente nel quale mi trovavo mi riusciva intollerabile, era un legame che dovevo infrangere assolutamente; mi sentivo troppo lontano da tutta quella gente cieca; troppa noia mi destava la confidenza con la quale ero trattato e lo spionaggio e i consigli e i pettegolezzi; non volevo essere e non ero uno dei loro, una bestia da soma per tutti, dalla donna in su; non volevo rimanere nel cielo breve al quale pareva avermi condannato la sorte. Il mio spirito alerte riprese le sue vie ribelli; ritrovai me stesso con grande gioia.
Solo col mio tesoro: un niente per gli uomini, l’infinito per me!
— Sono le ultime tue parole quelle che hai detto? — riprese Simona levandomi in viso gli occhi biancastri.
— Sono le ultime; almeno così spero perchè parto.
— Parti? E dove vai?
— Non lo so. Dove vorrà il mio capriccio.
— Ma per quanto tempo rimarrai assente?
— Per sempre, spero.
— Vai in America?
— No.
— Ma che vorresti fare?
— Nulla.
[35]
— Il vagabondo?
— Sì.
— Finirai male.
— Ti dispiacerebbe?
— Sì, perchè ti voglio bene, perchè penso a quella santa donna di tua madre...
— Ti ho detto che non devi parlarne!
— Perchè?
— Perchè non voglio, perchè sei un’ipocrita e t’infingi e non l’hai amata mai!
— Io?
— Tu! Ricordo tutto, non meravigliare, ricordo quanto l’hai fatta piangere, quanto l’hai amareggiata con ogni tua viltà.
— Io? — riprese Simona sbiancando. Le sue vecchie mani tremavano; era brutta, ributtante, odiosa; ne ebbi ribrezzo e non volli continuare; d’altra parte il desiderio di andarmene, di fuggir lontano, di togliermi dagli occhi la visione di quella miseria era sì violento che non badai a ciò che la vecchia rispose; le volsi le spalle e fuggii.
Per tutto quel giorno errai senza meta. La felicità era tornata con la perfetta coscienza del mio stato; la felicità dell’uomo che sente tutta la sua giovinezza tesa violentemente verso le vie dell’ignoto, che si sente libero da ogni vincolo umano e sa di poter vivere e morire senza che l’egoismo altrui glie lo vieti o cerchi vietarglielo. La vita è una continua lotta di egoismi che l’amore tenta nascondere. Poca è la bontà: esiguo lago di fronte al grande deserto.
Allora credevo che l’uomo potesse trovare unicamente in sè ogni fonte di energia e credevo che la solitudine, l’isolamento e l’ampia libertà fossero per la creatura come lo spazio per le stelle, sola ragione [36] d’esistenza; ebbi a vedere poi come i ribelli cadano a volte in più facili inganni e come l’illusione si compiaccia aprire campi subito preclusi dalla realtà. Comunque sia, l’amarezza che venne incontro a me come un fiume straripante nell’impeto di una piena, nulla mi lasciò d’amaro. Vano è sospirare e dolersi se ogni creatura ha le sue vie tracciate; pessima cosa è ottenebrare il pensiero degli uomini e render loro più oscuro l’orizzonte. Chi può destare un sorriso o una speranza e illuminare un’anima così faccia che è bene: poca è la gioia e grande è il desiderio!
Quando fu notte uscii dalle porte della città, mi diressi verso il ponte che sorgeva in solitaria campagna e attesi. L’aria era fredda; nel cielo era uno stellato fisso. Passarono due plaustri e si persero lungo il doppio filare di tigli che fiancheggiava la strada per lungo tratto. Nella semioscurità si vedevano le acque trascorrere; scintillavano a pena piccole gore qua e là, fra le sabbie abbandonate dal fiume.
Ad un tratto vidi un’ombra salire il pendio del ponte.
— Omero? — chiamai.
— Sono io — rispose la voce buona.
Quando mi fu vicino e potei discernerlo con maggiore chiarezza vidi che recava su le spalle due grandi bisacce. Andava un po’ curvo per il peso di tale fardello.
— Hai fatto? — chiesi.
— Sì.
— Tutto bene?
— Benissimo.
— Di quanto disponiamo?
[37]
— Duecento lire.
— Hai detto?
— Duecento lire.
La somma mi parve enorme.
— Ma come mai hai racimolato tanto?
— Ti pare molto?
— Troppo.
— Eppure ti hanno rubato più della metà.
Trascorse una pausa. Omero sedette vicino a me su la spalletta del ponte.
— Hai consegnato la chiave, hai compito ogni formalità?
— Tutto è fatto.
— Grazie — risposi.
— Ed ora.... — riprese Omero levandosi.
— Convien trovare un angolo per dormire.
— No, per questa notte cammineremo.
— Verso dove?
— Ti debbo essere guida?
— Sì.
— Allora vieni con me, lo saprai.
Lentamente, senza dir parola, l’uno a fianco dell’altro, ci perdemmo sotto la notte. Così cominciava il mio cammino verso l’ignoto.
[38]
Un tumulto di voci aspre ci ridestò di soprassalto. Omero balzò in piedi primo.
— Dove siamo? — chiesi soffregandomi gli occhi.
— Su lo strame — rispose Omero. — Levati, la strada non è compita. Sei stanco ancora?
— No. Ho dormito molto?
— Dieci ore buone. Il giorno è chiaro.
— Riprendiamo subito la strada?
— Sì.
— Sono con te — risposi e mi levai dall’aspro giaciglio che la stanchezza mi aveva fatto di piume. Scendemmo dal fienile l’un dopo l’altro per una scala a piuoli appoggiata all’alta finestra. Non appena fummo all’aperto un alito di brezza marina ci avvolse; fu come una diana ai nostri sensi intorpiditi ancora.
Da tre giorni continuava l’ininterrotto cammino; ci eravamo dilungati di buon tratto dalla nostra piccola terra del piano. Ove si andasse non sapevo; [39] Omero voleva provare la mia resistenza e la mia volontà.
Giunti su l’aia della cascina nella quale avevamo trovato ospitalità per quella notte, vedemmo aggruppati vicino ai pagliai, molti uomini che discutevano ad alta voce anfanando. Passammo oltre senza esser notati.
Il sole ascendeva fra le betulle lontane, nella vastità. Andavan gli albastrelli e le canevaiole a lunghi sciami per l’aria.
— Mantieni il passo — mi disse Omero — Non affrettarti in principio per rimanere a mezzo. Mantieni il passo.
— Ma tu sei un orologio!
— Bisogna saper far calcolo delle proprie forze! Sono il nostro patrimonio. Parlo per esperienza.
— Hai viaggiato molto?
— Quanti anni credi tu ch’io abbia?
— Quaranta.... quarantacinque.... non saprei.
— Ho cinquant’anni, sono stato sempre solo. Quando la primavera era ancora per me come una invincibile malìa abbandonai la città dove qualcuno sapeva ch’io esistevo. Da quel tempo non ho avuto posa un giorno.
— E come hai vissuto?
— Come vivono i pari nostri: con niente.
— E non hai cercato mai un lavoro fisso?
— Ho lavorato a tutto, su la terra e sul mare; tutto è stato buono per me, pur che fosse di breve durata.
— La solitudine non ti ha fatto mai paura?
— La solitudine?... Che cos’è?... Tu parli di cose ch’io non ho conosciuto mai, figlio mio.
Curvo un poco sotto le sue bisacce continuò la via [40] lungo gli scrimoli dei fossi. Vestiva un soprabito di antica foggia fatto per un dosso molto diverso dal suo: ciò che doveva giungergli alla vita, si fermava alle spalle; aveva un paio di calzonucci miseri che pareva facesser somma fatica a coprirgli la caviglia, tanto erano aggrottati e sdegnosi, poi le scarpe rotte e un berretto a visiera compivano il suo abbigliamento. Era forte e muscoloso a dispetto dei patimenti sofferti. La sua faccia serena e bonaria, raramente si offuscava; ogni più occulto pensiero poteva leggersi su quel viso nobilmente aperto.
Anche quel giorno, per tutto quel giorno, camminammo. Verso sera la stanchezza mi fu come un lento veleno onde le mie facoltà cerebrali si ottenebrarono.
Andare per una via interminata, scalpicciando fra la polvere, dall’alba al tramonto; sostare brevemente a qualche ombra e ripartire quando il tepor solare insonnolisce un poco e dolce sarebbe l’abbandono; proseguire sotto al sole mutando qualche rara parola, fino allo smorire dei cieli, fino all’ora che langue in ogni aspetto soavemente; scambiare sempre più rari i passi; aver gli occhi stanchi, la mente ottenebrata, sperduta verso un tutto ed un nulla di cui più non afferra i contorni: tutto ciò è simile a un sonno di morte nè triste nè amaro che per inavvertite vie vi raggiunge, spegne la vigile coscienza e all’improvviso vi abbatte lungo la via senza che vi avvediate di cadere per non più risorgere forse. Questa è la stanchezza, simile alla morte, che sanno i viatori raminghi; coloro che una legge oscura condanna ad errare per insoddisfatta bramosia di libertà di giorno in giorno fino alle soglie estreme.
Poco è il pane e grande è il bisogno, più si toglie [41] che non si dia; v’è giorno in cui gli occhi non corrono ai cieli ma, chini su l’aspra via, si annebbiano; v’è giorno in cui il pensiero non indaga, nè crea, nè gioisce, ma si arresta, intorpidendo, ai moti della persona e allora si contano i passi con assidua cura finchè il grido solivo delle cicale che scende in onda alterna come un ritmo di acque profonde, come un mare di infiniti suoni, non tolga anche l’ultima facoltà numerica alla mente vigile. Così la vita con lieve mano si dislaccia e ci abbandona.
Non ricordo ove fossimo — ricordo a pena un gran cielo rossigno innanzi a me e il suono della voce di Omero:
— Che hai, ragazzo?
Poi mi sentii sorreggere, poi vidi ancora qualche ombra di rama e tutto trascolorò.
Era notte quando riapersi gli occhi. Omero, seduto vicino a me, frugava nelle sue bisacce; al termine della via, verso levante, era un bagliore bianchiccio.
— Bevi — mi disse Omero porgendomi un gotto; poi soggiunse:
— Come ti senti?
— Bene; ma che ho avuto?
— Nulla. Sono le prime stanchezze. Ho voluto provare troppo duramente la tua resistenza.
— Dove siamo?
— A tre chilometri da Comacchio. Puoi proseguire?
— Sì.
Mi rialzai. Omero mi offerse il braccio. La strada andava fra le acque delle lagune verso una luce che pareva sorgesse dall’ombra di un’immensa nave a pena intravveduta. Intorno a noi era il silenzio della [42] distesa infinita. Su qualche argine sperduto luceva una fiammella, ardente forse innanzi a qualche icone sacra alla notte e al palpito stellare.
La distanza sminuiva sensibilmente; si accennava già la grande nave in linee più decise e cresceva su l’orizzonte, con la sua ampiezza, il suo lume.
— Quanto ci rimane ancora? — chiesi ad Omero.
— Di che cosa? — rispose volgendosi il mio compagno.
— Di ciò che guadagnammo prima di partire.
— Quasi tutto.
— Abbiamo vissuto di niente allora.
— Di ciò che era necessario. Bisogna ricordare che dall’oggi al domani si può venir meno. In questo caso se si possiede nulla, gli uomini non ci accoglieranno. Siamo bestie inutili, Duccio della Bella! Ricordati questo, sopra tutto.
— Ricorderò — risposi. Aggiunsi: — Ci fermeremo a Comacchio?
— Sì.
— Poi?
— L’avvenire è nelle mani del destino.
— E così sia.
Dopo non molto traversammo, sopra un ponticello arcuato, un canale che si lanciava verso levante costeggiando i brevi giardini della città delle acque. Una burchiella avanzava lentamente sospinta da un invisibile navarca. Fummo su la lunga via che traversa la città in tutta la sua lunghezza; ne percorremmo buon tratto senza incontrare persona, volgemmo poi a sinistra seguendo un canale e, fra basse dimore ed alte canicciate, riuscimmo ad un campiello che si apriva da un lato su la laguna. Una sola fiammella diradava l’oscurità del luogo. Le piccole [43] case senza imposte alle porte si addossavano tutt’intomo strette nel buio contro l’immensità; da qualche andito traluceva a pena un bagliore. Non si udiva voce. Tutti i pescatori dormivano forse od eran lontani alla pesca di frodo nella notte illune e profonda.
Omero si appressò ad un andito e gridò per due volte consecutive:
— Giovanni della Nave? O Giovanni, sei desto?
In breve l’andito buio si rischiarò. Udimmo un lento batter di zoccoli su l’impiantito e vedemmo avanzare, illuminato da una lampada appesa ad uno spago, un uomo su la quarantina, forte ed adusto.
L’ondulare della lampada ch’egli teneva sospesa innanzi a sè nella mano sinistra, illuminava ed ombreggiava a vicenda il volto di lui sì che, per il giuoco delle luci, pareva che gli occhi suoi, fissi nello scrutare, vedessero e svedessero d’improvviso nella tenebra notturna. Teneva stretta fra i denti una breve pipa chioggiotta; aveva due larghe brache di bordatino a bande rosse e celesti e una camicia azzurra, aperta sul petto. I piedi nudi avea infilati negli zoccoli e sul capo portava la galosa: un berretto conico di feltro nero.
Quando fu sul limitare chiese:
— Chi sei?
— Sono io, Giovanni della Nave, io, il tuo vecchio amico Omero.
— Omero! — esclamò con voce forte l’anziano. — E da dove vieni?
— Da lontano.
— Vuoi dormire?
— Sì. Ho con me un compagno. Puoi darci ricovero?
[44]
— Entrate — rispose Giovanni e si volse per l’andito invitandoci a seguirlo.
Entrammo in una stanza angusta, umida, nerastra. Giovanni della Nave appese la lampada alla cappa del camino ch’era basso sì che il focolare si trovava appena un palmo sopra l’impiantito.
In mezzo alla stanza era una lunga tavola con a torno alcune panche; alle pareti erano appese stanghe, forcini, reti, fiocine ed altri attrezzi da pesca; un esile battello giaceva rovesciato lungo una parete, innanzi ad una porticina che si apriva sul canale. Su la cappa del camino, in alto fra alcuni rami di palma, era una vecchia immagine stinta di un santo ignoto.
Giovanni della Nave trasse una panca più presso la tavola e fece un cenno perchè sedessimo, poi prese da una vecchia madia due bicchieri, li risciacquò in un orciuolo e ce li pose innanzi tutti stillanti.
— Questo vi sarà come manna — disse mescendo da un ampio boccale un vinello nero che arrubinava rapidamente il bicchiere. — È vin di Bosco e del migliore.
— Buono — fece Omero — sa di ferrigno.
— È la nostra salute — riprese Giovanni della Nave — ci preserva dalle febbri; ci dà un po’ di calore, l’inverno, quando la pesca è opera aspra e c’è da morirne; ci aiuta a campare. È santo come l’occhio di Dio.
Soggiunse poi:
— Bevetene chè non fa male.
Omero tese il suo bicchiere per la seconda volta e per la seconda volta, socchiudendo gli occhi, assaporò il gusto asprigno del vino salmastroso.
— Dunque — fece Giovanni della Nave riaccendendo [45] la sua pipa di cotto — che pensi fare col tuo compagno, Omero? Rimarrai fra noi?
— Qualche giorno, poi si vedrà. C’è lavoro?
— Niente; c’è da industriarsi. È abile il giovanotto? — disse indicandomi con un cenno del capo.
— È nuovo ma si farà. E i figli tuoi?
— Sono fuori a Campo[1] Rillo; tentano la sorte. Serena tornerà fra poco, è ancora al lavoro. Pietro è stato in prigione, a scontare la condanna dell’inverno scorso. Gli hanno tolto tre volte il battello, la fiocina e la preda. Comunque sia la pesca ha reso. Ora è più forte che mai.
— Si è ribellato alle guardie?
— No, si è lasciato prendere sempre, da buon figliuolo; tanto, ribellarsi vuol dire accrescere la pena.
Tacemmo. Si udiva presso la piccola porta il risciacquio dell’acqua mossa dal palpito del non lontano mare; era un battere molle e continuo, un assiduo lappeggiare saliente dal buio del piccolo canale che scorreva fra le canicciate e i muri rozzi delle basse dimore. Null’altro suono si udiva: pareva che la muta città fosse stata presa dall’incantamento delle umili acque e che solo le stelle avessero pe’ suoi canali lampeggiamenti di vita.
— Serena tornerà fra poco e appronterà il mangiare — riprese Giovanni della Nave. — Avrete fame.
— Un poco — rispose Omero.
— Siete digiuni?
— No, abbiamo provviste per due giorni ancora; ma si bezzica, non si mangia. È utile far così per continuare la via, altrimenti ci si intorpidisce e si [46] cade nel sonno. Per viaggiare conviene essere leggeri.
— Hai sempre le tue belle dottrine di un tempo! — esclamò Giovanni sorridendo.
— Se così non fosse potresti tu vedermi qui, dopo tanti anni, sano e forte?
Tacemmo di nuovo. Il conversare languiva chè nessuno fra noi era loquace e nessuno coltivava la vanità della propria parola e parlava per ascoltarsi; ciò ch’era necessario dire lo si diceva nella forma più breve senza perdersi in commenti o ampliazioni; buono era l’intendere e per l’intesa bastava il poco. Odiavamo l’inutile, tutto ciò che è vanità, fiorettatura leziosa; tutto ciò che oscura la limpidezza dell’idea traendola per vie diverse. La parola doveva essere al pensiero come l’arco alla freccia: la rapida forza che trae alla meta; nulla più. Ciò corrispondeva alla rude armonia di tutta la vita nostra.
Per tale sentimento ch’era una legge, in poche frasi si esauriva ogni argomento di discorso. Il silenzio non ci turbava: ognuno era libero di seguire le sue vie di ideazione senza preoccuparsi del compagno che faceva altrettanto.
Con i cubiti appoggiati alla tavola e il capo chino fra le palme, Omero e Giovanni stettero lungo tempo l’uno di fronte all’altro assorti; pareva fossero stati così fin dalla nascita senza lasciarsi mai, tant’era la dimestichezza del loro abbandono. Omero aveva chiesto e Giovanni aveva dato, ciò era ben naturale sì da una parte come dall’altra. Non avevano avuto maraviglie per l’improvviso incontro; pareva si fossero lasciati la sera innanzi e non si vedevano da quindici anni almeno.
Tale apparente indifferenza non derivava da insensibilità; [47] era la risultante di una consuetudine antica e di un sentimento: la consuetudine dell’ospitalità e il sentimento di una dignità virile che non ammette svenevolezze.
Omero e Giovanni della Nave, come vidi poi, erano amici sinceri e pronti al reciproco sacrificio; pure non una volta udii l’uno rivolgere all’altro una parola d’affetto. Più ai fatti che alle parole si temprava il loro sentimento fiero.
Trascorse non so quanto tempo nella muta attesa. Il sonno mi appesantiva gli occhi, scendeva lento, irresistibile come un delizioso torpore. Ad un tratto un rapido battere di zoccoli e il cigolio di una porta che si apriva mi ridestò. Levai il capo; Omero e Giovanni si eran volti verso la soglia su la quale era apparsa una giovinetta.
— Hai tardato — disse Giovanni.
— Babbo, il lavoro era molto e forte — rispose la giovanetta.
— Prepara subito la cena e pensa agli ospiti.
— Sarà fatto.
Ci passò innanzi e ci salutò con un chiaro sorriso. Giunta presso il focolare slacciò il lungo zendado turchino che portava piegato su la fronte e su le guance in bande ieratiche e sciolto lungo la persona magnificamente l’appese al muro; e apparsa così co’ suoi bei capelli neri raccolti a crocchia su la nuca e tutti vivi in superbi ondulamenti, apparsa come in un guizzo di tutta l’esile persona ch’era simile al viburno e alla molle ninfea, nella grazia del suo viso pallido, ci sorrise ancora prima di chinarsi sul focolare ad avvivar le bragi.
— Bella figlia — mormorò Omero rivolto a Giovanni. — Ti si è fatta grande e bella!
[48]
— Non canzonate! — rispose Serena volgendo leggermente il viso sopra la spalla.
— Non canzono. Se non credi a me domandalo al compagno mio che legge i libri e se ne intende. Duccio, non ti par bella?
Ella volse su me gli occhi neri che aveano l’estrema limpidezza dei cieli, e una fuggevole onda di sangue le arrubinò le guance; poi riabbassò il capo e riprese le umili faccende.
Quando Omero mi si distese a lato sul giaciglio dopo avermi riassettato una coperta ai fianchi e disse:
— Ora sosteremo qualche tempo; questa terra è buona ed è bene tu la conosca — non ebbi l’aspra sensazione che mi aveva procurato già ogni altro pensiero di sosta; qualcosa era in me che cantava una nenia avvolgente, qualcosa che era simile a una freschezza di acque, a una mattinale dolcezza. Io mi assopivo sorridendo, dimentico in parte di ogni pensiero diverso.
Ricordo che, prima di prender sonno, apparve e riapparve alla mia mente come in un cerchio, in una corona tutta di fiori e di gemme il motto di un antico saggio: — Solo l’amore è eterno!
E il mio senso ribelle sostò su le vie dell’incantesimo eterno.
[49]
Le amiche la chiamavano Serenella perchè era esile ed aveva molta soavità in ogni suo gesto; forse avevano ingentilito il nome, così, senza pensare, per il senso di rapporto che mantiene, nelle anime semplici, le armonie fra i suoni, le cose e le creature.
Serenella era un nome aggraziato; le stava bene come una pallida veste alla persona, o un nimbo a’ bei capelli fluttuosi. Toltone il padre di lei e i fratelli che continuavano a chiamarla Serena, gli altri avevano adottato il dolce vezzeggiativo.
Serenella possedeva, come tipo, le peculiari caratteristiche della sua razza mantenutasi intatta in quelle terre remote, circondate dalle acque e dai boschi; ricordava certe esili figure regali che gli artisti del musaico perpetuarono nelle silenti basiliche di Ravenna; figure vive per gli occhi nostri che le videro lungo le vie dell’antica città imperiale o le scorsero nella vastità dei piani o su lo sfondo luminoso [50] del mare. Era diritta e fine; la persona, dalle movenze squisitamente eleganti, aveva nell’armonica mollezza, nella rapida agilità dei gesti, nel languore degli improvvisi abbandoni un’estrema grazia di voluttà. Era pieghevole, armonizzava in ogni sua posa, aveva tratto dalle acque le inconscie accortezze dell’avvolgimento sì che pareva dovesse darsi tutta alle carezze come l’esile viburno si dona al fremito delle correnti che l’incurvano e lo fanno tremare in uno spasimo che non ha tregua.
Così le compagne di lei, le figlie della città sperduta fra acque e cieli, vivevano nel dominio del piacere che signoreggia la bassa Romagna e sì la tiene che tutta ne viva fremendo.
Ma Serenella differiva dalle compagne; era come l’argentea betulla fra i pioppi. Gli occhi di lei, degli infiniti campi lagunari che continuamente riflettevano avevano serbato l’incantesimo, la mistica grazia che si diffondeva sul pallido volto, su la fronte pensosa. Ell’era in tutto simile alle figure ieratiche ferme in un dolce segno, da artisti ignoti, nelle oscure cattedrali bisantine. E quando racchiudeva l’ovale del volto nello zendado azzurro e, negli ampi panneggiamenti si perdeva la bella persona come un giglio fra le nebbie del vespero, allora gli occhi suoi, solo gli occhi a volta a volta ingenui ed oscuri nei quali pareva affondasse il cielo con tutti i suoi bagliori, l’animavano dell’anima stessa che gli antichi musaicisti dettero alle loro vergini che una mistica sensualità transumana. Ell’era, così, lontana sorella delle fanciulle che l’arte predilesse od elevò a simbolo religioso. Fioriva dall’anima di lei e dalla persona gentile il dolce sensualismo avvolgente e la soave grazia del sogno indefinito che [51] le solitudini acquatili e gli orizzonti che hanno tenui confini di nebbie alimentano nelle creature sacre alle silenti case.
Non era loquace: amava atteggiare il volto in segno di consenso o di denegazione anzichè parlare, eppure la voce sua era armoniosa e insuperabile nei canti a distesa nei quali si compiaceva effondersi certe volte, di prima sera, accompagnandosi col lento battere degli zoccoli sui ponticelli arcuati o sul selciato delle anguste fondamenta.
Partiva la mattina col cestello infilato in un braccio e tornava a sera tarda quando tutti attendevano, attorno alla tavola, il ritorno di lei per iniziare la cena.
Le compagne sue che giungevano dai quartieri di Santa Maria in Aula Regia, dai quartieri di San Mauro, dalle casupole nascoste da ampie canicciate o dormienti sui canali in un sonno di secoli, la chiamavano quando il sole sorgeva:
— Serena?... Serenella?...
Si udiva il mormorio delle giovani voci chiare e squillanti. Ella si gettava su le spalle lo zendado azzurro, salutava Omero che ordinariamente a quell’ora era intento a rammendare i nostri panni sdrusciti, e usciva senza rivolgersi, come una reginetta. Omero levava gli occhi a seguirla, levava gli occhi sopra certi suoi occhiali grotteschi ch’egli teneva cari più del pane e rimaneva con l’ago sospeso in aria senza compire il punto finchè ella non fosse scomparsa.
Giungeva dall’esterno la festosità delle giovani creature non intristite dal continuo lavoro; era una gaiezza mattutina, come un frullo di passeri da pioppo a pioppo quando il cielo si inalba; poi, alla comparsa di Serenella, fiorivan le voci a coro:
[52]
— Presto, signora!
— Serena, hai gli occhi del sonno ancora!
E si udiva il riso della bella figlia ch’era squillante e tremava in rapido giro estinguendosi dolcemente.
Andavano pei verdi canali le lente burchielle; i rapidi battelli, sottili come fusi; i sandali e, più lontano, i bragozzi che spiegavano le grandi vele gialle e crocee su le quali erano dipinti soli vermigli e croci nere. Le forti prore erano sospinte più dai remi che dal vento. Il primo sole lumeggiava il santo protettore dipinto, a colori vivaci, sotto la polena. La rude figurazione significava sempre un vecchio mitrato, la mano levata in atto di benedire il mare.
I piccoli cani della Pomerania scorrevan sul bordo delle pesanti imbarcazioni e, a poppa, il più vecchio fra i navigatori, curvo sopra un fornello di lamiera, attizzava il fuoco per apprestare il pasto mattutino ai compagni.
Passavano le grandi vele lontano, nell’aperta laguna mentre nei canali, fra le consuete grida di avviso, scorrevano guizzando le piccole imbarcazioni che un uomo o un monello sospingevan rapidamente col forcino; scomparivano, ricomparivano da ponte a ponte inoltrandosi in canaletti trasversali, assiduo succedersi di forme su le acque verdi e tranquille. A quando a quando da un canale dischiuso come una bocca viva su l’immenso spazio lagunare si intravvedevano argini neri e boschi azzurreggianti in lontananza.
Fra scìe bianche e d’oro, fra bagliori di gemme, fra il cupo tremolar dell’ombra passava la vita della piccola città sperduta da secoli nelle sue lagune, [53] mentre nell’aria dalla chiesa di San Mauro, da Santa Maria in Aula Regia, dalle chiese del Carmine e del Rosario andavano squilli e suon di doppî e tocchi lenti di campane gravi. Il sole ascendeva con le allodole negli estremi campi del cielo. La luce, il colore, il suono, i tre signori di Comacchio, stendevan la loro ghirlanda.
E le giovanette partivano per le fondamenta a gruppi di tre, di quattro, dandosi di braccio e cicalavano, ridevano, fra ombra e sole nel folgorio dei loro zendadi bianchi, turchini, gialli; nel ritmico battere dei loro zoccoli.
Serenella andava prima come la più bella fra le belle; era un muto riconoscimento delle compagne.
Salivano le scalinate dei ponti, gioconda teoria giovanile; ascendevano lentamente quasi procedessero verso un’ara lanciata nella luce fra cielo e acqua; si stagliavano, sottili ed aggraziate, nella piena luminosità dell’aria, un attimo, per ridiscendere all’opposta riva e scomparire.
A quell’ora Giovanni della Nave ed i figli erano seduti su le rozze scalinate del ponte del Borgo, insieme ai compagni e fumavano silenziosamente grogiolandosi al primo sole. L’opera loro era compiuta. Verso l’alba tornavano dalle lagune dopo aver tentato la pesca vietata e il giorno potevano trascorrerlo in pace sonnecchiando. Solo chi aveva avuto la mala sorte, scivolava col suo battello nel Campo dei Poveri[2] ed ivi, ritto su la prua, la fiocina levata nel braccio destro e l’occhio fissamente intento ad ogni guizzo nel cuore delle acque, attendeva la misera preda che tanto gli desse da non morir di fame.
[54]
Omero si attardava in casa, seduto sul focolare, intento a qualche faccenduola per la quale si credeva abilissimo; io, vicino a lui, scorrevo quei pochi libri che egli aveva salvato dalla comune vendita riponendoli nelle bisacce in attesa di tempi migliori. Secondo un suo curioso senso di elezione, aveva serbato: la Sacra Bibbia; l’Orlando innamorato del Boiardo e la Grammatica latina dello Schultz.
Un giorno in cui una strana malinconia non mi dava tregua, Omero mi si avvicinò sorridendo e mi disse:
— Ho io la medicina per te.
Raccolse le bisacce da un canto, ne estrasse, dal fondo, dall’intimo fondo, i tre libri che erano incartati accuratamente e me li porse:
— Ecco, sollevati. Io non potrei dirti niente di ciò che ti diranno loro.
Poi si volse e non volle ch’io lo ringraziassi perchè, secondo la sua logica, solo i servi dovevano essere ringraziati.
Già da cinque mesi eravamo ospiti di Giovanni della Nave nè pensavamo a riprender la via. Era giunto l’autunno, Omero aveva detto:
— Prima di ripartire voglio compiere la stagione del sale.
Lavorava alle saline e portava gran parte del suo guadagno a Giovanni della Nave per il vitto e l’alloggio. Io mi ero addestrato alla pesca notturna. Pietro e Zalèbi, i figli di Giovanni, mi erano stati guida e consiglio. Pietro aveva venti anni, Zalèbi ne aveva diciotto; erano due giovani belli e fieri che la gagliarda vita di lotta continua aveva reso anzitempo pensosi. Zalèbi aveva cercato accostarsi più all’anima [55] mia; nelle ore di sosta, più di frequente mi sedeva a lato interrogandomi su varie cose che gli piaceva sapere o narrandomi le sue avventure di pesca. Era molto fanciullo ancora benchè in apparenza sembrasse uomo maturo per la sua gravità.
A sera, allorchè, prima di partire alla ventura notturna, ci si trovava tutti seduti attorno al desco, Zalèbi m’era sempre vicino, come un fratello buono.
Una notte eravamo a Campo Cona, soli nel lungo battello sottile; si sostava al largo, chè, alla Casona[3] di Farinello pareva ci avessero avvertiti.
— Hai udito il suono del corno? — mi chiese Zalèbi.
— No.
— Tieni d’occhio il lume e sappimi dire se si spegne e si riaccende. Io guardo a Fosecchie, potrebbe darsi che gli occhi del falco fossero laggiù.
Le pupille dilatate e intente ai piccoli bagliori lontani, tacemmo. La notte era oscura. L’esile imbarcazione ondeggiava a pena. Se il lume della Casona, ch’era ordinariamente appeso vicino alla porta a piccola altezza dal suolo, non gettava di continuo la sua immobile luce a traverso lo spazio ma, a vicende ineguali, compariva e scompariva, era segno che le guardie si erano messe in moto avendo molto probabilmente intravveduto un bagliore della nostra lanterna cieca. Passò qualche tempo nell’attesa. La lampada di Farinello non si oscurò neppure per un batter di palpebra, neppure per la rapida ombra di un volo. Si udiva il lento lappeggiare dell’acqua sotto la chiglia della nostra imbarcazione.
[56]
— Si muovono? — chiese Zalèbi.
— Dormono — risposi.
— Hai osservato bene?
— Non ho abbandonato un attimo la lanterna. E a Fosecchie?
— Fosecchie è troppo lontano. Solo Diavolo potrebbe vederci.
— È a Fosecchie, Diavolo?
— No. Questa notte credo sia a Farmello. Così fosse all’inferno come lo desideriamo tutti! Hai chiuso bene la lanterna cieca?
— È tanto chiusa che credo sia spenta.
— Guardala; ma non alzarla.
Mi chinai sul fondo del battello il quale ebbe una forte ondulazione e minacciò capovolgersi. L’imbarcazione era sì leggera che un soffio poteva sospingerla e il minimo urto rovesciarla.
— Fai adagio! — sussurrò Zalèbi — sei ancora inesperto. Se andiamo in acqua, per questa notte non si busca un soldo.
Mi risollevai con molta cautela, giocando di equilibrio. Quando ebbi ripreso il mio posto, Zalèbi, sporgendosi un poco, chiese:
— Hai perduto il paradello?[4]
— No, è qui sul fondo.
— Riprendilo e preparati che è meglio allontanarci.
Ci sporgemmo un poco sui due lati del battelletto pronti a riprendere l’avvio, allorquando si levò lungo e continuato nella notte un grave suono di corno.
— Hai udito? — chiese Zalèbi.
— Questa volta sì; ma è lontano.
[57]
— Credo sia sugli argini di Ussarola, a Campo. Era mia intenzione andare proprio da quella parte e si cadeva in bocca al lupo.
Un altro suono di corno, più lontano, si levò nella notte, simile ad un lamento disperso nella buia immensità.
— Sei pronto? — chiese Zalèbi.
— Sì.
— Allora, via!
Si udì contemporaneamente il tuffo dei forcini poi il gorgoglio dell’acqua tagliata con violenza dalla prua. Giunti agli argini di Campo Cona, saltati a terra, facemmo superare destramente il breve ostacolo al battello e riprendemmo la rotta. Così trascorse mezz’ora senza che l’un dei due dicesse parola.
La notte era profonda, tenebrosa; non altro si vedeva attorno a noi se non, a volta a volta, il lume lontano di qualche casona. La lanterna cieca mandava sul fondo del battello un piccolo sprazzo di luce. L’acqua si intravvedeva a pena per qualche bagliore destato dal momentaneo riscintillìo delle lontane lampade; non reggeva vento; era tutto intorno una muta profondità d’abisso.
— Fermati — gridò d’improvviso Zalèbi — qui siamo sicuri, riposeremo un poco.
Levammo i forcini. Il battello continuò per buon tratto la sua corsa, poi, onduleggiando fra un breve risciacquio, sostò.
— Anche questa notte Diavolo ha fatto la sua preda — continuò Zalèbi — Dio gli perdoni se cadrà senza farsi il segno della croce.
— Che vuoi dire?
[58]
— Voglio dire che i fiocinini[5] sono gente buona ma guai a chi li perseguita con odio. Diavolo ci odia, ci annegherebbe tutti se potesse. Ne’ suoi rapporti dice il falso per aumentarci la pena. Una volta l’ha scampata, una seconda volta non so se il colpo che gli toccherebbe fosse deviato!
— C’è qualcuno che lo ami ancora, per salvarlo?
— No.
— O allora?
Zalèbi scosse il capo in silenzio. Intravvedevo l’ombra sua. Era seduto a poppa, le gambe distese lungo le sponde del battello.
— Conosci Sita? — riprese.
— Non ricordo.
— Sita, la compagna di Serena; Sita, la figlia di Teodora. Viene tutte le mattine fino alla nostra porta ad attendere mia sorella. La rammenti?
— Sì — risposi dopo una pausa. Ricordavo infatti la figura agile ed altera di Sita; una figura di dominatrice.
— Diavolo — continuò Zalèbi — è il padre suo. Ella sola ha potuto salvarlo.
— E perchè?
— Perchè c’è chi l’ama. — Dopo breve silenzio riprese: — Dammi la lanterna.
Glie la passai; l’aprì e l’infisse a prua sì che la luce si proiettò su l’acqua; raccolta poi la fiocina si rizzò leggermente su gli estremi bordi del battello.
Erto così, con tutta la persona, contro le tenebre dense; il capo inchino verso il punto luminoso; alta sul capo la fiocina pronta a saettare su la preda, stette immobile sorvegliando.
[59]
— C’è chi l’ama — riprese a voce spenta — e Sita è come una tanaglia: guai a chi l’accosta per amore, non potrà più dimenticarla!
Era nella voce di lui un tono passionato e triste che mi commosse.
— Le vuoi bene? — domandai seguendo un improvviso impulso.
— Perchè vuoi saperlo? — chiese Zalèbi a sua volta.
Non risposi chè non avrei voluto aggiungere parole di scusa ad una domanda che non aveva ragioni di sciocca curiosità. Zalèbi trasse la fiocina due volte e per due volte la sollevò con infitta nei denti la divincolante preda; udii ancora la voce di lui mormorare, quasi parlando a qualcuno che gli fosse molto da presso, vicino alla bocca:
— Le voglio bene!
Sentii ch’era in quelle parole una passionalità aspra, dolorosa; sentii che tutta la giovinezza altera di Zalèbi si piegava, come una fiamma sotto il vento, verso la creatura bella dall’anima oscura e n’ebbi rispetto; il rispetto religioso che destano le violenze d’amore. Egli aveva detto poco ma io intuivo che l’adolescente avrebbe fatto nessun conto di sè pur ch’ella avesse voluto; sentivo, per la voce di lui, tremante nella semplice espressione; per il muto concentrarsi delle sue energie intorno alla sperata dolcezza di tutta lei che si negava, forse, ch’egli era pronto a qualsiasi eroismo, a qualsiasi prova; che avrebbe ucciso o avrebbe cercato la morte con gioia, con la gioia della giovinezza ebbra d’amore, purchè Sita, dalle chiome color rame, avesse, sorridendo, offerta la sua tumida bocca al bacio; avesse piegato il pallido viso all’offerta.
[60]
Zalèbi soffriva. Sentivo lo spasimo intenso di tutto l’essere di lui e della sua carne.
— Spingi al largo — disse ancora con voce mutata e forte — Va adagio; punta il paradello senza battere l’acqua.
Ci allontanammo verso il cuore della laguna, fra le tenebre. A quando a quando, sul fondo del battello, qualche anguilla catturata si dibatteva disperatamente nell’agonia. La preda era buona. Io vegliavo, gli occhi intenti nelle tenebre.
— Ferma! — gridò ad un tratto Zalèbi ponendosi in ascolto.
— Che c’è?
Udimmo il sibilo dell’acqua rotta violentemente da una imbarcazione in corsa.
— Sono le guardie? — chiesi.
Zalèbi saltò sul fondo del battello, riafferrò il forcino sussurrando:
— A destra, senza troppa forza.
Nascose la lanterna cieca e prese il moto ritmico del vogare. Non avevamo percorso trenta metri forse, allorchè una voce ci giunse dalla notte:
— All’erta!
— Dove sono? — chiese Zalèbi.
— Su gli argini della Cona.
— Hanno preso nessuno?
— Nessuno.
— Chi ci insegue?
— Diavolo e i suoi.
La voce si perse, lontana già nella corsa pazza.
— Spegni la lanterna — disse Zalèbi. Com’ebbi compito il comando, con voce rotta gridò:
— A sinistra, con tutta forza. Via!
Per quella notte ancora ci salvammo da campo a [61] campo, d’argine in argine fra l’affannoso rompersi del respiro e l’estenuarsi delle nostre forze esauste ormai.
Così trascorreva la mia vita, ed era così ch’io volevo si temprasse il corpo e l’anima mia, era a queste dure lotte per la fame e per la libertà. Ogni languore d’inerzia, ogni veleno di apatica inoperosità mi aveva abbandonato; sentivo la mia giovinezza come un inestimabile valore sul quale potevo far calcolo esatto. Alla prova non ero fallito. Omero poteva sorridere di compiacenza. Quando ritornava alla sera dalle saline, con le mani riarse, bianche e mi guardava negli occhi scrutandomi, gli chiedevo:
— Ebbene, vecchio brontolone, che cosa ne dici del tuo allievo?
Rispondeva:
— C’è tempo, è nulla ancora tutto ciò, c’è tempo!
Ma era contento; ma gli occhi suoi brillavano di gioia perchè mi amava più del suo pane e delle sue scarpe che serbava tutte avvolte, come novissimi oracoli, entro le bisacce, e non calzava mai.
Contento sì, se qualcuna non fosse giunta alla soglia del mio cuore, non fosse giunta a cantare su un ritmo stanco di onde, la sua malinconia. Ed era la dolce malinconia delle anime femminili che attendono e muoiono di speranza e si fanno udire sì belle che tutto il cuore ne trema. Ognuno di noi avrà colto la eco di un simile canto talvolta nella sua giovinezza, allorquando ogni senso intende con maggiore intensità.
Io udivo, io mi chinavo ansiosamente verso la dolce voce che mi giungeva da un silenzio; mi soffermavo così come ci si sofferma a volte ai limiti [62] della landa ad ascoltare, da un’aia, il canto di una tessitrice ignota; — il cuore ne ragiona per dolcezza nuova e l’anima ne gode, presa per incantamento. Serenella era entrata nella mia vita come l’alba che reca, fra le nude braccia protese sul capo, una corona di stelle.
[63]
Forse non era ancora tramontata la stella diana; forse l’alba non aveva ancora spento, col suo fiato di nebbie lucenti, le stelle che si attardano a tremare su l’estremo lembo dei cieli quando la cassa del telaio cominciò il suo battere ritmico, tranquillo fra lo stridere delle calcole.
Omero si rivolse sul giaciglio, grugnì, si soffregò gli occhi e, dopo un lungo respiro, volgendosi verso me chiese:
— Che ore sono, Duccio?
— È l’alba — risposi.
Aggrottò le ciglia, stette un attimo col capo fra le mani e riprese:
— Oggi è festa, mi pare.
— Non so.
— Che giorno è?
— Non ricordo.
— Tu non sai e non ricordi niente; ma in che mondo vivi?
— Nel tuo, se ho la tua stessa memoria!
— Hai ragione.
Dopo un altro breve pensare, conchiuse:
[64]
— Sì, è festa; dormo.
Si compose sul giaciglio, volse il capo verso la parete e non trascorse un minuto che aveva ripreso il lento respiro del sonno. Io non dormii, udivo il palpito del telaio. Serenella tesseva. La vedevo sotto la lampada accesa, curva un poco, ordire la trama quasi segnasse con la sua candida tela le bianche vie dell’alba.
Doveva serbare tuttavia nel viso, negli occhi grandi, la particolare espressione che il sonno imprime sui volti giovanili; qualcosa che è come la traccia di un ultimo sogno: un vago sorriso su le labbra, una profondità maggiore nella pupilla dilatata. Le guance di lei dovevano essere arrubinate dalla fatica del tessere.
Rimasi resupino guardando le travi ed ascoltando. Il palpito del telaio era come il palpito di un cuore, di un cuore antico che amava le sue vergini belle, perchè ne aveva cullato il primo sognare; perchè, giunta l’ora, aveva battuto, battuto e battuto per farle bianche e molli le lenzuola del corredo, le grandi lenzuola che dovevano avvolgere due creature. Oltre questo suono, non udivo se non, ad intervalli uguali, il richiamo che da cortile a cortile si mandavano i galli; gli anziani avevano un grido acuto e squillante fermo in poche note decise che si ripetevano esattamente uguali ad ogni ripresa; i giovani, i galletti di primo canto, mandavano un suono incerto, dolce, tremante che non significava un dominio, ma una timida volontà di vivere, di partecipare, di godere. Era nell’aria un festoso incrociarsi di grida per l’eterno saluto dei sacerdoti dell’alba. Ogni tanto volgevo gli occhi verso la piccola finestra che si apriva nell’alto, sopra un canale. Non appena le molli luci dell’aurora avessero acceso di nuove [65] lucentezze i vetri, sarei balzato in piedi per togliermi da quel penoso attendere.
Non si era levata mai a tessere sì di buon’ora, Serenella; come mai quel giorno aveva infranto la consuetudine? Quale necessità, quale pena l’avevano tolta sì presto dal sonno?
Omero non si scuoteva più, dormiva del suo meglio, coricato sul fianco destro, le braccia incrociate sul petto. Vedevo il suo volto tranquillo, animato da un flusso di sangue, atteggiarsi di tanto in tanto a un sorriso, chi sa mai per quali visioni lontane, chi sa mai per quali sogni buoni; le labbra anche si agitavano talvolta quasi a parlare ma ne usciva appena un fiato, un mormorio indistinto.
Ad un tratto tutta la casa si aprì all’aurora: una voce si era levata, una sola voce che risuonò di vano in vano e si espanse al di fuori nella sua dolcezza piana.
— ... e la figlia del re
si fece alla finestra
— oilà, lerì, lerà —
si fece alla finestra.
Serenella cantava. Doveva essere nato il sole s’ella cantava così senza tema di rompere il sonno ai parenti.
Cominciai il mio abbigliamento sommario senza che Omero si turbasse. Il battito del telaio scandeva a uguali riprese la voce di Serenella e la tela cresceva simile alla trama che la luna distende sul mare.
— ... quando passò Artigù
il principe d’amore
— oilà, lerì, lerà —
il principe d’amore.
[66]
La bella leggenda fiorita per la voce di lei in quel primo espandersi di luce, passava su le mute case a raccogliere i sogni degli adolescenti.
Allorchè dischiusi l’uscio della stanza udii Omero che si rivolgeva sul giaciglio. Mi volsi. Era appoggiato sui cubiti e sogguardava dagli occhi sonnolenti:
— Che ore sono? — mi chiese.
— Dormi, è presto.
— Dove vai?
— All’aria.
— Tu non dormi, tu hai qualche pensiero.
— Neanche per sogno.
— Chi canta? — riprese, dopo avere ascoltato breve tempo.
— Giovanni della Nave — risposi sorridendo.
Era così pieno di sonno ancora che non discusse la risposta.
— E che fa?
— Tesse.
— Tesse?
— Sì. Mazapègul, il nano, gli ha chiesto una berretta. Ora lavora al fiocco.
Mi guardò negli occhi, disorientato; poi diè nel ridere, si rivolse fra le coltri e riprese sonno. Era tanto stanco che avrebbe dormito, senza scomporsi, fra un fragore di ruina.
Quando giunsi nella stanza del telaio, Serenella si era levata per ispegnere la lampada poichè dalla finestra aperta sul canale dilagava la luce dell’aurora.
— Buon giorno a voi, Serenella.
Ella si volse sorridendo.
— Buon giorno, Duccio. Come mai vi siete levato sì di buon’ora?
[67]
— Dovrei chiederlo a voi che avete aspettato l’alba tessendo.
— Vi ho disturbato?
— No. Non dormivo quando avete incominciato il lavoro.
— Non siete andato alla pesca questa notte?
— No.
Serenella aveva ripreso la spola; china un poco su l’ordimento mosse la pedana e lanciò la scorrevole navicella a traverso le fila per due volte, con un bell’atto delle braccia nude. La persona di lei sottile e il capo, il divino capo dai grandi occhi gemmanti, si inquadravano in semplice armonia nel vano del telaio.
— Il babbo — riprese ella senza distogliere gli occhi dal lavoro — è ancora da Simone, il lebbroso. Nessuno lo voleva vegliare ed è moribondo. L’avete veduto?
— Sì. L’altro giorno andammo da lui con Zalèbi a portargli un pane.
— Dice che la carne gli cade a brandelli — riprese Serenella levandomi in volto gli occhi vivi di una grande pietà.
— È terribile a vedersi, povero vecchio. Giace in una capanna, vicino a Sant’Agostino; i figli non lo vogliono accostare; a sera non c’è neppure chi gli accenda la lampada. Si lamenta e muore come una bestia sul suo strame.
— Noi lo abbiamo aiutato come si è potuto.
— Lo so, anima buona. Egli vi benedice.
— Che il cielo lo accolga! — fece Serenella e trasse per due volte la cassa a battere l’ordito.
Trascorse una pausa. Udimmo il frusciare dei sandali che passavano nel canale; udimmo il primo busso degli zoccoli sui ponti e le calli:
[68]
— Come mai lavorate anche oggi?
— Debbo finire queste lenzuola.
— Sono per voi?
— No. Me le ha ordinate Sita.
— Va sposa, forse?
Ella si guardò attorno, poi rispose impallidendo:
— Non so.
Notai il suo turbamento e tacqui. Riprese a voce più bassa senza guardarmi:
— Rimarrete molto tempo fra noi?
— Fin che vorrete.
— Zalèbi vi vuol bene; difendetelo, Duccio, per carità!
— Ma che ha fatto?
— Sita è una strega; lo farà morire!
— Che ne sapete per parlarne così?
— Ah! Duccio. Non so nulla di certo ma è il cuore che mi avvisa! Zalèbi è forte e fiero nel suo amore; io so che la morte è niente per lui, ne parla come del pane e Sita — si guardò attorno ancora, prima di proseguire — Sita non lo ama.
Come si era rotto un filo dell’ordito, si chinò per riannodarlo.
— Ne siete ben certa? — chiesi ancora, dubitando.
— Gli occhi di una donna non si ingannano, Duccio! Conosco Sita fin da bambina. Ella ride e s’infinge e non conosce altro bene se non il suo. Credete forse che Zalèbi sia il primo a piacerle?
— Non so.
— Zalèbi è un bambino. Ella sa il male che può fargli e non se ne cura. L’amore di lui può piacerle per qualche giorno, e questo basta per la sua coscienza.
Rimasi pensoso qualche attimo, poi chiesi:
[69]
— E lavorate per lei?
Serenella arrossì di bel nuovo.
— No, debbo dirvelo sinceramente — riprese a voce spenta — volevo parlarvi e vi aspettavo. Io so che Zalèbi vi vuol bene come ad un fratello, non potevo pensare che al vostro aiuto. Così vi ho destato all’alba e speravo sareste venuto.
— Serenella, farò qualunque cosa per voi!
Mi guardò un attimo ma in quell’attimo vidi nelle pupille oscure di lei un’improvvisa luminosità che valse più di mille parole. Il bel viso ovale dal pallore delle ambre se ne animò rifulgendo. Qualcosa mi era apparso che mi accese di grande gioia sì che sentii tutte le mie energie giovanili salire impetuosamente come da un chiuso e rinvigorirsi in una coscienza di felicità promessa; una parte di me, ch’io ignorava quasi compiutamente, mi si appalesò; c’era dunque un sentimento, un luogo, una creatura che potevano acquetare il mio spirito? Qualcosa al di fuori, al di sopra della libertà? Io non mi ero sentito ancora così forte, non avevo sentito mai una simile dolcezza pervadermi e dal mio spirito dilagare a tutte le cose, a tutto il mondo; mi pareva che l’infinito mi ascoltasse, che la bontà dell’universo fosse racchiusa in quella dolcezza unica e grande, che la morte e tutte le cose oscure ne fossero umiliate.
Non mai come allora avrei accettato senza pena ogni sacrificio, ogni patimento. Il fiore della vita era sbocciato e l’anima mia ne era ebbra.
Serenella si levò. Il sole aveva superato i tetti delle case sorgenti all’altro lato del canale e, per oblique vie, era disceso ad irraggiare il telaio e a stendere macchie d’oro sul nero impiantito. Il suo passaggio [70] era distinto dall’ombra con nitidezza in un fascio lucente.
— Guardate, Serenella, la vostra tela s’indora; pare abbiate tessuto fila di sole per vestirvi alla reale.
Ella abbassò gli occhi al telaio poi li levò verso l’Astro, disse piegando le mani:
— Così sia.
E rise come la sua giovinezza voleva.
— Se foste buono dovreste aiutarmi a preparare il mangiare — riprese poi gaiamente uscendo dal telaio — ma siete un buono a nulla.
— Volete vi continui la tessitura?
— Per carità rovinereste tutto. Duccio, non fate, per carità!
Mi corse appresso e come stavo per sedermi al telaio mi prese per le braccia ridendo. Sentivo tutta la persona di lei fremere contro la mia — un impeto di gioia ci avvolse.
— Non fate, Duccio, è dall’alba che lavoro!
— Debbo ubbidire? — chiesi volgendomi. Ci trovammo a faccia a faccia; ella non abbassò gli occhi; il suo viso, animato da una calda festosità, era acceso dal sangue.
— Siate buono dunque!
La strinsi alla vita (ella non si disciolse, gli occhi suoi si illanguidirono subitamente) e su la bella bocca di corallo e sangue strinsi la mia bocca nella delizia del bacio. Qualcuno tossì presso la porta. Serenella si disciolse rapidamente e, corsa ad accosciarsi sul focolare, finse attizzar le bragi.
Omero entrò. Recava una camicia a brandelli.
Fermo su la soglia, la faccia un po’ inclina, disse:
— Serenella, avrei bisogno di un ago e di un po’ di filo.
[71]
La domanda e il tono col quale fu mossa rinfrancarono la giovanetta:
— Che ne dovete fare? — domandò ella senza rivolgersi.
— Debbo rimettere all’ordine il mio corredo.
— Ci penserò io; non ve ne occupate.
— No, figliuola, voi non sapreste da che parte rifarvi; per gli oggetti miei ci vuole il consiglio di un vecchio.
Quand’ebbe avute le cose richieste, si sedette sul telaio sotto la finestra e, in tutto silenzio, pensosamente, cominciò il lavoro. Ritagliò, cucì, aggiunse, fece della sua vecchia camicia la veste d’Arlecchino, chè non si peritò sostituire lembi di panno dove la tela era consunta, nè badò al colore il quale, a suo avviso, non avrebbe potuto preoccupare se non i gonzi, dato che la sostanza fosse la stessa.
Serenella andava e veniva dal focolare alla madia. Aveva posto due testi al fuoco sui quali sparse un rivoletto d’olio che sfriggolò spandendo per la stanza un grato odore.
— Ci solleticate — disse Omero levando il naso all’aria — sento odor di buono. Chiama la fame.
— Fra poco tutto sarà pronto — rispose Serenella. Omero trasse la lunga gugliata, sì lunga che doveva levare il braccio in tutta l’estensione per condurla a termine e conchiuse, con quel filosofare bizzarro che destava il riso e l’ammirazione de’ suoi simili:
— La donna è il vino della giovinezza e la coltre della vecchiaia. Quando il Signore la fece, disse all’uomo: Eccoti l’ombra, riposa.
Si tacque. Dal di fuori giungeva l’eterno risciacquio dei canali. Una grande limpidezza adamantina era nei cieli. A voce spenta, non interrompendo le sue faccende, Serenella aveva ripreso il canto:
[72]
— ... quando passò Artigù
il principe d’amore
— oilà lerì lerà
il principe d’amore.
S’interruppe allorchè Giovanni della Nave si presentò su la soglia.
— È morto? — chiese levandosi dal focolare.
— No, riposa. Credo ne avrà ancora per molti giorni — rispose Giovanni.
— Di chi parlate? — fece Omero volgendosi.
— Di Simone, il lebbroso.
— L’hai vegliato?
— Sì.
— E non temi per la tua famiglia?
— Che debbo temere? Se deve toccarci la mala sorte non c’è precauzione che valga.
— È rimasto solo, ora?
— Sì, è solo e dorme. Gli ho lasciato il pane.
Si sedette vicino alla tavola che Serenella aveva apparecchiata e, con la testa fra le mani, attese in silenzio. Quantunque la pelle bronzea e la lunga barba nera non lasciassero trasparire troppo l’abbattimento sul volto di lui, si vedeva tuttavia che la stanchezza l’opprimeva. Socchiuse gli occhi oscuri e parve addormentarsi.
Ad un tratto una porta laterale si aprì con fracasso e Zalèbi apparve:
— Si mangia? — gridò.
— Fai adagio — disse Serenella — babbo dorme.
— Non dormo — rispose Giovanni levandosi di soprassalto.
— Pensava — commentò Omero tirando la gugliata. Tutti dieron nel ridere.
— È pronto? — riprese Zalèbi.
[73]
— Ma sì — rispose Serenella. — Ti levi ora ed hai tanta fame?
— Mi levo ora? Vengo da Campo Rillo. Guarda! E gettò sul pavimento una retata d’anguille.
— Quando sei uscito? — chiese Giovanni.
— All’alba, quando Serenella si è levata.
— Ed hai potuto pescare a quell’ora?
— Sì. M’ero giurato di farla in barba a Diavolo ed ecco il frutto.
Dal canale una voce forte gridò all’improvviso:
— Oggi a me domani a te!
— Diavolo! — esclamò Giovanni scattando. — Ti ha inteso!
— Tanto meglio! — riprese con molta tranquillità Zalèbi.
Si udì lontanare e perdersi lungo il canale un riso beffardo.
[74]
— Dunque non vuoi partire? — mi chiese Omero fissandomi con que’ suoi occhi celesti pieni di bontà.
— Non dico di non voler partire, ma non capisco questa tua risoluzione improvvisa.
— Anselmo d’Isola fa vela domani, te l’ho già detto; egli ci aveva offerto ospitalità su la sua tartana; occasione migliore non potrà capitarci.
— Ma dove vorresti andare?
— Col vento — rispose Omero sorridendo.
— Troppo lontano allora.
— Sì, troppo lontano, t’intendo. Sei tanto giovane! Metti nuove radici ad ogni sosta.
Dopo un breve silenzio dissi risolutamente:
— Ebbene partiamo!
Omero scrollò il capo.
— La tua decisione mi piace ma non accetto.
— Perchè?
— Perchè io amo la mia strada che non ha fine mai e tutto il mio bene è sempre più lontano, è sempre ad una tappa più remota dove potrò arrivare giusto [75] in tempo per trovar la mia fossa; ma tu no, tu non cammini in compagnia dell’inverno che spoglia le rame, fa più grandi i cieli ma agghiaccia il cuore, su’ tuoi passi c’è maggio che chiude i giardini e i campi con tutte le sue foglie. Che servirebbe veder oltre una siepe se a tal patto la tua gioia dovesse finire? Rimani, l’amore è grande, Duccio della Bella!
— E tu che ne sai, se non hai amato una volta?
— Ho amato anch’io — rispose Omero a bassissima voce, chinando il capo.
Andavamo verso i quartieri di Sant’Agostino. La chiesa del santo si elevava a levante in un prato deserto, su l’estremo bordo di un’isoletta. Attorno alla chiesa, erano poche case miserevolissime senza finestre e senza imposte alle porte. Un tramonto vermiglio incendiava i cieli e le lagune.
— Sono ormai vecchio — riprese Omero — e non so dimenticare. C’è un giorno in cui il tuo canto finisce: allora, se sei solo, una orribile servitù ti aspetterebbe. Io non sono solo ancora, cammino, seguo la mia memoria che è il mio sole. Vado di terra in terra sempre più lontano finchè raggiungerò la morte.
La luce si faceva a mano a mano più intensa.
— Ecco Zalèbi — riprese indicandomi un uomo immobile presso una soglia.
— Non ci ha riconosciuti.
— No, siamo contro il tramonto, non può vederci in viso.
Vicino a Zalèbi distinguemmo, seduto su la porta di una capanna di stipa, Simone. Quando gli fummo innanzi alzò gli occhi stanchi e levò le mani a benedirci.
[76]
— Rimanete voi? — chiese Zalèbi ad Omero.
— Rimango — rispose il mio compagno.
Sdraiato sul fimo stava Simone nella sua miseria. Era scalzo, i pochi cenci che lo rivestivano non erano bastanti a ricoprire la persona di lui sì che sul petto e su le braccia si intravvedevano le carni orribilmente piagate. Il suo viso era color del vino, di un rosso cupo tendente al nero; le guance si screpolavano sotto gli zigomi nella lenta dissoluzione del male. I pochi capelli grigi gli si distendevano in lunghe teghe sul cranio. Aveva gli occhi, larghi e fissi, pieni di un doloroso terrore.
L’incendio vesperale moriva specchiandosi su l’immensa distesa delle acque immobili. Due cieli di uguale bagliore erano aperti su la piccola terra sperduta: contro tale immensità vermiglia, stava la piccola capanna di stipa, sola, tutta nera come stagliata in un metallo.
— Hai fame? — chiese Omero cercando qualcosa nelle sue tasche.
— No — rispose il lebbroso.
— Vuoi rientrare?
— Lasciami qui, respiro.
Omero entrò nella capanna e accese la piccola lampada appesa alle travi sì che l’interno si illuminò per la pallida fiamma che parve una lacrima ardente.
— I figli l’hanno isolato quaggiù — mi disse piano Zalèbi — e non gli danno un pane e non vengono una volta a vederlo. Non si tratta peggio un cane ed egli non ha core per maledirli!
— Potete andare — disse Omero ricomparendo su la soglia — rimango io finchè verrà Giovanni.
— Il Signore non vi dimenticherà — mormorò Simone [77] levando le braccia piagate — il Signore della misericordia! Io, che sono un niente, lo prego, se può ascoltarmi, perchè vi segua e vi salvi!
— Riposa — fece Omero sedendoglisi vicino.
— Ho fatto schifo a’ miei figli — riprese il lebbroso — a’ miei figli ch’erano pure mia carne e a voi no che non mi dovete niente. Io non so il tuo nome, io non so di quale terra tu sia, non so dove andrai; tu non puoi conoscermi e non puoi amarmi, perchè dunque non hai paura del mio male e mi siedi vicino?
— Tutti siamo nati di donna — rispose Omero.
Un tremore corse per il viso del lebbroso; gli occhi di lui si impiccolirono nello spasimo dei singhiozzi; appoggiò il volto su le palme aperte e pianse come un fanciullo abbandonandosi tutto alla sua pena.
— Riposa Simone — riprese Omero posandogli una mano su la spalla.
Fra i singhiozzi la misera creatura continuava:
— Anima buona... Iddio te ne rimeriti!
Zalèbi stava a capo chino; io, vicino a lui, mi tacevo in preda ad una commozione intensa. Ancora e sempre le due anella che conchiudono il sogno della vita: l’amore ed il dolore, erano presenti e si ricollegavano saldandosi per la voce di un’anima semplice la quale aveva saputo del mondo la parte meno bella ma aveva avuto in dono da sua madre una ragione ed un cuore per soffrire e per amare.
— Andate ragazzi — riprese Omero — vi aspetteranno laggiù; andate chè il tempo non si riacquista.
Accese la breve pipa di gesso, si appoggiò allo stipite della porta e cominciò ad aspirare il fumo lentamente.
[78]
Ci avviammo a fianco, muti. I singhiozzi di Simone ci accompagnavano sempre più rari; si morivano nell’esaurimento. Il cielo e le acque erano accesi da scialbe iridescenze opaline; due vele lontane passavano sopra la linea di un argine sul quale si intravvedeva il bagliore di una piccola lucerna accesa innanzi a un’icone. La stella del pastore, l’anima lucente dei crepuscoli, era comparsa a raccorre le greggi disperse per le lande, le vele migranti su le lagune e sul mare; la stella del ritorno che appare a fior del sereno nell’ultima corona solare! E guardava la sua remota sorella nel cuore delle acque immobili.
— Il tempo si mantiene in filo — disse Zalèbi volgendo gli occhi per l’aria, — fino alla nuova luna non si avranno gli ordini[6] e potremo stare in riposo.
— Pochi giorni ancora.
— Pochi ma troppi per il nostro bisogno.
— Speriamo che il frutto compensi il ritardo!
— Speriamo. Però sarà aspra la lotta. Diavolo odora il vento!
— Bisogna spiarlo notte per notte!
— Oh! siamo in molti a far ciò; ma è volpe vecchia e ci conosce a nome.
Dopo una pausa mi chiese ancora:
— Ti sei fatta la veste[7]?
— Serenella ha pensato a tutto — risposi.
— L’avrai pronta per la settimana ventura?
— Certamente.
— Bada, tu sei nuovo; la veste ti abbisogna perchè [79] la furia di Borea è terribile e sentirai che cosa sia, nella notte, il primo galoppo dell’inverno!
Eravamo rientrati in Comacchio. Il crepuscolo s’era spento negli ultimi cieli. Lungo la via lucevano già, a grandi distanze, le fiammelle dei fanali. In fondo in fondo, sopra le ultime case, eran nell’aria gli estremi lividori crepuscolari.
Ci mescolammo alla folla rumorosa di uomini, di fanciulli, di giovanette e ci sentimmo invadere d’improvviso dallo stesso senso di gaudio che moveva tutta quella gente ad incontrarsi, a sorridersi, a scambiar motti e parole; tutta quella gente che si conosceva, che formava un’unica, grande famiglia. Una dolce festosità prese ben tosto il sopravvento e ogni pensiero grave dileguò per noi, perchè è giusto che la giovinezza sia un po’ come il cielo primaverile ed abbia rapide tristezze di nubi e serenità profonde.
Fra lo strepito degli zoccoli, le grida dei fanciulli, il vocerio degli uomini e delle giovanette proseguimmo passando da gruppo a gruppo, accompagnati dai saluti, dai sorrisi e dai motti dei compagni. Su le porte delle case sedevan le vecchie in crocchio e attorno a loro ruzzavano i bimbi minorelli, coloro che non potevano ancora affidarsi alle loro gambe e andarsene in piena libertà. Qualche lucerna si accendeva nelle oscure stanze a illuminare una chioma fluttuosa o un pallido viso di donna intenta alla trama del filo sui bracci del filarello. Giravano lente le ruote dei filarelli a raccorre l’esile tiglia ritorta, infinita come una scia sul mare infinito, e un canto le accompagnava quasi sempre, un canto ritmico che segnava il loro stanco andare e ritornare simile alla vita degli umili, sempre così.
[80]
Erano visioni rapide, accese innanzi agli occhi per un attimo, nella vicenda del cammino.
A mano a mano che ci si accostava all’unica piazza della città, la folla cresceva. Avvolte nelle loro mantiglie bianche, negli zendadi gialli e turchini piegati su la fronte fino alle ciglia, ripresi in due larghe bande su le guance e chiusi sotto al mento, andavano le giovanette a tre a tre, battendo gli zoccoletti neri sul selciato, in una cadenza lenta che ricordava il languore dei loro grandi occhi passionali. Gli zendadi, disposti ad arte, anzichè celare la grazia delle loro persone, le ingentiliva in molli panneggiamenti disponentisi secondo le armonie dei fianchi, le flessuosità del torso e la soave dolcezza del seno. Passavano in una gaia festosità di colore con gli occhi accesi e le labbra superbamente rosse sul diafano pallore del volto; trascorrevano come un fremito, con nelle pupille oscure, il tormentoso sogno della voluttà. Belle e forti come galee, agili come serpi, flessuose come fasci di fiamme che guizzano allacciandosi e del loro ardore luminoso accendono l’aria intorno che ne trema.
Dora, Violetta e Margarita ci passarono innanzi, le tre sorelle che Comacchio vantava e l’una all’altra faceva specchio tanto si assomigliavano.
— Andate agli Argini? — ci chiese Margarita, la maggiore.
— Sì — rispose Zalèbi. — Verrete?
— Non subito; prima di mezzanotte certamente.
— A rivederci.
— A rivederci.
Ci si mise per un intrichio di viuzze e di calli; ad un tratto, oltre un ponticello, sbucammo su la laguna. In quel punto le case, sorgenti quasi dalle acque, [81] erano divise dal rude sentiero che si percorreva, da alte canicciate; ai loro piedi giacevano capovolti i battelli dei fiocinini; fermate a pali confitti alla riva stavano barche e sandali e battane che cozzavan fra loro lentamente con lunghi scricchiolii.
La laguna si perdeva interminata nelle tenebre; grande come un mare, silenziosa come un deserto. Come fummo vicini alla meta, si udì un alto bocio e un suono acuto di violini che vibrò e si perse nell’aria.
— Eccoci arrivati — disse Zalèbi. Mosse qualche passo ancora poi si soffermò.
— Che hai? — gli chiesi.
— Potresti farmi un favore? — rispose, e il tono della voce mi turbò.
— Che c’è? Parla!
— Va innanzi — riprese — e guarda bene se, fra la gente adunata, vedi Diavolo.
Compresi e partii senza attendere oltre. Il mio amico buono non aveva bisogno di troppe parole per rendermi chiaro il suo pensiero; fra noi non erano segreti; per rapide frasi ogni moto dell’animo poteva esser palese.
Zalèbi non temeva nessuno, ma rifuggiva trovarsi a viso a viso con Diavolo e ciò per amore di Sita ch’era figlia di lui. Zalèbi era un giovinetto forte e taciturno dall’anima semplice e retta. Suo padre gli aveva insegnato una cosa sola: il lavoro; fin dalla prima giovinezza si era piegato a grandi fatiche senza pensare che non era necessario consumarsi così e che il lavoro non deve essere un abbrutimento. E non sapeva niente. L’anima sua buona, si piegava sotto l’impero di una grande fatalità che intuiva come una legge oscura ed ineluttabile. Però [82] oltrechè nel lavoro, tutte le sue energie vitali, tutte le violenze, tutte le impetuosità della sua stirpe si esplicavano nell’amore. Egli amava con la terribile passione che conduce al delitto. Fin da bambino era stato, solo, in oscurissime notti, di fronte alla morte, nelle immensità lagunari; e non temeva la cupa sorella che aveva guatato da vicino, e troppe volte aveva veduto seduta su la prora dell’esile battello. Non faceva nessun calcolo di sè e non era uso ad infrenarsi. Quando non si ama la vita per sè stessa ma solo per ciò che può dare, si vive dell’amore come di una fiamma che arde e consuma.
Io sapevo che Zalèbi si sarebbe sacrificato a Sita sorridendo e sapevo pure che l’avrebbe uccisa s’ella avesse voluto quel poco che potesse bastare alla vanità di lei; solo quel poco! Tutto ciò sapevo senza poter riparare.
Ora Zalèbi, pure odiandolo di tutto core, evitava trovarsi con Diavolo, non voleva provocarlo o esserne provocato. L’amore suo era più forte del suo ardimento, della sua audacia. Sita compiva il miracolo.
Quando uscii dal recinto come scorsi il mio compagno, fermo nell’ombra, nello stesso atteggiamento in cui lo avevo lasciato, gli gridai da lontano:
— Zalèbi? Vieni!
In pochi passi mi raggiunse e mi chiese ansiosamente:
— C’è Sita?
— Sì.
— Balla?
— No, è seduta vicino a Serenella. Parlano.
Vidi gli occhi di lui lampeggiare; fu una vera luce che si sprigionò dalle sue pupille che le tenebre avevan fatto più grandi e più oscure.
[83]
— Grazie — rispose — io farò per te tutto ciò che vorrai; grazie.
Nel recinto, giovani e fanciulle avevano formato un grande circolo intorno alle coppie che danzavano. Il cielo era sopra loro, la notte stellata. In un angolo, non osservati, erano tre vecchi suonatori; il capo reclino sui violini, gli occhi socchiusi nell’evocazione del motivo triste che aveva un andamento cantabile. Conducevano l’arco lentamente quasi in una carezza di voluttà e si accordavano all’unisono con perfetta esattezza sì da formare un solo suono di uguale forza che si elevava a volte come in un grido di tormento e smoriva in languide cadenze per rifiorire più baldo. Erano tre vecchi mal vestiti, tre rapsodi delle lagune che tutti conoscevano a nome perchè a tutti avevano inconsciamente portato un attimo di gioia.
L’amore di ciascuno, nato o nutrito nelle festevoli adunanze, si ricollegava al ricordo musicale che ne aveva cullato le dolcezze, che ne aveva moltiplicate le sensazioni, che ne aveva esteso i confini fino al sogno onde, per un attimo, ne era sorta la certezza di una compiuta felicità. Così pareva alla gente che i tre vecchi conoscessero qualche segreta malia prodiga di ineffabili ebbrezze al core e, per tale credenza, erano tenuti in rispetto ed avevano tanto da vivere con tranquillità. Essi cantavano l’anima dei luoghi. Nei loro viaggi lungo gli argini per recarsi dalla Badia di Pomposa a Lago Santo, da Lago Santo a Comacchio, guardavano ascoltando. Le luci, i suoni, le forme avevano nel loro pensiero conseguenze musicali e l’anima loro vibrava in dedizioni profonde espandendosi nei suoni. Il grido di un’alzavola ferita, il lamento di un tarabùs[8], la sperduta [84] vibrazione di una sirena fra le nebbie, il tumulto squillante o il fioco singulto di campane vicine o disperse; tutta la vita della vastità: le argentee vie della luna nel cuore delle acque, le subite veemenze dei tramonti, le tremolanti opalinità dell’alba, o le fiammee arditezze dell’aurora; le cineree vastità degli autunni quando gli acquatili campi sembrano mari di lava; le cupe ombre delle nubi, il trasvolare dei taciti navigli entro il cerchio degli orizzonti, tutti gli aspetti, tutte le mute maraviglie di quelle solitudini austere condiscendevano nell’anima loro per accenderla e trarne le indimenticabili soavità per le quali i tre vecchi esprimevano umilmente il loro cantico d’amore.
Erano tre umili fratelli, tre poveri viandanti che per la loro vita avevan fatto l’abito del silenzio. Il maggiore si chiamava Leone, il secondo Francesco e il minorello Matteo e davano a tutti ciò che non avevano ottenuto perchè essi non avevano amato mai.
Ora sedevano in un angolo come sempre, per ridestare nel cuore dei giovani la loro eterna malia.
Serenella non appena ci vide si levò e venne ad incontrarci. Indossava una veste cinerea che accresceva la mistica grazia di tutta la sua figura e del volto pallido in cui gli occhi grandi fiorivano simili a due gemme nere, lucenti fra un sottil velo di acque. Sita rimase seduta; vestiva di vermiglio; il suo volto che aveva alcunchè di tragico e di imperioso si addolcì un poco nell’atto del sorriso allorchè Zalèbi si accostò.
— Perchè avete tardato tanto? — mi chiese Serenella.
— Eravamo da Simone — risposi.
[85]
Ci volgemmo contemporaneamente a guardare Sita e Zalèbi. Nel nostro cuore era un turbamento strano, quasi presago di qualche male.
— Gli hai parlato? — mi chiese Serenella.
— E come fare? — risposi — Tu lo conosci; mi volgerebbe le spalle senza ascoltarmi. Attendo l’occasione per aiutarlo.
— Non tarderà troppo! — esclamò Serenella sospirando.
Frattanto Sita e Zalèbi si allontanavano ridendo. Molti si rivolsero a guardarli perchè erano belli e possenti e la giovinezza li arricchiva di tutti i suoi tesori. La lenta melopèa dei tre fratelli continuò infaticabilmente cullando i sogni, affinando i desideri.
— Vuoi ballare? — chiesi a Serenella.
— No — rispose ella passando il suo braccio sotto al mio — giriamo un poco.
Ci avviammo fra la gente che assisteva alle danze. Ad un tratto un urlo di gioia ed un battere di mani ci fecero volgere il capo: Sita e Zalèbi erano entrati in ballo; gli amici e le compagne accoglievano così il loro apparire.
Proseguimmo per uscir dal recinto, per essere più soli e poter assopire, per qualche tempo almeno, la continua pena latente. Fuori era buio; c’erano solo le stelle a illuminare la notte e la laguna ne ritesseva l’incanto ne’ suoi silenzi interminati.
Serenella si raccolse tutta vicino a me stringendosi un po’ fra le spalle:
— Che buio! — esclamò a voce spenta — sai tu, tu che hai studiato tanto, dove vada la luna in tutto questo tempo?
Sì come risi anch’ella assecondò il mio riso e riprese:
[86]
— Pensiamo a noi; il Signore è giusto e la farà ritornare! Ci sarai più allora?
— Lo spero — risposi.
— Tutto finisce tanto presto! — esclamò ella chinando un poco il capo.
Non risposi; non so quale amarezza mi tenesse alla gola. L’amore ha tristezze improvvise, recondite, che non hanno un perchè. È forse in noi, allorchè l’anima si accende, un’ignota forza che presagisce il poi e ciò che vede trasmuta in subita tristezza.
Andammo lungo la riva deserta. Fra il cumulo di piccole case che si riparavano dietro le canicciate, solo una finestra era illuminata, e più lontano luceva una fiammella bianca a sommo di un ponticello. S’intravvedeva un’esile curva nera simile a l’ombra di un’alberella piegata fra due rive ignote per l’incantesimo delle acque stellanti.
Sul nostro cammino erano rovesciati al suolo, lungo la riva, molti battelli: alcuni, dai miseri proprietari, erano trasformati in giacigli notturni. In una burchiella fermata alla sponda con due catene, vedemmo alla fiochissima luce di un lumicino, acceso a prua innanzi all’immagine di un santo, due fanciulli dormire sopra una stuoia. Avevano il capo vicino, stavano resupini con le braccia incrociate sul petto; erano seminudi nè il freddo notturno li turbava. Le acque mormoravano intorno cullandoli nel loro dolce sonno.
Poco più lontano sedemmo sopra un battello rovesciato vicino alla riva. Attenuati un poco dalla distanza ci giungevano i languidi suoni dei violini.
E Serenella non fu turbata da quella solitudine, da quella dolcezza suadente; nè io sentii ch’ella temesse il mio amore. Seguiva le placide vie del desiderio [87] e della tenerezza; si sentiva profondamente, semplicemente donna nel suo bene e si sarebbe concessa perchè mi amava fra tutti e sapeva che l’amore è l’unica benedizione della terra.
Io la sentii fremere e tremare un poco sotto la mia carezza; le mani di lei s’eran fatte fredde ma gli occhi mi fissavano con indefinita luce di sorriso; ma nel suo viso splendeva tutto il suo pensiero amoroso e grande, e maggiore di ogni soavità. E a me pareva, in quegli attimi, di aver raggiunta una suprema lontananza di gioia: tutte le forze del mondo, tutte le allegrezze, tutte le festosità della terra mi si adunavano nel cuore. L’amica mia era bella e buona e avrebbe goduto e sofferto con me e sarebbe morta con me. Solo l’amore che fiorisce dai misteri dell’essere e, nella solitudine della vita, avvince le anime vicine e lontane, e sì le tiene che il buio non debba disperderle, conosce ciò che sia contentezza tranquilla e semplice felicità; all’infuori di ciò, nel tormentoso dominio del pensiero, non è che una sterile lotta nella quale ogni senso di bontà si disperde.
— Duccio! — esclamò Serenella socchiudendo le palpebre che le ciglia ornavano come di un molle e lievissimo velluto; le nostre bocche erano vicine; aveva pronunciato il mio nome carezzevolmente quasi ad atteggiare le labbra ad invito e le palpebre scesero a velare le pupille quando le nostre labbra si strinsero in un brivido sì forte che tutta la persona ne tremò di uno spasimo.
Il risciacquio delle lagune fra i vecchi legni che cullavano qualche dormiente solitario andava sotto il silenzio, nel buio, fino alle più remote rive.
— Io non ti chiedo nulla — disse ancora — perchè ti voglio troppo bene!
[88]
Io vidi negli occhi dell’amica mia una luminosità stellare. Con le braccia abbandonate su le mie spalle stava così, guardandomi e sorridendo; poi tremò abbandonandosi come una canna alla lieve correntia di un fiume. Il piccolo cuore di lei pulsò contro il mio fortissimamente.
Scattammo ad un tratto chè un tumulto di voci corse per la notte.
— Duccio? Che cos’è, Duccio, hai inteso?
— Andiamo — dissi e ci avviammo a corsa lungo le rive.
Su l’ingresso del recinto la gente si stipava gridando e gestendo, ossessionata. Come una via ci fu aperta vedemmo fra il circolo degli astanti Sita a fianco di Diavolo; di fronte a loro era Zalèbi. Aveva il viso terreo; pareva percosso dalla morte. Mi lanciai innanzi:
— Che hai fatto? Che hai fatto? — gridai.
Egli mi fe’ cenno di tacere.
Diavolo sghignazzava beffeggiando. L’ampia bocca di lui, dai denti giallastri, si torceva in una smorfia irrisoria, gli occhi pareva misurassero a scherno la forza di Zalèbi.
— Dunque non vuoi? — riprese Diavolo — non vuoi, piccolo cane?
Zalèbi rimase muto con gli occhi fissi in quelli di Sita. La ragazza si volse ad un tratto verso suo padre e disse rapidamente:
— Vattene, vengo con te.
Diavolo rise ancora, poi scrollò le spalle, sputò e si volse per partire. Sita si era soffermata vicino a Zalèbi, noi tutti la fissavamo stupiti. Ella levò una mano, la posò su la spalla del giovane, poi a voce lenta e forte disse:
[89]
— Sei un vigliacco!
Io vidi gli occhi dell’amico mio farsi di un subito sanguigni, vidi la sua bocca tremare più volte nel grido lacerante:
— Sita? Sita? Sita?
Ma la femmina lupigna era scomparsa fra la folla. Tutti stavano muti intorno quasi presi da un incubo. Quando Zalèbi si lanciò innanzi in un impeto folle, trovò un varco subitamente aperto e fuggì per la notte.
Allorchè fummo soli, lontano, dove non si udiva più suono, dove non c’era se non qualche casa muta nell’ombra, egli si soffermò. Ricordo il tremito cupo della sua voce:
— Duccio — gridò — tu devi crederlo almeno, e lo vedrai: io non sono un vigliacco!
Poi cadde con la faccia su la terra e singhiozzò dibattendosi quasi morisse.
[90]
Il campiello, chiuso su tre lati dalle piccole case dei fiocinini e aperto a nord su la laguna, in quell’ultima ora serale cominciava a divenir muto chè i monelli e le donne erano adunati inanzi ai focolari ad attendere l’umile pasto. L’aria si faceva d’attimo in attimo più oscura chè dalle immensità marine Borea si spingeva innanzi, nella sua convulsa rabbia, cumuli di nubi nerastre. Un balenare incessante, senza bubbolio di tuoni, copriva tutto l’oriente. La tempesta si rivelava nel suo fuoco, accendendo le nubi di bagliori sinistri. Nei cieli del tramonto persisteva un incerto lividore cinereo. Era freddo.
Nella semioscurità si intravvedevano i fiocinini che giungevan al tacito convegno. Si presentavano alla spicciolata, uno per volta come andassero a diporto senza cura apparente; non salutavano i compagni seduti sui loro battelletti; ma cercavano un luogo ove accosciarsi a loro volta e attendere pazientemente il cenno. Quasi tutti tenevano, stretta fra i denti, una breve pipa di gesso.
[91]
Erano giovani dal volto precocemente solcato da rughe profonde; erano i figli della lotta e dello stento.
La tempesta, incalzata da Borea, era giunta ormai con la notte, e la tacita accolta di uomini si perdeva nelle tenebre.
Quando feci per discendere il piccolo ponte che conduceva al campiello remoto nel quale ci eravamo dati convegno, sostai e dissi a Serenella:
— Siamo giunti, ritorna.
— Voglio vederti partire — rispose ella non abbandonando il mio braccio.
— È impossibile; Giovanni ti attende e non puoi tardare.
— Mi raccomando — riprese con voce supplichevole — tutta notte pregherò la Madonna del dolore per voi... mi raccomando!
— Fa di non tradirti o saremmo perduti!
— Ma avete dunque deciso?
— Non ancora. Sarà ciò che il destino vuole.
— Tu che puoi fare intendere la tua ragione fra tutti, tu cerca persuaderli per il loro bene...
— Farò ciò che mi sarà possibile....
— Oh che tu sia benedetto, amore mio! Io darei cento volte la mia vita pur di non vederti partire!
E il pianto che aveva trattenuto fino a quel punto, irruppe su dalla dolce gola in un tremito tormentoso. Aveva appoggiato il capo alla mia spalla e stava così stringendomi le braccia in un estremo tentativo di trattenermi ancora.
— Duccio, promettimi una cosa — disse levandomi in volto improvvisamente gli occhi lucenti.
— Parla.
— Domattina prima dell’alba ti aspetterò su gli argini, alla Madonna di Pratobello; qualunque cosa avvenga promettimi di non mancare.
[92]
— Te lo prometto.
— E il Signore che mi vede, sa bene che, se non tornerai....
Era così affettuosamente addolorato il viso di lei e negli occhi suoi c’era tanta passionalità d’amore che un improvviso impeto di tenerezza mi spinse a dimenticare per un attimo la triste fatalità dell’ora. Me la strinsi al cuore e le baciai i capelli, gli occhi, la bocca, ripetutamente, perchè era mia e le avrei dato tutto il mio sangue.
Un breve sibilo che giunse dall’ombra ci disciolse dall’abbraccio.
— Mi chiamano — dissi — debbo raggiungere i compagni.
— Verrai agli argini?
— Verrò. Torna, torna a casa. È notte alta. Addio.
Quando ebbi disceso la scaletta del ponte udii ancora la voce di Serenella ripetere debolmente:
— Addio!
Poi mi diressi nelle tenebre verso il punto fissato e non intesi se non il rombo ululante di Borea che si scagliava nella vastità turbinando. Quando giunsi in prossimità dell’acqua, una voce mi chiamò in disparte.
— Sei tu, Duccio?
— Sono io — risposi.
— Ti aspettavo — fece Zalèbi levandosi dal battelletto sul quale era accosciato.
— Si parte?
— Non ancora.
— Chi manca?
— Marco e Luca; saranno per via.
— Li aspettiamo?
— Sì.
[93]
Dopo una pausa riprese a bassa voce:
— La notte è buona; Duccio, hai proprio deciso di seguirmi?
— Certamente.
— E vuoi venire sul mio battello?
— Voglio essere con te.
— Bada che si giuoca tutto!
— E che m’importa?
— Anche la vita si giuoca!
— Sarà ciò che il destino ha segnato.
— Sta bene — rispose Zalèbi e si accosciò sul battelletto che giaceva su la riva a pochi passi dall’acqua. Io presi posto vicino a lui e attesi.
I fiocinini si erano dati convegno per compiere un’impresa singolare. Diavolo vegliava i lavorieri[9] di Campo Rillo: si trattava di catturargli, anche con la violenza, gran parte della pesca. Nella notte, al ballo degli Argini, allorchè Diavolo aveva detto a sua figlia che andava a fianco di Zalèbi:
— Vientene via, non voglio imparentarmi coi ladri! — non aveva offeso unicamente il figlio di Giovanni della Nave, ma tutta la classe dei fiocinini, di coloro che non potevano vivere, nell’aspra città delle acque, se non di quella pesca che il Comune voleva riserbata per sè, a frutto di qualcuno. Essi sapevano di non rubare perchè si trattava della vita di intere famiglie le quali non avrebbero potuto campare in modo diverso, mancando qualsiasi lavoro; e sapevano anche quale aspra lotta costasse loro il poco alimento carpito, sufficiente appena a non morir di fame. La loro coscienza era tranquilla. La vita ha diritti superiori ai quali le leggi della ricchezza, [94] difese dallo schermo della morale, non possono porre argine.
Ora, all’astuto guardiano sarebbe toccata la mala sorte. I ladri delle lagune gli avrebbero provato che troppa fede nutriva in sè stesso e nel suo coraggio e che le vanterie da sgherro delle quali si compiaceva potevano costargli care.
Zalèbi pensava da solo al suo onore; gli antichi insegnamenti delle madri gli erano guida: — Non essere vigliacco, mai! Se un uomo ti dà uno schiaffo, ammazzalo!
Nei due giorni trascorsi dalla notte in cui l’anima di Sita gli si era appalesata nella sua malvagità lasciandolo d’improvviso in uno stato di stordimento, egli aveva vissuto per tutta una vita di dolore; ora, senza che nessuno fra noi conoscesse il preciso proposito che lo guidava, era capo della spedizione notturna.
Una voce poco lontana pronunciò un nome ad un tratto, fra il bubbolio del vento:
— Marco! — E, dopo qualche secondo, riprese:
— Luca!
— Ci siamo tutti? — chiese Zalèbi levandosi.
— Sì — rispose la stessa voce.
— Allora andiamo.
Spingemmo il lieve battello che scivolò rapidamente nell’acqua e vi salimmo: Zalèbi a poppa, io verso prua. Afferrato il forcino, ad un piccolo grido d’intesa, si prese il largo.
In breve ebbi la sensazione di un pauroso isolamento in una oscura immensità di acque sconvolte dalla tempesta. Gli amici nostri erano scomparsi. Non si udiva più il tuffo dei forcìni che per qualche tempo ci aveva accompagnato. Per l’ansiosa [95] furia del giovinetto eroe, il nostro battello saettò su le onde con la rapidità del turbine.
La tenebra era densissima e il bubbolio, il rombo, l’ululato del vento e delle acque si levavano a riempire l’ignoto abisso nel quale mi parve precipitare.
Ad un tratto giunse dal largo un mugghio più forte che in rapida vicenda si accrebbe avvicinandosi, simile al fragore delle improvvise fiumane nei torrenti appenninici.
— Hai la veste? — gridò Zalèbi.
— Sì.
— Leva il cappuccio, il tempo è in filo per noi; viene il diluvio!
Non trascorse un secondo che l’impeto di Borea moltiplicò talmente da non poter trarre il respiro; poi, sferzando, staffilando, infuriando, spinta dalla folle violenza della tempesta, si riversò dall’alto una pioggia torrenziale.
Fu tale l’imperversare degli elementi che un improvviso smarrimento mi colse e rimasi inattivo senza avere coscienza nè del luogo, nè del perchè mi trovassi sperduto in quella rovinosa tempesta. Il freddo intensissimo che mi irrigidiva, l’assidua sferza della pioggia alla quale la veste che indossavo non poteva porre riparo, aveva vinta la mia resistenza; stavo per abbandonarmi, affranto, allorchè mi giunse la voce del compagno forte:
— Duccio, Duccio, non perderti d’animo, voga!
Fu come una fiamma che riaccese la vacillante volontà; ripresi il forcino che avevo abbandonato e mi curvai su di esso con rinnovata energia. Solcammo la tenebra velocissimamente.
Un urto improvviso ci arrestò.
— Salta a terra, siamo all’argine — gridò Zalèbi.
Ubbidii e presi lo slancio senza vedere ove sarei [96] caduto. Zalèbi si eresse vicino a me su l’argine melmoso che divideva un campo dall’altro. Afferrato il battello, gli facemmo sorpassare l’ostacolo, poi udimmo ad un tratto un sibilo acuto al quale altri sibili risposero fiochi quasi salissero da una incommensurata profondità.
— Vengono — disse Zalèbi — fra poco saremo giunti.
La corsa pazza, faticosa, anelante, ricominciò. Curvi sui forcìni, rattrappiti nella massima intensità dello sforzo, sbattuti dalla pioggia e dalle onde spingemmo il battelletto affusolato che ci portò fra la tempesta lagunare come una docile cosa doma dal nostro volere.
Ad un tratto si intravvide un lucore sanguigno.
— Ferma — gridò Zalèbi.
— È la casona?
— Sì.
— E i compagni?
— Verranno — Zalèbi stava ritto immobilmente su la poppa del battello. Ora potevo intravvederlo al tenue lucore che ne stagliava appena la figura. Intorno a lui biancheggiavano a tratti le spume delle onde, pullulavano diffondendosi, apparivano come in un ribollimento convulso e, su quell’indoma furia, egli si elevava e si inabissava fermo come torre, in un suo invincibile dominio.
Qualche voce giunse sotto vento:
— Zalèbi? Zalèbi?
Rispose avvicinando le mani alla bocca:
— Vi aspettiamo.
Balzarono dall’oscurità ad uno ad uno gli altri battelli e si disposero intorno a noi attendendo. La violenza della pioggia non accennava a diminuire.
— Ora pescano al lavoriero di sotto, verso mare [97] — disse Zalèbi — al primo lavoriero la pesca è compita. Con questo tempo la guardia è al riparo nella casona; ognuno di voi si impadronisca di una bolaga[10]; io e Duccio veglieremo intorno.
— Sei certo che Diavolo sia a Campo Rillo? — chiese una voce dall’ombra.
— Certissimo!
Allora io vidi sorgere dalla semioscurità forse venti fiocinini; avevano il capo nudo e, stretto in una mano, un lungo coltello a serramanico.
Rimasero un attimo immobili, poi si levò una voce sola da tutti, fu come un grido implorante:
— In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo!
Strinsero il coltello fra i denti e con un balzo sparirono nella tenebra.
— Voga! — gridò Zalèbi — dobbiamo seguirli.
Innanzi a noi, come la fioca luce delle lanterne che illuminavano la casona e i lavorieri si diffondeva, scorgemmo a tratti i dorsi dei compagni che si eran lanciati alla pericolosa avventura; emergevano dalle acque a seconda delle onde, parevano legni portati alla deriva, cieche cose nel cieco dominio della violenza. E la sferza del vento e della pioggia si riversava dai gorghi abissali gemendo, ululando, con mille suoni, con mille voci, con le mille grida del turbine che è il martirio degli elementi.
Ad un tratto si delineò come una massa oscura nella notte, pareva un breve argine; poco più lontano apparve nitidamente un angolo della casona.
[98]
— Ferma, ci siamo — sussurrò Zalèbi. Poi, dopo una pausa:
— Stenditi sul battello e veglia.
Ci coricammo proni tenendo appena parte del capo levato sul fianco della nostra imbarcazione. Un’ansia tormentosa aveva attutito ogni mia sensazione onde non avvertivo più nè il freddo nè la pioggia; tutta la mia vita era negli occhi miei che scrutavano; era sospesa in quegli attimi che precorrevano un avvenimento oscuro e terribile.
Nessuno ci avvertì. Diavolo e i compagni suoi erano all’altro angolo della casona, intenti alla pesca. La guardia dormiva.
Il vento ci aveva spinti più presso al lavoriero; ora ne distinguevo nitidamente i fianchi contro ai quali si frangevano le onde.
Apparvero e disparvero nella luce le teste dei fiocinini; avanzavano con ogni cautela, tuffandosi e risalendo per riprender respiro, strisciando muti come bestie all’agguato; poi un torso si levò vicino al lavoriero, poi due, poi tre; udii il secco colpo dei cordami recisi dai coltelli. Le bolaghe eran libere. La grande preda era nostra!
— Via! Via! — gridò Zalèbi ai primi che passaron vicino a noi spingendosi innanzi l’enorme canestro. Nessuno rispose. In breve dileguarono nella notte. Ma avevamo appena afferrato il forcino che un urlo disperato ci raggiunse: fu come una ferrea mano che piombasse improvvisa su la mia nuca, ne ebbi l’identica sensazione.
— Diavolo, in nome di Dio, correte! Hanno rubato tutto!
Seguì un tumulto, poi ogni suono si perse nel fragore della tempesta.
— Sbandatevi! — comandò la guida poi che giungemmo [99] ove erano adunati i battellieri. In un battibaleno le imbarcazioni scomparvero per diverse vie e allora a mano a mano rallentammo la corsa per attirare l’attenzione di Diavolo e lasciar campo ai fiocinini di porre in salvo la preda.
I miei sensi erano tesi talmente all’aspro fascino della lotta che sarei caduto senza avvedermene, stremato di forze, prima di avvertire la stanchezza. La lotta dall’incantesimo ferrigno è forte come l’amore.
— Eccoli! — sussurrò Zalèbi — Duccio, il colpo è fatto!
Udimmo il tonfo rapido dei remi. Una voce gridò a più riprese:
— Ferma per l’anima tua, o sparo!
E un gran fascio di luce ci avvolse.
— Curvati e voga! — riprese il compagno mio. — Andiamo col vento, via!
Io non so quale rapidità ci portasse, non so quale vertigine ci trascinasse con la pioggia a traverso l’immenso campo lagunare, certo fu che il bagliore che ci seguiva si disperse; ma un altro apparve remotamente e un altro ancora su gli argini, poi un suono grave, lungo, lamentoso di corni si levò in lontananza, si ripetè vicino, fu ripreso a distanze maggiori; un suono che corse tutto lo spazio come una voce nuova della tempesta.
— Tentano circondarci — disse nel suo grave affanno il fratello mio — da tutte le casone rispondono. Aspettiamo.
— Che vuoi fare?
— Lo saprai.
Si riudì più distinto e più rapido il battere dei remi; Zalèbi si volse ad un tratto e gridò:
— Diavolo?
Rispose a breve distanza un riso di scherno. Fuggimmo [100] ancora, e non so per quanto tempo, fra grida affannose, e il triste suono dei corni. Attraversammo due argini, seguiti sempre dall’imbarcazione di Diavolo, che non cedeva nel suo accanito inseguimento.
All’argine di Campo Cona, Zalèbi spinse il battello nell’acqua; ne aveva tolto la doppietta. Mi disse:
— Allontanati.
— E tu? — chiesi meravigliato.
— Allontanati — riprese — io conosco la strada!
A malincuore mi diressi verso il largo, ma non avevo percorso venti metri che una luce apparve dietro me.
Distinsi l’adolescente fermo su l’alto dell’argine, e udii il suo grido:
— Prendi la mira! Bada!
Sorse dal buio la figura atletica di Diavolo. L’uomo e il giovinetto furono di fronte a un tiro d’arco.
Zalèbi spianò il fucile e gridò per la seconda volta:
— Prendi la mira!
— Che fai? — urlò la guardia.
— Prendi la mira, vecchia spia!
I due fucili si puntarono rapidamente l’un contro l’altro, poi due scoppi improvvisi vinsero il mugghio del vento, il mugghio del mare, e Diavolo piombò di traverso come una quercia divelta.
[101]
Accosciato in un angolo della stanza semibuia, Omero preparava le sue bisacce. Non appena mi vide crollò il capo e mi chiese:
— Come sei fuggito?
— Non so — risposi.
— E Zalèbi?
— Non l’ho rivisto; ma tornerà.
— Sì, tornerà! A quest’ora chi lo piglia è bravo!
— Credi ch’egli tema la prigione?
— Se anche non la teme, non vorrà cercarla!
— Ed io ti dico che tornerà.
— Per Sita forse?
— Sopratutto per lei. Zalèbi non teme niente!
— È un coraggio insensato.
— Per il tuo onore, faresti peggio!
— E peggio e meglio perchè non vorrei lasciare agli uomini la soddisfazione di punire un atto sacrosanto! Non sai dove sia?
— No. È fuggito per gli argini.
— La ragione lo aiuti!
[102]
Dopo una breve pausa, con voce mutata e calma riprese:
— Domani ci imbarcheremo sul bragozzo San Giorgio; ho già preso l’impegno.
— Anche per me ti sei impegnato? — risposi scattando.
Omero mi levò lentamente gli occhi in volto, stette qualche attimo senza dir parola poi chiese con voce stupita:
— E che vorresti fare?
— Rimango qui — risposi risolutamente.
— Qui? Ma dove?
— Qui, in casa di Giovanni. Ora la mia presenza è necessaria.
Una ruga increspò la fronte di Omero. Curvò il capo sospirando e riprese in tono apparentemente tranquillo:
— Tu sei uomo, devi seguire la tua volontà. Rimani se così ti piace, andrò solo perchè ho dato parola e debbo mantenere ciò che ho promesso; pensa però che non potrai vivere sempre nascosto e che ti prenderanno.
— Chi può avermi riconosciuto?
— Le spie.
— Non potevano essere nella laguna! — risposi sorridendo.
— No, ma vi hanno veduto quando partivate. Si sa che Serenella è venuta ad accompagnarti; si sa che gli ultimi giunti sono Marco e Luca. Vedi, se vi sono occhi buoni a Comacchio? Forse domani, forse fra poche ore la polizia sarà su le vostre tracce.
— E che potranno farmi?
— Niente! — gridò Omero. — Ma non sai dunque che per essere amici della giustizia bisogna aver [103] torto? Sei troppo giovane per saper certe cose! Tu non hai rubato, non hai ucciso, sei più pericoloso perchè sul tuo conto non ci si vede chiaro. Un vagabondo capitato qui chi sa da quale parte, chi sa per quali fini misteriosi, è sempre temibile più di un vecchio brigante. Va, se ti prendono, povero figlio, potrai sapere con quali occhiali la giustizia guarda la gente che serve solo a far numero!
La stanza che ci avevano data come rifugio in casa di Giovanna della Nave, si illuminava a mano a mano col sorger del giorno chiaro. Omero soffiò su la candela che aveva fermata a terra con poche gocce di cera, legò l’ultima bisaccia, poi si levò riassettandosi e disse:
— Tutto è pronto. Io vado a congedarmi alle saline. Sarò qui fra poche ore; prima di prendere qualsiasi decisione aspettami.
Si calcò sul capo il vecchio berretto e partì senza rivolgersi. Udii i suoi passi risuonare nell’andito e disperdersi.
Ero affranto, disfatto; solo la persistente agitazione nervosa faceva sì ch’io mi reggessi tuttavia.
Provavo, e ne ricordo con esattezza la strana sensazione, provavo a quando a quando un ottenebramento compiuto, una sospensione improvvisa della vita intellettiva durante la quale percepivo unicamente il martellar delle tempie. Mi pareva che qualcosa all’infuori di me ne udisse il suono secco e breve, qualcosa che si disperdeva in un vuoto di cui serbavo appena coscienza. Poi ero colto da una subita vertigine e sarei caduto se, con un atto straordinario della volontà, non mi fossi riscosso di soprassalto. Ripreso il pieno potere dei sensi, ricominciava l’interna, scomposta lotta dei pensieri che [104] giungevano a frotte incalzandosi, sovrapponendosi, serbando qualcosa della notturna furia che mi aveva percosso per ore ed ore. Erano ricostruzioni degli avvenimenti ai quali avevo assistito; nuovi rimorsi per non aver seguito Zalèbi dopo il delitto; incertezze dubbiose per l’avvenire mio, per il mio amore che avrebbe dovuto soffrirne; e, a mano a mano, il turbamento che ne derivava diminuiva di intensità; le immagini, le sensazioni si facevano più blande; era un lento dileguare simile all’inconsistenza che acquistano le cose allorchè sorgono le nebbie autunnali: la schietta linea del finito, del determinato si tramuta in appariscenza incerta, è il fantasma della forma che sopravvive. Così una sola idea guizzava ancora nella mente mia, lontanando poi fino a lasciarmi nello strano ottenebramento che precede il sonno.
Ero seduto sul giaciglio; il capo fra le mani e gli occhi fissi al suolo, innanzi a me, immobilmente. A volte una subita percezione di ciò che vedevo mi occupava il pensiero: la forma, le macchie dei mattoni, gli interstizii pieni di polvere rossastra servivano a richiamare la mia coscienza al luogo nel quale mi trovavo; a volte, senza alcuna conseguenza di associazione, rimaneva muta ed unica nella mente mia la visione di quelle forme e di quei colori.
Così non udii dischiudersi l’uscio nè mi avvidi che qualcuno era entrato nella stanza. Solo una voce mi riscosse:
— Duccio? Duccio?
Alzai gli occhi sorpreso e mi levai di scatto. Zalèbi mi stava innanzi come fosse sorto dall’ombra.
— Ti sei salvato? — chiesi ansimando. Forse il mio viso era stravolto s’egli rispose:
[105]
— Sta in pace!
Guardai con maggior calma l’amico mio. Era compiutamente trasfigurato, era quasi irriconoscibile. Il volto, in una sola notte, aveva perduto ogni aspetto giovanile: le guance si erano infossate sotto gli zigomi; le labbra s’eran fatte livide; gli occhi profondi e lucenti. Aveva alcunchè di spettrale.
— Perchè non hai seguito le vie del Bosco? — ripresi. — Verranno a cercarti.
Rispose sorridendo:
— C’è tempo a tutto.
— Che vuoi dire?
— Sarò troppo lontano quando vorranno prendermi.
— Bada, non fidarti!
— Per me non temere — riprese dopo un silenzio, scrollando le spalle — ho pensato a tutto. Conosco una strada lungo la quale non mi raggiungeranno. Io son venuto ad avvertirti, perchè tu vada pel tuo destino. Omero avrà pensato a ciò. Parti subito.
— Omero andrà solo — risposi — ho già rifiutato di seguirlo.
— E perchè? — chiese Zalèbi fissandomi intensamente.
— Perchè il mio posto è qui, ora più di prima. — Scrollò il capo abbassando gli occhi e, per qualche istante rimase pensoso; quando rialzò il volto, vidi che agli angoli delle palpebre un vivo lucore tremava in due lacrime che scesero rapidamente su le guance contratte in uno spasimo tanto più forte quanto più contenuto. Era il suo dolore profondo, la sua giovinezza infranta dall’amore che aveva vinto la virile fierezza la quale non concede facili espansioni. Forse aveva veduto sì chiaramente lo [106] specchio della sua povera vita; forse gli era apparsa sì grande la sua disgrazia, sì terribile il suo destino che dal fondo del core, là, dove ogni creatura porta qualcosa della materna dolcezza per la quale ebbe vita, era salita, vincendo ogni resistenza, la triste ombra del pianto.
— Io so perchè vuoi rimanere — riprese senza rasciugarsi le ciglia. — Serenella è buona e merita il tuo amore; ma non potresti giovarle, la faresti soffrire inutilmente. Le abbiamo fatto già troppo male, Duccio, lasciamola in pace! È giovane, rifiorirà. Tu potrai rivederla fra qualche anno, quando tutto sarà dimenticato. Allontanarsi non vuol dir morire! Vi vorrete bene ugualmente. Da parte mia non avrete a dolervi di nulla, di qui innanzi, perchè non tornerò più.
— E dove andrai?
Non rispose.
— Partiamo insieme? — ripresi.
— No — rispose risolutamente.
— Perchè?
— Mi saresti di impaccio! — La voce di lui s’era fatta sì aspra che non aggiunsi parola.
— Io son venuto per te — disse ancora, rapidamente; — prima che pensino a cercarmi in paese debbo esser lontano. Non ho tempo da perdere, Duccio, e non voglio andarmene se non ho avuto da te una promessa che, per la nostra amicizia, non devi negarmi.
— Quale promessa?
— Serenella sa tutto, le ho parlato prima di venir qui; ora giurami sul tuo amore che lascierai Comacchio non appena io sia partito.
Mi levai di scatto e gridai accostandomi:
[107]
— Io me ne andrò ma tu che vuoi fare?
— Giura! — riprese Zalèbi.
— Dimmi che vuoi fare, prima.
— E che t’importa?
— M’importa per il sacrificio che mi imponi. Hai riveduto Sita?
Zalèbi impallidì indietreggiando; quel poco di rossore che l’animazione avea posto a sommo delle guance di lui dileguò, fu vinto dal color terreo che si sparse d’improvviso per tutta la sua faccia. Fu un velo di morte. Gli occhi suoi si infoscarono ancor più; dalle sue labbra strette spasmodicamente usciron lente e rotte le parole:
— No... non l’ho riveduta!
Non ebbi animo di prendermi la rivincita che m’ero ripromesso; una commozione profonda mi vinse. Le nostre vie erano troppo lontane; troppo diversi erano i nostri destini. Egli si levava nell’alba fosca di un delitto; dall’ieri all’oggi era disteso un abisso per lui; una creatura nuova si trovava al limite di un deserto nel quale era cosa vana ricercare una via. Silenzii secolari, distanze infinite non avrebbero potuto porlo in un isolamento maggiore. Non gli era possibile riprendere un filo della trama lacerata; avrebbe dovuto lottare, nascondersi, fuggire senza nulla sperare, abbandonando tutto, solo e disperso con la maledizione del suo tragico amore. Tale era la sua terribile condanna. Temevo non vi reggesse. Era troppo giovane ancora, non avea oltrepassato i vent’anni. Vedeva l’amore con occhi limpidi nei quali rideva l’ingenua festosità del fanciullo, e la sua natura chiusa e il temperamento fiero gli avevano reso sacro l’amore del quale aveva formato un’unica visione a tutta la vita. Così nulla [108] lo avvertiva. Andava come un falco verso un fuoco notturno, innamorato della fiamma di cui non sa la violenza; andava fiducioso nella sua forza, nella sua giovinezza irrompente come un’infinita fiumana di sole. Ad un tratto la terribile cecità che ci guida s’era imbattuta in lui e l’aveva travolto.
Per l’energia che gli restava nella rovina, capivo ch’egli aveva presa la sua decisione; non era uomo da dubitanze; la sciocca paura e la viltà non avevano tormentato mai l’anima sua.
Ora, come stava per andarsene senza rivolgermi parola gridai:
— Zalèbi perdonami, sono troppo stanco, non so ciò che mi dica!
Si rivolse per l’ultima volta.
— Per il bene che ci lega — disse — giurami ciò che ti ho chiesto!
Allora mi avvicinai, gli presi le mani, le strinsi fra le mie e, fissandolo negli occhi, giurai su l’anima di mia madre.
Poi sentii le sue mani tremare.
— Dammi un bacio — sussurrò.
Ebbe una voce più triste che il pianto. Gli gettai le braccia al collo, disperatamente. Udimmo allora, da un angolo della stanza, salire un sommesso singhiozzo. Zalèbi si disciolse in fretta. Inginocchiata innanzi ad una piccola icone, Serenella piangeva.
Nessuno lo trattenne, d’un balzo raggiunse l’uscio e disparve. Feci per lanciarmi sul suo cammino ma una voce implorante mi soffermò:
— Duccio, Duccio, dove vai?
Serenella si era levata e veniva ad incontrarmi con le mani tese. Aveva i capelli scomposti; racchiusa [109] così nello zendado azzurro pareva una piccola madonna del dolore.
— Zalèbi — gridai — Zalèbi si perde!
Ricorderò fin che viva il tono della voce dolorosa:
— Non potrai salvarlo! Da tanti giorni prego e piango e mi consumo per niente! Per il mio amore, Duccio, non ti muovere!
— Ha parlato con te?
— Sì.
— Tu sai tutto?
Mi levò in volto gli occhi suoi grandi, cerchiati di nero e lentamente, trascolorando, riprese:
— Sì.
Poi era troppo forte la sua pena, povero amore; troppo avea sofferto per la sua debolezza di donna; mi si avvinghiò al collo in una crisi di pianto:
— Duccio ho paura di rimaner sola, Duccio ho perduto tutto tutto tutto!... Prendimi con te, io verrò con te, sarò un niente, sarò come la palma benedetta, un niente!... Non mi lasciar sola; fa di me quello che vuoi; non ti sarò di peso, mai, e il tuo volere sarà il mio volere. Duccio, per il bene che ti voglio portami via, io voglio morire a’ tuoi piedi... ma con te, con te... per sempre!...
Tremava nel convulso del pianto e si stringeva forte al mio petto, forte come per non distaccarsi mai più.
Ad un tratto si levò irrigidendo e chiese a pena:
— Hai udito?
Avevo udito infatti lo scoppio di una fucilata, poi un rumore di voci che cresceva d’attimo in attimo quasi a divenire tumulto.
— Che cos’è? — riprese.
Stette perplessa qualche attimo ancora; poi ebbe un grido acutissimo:
[110]
— Ah! È morto! È morto! È morto!
Facemmo per lanciarci verso l’uscio. Omero apparve nel vano.
— È vero? — gridò Serenella.
Omero si tacque. Il viso della piccola bella si trasfigurò, le mani di lei si protesero e non feci in tempo a sorreggerla che vacillò e cadde svenuta.
Quando l’avemmo adagiata sul giaciglio, Omero aprì la porta segreta che dalla nostra stanza metteva sul canale.
— Vieni — mi disse.
— No.
— Vieni, insensato, le guardie ti cercano dappertutto, fra un quarto d’ora saresti al buio!
Poi mi sentii afferrare dalle sue braccia poderose e come un niente fui gettato nella barca che attendeva nel piccolo canale silenzioso.
[111]
Sedevano a poppa, ai piedi del timoniere, gli uomini dell’equipaggio del San Giorgio. Io m’ero accosciato vicino all’albero di artimone, sotto la gran vela. Omero era disceso nella stiva con Rùstigh, il capitano della piccola nave. La spiaggia di Magnavacca andava lontanando nel mattino lucente; ora si scopriva tutta: dalle lande di Marcabò, dalle solitarie bocche del Po di Primaro fino agli esili filari di betulle del Po di Volano e alla selva di Mesola, sperduta nelle azzurrità mattinali. E come la linea di demarcazione fra la spiaggia ed il mare diminuiva con l’accrescersi della lontananza, apparivano, simili a nubi salienti dall’altro mare, le estreme montagne d’Appennino. Si disperdevano verso nord su la gran pianura padana e verso levante scendevano su l’Adriatico fino al promontorio di Ancona che i vecchi navigatori delle nostre spiagge chiamano ancora l’Alpe del sole.
Gli uomini dell’equipaggio sedevano tranquilli: non si poteva andare a miglior vento. Vicino alla [112] sua barra il timoniere fumava in pace. In disparte, sopra un mucchio di cordami, era uno sconosciuto che di tanto in tanto levava gli occhi a guardarmi e riabbassava poi il capo fra le palme.
Qualcuno fra i navigatori intonò una canzone a cui gli altri fecer coro ma sommessamente per non rompere la dolcezza del gran silenzio. La nave aveva un movimento placido; qualche fremito, qualche scricchiolio delle vecchie assi si univa a volte alla canzone dei marinai; null’altro. Mi ero disteso supino: vedevo sopra me le grandi ali che ci portavano a volo verso l’alto mare; poi il cielo, pallido nel suo sereno quasi iemale. Il tepore era dolce, blandiva lasciando la mente in un torpido vaneggiamento. A poco a poco la gran pace serena fu ne’ miei sensi e mi addormentai.
Eravamo molto lontani quando riapersi gli occhi. Il sole si spegneva nei cieli estremi e la costa era scomparsa dall’orizzonte.
Volsi gli occhi intorno a ricercare Omero. Lo vidi in disparte e non lo disturbai; mi era unicamente necessaria la sua presenza. Non appena la mente mia, riposata dal sonno, riprese le sue piene facoltà, il mio dolore balzò dal silenzio con rinnovata lena.
Zalèbi era morto sotto alle finestre di Sita mentre le guardie si lanciavano per imprigionarlo; Serenella, nell’ombra e nel lutto della sua casa, risvegliandosi, mi avrebbe cercato con occhi grandi e smarriti, per rinnovarmi la disperata preghiera. L’uno aveva raggiunto il suo sogno; l’altra per il suo sogno piangeva.
La tristezza lacerante delle cose perdute mi opprimeva; per la seconda volta la morte ed il dolore mi avevano lanciato alla ventura verso un avvenire che [113] mi appariva deserto e dolente. Ma non languivo. L’asprezza del dolore rinvigoriva a quando a quando il mio assiduo desiderio di lotta. A quando a quando perchè la tristezza, la figlia della pensosità, questa maga dal pallido volto affilato in cui gli occhi sono come un abisso, si era insinuata in me perdutamente.
Tu vai fra tanti, vai solo fra mille, fra diecimila; hai perduto molto, hai perduto un cuore, una dolcezza, la maggiore fra tutte: tua madre; e vai e nel cammino ti accompagna il pensiero di lei sempre, perchè tu solo, tu solo puoi portare con te qualcosa di quella creatura benedetta, qualcosa ch’ella ti ha dato nel suo amore, nello spasimo santo della sua doglia. Cammini. Iddio, l’Infinito, il Mistero, qualcosa di imponderabile se l’è ripresa. Chi sa? in qualche angolo della terra ci sarà un’ombra anche per te. La terra è grande e la fortuna è cieca. Passano mesi, la tua giovinezza riprende il suo cantico perchè tua madre vuole così, avrebbe voluto così tua madre che ti segue, che è in te, in tutto ciò che di più gaio dall’anima tua fiorisca; riprendi il tuo cantico perchè la vita è bella e si può e si deve amare. Un giorno, ecco, un bel giorno ti accorgi che c’è qualche novità: ti batte il sangue ai polsi, tutta la tua vita è più alerte, tante idee nuove, come stormi di allodole, passano per la tua mente. È una dolcissima primavera che ti invita a sostare; e sosti.
Sosti; chi può andar sempre se non il sole? L’amore è giunto e ben rimanga nel suo regno cortese. Ella è inanzi al tuo core, si è fermata vicino a te; il destino l’ha condotta su la tua via come dal primo giorno della vita. Sorga pure dallo squallore, dalla miseria, nulla può recarle offesa.
[114]
È tal cosa la giovinezza, che l’arte umana non può superarla. Non hai osservato mai come una bella figlia abbia in sè, per ignota virtù trionfale, quasi una lucentezza solare per cui nessuna cosa al mondo può avvilirla? Ella è ricca e il suo misero giaciglio è pari a coltri di damasco e d’oro; la virtù di lei si comunica alle cose che le stanno intorno; dove ella vive la primavera non finisce mai.
Ecco, solitario viandante, il sogno degli innamorati che, nella tua vita, vorresti eterno come l’illusione, ti ha raggiunto: godilo per il poco che puoi. Ogni giorno ha il suo tramonto e ogni stagione ha i suoi giorni: non uno è uguale all’altro. Domani forse ti troverai per altre vie. Ciò che oggi risplende alto nel tuo cielo, avrà domani un’apparenza crepuscolare.
Vedere e svedere; creder d’essere giunti e trovarsi lontani le mille miglia; è la vicenda eterna e in ciò è il germe della eterna tristezza.
Io soffrivo nel mio silenzio e m’era dolce la vicinanza di Omero. Delle cose perdute vedevo in lui come una continuazione. A volte lo cercavo con gli occhi; ma l’amico buono non mi rivolgeva parola chè intendeva la mia sofferenza nè voleva turbarmi.
Il mare onduleggiava ingemmandosi e le terre erano tramontate sotto alle nebbie dileguando quasi che il vento le avesse soffiate nella concavità dei cieli là dove il sole si moriva; e laggiù si levava sul mare un diadema sanguigno che accendeva le acque di tremule lingue di fuoco.
Gli occhi miei non abbandonarono un attimo l’estremo baglior moribondo. In quella latitudine sorgeva la città rossigna, la solitaria corolla delle lagune. Ne vedevo le torri, nere, immobili verso l’abisso, simili a l’umana volontà che scruta; ne vedevo [115] tutto il profilo sorgere su dall’ombra, e stagliarsi graniticamente su l’ondeggiante varietà del crepuscolo. Stava a simiglianza di uno spettro su l’immensità marina.
Il mio cuore ne tremò, sì chiara fu la visione in quell’attimo. Taceva nel suo lutto, la città dell’amore, simile ad un’oscura prigione chiusa per l’eterno su la fredda superbia di Sita. Tutto si era ammutolito in una gelida crudezza; ogni casa era deserta, ogni canale, ogni ponte; non una voce umana si legava, non un grido. Su le vie fatte oscure dalla luce di un eterno crepuscolo, cinta dalla sua veste vermiglia, gli occhi larghi e pieni di terrore, la bocca contratta in un lamento di assidua chiamata errava un’ombra, sola, che si soffermava ad origliare a tutte le porte; sola nella città deserta, nel silenzio del mondo. Ella non udiva che il busso degli zoccoli suoi da ponte a ponte; non udiva che il suo respiro roco e la sua voce che le faceva paura. Aveva paura della vita sua, in quel luogo sacro al regno della morte, Sita, la maledetta!
Ella aveva riso profanando l’amore e l’amore se ne vendicava così.
I marinai ripresero l’antica cantilena misurata sul ritmo del mare:
«... e i tre pastori videro levarsi
San Giorgio con la sua spada lucente....»
Allo smorire del cielo s’era diffuso il color delle viole.
«... veniva dai paesi dell’oriente.
Avea passato e le foreste e il mare
sul suo cavallo, senza mai sostare;
senza sostare, senza prender posa
fino alla triste terra paurosa....»
[116]
C’era un più tenero sogno allo smorire dei cieli e l’anima mia se ne addolciva.
«... stava diritto ed alto su gli arcioni.
E i tre pastori cadder ginocchioni,
cadder su le ginocchia ad implorare
colui che aveva oltrepassato il mare,
che veniva col sole da l’oriente
a difender la sua povera gente!....»
Tutto era smorto col dileguar del sole; e l’aria e il mare e l’infinito.
Gli occhi miei non si erano distolti un attimo dal cielo. Le voci che cantavano intorno pareva salissero dal niente, da un fiato di nebbie disperdentisi. Le ultime viole impallidivano come occhi socchiusi dal sonno. Oh l’immensa dolcezza! Sembrava il mare, in quell’ora, il campo infinito del silenzio solcato da una sola nave che faceva vela per l’ignoto.
Ma il mio pensiero era laggiù alla soglia della piccola casa dove l’amica mia piangeva; era laggiù come un povero viatore che non può farsi avvertire.
Io non sapevo di poterla rivedere l’amica mia: dove sarei andato? che ne sarebbe stato di me?
Col capo appoggiato all’albero di artimone guardavo disperdersi le ultime luci. Apparve la stella del pastore: la prima che annuncia il grande stuolo, il gregge che vien dietro lei nella notte. Verso poppa un vecchio preparava il mangiare, curvo su le bragi di un piccolo fornello. Innanzi a lui un cane della Pomerania scodinzolava mugolando.
Lo sconosciuto andava e veniva da poppa a prua. Come l’aria s’era fatta frigida aveva rialzato il bavero della giacchetta e si era ficcato fin su le orecchie il berretto a visiera. Sentivo una ripugnanza [117] assoluta al conversare; avrei voluto esser solo e indisturbato; solo con la mia tristezza.
Quante volte ricomincia la vita! Questa esistenza nostra che non si svolge mai tutt’intera secondo un corso segnato; ma procede ad impeti e si arresta e riprende fino alla sua consumazione! Per me si chiudeva allora un’età; il tempo se la spingeva innanzi verso il suo nulla, rapidissimamente. Ciò che era stato non sarebbe riapparso mai più. Nelle pause del dolore, queste parole risuonano come il grido che si allontana, come la voce che si perde nel vuoto; per un attimo tutto l’essere ne sente la tristezza lacerante e dubitando si accascia; ma poi la vita riprende i suoi diritti e ricomincia la trama paziente fra i rovi finchè una nuova bufera non la disperda. È sempre così ma che importa? Non chiedere la sua ragione al sereno; non chiedere all’amica tua perchè ti voglia bene. La gioia è fatta di piccoli nulla e la scienza accresce il dolore.
Ad un tratto si udì giungere per l’aria, e non so per quale fenomeno strano perchè le terre erano lontanissime, un lento martellare di campana ma affiochito, incerto, dolcissimo. C’erano già le stelle, ricordo, e all’albero maestro e a prua lucevan le grandi lanterne che segnavano il nostro volo sul mare. Vidi vicino a me Rùstigh, il capitano. Si tolse il berretto e si fece il segno della croce. I marinai si inginocchiarono in disparte. Quando il suono alitante si disperse, simile al dileguare di un fumo argenteo nei mattini invernali, udii Omero chiedere a Rùstigh:
— È l’or di notte forse?
— No — rispose Rùstigh — è la campana di una città scomparsa sotto il mare. Il Signore la maledisse e le acque la inghiottirono.
[118]
Un riso acuto ed aspro sorse dall’ombra. Lo sconosciuto si era avvicinato a Rùstigh l’uomo semplice e rozzo. Disse:
— E voi credete ancora a queste cose?
— Sì, ci credo.
— La vostra fortuna è lontana, allora. Morrete schiavi di chi vi comanda.
— Sul mare c’è un solo padrone — rispose Rùstigh.
— E chi è di grazia? — chiese ridendo lo sconosciuto. Dopo una breve pausa una voce alta e solenne gridò da poppa:
— Iddio.
Lo sconosciuto infilò le mani nelle tasche della giacchetta e si allontanò borbottando.
— Siete più ciechi dei bambini!
Non gli dettero ascolto; avevano ripreso il lento cantilenare:
«... i tre pastori videro levarsi
San Giorgio con la sua spada lucente!...»
La notte palpitava nell’infinito. Ah Serenella, non fu tanto ardore nel cielo quanto dolore fu nell’anima mia per averti perduta! Una disperazione tragica si chiuse nel mio cuore ed io l’ebbi sacra. Ebbi sacro il martirio che provavo per te.
Un singulto mi scosse, poi un altro e un altro con crescente rapidità come in un riso irrefrenabile che ti prende, ti deforma e ti angoscia. Senza un grido, Serenella, per te tutta l’anima mia si prostrava tremando.
Caddi prono su le assi del ponte e piansi, piansi a morirne.
Omero non disse parola; stava col capo reclino fra le palme dischiuse e pareva dormisse.
[119]
[121]
Matteo Adeva mi guardò di traverso con un gesto fra il compassionevole e lo sdegnoso:
— Tu sei un uomo che sogni — mi disse. — Non bisogna avere certe preoccupazioni se non vuoi morir di fame!
— Ho ancora la debolezza di essere onesto — risposi sorridendo.
Omero assentì col capo.
— Arrangiati allora — riprese Matteo levando le spalle. — Credevo trovare un uomo di buona volontà e trovo un testardo che non mi serberà neppure gratitudine per la proposta disinteressata. Arrangiati. Io posso compiere l’operazione per conto mio.
Compì due giri per la stanza, poi mi si piantò innanzi fissandomi negli occhi.
— E domani che cosa mangerai? — chiese levando il capo quasi ad affrettare la mia risposta.
— Ciò che capiterà — risposi.
— E se non capita nulla?
[122]
— Per un giorno si può digiunare senza fastidio. Il corpo non ne soffre — disse Omero.
— Quando sia così — riprese Matteo Adeva — vi lascio col vostro digiuno e buon pro’ vi faccia! Si capisce che giungete dalla provincia e non avete idea di ciò che sia la vita a Roma. Vi faccio un lieto pronostico, figli miei: o morirete di fame o finirete in galera perchè non avete neppure la tempra necessaria per compiere un bel colpo a tempo debito. Quando sarete costretti a tentare, vi coglieranno come pulcini nella stoppa.
— E chi ti dice che tenteremo? — disse Omero.
— L’esperienza me lo dice! Credi ancora di poter trovare lavoro qui, tu che non sai far nulla?
— E credi tu che Roma sia tutto il mondo? — rispose Omero.
— Che cosa vuoi dire?
— Voglio dire che le strade sono grandi e sterminate e che, se non qui, in un altro luogo il nostro lavoro potrà essere compensato come merita.
— Allora buon viaggio! — soggiunse Matteo Adeva inchinandosi burlescamente; poi riprese la passeggiata da un canto all’altro della lurida stanzaccia. Ad un tratto sostò e, volto ad Omero, chiese bruscamente:
— A proposito, chi paga la stanza?
— È pagata già per tutta la settimana — rispose Omero.
— E chi l’ha fatto?
— Io.
— Avevi i soldi?
— Pare!
Dopo una pausa riprese:
— Posso chiederti ospitalità per questa notte?
— No!
[123]
— Tante grazie. Hai paura di comprometterti?
— Non è per questo; ma vedo che non potremmo andar d’accordo.
— Già... incompatibilità di carattere! — esclamò Matteo Adeva in tono sardonico.
Volgeva il vespero. I quartieri di San Lorenzo si animavano di un vocio alto e confuso di monelli e di ciance che da un uscio all’altro, da una finestra all’altra o in mezzo alla strada alimentavano a voce altissima il loro pettegolezzo. Giungevano dalla prossima stazione lunghi sibili di vaporiere. Una sirena lontana mandava il suo lamento fioco e continuo che ha alcunchè di grave e pare gridi alle stelle, sui due limiti del giorno, l’eterna pena del travaglio umano. Qualche campana si levò dalle prossime chiese ad invocare Iddio per il sonno di tante creature stanche. Io non vedevo il sole morire fra le nubi vermiglie; ne sentivo in quei suoni la malinconica dolcezza.
Dietro la nostra porta una voce aspra di donna chiamò a più riprese:
— Cajèla? Cajèla?
— Che volete? — si sentì rispondere dall’alto.
— Vieni ad aprire che c’è un signore.
Si udì un: — Vengo — stanco e strascicato, poi un rumore lento di passi sui nostri capi.
Udimmo ancora la voce della vecchia, dire sommessamente:
— Salga, vedrà che bella figlia! È ancora minorenne! — Poi, dalla via, il suono di un organetto mandò per l’aria le note di una canzone in voga.
Matteo Adeva guardò l’orologio (da qualche giorno possedeva un orologio d’oro) alzò il bavero della giacchetta e disse:
— Che freddo! Questa notte gelerete, amici belli; [124] con quelle coperte cenciose non c’è da ripararsi. La tramontana s’è levata. Per conto mio troverò un giaciglio da signore. Voi volete rimanere nobili straccioni e restate tali che io non vi disturberò più. Non c’è gusto a far la saponata agli asini. In tutti i casi poi — fece fermandosi innanzi a Omero — voi non mi avete veduto e non mi conoscete...
— Ragazzo — rispose Omero levando il capo — al nostro paese le spie si accoltellano!
Matteo Adeva girò sui tacchi, scosse le spalle come abbrividendo e soggiunse:
— Allora... addio.
Nè io, nè Omero rispondemmo. Adeva non ne fece caso; giunto su l’uscio si rivolse ancora per dire:
— Buon appetito! — poi scomparve nell’andito buio.
Eravamo a Roma da sette giorni; Matteo Adeva era sbarcato con noi ad Ancona e ci aveva seguiti di città in città fino alla Capitale. Quando si è poveri non si discute troppo su la compagnia che il caso vi pone a lato. Nel branco, le pecore nere vanno accanto alle bianche, tanto l’una deve pestare l’orma dell’altra. Durante il viaggio aveva detto di appartenere a un circo equestre che avrebbe raggiunto a Roma e la cosa ci era parsa più che naturale; poi aveva parlato e parlato di anarchia, di associazioni segrete, di congiure internazionali e di tante altre belle e piacevoli cose che lo davano a conoscere subito per quel grande ipocrita malaccorto che era. Vedendoci quasi sempre ascoltare silenziosamente le sue frottole, ci aveva scambiato per due placidi babbei ai quali è lecito raccontar l’inverosimile e s’era sbizzarrito. Solo una volta Omero gli aveva detto, e non so davvero per quale sua logica particolare:
[125]
— Chi è bugiardo è ladro.
Oltre questa non avevamo avanzata nessun’altra protesta.
A Roma era comparso qualche volta nella stanza che avevamo preso in affitto in una casaccia situata nei quartieri di San Lorenzo e ci aveva spiegato, e questa volta con sincerità, il suo vero sistema di vita. Ora si sperava non tornasse più ad importunarci.
Era uno spirito leggero, vacuo, di vagabondo amorale che non sarebbe stato mai fieramente dannoso alla società per la vigliaccheria di lui. Coltivava il piccolo furto ch’era più facile e meno pericoloso; non si sarebbe dato mai al delitto, non perchè non se ne sentisse l’animo o ne temesse il rimorso ma perchè ne abborriva le conseguenze.
Era un bel giovane su la trentina che piaceva alle povere donne della strada dalle quali traeva la maggior parte della sua rendita e girava il mondo. Quando aveva sfruttato un ambiente partiva per un altro. La polizia ne perdeva le tracce ed egli ricominciava il suo giuoco piacevolmente, pensando che il domani è la preoccupazione degli imbecilli.
— Duccio — disse Omero — esci questa sera?
— No; mi sento stanco. E tu?
— Ti tengo compagnia. Tanto sarebbe inutile andare in giro a quest’ora.
— Perfettamente inutile.
— Hai fame?
— Un poco.
— Ho pensato alla cena — riprese Omero traendo da una tasca un piccolo involto.
— Di’ un po’; quanti giorni assicurati ci rimangono ancora?
— Dai dodici ai quindici; secondo.
— E che somma possediamo?
[126]
— Trenta lire.
— Non c’è male. Avremo tempo a trovar lavoro.
— Ti lascio cinque giorni ancora, per la tua Roma. Qui non voglio morirci, sai?
— Abbi pazienza.
— Vedremo! — fece Omero scuotendo il capo e aprì il piccolo involto.
— Mangia — riprese. Cominciammo silenziosamente il pasto frugale.
Ad un tratto picchiarono sommessamente all’uscio.
— Avanti! — gridò Omero. Una giovanetta avanzò il capo fra i due battenti.
— Entrate, entrate ragazza. Che cosa volete?
La giovanetta girò gli occhi per la stanza e chiese:
— Avreste un po’ di fuoco?
La sua voce roca, afona, mi impressionò sì che fissai la nuova venuta con curiosità maggiore. Aveva i capelli scomposti, fermati malamente a sommo della nuca con un nastro giallo e qualche forcina; si era fasciata il collo con un nastro giallo e dello stesso colore era una lunga vestaglia di ambigua eleganza che le lasciava nudo parte del seno e le braccia. Siccome faceva molto freddo, si era gettata su le spalle una mantella rossa e, con una mano, cercava tenerla raccolta intorno alla persona.
Come vide che la guardavamo senza rispondere richiuse l’uscio dietro sè e chiese di nuovo, avanzando:
— Avreste un po’ di fuoco, per piacere?
— Mi dispiace, ragazza — rispose Omero — ma da quando siamo a Roma non abbiamo ancor visto la fiamma!
— E non avete freddo? Vi mancano quasi tutti i vetri alle finestre.
[127]
— Che volete farci? Siamo abituati a ben altro!
La ragazza girò il capo per la stanza quasi a scrutare, nelle poche cose sparse, il segreto della nostra vita.
— Volete favorire con noi? — le chiese Omero facendole cenno di sedere su la coperta che avevamo distesa in terra e che ci serviva da tavolo.
— Grazie, ho la mia cena che mi aspetta. Cercavo un po’ di fuoco per riscaldarmi; sono tanto stanca!
— Tornate ora dal lavoro? — chiese Omero senza l’ombra dell’ironia. Ella sorrise a pena e mi parve che su quel volto impassibile, giovanissimo e impiastricciato di belletto passasse una fuggevole tristezza; mi parve che quegli occhi atoni di giovinetta sorpresa dalla brutalità quando cominciava a pensare nella vita un suo destino lieto, fossero velati da un’ombra dolorosa; ma fu un attimo; l’infame veste cinica nella quale la foja degli uomini l’aveva costretta come in un’ineluttabile schiavitù, riprese il sopravvento.
— Torno ora dal lavoro sì, e non sarà finito ancora!
Come Omero maravigliando levò gli occhi a guardarla ella ruppe in un riso sguaiato.
— Quanti anni hai? — le chiese Omero.
— Ho quindici anni.
— E chi ti ha messo a quel mestiere?
— Mia madre.
Si udì un’aspra chiamata dall’alto:
— Cajèla? Cajèla?
La giovanetta ci gridò:
— Buonanotte! — e scomparve in un battibaleno.
La luce era fioca. Omero trasse da una bisaccia una candela e l’accese. Le nostre ombre si muovevano sui muri con gesti grotteschi.
[128]
Dalla via saliva un coro scomposto di voci avvinazzate:
«Quando me moro io, moro davvero;
sul caro ce li vojo li mejo fiori...»
Ad ogni verso, qualcuno si interrompeva per vociare, per bestemmiare nella piena espansione della sua bestialità ebbra. Erano risate, lazzi, turpi grida. Passava la bieca volgarità che si compiace della sua ignominia, si distende nel suo brago e ride dalla larga bocca bavosa fino a soffocarne; la volgarità che non ha unico regno nelle strade, nei bordelli e nelle tane del popolo — ma nei caffè e nei salotti dove, quando si trovino uomini soli, scoppia più violenta per essere stata contenuta dalle finzioni sociali. Io ne sentivo un istintivo orrore e pensavo alla mia povera vita d’altre volte, quando mia madre era con me per farmi vivere nel suo sogno di dolcezza e d’amore.
Le voci dalla strada continuavano berciando:
«...... allegri borsaroli
ch’hanno ammazzato er Macelaretto!»
Poi si persero all’angolo della via fra fischi ed urla.
Levai gli occhi alla finestra. Si vedeva appena un lembo di cielo, lassù, oltre i tetti della casa che ci stava contro ed era opalino, come l’ultima luce lo accarezzava. Non so qual soffio di aperte campagne mi passasse nell’anima, so ch’ebbi timore di esser soffocato da tutte quelle case oscure che si addossavano, si assiepavano le une su le altre quasi odiassero e l’aria e il sole e stessero tutte prone in una massa scomposta per evitare la maledizione del giorno.
— Io vado a dormire — disse Omero levandosi.
[129]
— Dovrai percorrere poca strada — risposi.
— Ti confesso — riprese sedendosi vicino al giaciglio, formato da un mucchio di cenci sui quali erano distese alcune lacere coperte — ti confesso che sono un poco stanco. Caso raro... s’invecchia! — e gettò una scarpa vicino alla porta. — La città mi ammazza forse, perchè venti giorni di strada non mi hanno mai abbattuto così. Ma sogni?... — e la seconda scarpa raggiunse la prima — Queste strade piene di polvere, di carri, di gente che grida, di carrozze elettriche, di mille diavolerie che sa il caso per quali vie siano entrate nella testa degli uomini; queste strade con certe case alte quanto chiese, quanto torri che devi torcere il collo per vederne la fine; con tanti specchi da uccellare la gente che c’è da perderne la ragione, con tanto ben di Dio che ci sarebbe da diventarne ricconi, ti danno le vertigini. Io... io — si raccolse le coltri intorno al collo e continuò — io mi sono sempre tenuto lontano dalle grandi città. Quando ne incontravo qualcuna cambiavo strada; mi hanno sempre fatto l’effetto di una prigione mostruosa. Avrò torto e chi te lo nega? Avrò mille volte torto... ma che vuoi... l’asino ama la sua gramigna — si rivolse sul fianco destro per volgere le spalle alla fiamma della candela. — L’asino ama la sua gramigna — riprese dopo un sospirone — e per lui è manna!
Si tacque; dopo dieci secondi dormiva. Mi sentii solo e ne avevo bisogno. Da qualche giorno, non so per quale asprezza nuova dell’anima mia, per quale malinteso orgoglio, la compagnia di Omero non mi era più sì cara come altre volte; non già che il mio amore per lui fosse diminuito o che la lunga consuetudine di vita comune avesse finito per annoiarmi: [130] no, era ben diversa l’intima causa del mio malessere.
Omero non amava le città per le quali provava un’ostinata ripulsione. Dal nostro sbarco ad Ancona egli avrebbe desiderato fermarsi in qualche angolo remoto delle Marche o dell’Umbria; io non volli rinunziare al viaggio progettato: Roma mi stava nella mente in fittizie immagini di sogno.
Dal primo momento in cui l’Urbe ci apparve sotto il mattino, sorta fra il dissolversi delle nebbie al solicello invernale, non ben definita ancora ma grande e solenne nella grigia vastità del Lazio; balzata dall’estrema vôlta dell’orizzonte come il segno dell’ultimo confine raggiunto dagli uomini, da quel primo momento fu segnato fra noi un lieve disaccordo chè mentre io godevo nell’ebbrezza di quell’apparizione, Omero, scuotendo il capo, brontolava su l’inutilità del viaggio.
Oltre ciò per quanto più difficile sentivo innanzi a me la via, tanto maggior desiderio avevo di rimaner solo. Quella specie di amichevole tutela alla quale mi ero sottoposto fin dai primi tempi, finiva per riuscirmi grave. Ero io dunque sì debole e pauroso da temere le conseguenze delle azioni che mi fosse piaciuto compiere? E perchè avrei dovuto sottoporre all’amichevole controllo di Omero ogni mio atto? Vi sono cose sì gelose del segreto che perdono tutto l’incanto a comunicarle anche all’amico più intimo. Poi da quando avevo perduto l’amore di Serenella era in me, assidua, un’aspra volontà di soffrire; una volontà derivante dall’intima convinzione che il dolore è fonte di sempre nuove energie. Che avrei fatto a Roma? Non sapevo. In quei primi giorni non era e non poteva essere nella mente mia una idea ben definita intorno a ciò; comunque fosse [131] non avrei abbandonata ad ogni costo la città che mi ardeva nel sangue: là dovevo rintracciare il mio destino.
Andasse dunque per la sua via l’eterno viatore; io ero stanco del viaggio; volevo sostare: ci saremmo ritrovati fra qualche anno a Roma o altrove.
Decisi parlargli all’indomani e sentivo una dolorosa gravezza per tale colloquio inevitabile. Che avrebbe detto il mio compagno buono? Probabilmente nulla perchè nelle anime forti il dolore non è loquace; si sarebbe accontentato di fissarmi intensamente e sarebbe partito curvo sotto le sue bisacce, senza dirmi addio e senza rivolgersi.
Era discesa la notte e il freddo s’era fatto più intenso; non lo sentivo se non a tratti, sul viso, quando, per le mal chiuse imposte, entrava l’impeto della tramontana. Giù, per la via, ogni rumore s’era quetato; non giungeva che un suono di passi rari e qualche voce a richiamo. Nella grande casa tutto era tranquillo; anche Cajèla dormiva chè non si udiva sopra ai nostri capi, il solito trepestio della sua pena diuturna. Poichè il lucignolo della candela fu presso a spegnersi mi distesi sul giaciglio a fianco di Omero e la tenebra non turbò con pensieri tormentosi la mia placida giovinezza che non temeva.
Vi sono tesori di gioia che gli uomini inconsciamente disperdono; gli uomini che temono il dolore e ne son nati; che si fanno schiavi della paura e non vedono il piccolo dio, piccolo per noi, fra noi, ombra immensa negli spazi; il dio che sotto mille forme ci aiuta e si affatica da anni ed anni, da secoli e millenni per la nostra concordia: l’amore.
[132]
Mi levai sul primo fiorire del giorno.
La sera innanzi Omero mi aveva lasciato; ero solo e possedevo ancora dieciotto lire. Uscii per le vie cantando.
Qualcuno si rivolse a guardarmi, incuriosito dal mio abbigliamento che non avevo potuto rinnovare stante la discreta povertà di cui godevo.
Portavo il berretto conico di feltro nero che usano a Comacchio, un abito rattoppato con panno di varii colori e un fazzoletto rosso al collo; un abbigliamento piuttosto strano. Le guardie mi fissavano con poco benigna curiosità; comunque fosse poco mi importava di tutto. Il giorno sereno mi era nel core a simiglianza di una canzone festosa e accendeva la mia speranza.
Quella giornata d’inverno così bella, come solo ne gode Roma, faceva allegra tutta la gente. Dai visetti rossi dei bimbi ai gravi volti degli operai era una gamma di espressioni le quali dal più al meno riflettevano la luminosità di tutto quel sole. Gli occhi [133] eran lucenti e da tutti i volti era bandito il fosco pallore sì frequente fra gli uomini delle città.
Mi diressi verso i quartieri del Macao camminando a buon passo. L’essere ignoto e solo nella grande città popolosa; il pensare che su tutti quei volti, indifferenti per me, non avrei potuto riscontrare un sorriso amico, non mi preoccupava affatto; mi sentivo cittadino del mondo come i fratelli miei che andavano sotto gli astri e pensavo che, a dispetto dell’umana pietà, tutti indistintamente giungiamo soli alle soglie della morte. Tanto valeva, allora! Poi non ho compreso mai la bestemmia contro il destino. È un’azione sciocca quanto quella, famosa fra i pescatori nostri, del vecchio Rièl che prendeva le stelle con le nasse o di quel fiocinino di Comacchio che s’era fitto in capo di catturare la luna allorchè galleggiava in mezzo alle sterminate lagune.
Camminando cominciai a pensare a quale partito attenermi per provvedere alla mia vita avvenire. Potevo presentarmi a qualche fabbrica o a qualche ufficio? Cercare un’occupazione provvisoria come operaio o come scrivano? Era presto detto; ma chi avrebbe voluto saperne di me? Da quale parte giungevo? Chi ero? Che avevo fatto fino a quel giorno? Noi latini amiamo la gente catalogata la quale risponde al suo numero di matricola. Io ero un disperso. Tutta la mia volontà, tutta la mia energia e il poco ingegno di cui natura mi aveva fornito non sarebbero valsi a pormi un grado più innanzi nella considerazione degli uomini. Avrei odiato raccomandarmi; offrivo il mio lavoro, la mia forza e non chiedevo l’elemosina. L’umiliazione è patrimonio dei vigliacchi. Con tali qualità poco si ottiene; lo seppi poi per mia dura esperienza. Nella maggior [134] parte dei casi chi non possiede non è uomo per chi possiede: è una cosa; chi non possiede non può tutelare con fermezza la propria dignità a costo di vedersi abbandonato da tutti. L’orgoglio è permesso a chi ha una base monetaria. E gli umili si piegano ancora a codesta schiavitù!
Ordinariamente se non desti pietà o se non hai arti istrioniche ti lascieranno morir di fame per dire, all’indomani della tua morte, che eri un vagabondo pericoloso, ammonito varie volte dalla questura.
E allora non pensavo a ribellioni, allora avevo unicamente in capo l’idea del lavoro.
Traversai Piazza dei Cinquecento sì grande e scomposta come l’incerto palpito del nuovo cuore di Roma; fui all’Esedra che si apre come un calice a sommo di via Nazionale e inizia il coro delle fontane in cui l’Urbe canta il suo eterno rifiorire dal ceppo ferrigno; scesi per la grande via luminosa che il barocchismo moderno non ha saputo rendere troppo brutta.
Dunque che avrei potuto fare mai, io che odiavo la pietà e non ero abbastanza umile per calpestare il mio orgoglio di fronte a coloro che erano usi a considerare un povero qualcosa di più di un cane e qualcosa meno di un uomo? Avrei tentato; e se fosse stato inutile ogni tentativo?
Quantunque l’avvenire mi apparisse oscuro, continuai tranquillo la mia strada.
Giunto a Piazza Venezia seguii Via del Corso, poi per Piazza Colonna e Piazza Montecitorio entrai in quel dedalo di viuzze che si distendono intorno al Pantheon e lo circuiscono come in una inestricabile rete. Fu in una di queste vie che mi avvenne [135] di imbattermi in una tipografia. La porta della grande camera nella quale stavano gli operai era aperta per lasciar entrare la luce. In una vetrina infitta nel muro vicino alla porta erano esposte pubblicazioni di vario genere: mi fermai ad osservarle. Un signore era ritto su la soglia della tipografia e di tanto in tanto mi sbirciava.
Forse lo stupiva la mia lunga sosta innanzi a quei libri, o pensava ch’io, facendo lo gnorri, mi preparassi a giuocare qualche brutto tiro. Un uomo vestito male è sempre sospetto.
Comunque fosse, la mia insistenza lo mise evidentemente di malumore. Entrò, compì un giro nella stanzaccia umida, riuscì, si dette a camminare in lungo e in largo guardandomi, finchè si soffermò e mi chiese:
— V’interessa tanto la copertina di quei libri?
— Moltissimo.
— Ma.... sapete leggere?
— So leggere.
— Allora compiterete perchè è da mezz’ora che siete lì.
— Guardo gli operai al lavoro.
Mi volse le spalle e riprese la breve passeggiata dall’interno della camera alla porta.
In una sosta mi avvicinai e gli chiesi con troppo ingenua semplicità:
— Potrebbe accettarmi quale operaio apprendista?
Il proto che passava allora con un fascio di prove di stampa, udita la domanda si soffermò a guardarmi: stette un attimo così come a misurare il peso del nuovo venuto poi se ne andò sorridendo. Molti operai, ritti innanzi alla loro cassetta, volsero il capo. In tutti quegli occhi vidi chiaramente lo scherno.
[136]
Il principale non accennava a rispondermi, pareva non avesse inteso; con le mani annodate dietro alle reni, sotto il pastrano, si dondolava lentamente guardando per la via.
— Lavorerei di lena — ripresi avvicinandomi.
— Ma che vuoi? — gridò d’improvviso la brutta bestia.
— Lavorare!
— E credi ch’io abbia tempo da perdere con te?
— Mi pareva che le tue occupazioni del momento non fossero tanto gravi da farti geloso del tuo tempo — gli risposi impallidendo — E non ti ho chiesto danaro perchè tu mi risponda da villano!
Mi lanciò un’occhiata minacciosa ma non replicò. Quando ripresi il cammino, il mal frenato riso degli operai si espanse in un’omerica risata che mi fu peggiore di un colpo di staffile attraverso la faccia. E, un tempo, avevo sentito favoleggiare di solidarietà umana!
Fra poveri ci si dilania, questo so per esperienza mia.
Quel primo rifiuto non fu sì amaro da lasciarmi un abbattimento profondo; scrollai le spalle, tanto mi aspettavo un’accoglienza simile; ma non volevo che il rimorso del non aver tentato mi turbasse. Proseguii fino a sera.
Come ogni altro tentativo s’ebbe l’identico risultato ripresi la via per ritornare alla lurida tana nella quale mi era sì penoso dormire.
Mi trovai in Piazza di Spagna. Giù per via Condotti, per via del Babbuino le grandi vetrine degli innumerevoli negozi mettevano ogni tanto nell’aria, leggermente brumosa, larghi sprazzi di luce, veri torrenti d’oro nei quali le donne si soffermavano [137] volontieri perchè si sapevano più belle in quell’aureola calda. Più su, contro il cielo ch’era rosso all’estremo occaso e veniva digradando fino ad assumere un incerto tono di opale là dove la notte avanzava le sue mani stellari, più su, le lampade elettriche spandevano il loro chiarore cinereo. La lieve bruma si accoglieva intorno ad esse formando un alone digradante nelle più diafane luci d’argento. Da lontano parevano piccoli astri, gemme lucenti contro il languido smorire del vespero.
Piazza di Spagna era corsa da un fiotto di gente che si incrociava disperdendosi in tutti i lati. Le vetture trascorrevano fra grida e imprecazioni. Presi a salire lentamente la grande scalinata della Trinità dei Monti. Ero stanco e l’attimo era sì dolce! Dai giardini che accompagnano lateralmente l’ascendere della magnifica scala giungevano voci e risa di creature in festa; si intravvedevano, tra il fogliame, piccole stanze vive di luce e di colore, arredate come altari tanti erano i fiori che le animavano. Mi soffermai appoggiandomi alla balaustrata per riposarmi nella gioia altrui. Senza invidia, l’anima mia si dimenticava nell’intima dolcezza di quelle visioni vicine e pur tanto remote per me che non sarebbe bastato il mare a significarne la lontananza.
Fra un gruppo di mirti e di palme si apriva una porta a vetri la quale dava luce ad un salottino arredato in rosso cupo: in fondo, vicino al pianoforte, era un gruppo di persone; su la porta, tre giovinette e un vecchio signore conversavano.
Oltre via Condotti, sul termine di via della Fontanella presso il Tevere, s’intravvedeva un lembo di cielo fatto ancor più vivo dall’ultimo sole; per la scalinata scendevano o salivano rare persone a quando [138] a quando. Ebbi l’illusione di trovarmi su qualche ponte solitario di Comacchio ad attendere l’amica mia che soleva giungere dal lavoro e stringersi a me in quell’ora ch’è sì triste, e raccontarmi sorridendo come non avesse pensato mai che l’amore fosse tanto grande. Ma fu per un niente; il suono del pianoforte si tacque e udii il cinguettare delle tre signorine. Una fra esse aveva una voce sonora la quale ricordava, nel riso, una fuga di chiare note squillanti.
Quanto m’era stato grave quel giorno! Sentivo che mi era dolce riposare così, innanzi a quella visione soavissima perchè non sempre ci si può difendere dalla triste malia della solitudine.
Prima che il sonno ti colga, nell’ora della stanchezza, trascorse l’attimo in cui la tua energia morale si assopisce, ti lascia indifeso, e allora un’interna violenza distruggitrice si scatena, una violenza beffarda della quale sei l’impossente zimbello. Tutto ti appare cupo; ti senti mille volte più lontano dalla vita e dagli uomini; il male che ti ha colpito si raddoppia agli occhi tuoi e così le tue sofferenze morali; ti senti incapace di ricominciare; la via aspra e infinita ti spaventa e non hai fiducia nelle tue forze e ridi delle tue speranze o ne piangi o ti levi bestemmiando. Coloro che hanno cominciato dal niente ben sanno che cosa siano certe ore di stanchezza. Esse conducono molte volte al bivio terribile innanzi al quale si sosta con occhi di follia. Due sono le strade: il suicidio o la prigione.
Non ricordo quanto tempo rimanessi assorto nella contemplazione che mi riempiva l’anima di soavità. Gli occhi miei entravano furtivamente nell’intimità della dolce casa ed il mio spirito con loro. A volte un nulla basta al tuo amore.
[139]
Ad un tratto mi avvidi che una fra le tre giovinette mi aveva notato e diceva alle altre, indicandomi:
— Guardate che brutto tipo!
— Babbo — fece un’altra — mandalo via; è da mezz’ora che è fermo lì, a guardare!
Come il vecchio signore si mosse, ripresi lentamente a salire verso la Trinità dei Monti, alta su Roma, a simiglianza di un magnifico altare sacro al sole occiduo. Ero un intruso e gli intrusi si scacciano, era giusto; per questo non attesi male parole per riprendere la strada. Però mi avvidi a tempo che la mia pena tendeva a cambiarsi in femmineo intenerimento, che dall’anima fiacca tentava sbocciare tutta una fioritura di mughetterie sentimentali, onde mi dissi:
— Ti imbecillisci, Duccio? — e scrollai le spalle chè la reazione fu pronta.
— Animo, Duccio della Bella! La terra, arida oggi, avrà le sue messi domani; animo, il nuovo sole avrà il suo nuovo stormo di allodole che salirà cantando fin sopra alle nubi. La vita è bella e t’invita e ti sfugge perchè ti ama!
Dimenticai; è la forza dei poveri dimenticare. Quando ciò non sia non v’è saldezza giovanile che resista. Non molto tempo dopo ero nella mia stamberga e mangiavo la parsimoniosa cena che il mio poco bene mi permetteva.
Per molti altri giorni le cose non mutarono aspetto. Frattanto per la consuetudine di vita comune avevo conosciuto le donne e gli uomini che la sorte mi aveva dato a compagni in quella miseria.
Vicino a me, in una stanza che non vedeva luce se non dal corridoio, per mezzo di un pertugio praticato [140] nell’uscio, abitava una donna su la cinquantina: la chiamavano Terè. Le sofferenze l’avean resa decrepita anzitempo. Era alta, magra, ossuta; aveva pochi capelli grigi sparsi a teghe o ritti in aggrovigliamenti sul cranio sudicio; aveva gli occhi, quasi bianchi, affondati nelle orbite; il naso adunco; le mascelle ampie e forti. Parlava a monosillabi. Non l’ho veduta sorridere una volta.
Passava per il corridoio, seminuda, nell’orrore del suo disfacimento che dava un brivido di ripugnanza. Le prime volte la credetti pazza perchè mi guardò fissamente, senza batter ciglio e senza dir parola. Era una bestia cieca; una lupa immonda che rispondeva unicamente alle oscure voci dell’istinto.
Nel suo covacciolo teneva rinchiuse due creature che non erano figlie di lei; le aveva raccolte chi sa dove e chi sa perchè. Una volta, passando, le vidi ferme su l’uscio. Si tenevano per mano. Erano due bimbe, una di otto e l’altra di quattro anni. La più grandicella (un piccolo scheletro rivestito di cenci) aveva tutto il visetto coperto come da una gromma ed era gialla e le labbra erano simili ad una livida ferita su quel viso macilento. I capelli biondastri e abbondanti le scendevano sul volto e l’oscuravano ancor più quel povero volto senza guance, nel quale si disegnava sporgendo la chiostra dei denti. Come mi fermai, non si mosse, aveva negli occhi una cupa espressione di spavento. Disse raggricchiandosi:
— Non mi picchiare! — e mi guardò. Solo gli occhi grandi mettevano un po’ di luce su quella faccia di spasimo.
La minorella era un niente: un mucchietto di ossa e di pelle che si reggeva a pena.
[141]
Terè teneva racchiuse tutto il giorno nel sudicio antro le due bambine; non le nutriva se non con un po’ di pane secco, qualche volta, e la notte usciva con loro. Andava per le vie principali finchè le misere creature non cadessero stremate dalla stanchezza che le uccideva. Allora c’era sempre, fra gli uomini, chi gettava il soldo per togliersi dalla mente quell’orrore. Ma fra i coinquilini di Terè, non uno poneva attenzione alla cosa. Nella miseria non c’è pietà.
Sopra a me, di fianco, di sotto, fin nelle cantine, erano ammucchiati uomini, donne e fanciulli promiscuamente. Molti si davano all’accattonaggio; altri vivevano su la prostituzione delle loro donne; altri del furto, della rapina, del delitto.
C’era un uomo che viveva solo. Lo chiamavano Tomà. Veniva a dormire nell’andito su le pietre nude, quando era più freddo, chè alla buona stagione preferiva le strade. Tutti i giorni prendeva un pane che una signora gli faceva trovare sopra una finestra di via Palestro e gli bastava quello. Passava la giornata accosciato vicino alla spalletta del fiume nel Lungotevere Tordinona e sonnecchiava. Viveva così da quando gli era morto un figlio, dieci anni prima.
Innanzi agli occhi miei, in quel tempo oscuro della vita mia, il destino aveva posto questo terribile specchio ed io mi trovavo a fianco di quegli sciagurati, ero in fondo, nella bolgia comune, con loro, eppure non mi sentivo vinto. Anche quando tutte le vie parvero precluse, anche quando mi colse la febbre della fame, non mi dissi perduto; solo la morte poteva togliermi l’ultima speranza.
Trascorsero giorni oscuri. Il cielo si rannuvolò e [142] piovve senza tregua. Le vie di Roma erano tramutate in veri pantani. Faceva freddo e avevo un bello stringermi intorno al collo la sciarpa di lana (unico indumento invernale che mi avessi), non riuscivo a riscaldarmi ugualmente. Del mio avere non mi rimanevano che due lire. Ero alle soglie della fame.
Di ciò che poteva essermi gioia anche in quello stato miserando, nulla si avverava. Avevo scritto più volte a Serenella senza ottenerne risposta. Quale nuova sciagura le era toccata perchè dovesse starsi tanto muta? S’ella conosceva la mia lotta miseranda e vedeva che non la dimenticavo perchè non aveva per me una parola buona? Era in quei giorni la faccia del mio destino, come un sole oscurato. Scendevo verso i muti ipogei della vita.
L’ultima volta che rientrai in casa con l’ultimo pane, era notte. Mi ero attardato per le vie perchè un uomo ricco, direttore di un grande stabilimento industriale, avendo saputo ch’io era suo conterraneo mi aveva detto:
— Chi sa? Ritornate. — E per non so quante volte, facendomi attendere ore ed ore in anticamera, mi aveva fatto ritornare per dirmi poi:
— Mi dispiace molto; per ora proprio non è possibile; ma nell’avvenire non mi dimenticherò di voi.
— Ciò che in termini espliciti voleva dire: Ho altro per il capo; lasciatemi in pace. Gli avevo volto le spalle senza salutarlo e con gli ultimi due soldi (perchè mai i re e gli imperatori serberanno il gusto di farsi maledire in effige, sugli sporchi dischetti di metallo che segnano il limite dell’estrema miseria?) avevo comprato un pane.
Quando giunsi nell’andito oscuro della mia abitazione, trovai, come al solito, sdraiato vicino al muro, [143] sui mattoni umidicci, Tomà. Non dormiva, era adagiato sopra un fianco e teneva gli occhi aperti e fissi in un punto che non distinguevo bene. Gli augurai la buona sera. Rispose:
— Spingi in qua quella cicca.
— Dov’è?
— Vicino a’ tuoi piedi; non pestarla.
Quando l’ebbe a portata di mano, la raccolse senza muoversi, l’inghiottì e chiuse gli occhi soddisfatto. Per quella notte poteva dormire senza curarsi del freddo e dell’umidità.
Più innanzi, ai piedi delle scale, trovai un gruppo d’uomini. Parlavano sottovoce. L’uno d’essi reggeva una lanterna onde potei distinguere i componenti l’oscura accolta. Molti erano miei coinquilini. C’era Marco, un giovinastro di venticinque anni conosciuto in tutta la contrada, e dalla polizia, col nomignolo di Sciupô. Era una pallida faccia di delinquente, dagli zigomi forti, dagli occhi leggermente obliqui in cui folgoreggiava a volte una fredda crudeltà felina; viveva sul turpe mercato di una sua povera donna che lo amava con la fedeltà di una bestia. C’era Ghetano, il ciabattino che abitava nelle cantine alle quali si scendeva dal cortile; un uomo dalla faccia fosca, irta di peli. Doveva provvedere a sette piccoli figli ed alla moglie che era epilettica. E vidi Righetto, l’accattone; Nino, il fratello di Cajèla e Matteo Adeva. Quest’ultimo reggeva la lanterna e pareva presiedesse il colloquio.
Quando passai tutti tacquero e si trassero in disparte. Udii la voce di Matteo sussurrare:
— Io lo conosco; non può esser dei nostri.
— Perchè? — chiese qualcuno.
— È onesto — rispose Matteo Adeva. Si levò un [144] riso beffardo, subito spento. Quando fui a sommo delle scale la piccola luce della lanterna era scomparsa.
Con l’alba del nuovo giorno, uscii; pioveva sempre. Era freddo e grigio. Roma era tutta uguale come il cielo e le vie fangose. Cominciai il mio andare pensando a qualche espediente per vivere. Mi accorsi di avere esaurite tutte le mie risorse. La mente era ottusa nè sapeva suggerirmi una via d’uscita. Avevo tentato tutti i mezzi di cui disponevo. Che poteva rimanermi? Allora un’ansia insensata, una folle febbre mi spinse per le vie più popolose: qualcosa forse mi sarebbe capitato ch’io non pensavo, chi sa? Girai sotto alla pioggia guardando tutto e tutti, in un’attesa febbrile. Il mio viso doveva esser troppo pallido e stravolto e gli occhi miei troppo fissi se due guardie si fermarono a guardarmi più volte e mi seguirono per buon tratto. Mi lasciarono in pace; videro forse che la fame mi conduceva così braccando follemente, in cerca del caso.
Non era smarrimento il mio, era febbre d’agire chè temevo essere vinto dall’inerzia del costretto vagabondaggio.
A mezzogiorno avevo percorso venti volte Via Nazionale e Via del Corso. La gente rincasava chè ognuno aveva il suo desco pronto. Entrai in una chiesa e mi sedetti nell’angolo più oscuro. Non c’era anima viva. Appoggiai la fronte su la spalliera dell’inginocchiatoio che mi stava innanzi e stetti così non so quanto tempo. Udivo il monotono pianto dell’acqua che sgrondava; udivo il crepitio di un tarlo nel confessionale che mi stava a lato e null’altro: la grande chiesa era muta e buia come il suo dio macchinoso. La fame non mi tormentò, mi lasciò [145] tranquillo per allora; ma non così la febbre che mi aveva sospinto per le vie di Roma.
Perchè sostavo? Ogni minuto d’inerzia mi allontanava sempre più dalla possibilità del lavoro; ma dove sarei andato a quell’ora? Dove avrei bussato? A chi mi sarei rivolto? Bisognava attendere, non era possibile che nessuno, proprio nessuno avesse voluto accogliermi; c’è sempre chi sa leggere negli occhi di un uomo la sincerità.
E se anche per quel giorno?... Se tutto fosse stato inutile?
Ecco, io sentivo le mie vene battere rapidamente alle tempie e ai polsi; sentivo salire il mio affanno, crescere, salire come in una soffocazione; il respiro mi si faceva difficile, un tremito nervoso mi scuoteva tutto, e il silenzio, l’oscurità della chiesa aumentavano quel tormento. Ah! chi conosce che sia la febbre dell’attesa, quando la disperazione è alle soglie dell’anima vostra; chi conosce che sia il timoroso martirio di non riuscire anche nelle prove estreme, sa bene ch’io racconto il vero. I più forti fra gli uomini sono passati per l’atroce minuto del dubbio: v’è un attimo in cui il timore vi aggioga e guai a chi non ha spalle salde per digiogarsi e sorgere vittorioso in un grido.
Come mi riusciva intollerabile la sosta, mi levai. Uscii dalla chiesa che pioveva a dirotto e ripresi il cammino. Passarono le due, le tre, cominciava a scurire e la mia pena non aveva tregua; fui cacciato da due magazzini nei quali entrai per offrirmi.
— Non c’è posto! — mi gridarono.
— Esci che ci bagni, con tutta quell’acqua che porti a spasso!
— Vattene!
[146]
E uscivo scacciato, come un cane randagio, come una cosa inutile, che deve marcire in mezzo alla strada. Stretti i denti per l’ira repressa, andavo oltre, sempre più oltre verso la notte. La fame cominciava a mordermi. Debbo pur trovare — dicevo tra me: — tutta questa gente nutre le bestie e non ha un pane da dare a un cristiano! — Di via in via, dove c’era più luce, dove c’era più gente mi affrettavo col capo proteso alla ricerca affannosa. La pioggia mi aveva immollato in sì malo modo che, a quando a quando, improvvisi brividi di freddo mi scuotevano dandomi la sensazione di dover cadere dallo sfinimento. Tre volte mi appoggiai al muro e ristetti qualche attimo, in via della Propaganda, dove giunsi quando già qualche negozio si chiudeva.
Non so come mi trovai su la soglia di un grande magazzino, ricordo che un omaccione mi venne incontro e mi chiese con voce rude:
— Che cerchi?
— Cerco lavoro — risposi. — Farò ciò che volete, anche il facchino.
— A quest’ora vieni, vagabondo?
— Non mi mandate via — ripresi, e gli avrei dato metà del mio sangue per una parola buona — mi accontento di poco.... qualche lira... tanto che mi basti per vivere!
— Ma da dove vieni? — chiese l’enorme microcefalo dagli occhi suini — da dove vieni che sei così molle?
— Vengo dalla strada dove mi hanno ricacciato tutti. Non mi mandate via, farò ciò che vorrete!
La gran bestia che d’umano aveva solo la stupida crudeltà, mi guardò dall’alto al basso come a misurarmi, sorrise scrollando il capo e disse:
[147]
— Vattene, vattene; non saprei che farmene di te.
La rivolta repressa si appalesò nel mio sguardo minaccioso. L’omaccione si oscurò subito in viso e gridò:
— Ehi! Ti ho detto di andartene, non intendi?
— Ma debbo dunque morire di fame? — gridai a mia volta — Vuoi ch’io adoperi il coltello per non morire?
Fui respinto nella strada dove caddi fra il fango. Mi rialzai folle d’ira e feci per lanciarmi, ma quattro braccia forti mi trattennero, mi strapparono via, mi spinsero innanzi a punzoni nei lombi sì da farmi perdere il respiro. Era la società che interveniva. Udii i fischi e le risa di coloro che avevano assistito alla scena.
Qualche ora dopo mi rannicchiavo tutto nel mio misero giaciglio di cenci e battevo i denti per la febbre.
E il secondo giorno trascorse come il primo, fu terribile e muto, m’arse nel sangue come un consumamento. Non parlai una volta. La fame stringeva gli aspri suoi nodi, allungava le adunche mani a lacerare le viscere insaziate; mi seguiva per instillarmi nel cervello i suoi foschi suggerimenti: — C’è chi ha troppo... Togli! Togli! Togli! — Mi sorpresi due volte con le mani tremanti dinanzi alla mostra di un fornaio e per due volte inghiottii la saliva amara e continuai la mia strada.
Quando annottò mi trovai alla stazione centrale. Il cielo s’era fatto sereno e l’aria più mite. Attesi perchè molti altri attendevano; stetti in disparte. Giunse un treno; una fiumana di gente si riversò sul piazzale della stazione.
Vidi un signore venire verso me recando due valige; mi avvicinai come facevano gli altri; chiesi:
[148]
— Vuole gliele porti?
— Non occorre — rispose.
Lo seguii per qualche passo ancora:
— Mi darà due soldi — ripresi e mi tolsi il berretto.
Il signore si soffermò a guardarmi.
— Prendi — mormorò porgendomi una valigia. Poi:
— Hai fame? — soggiunse.
— Ho fame.
— Quanti anni hai?
— Venticinque.
— E perchè non lavori?
— Signore, è più di un mese che cerco e tutti mi scacciano.
— Domani alle due, vieni in via della Mercede, numero venti.
— Grazie, signore, verrò.
Non avevo fatto cinque passi che udii una rapida corsa e alcune voci che gridavano:
— Ladro, ci ruba il mestiere! Ladro, ci ruba il mestiere!
Fui preso in mezzo da molti forsennati che mi strapparono la valigia, mi malmenarono, mi gettarono a terra e per la seconda volta, a tutta difesa, fui condotto in questura.
Quando caddi, stremato di forze ormai, sul mio giaciglio, mi dissi:
— Duccio, è venuta l’ora; preparati nel nome di tua madre chè domani avrai le quattro assi benedette e ti porteranno via!...
Poi mi strinsi la gola con la coltre perchè non volevo piangere, non volevo aver paura; mi raccolsi in un muto addio al sole, alla vita, agli uomini che [149] amavo; in un muto addio all’amica lontana che non avrei riveduto mai più! E strinsi gli occhi, strinsi le labbra perchè non volevo piangere finchè mi potessi. Ad un tratto mi sentii venir meno ed ogni pensiero illanguidendo svanì. Era il sonno dello sfinimento.
All’indomani, quando riapersi gli occhi, vicino al mio giaciglio trovai un pane caldo e una ciotola di vino.
[150]
Le avevo imposte le mani su le tempie e lentamente, sorridendo, le ripiegavo il capo all’indietro sì che la bianca gola rimaneva tutta scoperta e tremante nel palpito del riso. Veduto così di scorcio quel visetto di bimba e di madonna acquistava una grazia tutta nuova. Le lievi sinuosità della bocca dischiusa, il tremito delle piccole narici rosee, la luminosità degli occhi leggermente arrovesciati, la bianca purezza della fronte e l’ombra che il labbro inferiore poneva a sommo del mento là dove è più dolce sostare nella carezza del bacio, me lo rendevano sì nuovo e sì bello, ch’ebbi una improvvisa esclamazione ammirativa.
— Ti piaccio? — chiese ella sorridendo nella gioia di sapersi tanto amata.
— Più di tutto mi piaci! Io non so che farei per te, amore!
E come protendevo il capo a baciarla, ella si schermiva scherzando:
— No.... non ancora.... no!...
[151]
Eravamo in un giardino, a Ravenna, e mi pareva fosse tempo di primavera. Serenella aveva una veste vermiglia; reggeva un ramo di mirto e la chioma le ombrava le spalle. Il sole aveva superato a pena le siepi dell’orto e si attardava fra le rame in fiore delle alberelle. Udivamo un’allodola cantare in alto in alto, forse da un cirro d’argento, da una ghirlandella d’argento nell’azzurrità e tutto, in quel puro lacero di luce mattinale, in quel santo rinnovare della primavera, era ineffabilmente soave. E ancora: Ravenna scompariva, tramontava con tutte le sue torri nell’aurea nebbia del sole e il piccolo orto era cinto di luce, era cinto di mare e seguiva la via d’oro dell’oriente.
— Ora siam soli — diceva Serenella — ora sì!...
E mentre si abbandonava, reclinando su la mia spalla il bel viso fiorito come una maraviglia alabastrina dalla veste vermiglia, udivo sempre più forte, sempre più tenuto il canto dell’allodola mattulina; non aveva più trilli, non aveva più gorgheggi nè soste, nè riprese, nè salti, nè squilli; si faceva uniforme, cresceva d’intensità fondendosi in un suono sonoro che parea scendesse da distanze incommensurate. E mentre Serenella si stringeva contro al mio petto per richiamarmi a sè; mentre negli occhi di lei vedevo il pensoso languore della tristezza, non so per quale inesplicabile fascino, per quale misteriosa malìa quel suono che giungeva dall’infinito, tenesse avvinta l’anima mia ineluttabilmente. Ecco mi allontanavo. L’isola primaverile scompariva, era dileguata come un bioccolo di nebbia sul mare e il suono era vicino, continuo, sempre più forte.
Balzai sul giaciglio, stetti un attimo in ascolto [152] per riprendere coscienza e gettai le coltri da un lato. La sirena dello stabilimento suonava la diana del lavoro, forse era tardi; le altre mattine ero già in istrada a quell’ora. Il sonno mi aveva vinto.
— Se l’ho sognata — pensai — qualche notizia potrebbe essere vicina!
E mi compiacqui trarre dal sogno lieti presentimenti.
Ad un tratto qualcuno picchiò sommessamente all’uscio:
— Avanti! — gridai.
L’uscio si dischiuse e, nel vano, apparve Dora, la maggiore fra le due bimbe che la mia vecchia vicina faceva lentamente morire.
Eravamo diventati buoni amici perchè ogni sera, di nascosto le portavo un pane.
Sì come mi guardava silenziosamente, le chiesi:
— Che vuoi?
— Ieri sera una donna è venuta a cercarti — rispose.
— Una donna? E che voleva?
— Niente.
— Ha parlato con te?
— Sì.
— Che cosa ti ha detto?
— Ha chiesto se tu abitavi qui.
— E poi?
— E poi ha chiesto se stavi bene.
— Era giovane?
— Non lo so.
— Non l’hai guardata in faccia?
— No.
— E non ti ha detto chi fosse? Non sai il suo nome?
[153]
— No.
— Eri sola?
— C’era anche la mia sorella.
— E nel corridoio non c’era nessuno?
— Nessuno.
— È andata via subito?
— Sì. È venuta a guardare nella tua stanza poi è partita.
— Era aperta la porta della mia camera?
— Sì, non l’avevi chiusa, ma la guardavo io.
— E non sai dirmi neppure se era giovane?
— Era una donna — rispose Dora chinando gli occhi, evidentemente umiliata dal non ritrovare una risposta che mi soddisfacesse. Le accarezzai il povero visuccio sparuto ed ella, illuminandosi tutta di un sorriso, mi alzò in volto gli occhi lucenti.
— Non sei inquieto con me?
— No; ma se ritorna, vieni a chiamarmi subito.
— E se non posso?
— Perchè non devi potere?
— Se la mamma mi chiude al buio?
— Allora non importa. Sta attenta però se qualcuno cerca di me.
— Sì — rispose Dora.
— Addio.
— Addio.
Rinchiuse l’uscio e scomparve.
Poco appresso mi dirigevo verso via Flaminia, al magazzino.
Ciò che m’aveva detto Dora mi s’era fitto in mente come un quesito difficile, alla soluzione del quale mi affaticavo invano, chè non mi veniva fatto supporre quale donna mai avesse potuto cercare di me a Roma, dove non conoscevo nessuno.
[154]
Già m’era rimasto inesplicabile il fatto dell’aver trovato io, alla terza mattina del triste digiuno, un pane caldo ed una ciotola di vino accanto al mio giaciglio. Per quanto avessi interrogato i vicini, nessuno aveva saputo dirmi la benchè minima parola atta a mettermi su le tracce dell’ignoto benefattore. Che pensarne adunque? Qualcuno aveva dovuto introdursi nella camera approfittando del mio sonno, e siccome il pane da me raccolto era caldo ancora, non doveva essere trascorso lungo tempo dalla visita dell’ignoto, al mio risvegliarmi; possibile che non uno fra i tanti inquilini di quella casa avesse potuto vederlo s’egli evidentemente era entrato ed uscito a giorno pieno? Il fantasticare m’era inutile sì che avevo messo il cuore in pace per il momento, attendendo occasione più propizia; ma ora, a incuriosirmi vieppiù, si aggiungeva la comparsa di una donna la quale aveva voluto sapere e della mia vita e della mia salute.
Qualche giorno prima Matteo Adeva, incontrandomi in Piazza dei Cinquecento, mi aveva salutato con una frase ambigua:
— Sta attento ragazzo chè qualcuno è su le tue peste!
Ora questi avvenimenti, ricollegati, si presentavano alla mente mia cercando invano una soluzione.
Proseguivo per la viuzza chiusa da un lato da Villa Borghese e dall’altro dalle antiche Mura.
Il sole, passando fra i pini e gli abeti della Villa, giungeva a chiazze sui grandi bastioni del Sangallo traendone una vivacità di colori roggi che armonizzava dolcemente col verde cupo delle vecchie conifere solenni. Andavo a fretta col capo chino allorchè udii dietro me una voce che gridava:
[155]
— Aspetta, non correre!
Mi volsi e vidi Matteo Adeva il quale mi faceva cenno perchè mi fermassi.
Il nuovo incontro non mi piacque affatto tantochè dimostrai con troppa evidenza il mio malumore se, quando mi fu vicino, Adeva soggiunse:
— Non fare lo sdegnoso, vecchio principe, chè debbo parlarti di cose che ti interesseranno.
Mi si pose a lato e scendemmo insieme verso Porta del Popolo.
Come vidi che continuava a sbirciarmi senza far parola, chiesi in tono irritato:
— Perchè mi guardi? È tutto questo che dovevi dirmi?
— Ti guardo perchè mi piace vedere come è fatto uno straccione onesto!
Sostò un attimo, poi riprese strizzando un occhio:
— Ma sei ben sicuro di essere stato sempre onesto?
— Che vuoi dire? — chiesi soffermandomi.
— E non t’offendere! Quando si portano queste tue scarpe affamate non si ha il diritto di essere tanto orgogliosi! Del resto io sono qui per renderti un servizio.
— Davvero? E che vantaggio puoi averne?
— Nessuno. Io sono un grande ammiratore dell’onestà e voglio esserti utile, ecco tutto. Il direttore del mio Circo diceva sempre che non si vive di solo pane e, per dimostrarcelo, ci faceva tirare innanzi a forza di legnate. Anche le bestie avevano imparato la sua massima. Era un uomo di cuore. Si chiamava Yames Matulka ed era nato un po’ in tutti i paesi. Dunque, siccome io ti ammiro, voglio che tu mi sia grato.
[156]
— Vediamo — risposi.
Matteo Adeva si fermò e abbassando la voce mi chiese:
— Conosci Anna Dia?
— No.
— Anna Dia, come vedrai dal nome, è una donna ed ha la vista lunga.
— E poi?
— E poi Anna Dia ti conosce.
— È il vino bevuto iersera che ti fa parlar così? — chiesi facendo l’atto di andarmene.
— Aspetta — riprese Adeva trattenendomi per un braccio — non t’ho detto tutto! Sei un convulsionario. Calmati. Il mio discorso dovrebbe interessarti.
— Non ho tempo da perdere. Spicciati.
— Il principale può attenderti. Domani molto probabilmente lo pianterai. Dunque Anna Dia ha saputo che ti chiami Duccio della Bella ed ha saputo che sei giunto a Roma con un compagno il quale si è eclissato.
— Sa anche dove sia?
— Sì, ma ciò non ti riguarda.
Infilò le mani nelle tasche della sottoveste, poi mi chiese con aria sorniona, chinando il capo:
— Di’ un po’, prima di venire a Roma dov’eri?
— Non lo sai?
— No.
— Ero a Milano.
— Bravo, eri a Comacchio. E... non ti ricordi la ragione per la quale sei fuggito?
— Se tu sei informato tanto bene, puoi parlar chiaro perchè la mia coscienza è tranquilla.
— Anna Dia — riprese Matteo — è una povera vecchia che ha bisogno de’ suoi avventori. Ella mi manda da te per dirti che vuol fare un patto.
[157]
— E quale?
— Ascolta con calma e non interrompermi.
Riprendemmo il cammino soffermandoci a quando a quando.
— Tu sei un giovane di intelligenza più di tutti noi. Tu conosci le lettere; so anche questo. Ora una mercanzia par tua può essere utilissima, anzi in questo momento è indispensabile. Ascolta: servizio per servizio. La questura è su le tue tracce; ti si incolpa di aver partecipato a un assassinio....
— Io?... — gridai scattando.
— Calmati, che c’è mai di male? — riprese Matteo col suo cinismo che mi agghiacciava. — Capirai, in certi momenti bisogna agire e si può passar la misura. Nel tuo caso poi, se tu non eri più pronto, ci rimettevi la pelle. Aspetta... lasciami finire... non sarà così, va bene; ma la giustizia è persuasa di ciò che ti ho detto e tu potresti parlare sette anni senza farle pensare il contrario. Dunque sei ricercato; potrebbe darsi che questa sera stessa ti conducessero a Domo Petri e allora addio Duccio della Bella! La tua sorte è segnata. Non ti rimane che una via d’uscita: ascoltare ciò che vorrà dirti Anna Dia.
— Ma chi è questa donna?
— Può tutto! Ti basti sapere questo. Ha molte amicizie in alto, dove è il deposito delle manette. Ella conosce la tua vita e può far di te ciò che vuole.
— Ma che può fare, in nome di Dio! — gridai rivoltato da tutto quel luridume. — Diglielo dunque a questa tua vecchia spia, dille che mi denunzi! Io non temo nè lei, nè la legge. Ed ora lasciami in pace.
— Non fare il cocciuto. Questa notte, alle dieci, ti aspetto al Vicolo della Reginella. Mi vedrai fermo [158] innanzi ad una porta. Bada che, se rifiuti, ti perderai per sempre!
Ripresi il cammino senza rivolgermi, quasi a corsa, in preda ad un turbamento che mi avvelenava la dolcezza del giorno sereno.
L’anima bieca aveva insinuato in me il martirio del dubbio. Sapevo ormai quale povera cosa fosse per gli uomini un disperso par mio e sapevo che la verità non mi sarebbe valsa a nulla contro la società coalizzata la quale mi avrebbe giudicato con tutte le prevenzioni che sono un suo sacro patrimonio di difesa contro i reietti. La mia innocenza ed il mio sdegno sarebbero stati contro di me per aggravarmi la pena.
Le nostre tracce non erano affatto cancellate se Matteo Adeva conosceva il mio passato. Ciò ch’egli aveva detto poteva avverarsi.
Quando giunsi al grande magazzino di ferramenta in cui, per bontà dell’ignoto signore al quale avevo tentato portar le valige alla stazione, ero entrato in qualità di commesso, i compagni mi dissero che il direttore mi attendeva al suo banco. Andai che l’emozione mi teneva alla gola; possibile ch’io dovessi ricominciare la terribile strada percorsa?
Giunsi alla scrivania su la quale stava reclina la testa calva del nostro signor capo e attesi alquanti minuti senza che la burocratica solennità degnasse fare attenzione alla mia presenza; levò poi lentamente gli occhi e mi chiese:
— Che volete?
— Mi hanno detto ch’ella desiderava parlarmi.
— Come vi chiamate?
— Duccio della Bella.
— Ah Duccio della Bella!.... — Si passò una mano [159] sul cranio calvo quasi a ridestarvi l’incerta memoria e riprese — Già, voi siete Duccio della Bella.... il signor Della Bella.... ho cattive nuove sul vostro conto!
— Da qual parte?
— Da un mio informatore privato.
— Non potranno essere che calunnie!
— Non vi ho chiamato per ascoltare le vostre difese; d’altra parte non vi ho accusato ancora. Volevo dirvi solo di stare in guardia chè, se tali informazioni si ripetessero, sarei costretto prendere seri provvedimenti.
Riabbassò la grossa testa su le sudicie carte e riprese il lavoro.
— Posso andarmene? — chiesi dopo aver atteso qualche tempo.
— Andate — grugnì la testa calva.
Mi sentii un poco più tranquillo chè la tempesta pronosticata non mi aveva travolto. Fu alla sera, nel silenzio della mia stamberga, che l’ansia dell’ignoto mi riprese più che mai tormentosa.
Quando ebbi accesa la candela mi venne fatto vedere sul muro, sopra al mio giaciglio, come un seguito di parole tracciate con incerta scrittura.
Mi appressai e la frase che lessi mi fece dare un improvviso balzo al cuore. Diceva:
Serenella è qui.
[160]
Il solo nome di lei fece sì ch’io dimenticassi la mia nuova disgrazia. Una subita gioia, una forza, un ardire inusitati accelerarono il palpito delle mie vene; mi sentii disposto a tutto purchè l’amica mia fosse vicina a me. Chi poteva aver tracciato il nome di lei sul muro? Chi era entrato nella mia camera? Uscii per interrogare Dora; la trovai su la porta del suo stambugio.
Come stavo per parlarle, udii la sua voce lamentosa.
— La mamma sta male — disse Dora quasi a risposta della muta domanda ch’era negli occhi miei.
— E da quando?
— Questa mattina è caduta e non si è alzata più.
Diceva tutto ciò con voce tranquilla e senza commovimento come se la cosa non la riguardasse.
— Si rotola per la camera — soggiunse.
— È venuto il dottore a vederla?
— Non lo so.
— Ed ora è sola?
— No, c’è Cajèla e c’è anche Cirifischio.
— Chi è Cirifischio?
[161]
— È l’uomo che ci bastona.
Pronunziata l’ultima frase, abbassò il capo.
— È venuto qualcuno a cercarmi, oggi? — chiesi dopo una pausa.
— Sì.
— E chi è venuto?
— Un uomo.
— C’era stato mai?
— No.
— Gli hai parlato?
— Gli ho chiesto che cosa voleva, ma non mi ha risposto. È entrato in camera tua.
— Lo hai seguito?
— Sì.
— E che ha fatto?
— Ha messo sul tavolo un involtino e poi si è seduto sul letto.
— È rimasto molto tempo in camera mia?
— Io non lo so perchè Cirifischio è venuto a prendermi e mi ha picchiato.
Le detti il pane consueto e mi allontanai chè volevo accertarmi se ciò che aveva detto era vero.
Trovai infatti, nella mia oscura tana, la lettera annunziata. Ne strappai la busta e lessi:
— Vieni al vicolo della Reginella; al N. 25. Sarà per il tuo meglio. —
Non c’era firma. La scrittura era incerta come quella tracciata sul muro. Nessun dubbio adunque, la stessa persona che mi aveva annunciato l’arrivo di Serenella mi consigliava di intervenire all’appuntamento equivoco che m’era stato imposto. Un solo uomo era entrato in camera mia, uno sconosciuto, forse Adeva stesso. Ma che poteva esservi di comune fra Serenella e il malvivente che me ne annunciava [162] l’arrivo? Possibile mai ch’ella, per l’inesperienza sua fosse vittima dei figli della suburra? O non era piuttosto un’abile finzione architettata ad arte per gettare il turbamento nell’anima mia?
Stavo perplesso senza sapere a qual partito appigliarmi. Una terribile dubbiosità mi agitava, ed impeti d’ira e angosciosi timori e ironiche denegazioni si succedevano in me a volta a volta.
Poi il solo pensiero ch’ella potesse esser caduta nella suburra mi fece risoluto ad un tratto onde quasi a corsa, scesi le scale e fui per la via.
Era già notte. In Via Nazionale mi soffermai su la porta di un caffè per saper l’ora; mancavano pochi minuti all’ora stabilita per il convegno. Ripresi il cammino frettolosamente.
E pensai a Serenella, alla mia dolce capinera ch’io amavo quanto il sole, e alla quale di tutta la mia giovinezza, di tutta la mia intelligenza avevo fatto un altare perchè l’anima bella di lei vi gioisse solitaria. Così l’erba stella copre le arene della landa per animare il sogno del suo fiore vermiglio.
Il pensiero ch’ella fosse a pochi passi da me, che avesse compiuto e chi sa come, il viaggio per la città della quale si parlava come di cosa tanto remota, laggiù, a Comacchio, mi empiva di ebbrezza. L’amore l’aveva guidata. Il compagno pensoso ed assiduo dagli occhi sereni le aveva insegnato la via. Cammina, cammina, egli ti aspetta e soffre; tu gli sarai come una rugiada, gli sarai come un’ombra. Nella vita triste la sua forza si consuma; cammina, amica bella, quando questa tua età sarà spenta non avrai altra gioia se perdi l’amico tuo, l’onda che ti segue per morire con te su le arene. Sarete come due solchi che al confine del campo si uniscono, come [163] due stelle che scendono dall’ignoto a convergere in un punto, prima che l’ignoto le riprenda. Altre ne sono state, altre ne saranno nei profondi gurgiti dell’infinito; ma nel miracolo di gioia vive l’Iddio che tu hai nel cuore, piccola bella vive l’anima tua che non consuma ma passa fra le due ombre di questa vita come la stella nelle notti estive. Cammina: se i tuoi piccoli piedi sanguineranno egli te li bacierà piangendo; se arriverai esausta le sue braccia forti ti sorreggeranno; se tremerai tutta per il freddo egli ti riscalderà co’ suoi baci. Io ti guido, io ti comando, Serenella, io che sono l’amore!
Ah! ben sentivo che l’avrei recata alta su le braccia in mezzo a mille; sentivo che nessuno me l’avrebbe tolta fra gli uomini, sentivo che l’avrei salvata dalla loro volgarità bruta, anche se avessi dovuto coprirla, morta, del mio corpo morto.
E se tutto ciò non era? S’ella attendeva tuttavia nel suo piccolo nido fra le acque il mio ritorno? S’io fossi stato zimbello di un inganno? Eppure qualcuno doveva essere giunto di laggiù per parlare. Di Omero non sospettai; a quell’ora Omero viaggiava per terre ignote.
Tutto l’inesplicabile nel quale da qualche settimana mi trovavo perduto, mi dava una tormentosa ansietà dalla quale volevo liberarmi ad ogni costo. Se il destino voleva respingermi nella tenebra era inutile ribellarsi al destino. Fra poco avrei avuto il bandolo dell’intrico.
Trascorsi per le vie popolose lungo le quali le lampade elettriche distendono la loro tenue alba perlacea; m’internai, passata piazza Venezia, per un labirinto di piccole strade e di vicoli in cui la luce diminuiva sempre più. C’erano case dagli altissimi muri, [164] mute di ogni suono. Da qualche porta socchiusa si intravvedevano lunghi anditi nei quali una lucernetta poneva un fioco chiarore sanguigno; e il frastuono delle vie che non conoscon sonno, si allontanava dileguando. Qualche raro stropiccìo di passi, un’ombra che scivolava sotto l’aureola luminosa di un fanale, il secco rinchiudersi di una porta, una voce udita a traverso una finestra chiusa, la eco di un canto bacchico svelavano a mano a mano un’altra anima della grande città: l’anima triste che la miseria costringe nell’ombra. I vicoli si facevan sempre più angusti, sempre più bui; c’era sentore di umidiccio; parevano antri sotterranei.
Affrettai il passo. Faceva freddo. La tramontana si ingolfava ululando per quei laberinti di piccole vene e agitava le scarse fiammelle dei fanali sollevando un popolo di ombre che la notte travolgeva.
Dietro una porta, chiusa da un cancello di ferro, mi parve intravvedere, al bagliore che usciva da una stanza vicina di cui l’uscio era dischiuso, una forma umana; mi soffermai avvicinandomi.
— Che vuoi? — chiese una voce roca.
Intravvidi una vecchia tutt’avvolta in uno scialle nero. Si levò biascicando:
— Vuoi entrare?
Mentre mi allontanavo udii giungere dall’interno della casa un tumulto di imprecazioni, di risa e di minacce. Erano le voci del vizio, affiochite, chioccie, singultanti, che hanno qualcosa del grugnito e del ruggito; voci senza età e senza sesso per le quali si appalesa l’estremo abbrutimento della miseria e della turpitudine. La vecchia ascoltò alquanto, poi ricadde a sedere bestemmiando.
Provai all’improvviso un senso di rivolta per il cieco [165] destino che mi trascinava laggiù in quella bolgia umana dove si dimentica il sole, dove fra digiuni e orgiastiche ebbrezze la vita inacerbisce e rapidamente disfiora. Era la tana della grande città più che millenne, l’immonda tana degli humiliores, dei miserabili che Roma imperiale faceva ardere sui roghi, per rendere più viva ed intensa la catastrofe di un’azione tragica.
Fanciulli e vecchi, giovinette e donne si addensavan laggiù in una orribile promiscuità, senza legge nè freno alle loro bestiali voglie; ciechi ed ignari di ogni umana gentilezza. Da quei giacigli in cui la foja non spegne la fame, si leva la ferocia dagli occhi foschi e spia il momento in cui la società barcolli per brandire la scure e lanciarsi in un orribile grido alla miseranda rovina.
La civiltà non vede l’ombra bieca della barbarie che la guata dal buio e non pensa che s’ella si scatena, il popolo tutto la seguirà per la mala ebbrezza del sangue.
Proseguii guardando attentamente chè non sapevo in qual luogo preciso Matteo Adeva mi attendesse. Nonostante il freddo intenso, seduta su gli scalini di una porta vidi una donna. Stava col capo fra le mani e i gomiti appoggiati su le ginocchia. Aveva uno scialletto di lana che le avvolgeva le spalle; una vestaglia di raso giallo, tutta sdruscita, le copriva la persona disfatta.
Quando passai levò un poco la fronte, mi fe’ cenno col capo perchè la seguissi e, ad un mio diniego, ricadde nel suo abbrutimento senza pensiero, senza dolore; tacque tutta chiusa ne’ suoi pochi istinti, unica forza dell’anima semispenta.
Poco dopo due uomini ebbri le si avvicinarono [166] berciando e la coprirono di ogni contumelia e la percossero e le sputarono sul viso; ella rimase accosciata su la lurida soglia, la testa china fra le palme; stette in una taciturnità di vecchia brenna usa agli urli e alle percosse, senza una ribellione contro coloro che la dileggiavano ora, dimentichi di averla voluta così.
Nella vita dei secoli un uomo solo ebbe coscienza e pietà di simile miseria e fu il nato di Myriam, il dolce poeta della Galilea.
Ad un tratto udii un trepestare rapido di gente in corsa, uno stioccare di vesti sbattute, un succedersi di brevi voci, onde mi soffermai sogguardando nell’incertezza di ciò che accadeva. Non trascorsero quattro secondi che vidi alcune donne passarmi innanzi correndo. Una si volse per darmi sommessamente l’avviso:
— Le guardie, le guardie!
In un’attimo si dispersero nell’intricata trama dei vicoli. Dietro loro, ciondolon ciondoloni, seminascosto il viso sotto la visiera del kepì seguirono due guardie che percorsero lentamente il vicolo senza cura apparente, a simiglianza di due filosofi intenti a risolvere gli oscuri problemi dell’umana natura.
La mia ripugnanza cresceva quanto più mi appressavo alla meta; ma non ebbi una sol volta la tentazione di ritornare perchè val meglio affrontare il destino anzichè arroncigliarsi nell’ombra come una sciocca bestia e chiuder gli occhi per credersi salvo. Poi che mi sarebbe importato della mia salvezza se a Serenella poteva incogliere male? S’ella era vittima di quella mala razza di vagabondi, di lenoni, di ladri? Ciò non mi era che un vago dubbio, che una lontana incertezza; purtuttavia non mi sentivo tranquillo.
[167]
Verso la fine del vicolo dove l’oscurità era maggiore, udii da una porta socchiusa un subito pispiglio poi qualcuno pronunziò chiaramente il mio nome:
— Duccio della Bella?
— Adeva! — risposi.
Il vagabondo si presentò sul limitare e rapidamente, a bassa voce, sussurrò:
— Vieni. Sei in ritardo.
Entrai. L’andito era perfettamente buio.
— Rimani qui — disse Matteo Adeva a una persona che non vidi — non chiudere l’uscio; Sprillo e Boccia debbono venire ancora.
— Non mi muovo — rispose qualcuno dall’ombra. Allora Adeva mi prese per mano e mi condusse per l’andito fino ad una scala angusta e scivolosa che cominciò a salire a rilento. Gli tenni dietro. Il mio cuore batteva rapidamente.
Dall’alto giungeva un suono di voci discordanti. Ci fermammo innanzi ad un uscio sconnesso il quale lasciava filtrare la luce dalle larghe fessure. Matteo Adeva picchiò sommessamente tre colpi con le nocche; nell’interno si fece silenzio.
— Chi è? — chiese una voce vicina.
— Aprite — rispose Adeva.
Fummo introdotti e l’uscio si richiuse dietro di noi. La stanza era bassa, sudicia, illuminata da un lume a petrolio posto sopra una tavola. Tutt’intorno correva un basso divano che perdeva la stoppa tant’era lacero e consunto. Alle pareti erano appese grandi oleografie pornografiche e alcune fotografie fra le quali risaltavano tristi visucci di bimbi.
Su l’uscio di entrata notai che s’era fermo Adeva; ad un altr’uscio laterale era seduta una donna su la cinquantina: grassa, oleosa come un otre, da gli occhi scarabei seminascosti nel largo viso sebaceo.
[168]
Seduti di traverso o sdraiati sul divano vidi Righetto, l’accattone; Nino, il fratello di Cajèla; Ghetano, il ciabattino che abitava nella mia stessa casa ai quartieri San Lorenzo, poi molti altri che non conobbi.
— Catuba — gridò Righetto a colui che mi parve il più valutato fra tutti — Catuba non dormire che sta a te ora.
La persona interpellata era un giovinastro che poteva aver passata di poco la ventina ma che il vizio aveva già impresso del suo suggello. Aveva le guance smunte, la bocca sottile, gli occhi leggermente sanguigni e il viso atteggiato ad un’espressione di cinismo ributtante. Portava un fazzoletto annodato al collo e un berretto a visiera spinto estremamente su l’orecchio destro, sì da lasciar libera una grande ciocca di capelli che si elevava ribelle a compire l’aria spavalda di parrucchiere armigero tutta propria ai giovani lenoni della suburra.
Stava sdraiato sul fianco, la testa appoggiata su la palma della mano destra, in atteggiamento di persona che considera la vita una sciocchezza e valuta gli uomini, fratelli suoi, quanto un mucchio di fimo e nulla più. Si dava l’aria di sonnecchiare, di annoiarsi, e tale apparente assenza dello spirito di lui gli fruttava la considerazione dei compagni.
Quando udì la voce di Righetto che lo pregava di ricordarsi dell’attimo fuggente, alzò le ciglia, sputò e chiese senza scomporsi:
— È questo il merlo?
— È questo — rispose Adeva.
Qualche sogghigno corse per la comitiva.
Rimasi immobile guardando. Ero ben certo di essere caduto in un inganno ma ancora non ne comprendevo la ragione.
[169]
— A chi tocca il merito di averlo condotto qui? — chiese Catuba.
— A me — rispose Adeva.
Catuba si rialzò a sedere e disse alla donna che stava in disparte:
— Maddalè, porta del vino. Vogliamo bagnarci la bocca.
Come la donna uscì, per qualche tempo tutti rimasero in silenzio.
Mi volsi verso Adeva che s’era appoggiato con le spalle alla porta e lo guardai fissamente negli occhi senza parlare. L’ipocrita ebbe un sorriso di scherno e accennando Catuba disse:
— Guarda là; il capo è quello!
— Non aver fretta! — soggiunse il giovinastro. — Tanto non dovrai godere!
Quantunque intendessi la minaccia nascosta nelle parole ambigue, tacqui ancora rintuzzando ogni violenza d’impulso e meditando un atto pronto ed audace che mi avesse liberato allorchè l’ansia di conoscere il mistero fosse soddisfatta.
Bevvero a grandi sorsi passandosi il bicchiere di mano in mano; Maddalè andò a torno col boccale mescendo.
Primo ed ultimo fu Catuba. Quand’ebbe vuotato fino all’ultimo sorso il bicchiere, battè un pugno su la tavola e gridò:
— Ed ora a noi!
Tutti si levaron di scatto e mi si avvicinarono. Adeva mi afferrò d’improvviso le braccia sì che, per l’impressione che n’ebbi, mi svincolai di un grido impetuosamente.
— Adagio — fece Catuba — siate calmi; tanto non potrà fuggirci!
[170]
Provai un brivido come se l’aguzza punta di una lama mi tracciasse un solco per le reni. Era dunque lo spettro della morte che volevano farmi balenare innanzi agli occhi? Era lo spettro del delitto, della violenza di forse venti uomini contro uno, solo ed inerme? Attesi a denti serrati, pronto all’impari lotta frenetica.
— Sbrigamoce! — gridò Righetto.
— Zittete! — ribattè Adeva.
— Cercamoje prima drent’a la giacchetta — aggiunse un altro.
— Che vuoi cercà er cortello?
— Sì; ce trovi l’anima de mortacci sui!
— Dateje la bona e sia finita!
— Oh! Catuba, ce semo?
Catuba picchiò violentemente la mano aperta su la tavola e gridò:
— E zittateve, per Cristo!
Tutti tacquero nicchiando. Sentii tutto il sangue scendermi al cuore ed il mio viso sbiancò come per il soffio della morte.
— Noi siamo gente onesta — riprese Catuba guardandomi obliquamente e sorridendo. — La giustizia ti tratterebbe peggio senza compir la vendetta di nessuno. Tu hai ammazzato un uomo; è giusto che ti sia reso lo stesso servizio!
Dopo una pausa soggiunse:
— Ne convieni?
Mi guardai intorno: era in tutti quegli occhi una ebrietà bruta di male, un’ansia di soddisfare l’istinto cieco della violenza. L’odio inconsulto contro tutti gli uomini, contro tutte le creature; la selvaggia bramosia di colpire si scatenava da quelle anime taciturne [171] in cui era constretto il turbine di una vendetta secolare.
— Che c’è? — gridò ad un tratto Ghetano volgendosi verso la porta.
— Nulla — rispose Matteo Adeva. — È Lalla che si muove.
Dopo un altro silenzio, terribile silenzio d’abisso, Catuba si chinò verso me e mi chiese:
— Sai chi c’è qui?
Allora nella mia voce fu l’inattesa asprezza dell’urlo che sconvolge:
— Chi, in nome de’ tuoi morti, chi?
— Maddalè! — disse Catuba alla donna che se ne stava in disparte — Maddalè falla entrare.
Mi rivolsi con gli occhi accesi, sbarrati nel terrore di veder comparire lei, la mia santa! Nei pochi secondi che trascorsero non ebbi respiro, il mio cuore non pulsò; non vissi, non intesi, ero come morto. Poi indietreggiai di un balzo. Non sognavo? Non era una allucinazione la mia? Sita, la figlia di Diavolo, stava ritta nel vano della porta.
Tutti si volsero verso lei. Aveva il capo eretto, vestiva di nero, i suoi capelli rossi fiammeggiavano.
— È questo? — le chiese Catuba indicandomi.
— Sì.
— Si deve far subito?
— Sì.
Mi raccolsi tutto, pronto alla lotta disperata; ma prima che uno solo fra i tanti si muovesse, un urto possente sfondò l’uscio delle scale e un uomo balzò, irruppe, precipitò nella camera gettando al suolo Adeva. Fu alla tavola, la capovolse di un grido facendo il buio, poi con la stessa rapidità mi sentii afferrare, mi sentii trascinar via a precipizio.
[172]
Quando fummo lontani ed ebbi campo a riavermi alzai gli occhi in viso all’ignoto compagno.
— Omero! Tu!... — gridai.
— Cammina, avrai tempo a parlare, qui non è aria buona!
Una volta ancora era balzata dall’ombra, per me la grande anima fraterna.
[173]
Quando ebbe tolto dalle bisacce tutto ciò che mi apparteneva, come ebbe a dirmi poi, era già l’alba. La sera avanti mi aveva ascoltato parlare senza interloquire una volta, troppo bene intendendo ciò che desideravo; d’altra parte era giusto ch’io volessi provarmi da solo nella vita ed egli non aveva alcun diritto di impedirmelo, nè poteva impormi la sua tutela. Non gli restava che andarsene. Con simile assillo nel pensiero non aveva dormito e innanzi l’alba era sorto in piedi per compiere i preparativi necessari a riprendere il viaggio. Voleva togliermi la tristezza dell’addio. Quando avessi riaperto gli occhi egli sarebbe stato lontano. Tante dolci cose se ne vanno così, come un alito, per non più ritornare. Aveva preparato le bisacce guardandomi. Io dormivo col capo fra le braccia ed avevo il sonno tranquillo del riposo e della pace. Meglio così; alla mattina avrei pensato forse ch’egli avesse a ricomparire, poi, poco alla volta, mi sarei abituato alla solitudine; solo, in fondo al core sarebbe stata assidua la memoria dell’amico buono ch’era andato con il suo sogno verso terre ignote.
[174]
Come fu pronto, si gettò le bisacce su le spalle, si tirò la visiera del berretto su gli occhi e con somma cautela, volgendosi ad ogni passo, si avviò verso l’uscio. L’aprì, stette un attimo a contemplare il mio sonno, poi rinchiuse e si avviò.
Il suo vecchio cuore stoico non era compiutamente sereno. C’era laggiù qualcosa che gli toglieva la tranquillità. E non volle convenirne con sè stesso perchè la ragione non avesse a biasimare la dolce tristezza che amava il silenzio e non avrebbe cercato una sola parola per appalesarsi.
Quando scese per le vie incontrò i lampionai intenti a spegnere le ultime fiamme argentee; si tenne rasente ai muri e si avviò senza sapere quale strada avrebbe seguito. Andò innanzi. Gli era perfettamente indifferente dirigersi al nord o al sud.
Il cielo sereno era di quella purezza cristallina che solo l’inverno conosce; era come il ghiaccio, come il limpido ghiaccio delle fonti.
Omero non avvertì il freddo benchè indossasse lo stesso vestimento che portava a Comacchio, composto da un soprabito di antica foggia e da un paio di calzoni rattrappiti che gli giungevano alla caviglia; andava a passo lesto; pareva lo spingesse l’ansia di giungere in tempo in un determinato luogo.
Attraversò Roma, uscì da Porta San Giovanni, prese a sinistra il vicolo delle Tre Madonne e si perse nella campagna.
Continò a camminare, il capo basso, le mani infilate nelle tasche dei calzoni, guardando talvolta la sua piccola ombra che lo seguiva o lo precedeva o gli stava a lato fedelmente; tal’altra cercando evitare le profonde carreggiate o i grossi ciottoli che ingombravano il vicoletto.
[175]
Quando il sole ebbe oltrepassato il meriggio, si soffermò vicino ai resti di un acquedotto e sedette.
— Non debbo essermi allontanato troppo — pensò. Infatti, come volse gli occhi intorno, vide sotto l’oriente, biancheggiante al limite dei cieli, la gran massa di Roma; nè si dolse di ciò, anzi sentì che l’immensa città gli era quasi necessaria. Gli pareva splendesse più sole laggiù, ridesse più primavera.
Tutte cose belle; pure doveva continuare il cammino. Era partito col preciso proposito di allontanarsi, doveva dunque andar diritto innanzi a sè fino al primo paese che avesse incontrato. Così aveva fatto sempre prima che il figlio di Marta della Bella gli fosse compagno.
E rimase appoggiato al vecchio acquedotto, per molte ore; rimase così forse perchè era stanco, anzi tale scusa gli valse per starsene più tranquillo.
A quando a quando levava gli occhi verso Roma rifulgente come una gemma incastonata nel grand’arco dei cieli ed era tanto assorto che s’avvide di non aver risposto ad un pastore il quale gli aveva mosso una domanda.
Il sole compiva il suo giorno e Omero era ancor là. A che pensava? Sentiva un gran vuoto nel quale apparivano le ombre delle cose come s’egli se ne fosse allontanato per miglia e miglia. A volte gli parve essere in un luogo buio dal quale fissò la luce addensantesi sopra un immenso cumulo di case, di cupule, di torri lontane.
Poi lo colse la dolce malinconia dei ricordi.
Si vide innanzi la sua Ravenna, ad un tratto (non ci pensava da tanto tempo ormai!). Era illuminata da un sole invernale; pareva tutta di marmo e d’adamante. Nel Candiano erano discese navi e navi, [176] tante che l’acqua verde luceva in rigagnoli fra le loro chiglie e, al vento del mare, le vele stioccavano battendo sui cordami, su le sartie, sui grandi alberi superbi, o, allentate, s’increspavano come le acque, rapidissimamente, producendo un suono simile a quello delle prime gocciole di pioggia su le strade battute. C’erano uomini di tutti i paesi, scesi dal mare fino al piccolo porto che la Pineta lontana e morente più non sorveglia; gridavano e cantavano trasportando il carico dalle navi ai cantieri. Andavan seminudi, nonostante il freddo. Omero era ancor giovane; aveva forse qualcosa più di sedici anni, un niente. Tutti i giorni si trovava al Candiano. Qualche paròn avrebbe potuto arruolarlo fra i marinai del suo bragozzo. Voleva partire.
Tanto nessuno si sarebbe accorto della sua lontananza. Sua madre gli era ignota perchè, per una vergogna insensata, frutto di una sciocca morale, aveva rifiutato la creatura delle viscere sue, non sapendo opporre al cinismo di una legge scritta nella supina incoscienza dei più, la maternità che è santa, la maternità che è un sacro mistero della terra. Era solo, e i soli hanno la nostalgia di qualcosa che li attenda lontano, sempre più lontano fino al giorno della morte.
Viveva allora nel sobborgo di Porta Adriana con un padrone che gli misurava le legnate e il pane egualmente; ma forse più di quelle che di questo. Doveva rigovernare i cavalli dello stallatico, star levato gran parte della notte e riposare sul fieno, accanto alle bestie.
Non aveva amici perchè era taciturno; soffriva in pace senza sentir necessità di comunicare ad altri la sua pena; si abituava fin d’allora allo stoicismo che doveva essere poi sua grande forza nel dolore.
[177]
Fra tutti coloro che gli vivevano intorno, una sola creatura gli aveva dimostrato attenzione assidua: una bambina, Donetta. Aveva tredici anni; era figlia di un domatore di cavalli e di una prostituta.
Cresciuta per le vie, usa, fin da quando aveva inteso, a tutte le scurrilità del trivio serbava, chi sa per quale dolcezza ignota alla sua stirpe, una sensibilità triste ch’era nel viso di lei come un segno di elevazione e di bontà.
Era graziosa, aveva gli occhi azzurri e i capelli neri, corti e ricciuti. C’erano degli angioli così, nei cieli d’oro delle grandi chiese antiche.
Una volta stava per essere travolta da un cavallo in fuga e Omero la salvò a rischio della vita di lui; da quel giorno Donetta rimaneva lungo tempo innanzi alla porta dello stallatico a guardare il suo grande amico in faccende.
Omero le aveva fatto qualche regalo, come poteva; qualcosa di adatto alla loro miseria. Donetta lo aveva ringraziato sorridendo e se ne era adorna. Vestiva sempre un grembialuccio turchino ch’egli le aveva portato dalla fiera delle Alfonsine e il viso di lei fioriva come un maggio sul colore soave del bordatino.
Ricordava che un giorno (era il pomeriggio di una domenica; il padrone se ne era ito a Russi, alla festa, e allo stallatico non c’era da fare) per evitar la gente che scendeva al sobborgo a bere e a ubriacarsi, s’era internato pei campi verso la solitudine della Pineta. Forse cantava l’aprile; le macchie di biancospino erano in fiore. Il sole volgeva al tramonto; non un uomo appariva nei campi. La terra era tutta delle anime solitarie. Vide due bimbi seduti su lo scrimolo di un fosso: guardavano il cielo che si [178] angelicava allo smorire del giorno; vide un vecchio mendicante che tornava dalla questua in qualche paese remoto, e nessun altro. Le poche case che incontrava erano mute. Anche i queruli galli pareva sentissero l’imperare della grande anima taciturna del vespero; razzolavano per le aie senza cantare, senza gracidare, avvicinandosi al fico bigio che doveva dar loro asilo per la notte.
Omero godeva di quella pace solenne, sì grande che gli uomini intendono a pena, e non si sentiva solo perchè la Gran Madre era nel cuore di lui e gli parlava.
Poi i campi coltivati si tramutarono in praterie immense; poi la Pineta apparve.
Passò presso un gruppo d’alberi chini su l’arca di un pozzo. Erano vecchie roveri dal tronco schietto; ascoltavano l’eterna voce dell’acqua nelle viscere della terra. Una sola, in disparte, vegliava nella sua cecità possente; vigile sacerdotessa del sole e dei tesori oltresolari.
Quando Omero entrò nella Pineta il sole aveva la lucentezza del rame e ingrandiva sempre più, spegnendosi nel bacio della terra. Trascorse una torma di giumente bianche.
Era sì grande la dolcezza del luogo che il solitario pensò attendere la notte laggiù. Tanto il padrone tornando da Russi ubbriaco, come altre volte sarebbe caduto su le scale per non rialzarsi se non al mattino.
Errò lung’ora senza meta e quando fu notte se ne tornava in tutta pace ascoltando gli strani suoni della selva, guardando le stelle che spuntavano in grandi diademi fra le chiome arboree, allorchè intravvide poco più innanzi, su lo stesso sentiero che percorreva, [179] un’ombra appena evanescente nel pallido bagliore stellare. Affrettò il passo e distinse una figuretta di bimba.
Andava a rilento affaticandosi sotto un gran carico di legna. I piedi di lei si affondavano nella sabbia; respirava a fatica soffermandosi di tratto in tratto. Forse, nascosta com’era sotto al grande carico, non aveva udito l’avvicinarsi di Omero.
Egli era molto forte e non pensò due volte al da farsi, disse:
— Aspetta, ti aiuterò.
Come la fanciulla ristette, le tolse il fascio di sterpi e se lo pose su le spalle come fosse un niente. La piccola tacque. Omero si avviò innanzi. La strada era lunga e nessuno dei due parlava. Ad un tratto la compagna silenziosa lo prese per mano ed esclamò dolcemente:
— Come sei buono!
Egli si volse colpito dal suono della voce e riconobbe Donetta.
Non dissero altre parole; ma Omero avrebbe voluto portare quel carico di legna fino ai limiti del mondo per sentire sempre la piccola mano nella sua.
La strada fu breve come un sospiro.
E poi e poi era ancora il Candiano con tutte le sue navi; erano le chiese grandi dove non si andava per pregare ma per vedere Iddio fra le nubi d’oro; era tutta la sua giovinezza che gli appariva laggiù, con l’immagine di Ravenna. E un giorno seppe che Donetta non sarebbe ritornata mai più e n’ebbe una scossa tremenda. Il dolce fiore di soavità era morto.
Da quel tempo si era gettato su le spalle le bisacce per non sostare mai più.
Ad un tratto si scosse, era giunta sul vento una [180] grande ondata di suoni. Tutte le campane di Roma salutavano il vespero.
Si levò. La campagna era deserta, muta, senza un casolare; non aveva veduto mai terra più triste. Riprese il sentiero senza por mente ove conducesse. Gli pareva che il crepuscolo fosse cinereo; e la landa che percorreva era cinerea e senza fine.
Quando fu notte alta, si trovò alle porte di Roma. Si convinse così, che il destino non aveva voluto allontanarlo.
Tornò ai quartieri di San Lorenzo; mi seguì da lontano; vegliò, da ombra, su la mia vita.
Frattanto, più esperto e più fortunato di me, aveva trovato lavoro in un negozio di vino. Guadagnava a sufficienza per due, data la sua parsimonia.
Tutte le notti saliva le sudice scale della casa ove dormivo e veniva a origliare alla mia porta, poi ripartiva tranquillo s’io ero tranquillo.
Aveva saputo le mie sofferenze ad una ad una e il caso lo aiutò a scoprire la trama che si ordiva a mio danno.
Una notte, come al solito, era entrato nell’andito oscuro e stava per salire fino alla mia porta, allorchè si accorse che qualcuno scendeva le scale.
Per non essere scoperto si nascose prontamente nell’angolo più buio dell’andito e attese. Dopo non molto vide allo sprazzo di luce che s’insinuava dalla via, Matteo Adeva. Con lui era una donna.
Notò subito una strana somiglianza di volto, di voce, di gesti, epperò attese qualche minuto perchè si allontanassero un poco, poi, invece di salir le scale, uscì e rasentando i muri, cercando l’ombra, si dette a pedinare Matteo Adeva e la sconosciuta.
Si accostò tanto ch’essi andavano a pochi passi da [181] lui. Finse essere ubbriaco perchè non gli ponessero mente.
Allora udì e l’incerto dubbio divenne chiara realtà.
Sita era a Roma da oltre una settimana; aveva seguito Serenella ch’era stata rinchiusa in un convento. Voleva vendicare suo padre.
Canticchiando e ballonzolando da un muro all’altro udì le oscure macchinazioni che i due venivano tessendo. Seppe che Sita, per fuggire a Roma, aveva fatto mercato della sua persona a Bologna; seppe che una vecchia bolognese le aveva indicato a chi avrebbe dovuto rivolgersi, alla capitale, per aver facilitato il suo compito; seppe che Catuba Sprillo, Adeva e tutti i lenoni della suburra, per la bellezza di lei e per il suo amore avrebbero dato nonchè la vita di Duccio della Bella, sangue di imperatori.
Allora Omero benedisse il suo destino e si pose all’agguato.
Spiò, vide ma non tanto che la trama non gli fosse sfuggita di mano. Chi lo pose su le tracce fu la lettera che trovò su la mia tavola. Era l’invito di Adeva. Allora riebbe l’agilità de’ suoi vent’anni e giunse a salvarmi prima che una sola lama si fosse levata sul mio capo a estrema minaccia.
[182]
— Non lasciarti fuggire la buona occasione — mi disse Omero — compì la tua strada; tutto andrà come abbiamo desiderato. Fra qualche settimana sarete insieme!
— Ha saputo?
— Niente ancora, non aver troppa fretta.
— Io mi rimetto a te.
— Allora cerca di essere guardingo. Addio.
— Quando ci vedremo?
— Ora non saprei dirtelo. Quando mi sarà possibile.
— Non tardare troppo!
— No. Addio, Duccio.
— Addio, Omero.
Si spinse innanzi la carretta carica di erbaggi e gettò all’aria il lungo grido di offerta che si perse nella solitaria via San Teodoro.
Alla sua sinistra lucevano, alte nel sole declinante, le boscaglie del Palatino emergenti in enormi ciuffi dagli avanzi delle ciclopiche costruzioni imperiali; [183] alla sua destra si elevava una lunga fila di case silenziose e malinconiche nelle quali si apriva di tanto in tanto una botteguccia meschina.
Siccome era domenica e in quella via non erano osterie, non ebbe occasione di incontrare se non qualche straniero che se ne veniva rigido e tranquillo ammirando la superba visione del Palatino. Grande cosa fra povera gente; inutile memoria di forza fra una razza di giullari, come pensano benevolmente i popoli nordici.
Il giorno era sereno e l’aria tepida; pareva che l’inverno fosse esulato verso i cieli del nord e che il soffio della primavera giungesse a dischiudere le gemme.
Omero non mandava più il suo grido, tanto a quell’ora e in quella via non avrebbe avuto occasione di vendere un solo capo della sua mercanzia.
All’Arco di Giano, presso San Giorgio in Velabro, una vecchietta lo fermò. Riprese poi il cammino senza più sostare. Attraversò Piazza dei Cerchi e, lentamente, si spinse innanzi la carretta per la via di Santa Sabina.
Le ultime case si fermavano ai piedi dell’Aventino. Saliva ora per la viottola tortuosa, fiancheggiata da basse mura alzate a riparo delle misteriose ville che si innalzano sul colle silenzioso.
Il rumore della città nuova non giungeva fin lassù. L’onda alterna di suoni, il mareggiare continuo della vita si frangeva contro l’arce capitolina e una eco languida trascorreva sul Foro per spengersi nelle ampie caverne del palazzo dei Cesari. Lassù, fra le basse mura della viottola, era il magico stupore delle cose indisturbate. Esse vedono e sanno una vita che a noi è ignota. Il mistero le fa solenni.
[184]
A quando a quando, essendo la salita piuttosto ripida, Omero sostava a riprender fiato e allora, spentosi il cigolìo della carretta, non udivasi che qualche fruscìo scorrente oltre le mura lungo gli ignoti giardini, lungo le vigne che si distendevano intorno ad un casolare, sacro all’ombra di qualche pino ferrigno.
Le antiche divinità oscure dei progenitori nostri; le indefinibili e indefinite forze assunte all’adorazione in simboli vaghi; le voci che parlarono all’anima dei fratelli Arvali nei densi boschi, nei floridi campi, nelle desolate solitudini; tutto ciò ch’era paura, desiderio, esaltazione, tutto ch’essi riassunsero nel culto della Dea Dia vive in quelle boscaglie compatte, sorgenti nel cuore di Roma e pur tanto lontane dalla sua anima nuova; anima torpida ancora per l’apatico languore che secolarmente la tenne.
Pareva che qualcuna fra le piccole porte che si aprivano contro il sol levante, dovesse dischiudersi e pareva dovesse erigersi nel vano, fermo su la pietra della soglia, il capo dei dodici fratelli Aratori, dei gravi sacerdoti dell’immensa natura. Avvolto nella toga pretesta, il capo cinto da una ghirlandella di spiche legata da una bianca benda; diritta la fiera fronte adusta e gli occhi profondi fissi su l’immobile taciturnità del bosco, lanciava levando le braccia, l’antichissimo grido di tripudio, una fra le prime voci articolate che l’anima collettiva di un popolo abbia sciolto all’aurora del suo benefico Iddio: — Triumpe triumpe triumpe! — E dietro lui, nel grande dilagare del sole, rispondeva l’urlo della moltitudine prona ad adorare lo spirito immenso; il cuore del mondo, l’anima del sole e delle spiche bionde.
[185]
L’Urbe millenaria che fu altare a tutti gli Dei e tutti li distrusse per Uno all’ombra del quale raccolse le sue vittorie e le lanciò ad un nuovo trionfo, non sa dimenticare il primo suggello che le impresse l’anima salda de’ suoi figli agricoltori: il culto della natura madre e del suo mistero.
Come ad un punto, sotto le mura di un grande giardino, la viottola si biforcava, Omero volse a sinistra per la via di Santa Prisca, verso il convento perduto lassù fra i cipressi dalla chioma compatta, alta come una pura fiamma nell’aria senza vento.
Il sole che non giungeva fin su la viottola, si attardava a illuminare gli scarsi steli che crescevano a sommo delle mura; le rame sporgenti; i viluppi d’edera che rivestiva, in certi punti, la cadente rovina dei ripari; e si addolciva, sbiancando in bagliori d’oro pallido, sul nitor della calce o si addensava in una tinta calda, quasi sanguigna, su la fitta chioma degli oscuri cipressi.
Dall’ombra pareva a volte che le grandi piante, irradiate così dall’invisibile sole, si accendessero di un loro proprio bagliore a indicare una infinita via lanciata verso la soglia dei cieli.
Una vettura trascorse rapidamente sollevando un alto frastuono che si ripercosse e si perse lontano simile a un cupo rimbombo. Un pulviscolo d’oro impalpabile, si distendeva per il gran sereno, su gli alberi e su gli steli per rivestirli di quel suo aureo sfolgorìo, anima del sole morente.
Passò ancora il lento martellare di una campana; poi anche quel suono si spense, si diffuse nell’aria, lontanò verso altri silenzi. L’incantesimo della viottola tortuosa, ombreggiata a volte dalle grandi rame soverchianti, a volte più chiara fra i muri fioriti [186] a sommo dai ranuncoli gialli, ebbe più intenso dominio. Dormiva lassù fra quella muta corona di giardini chiusi, fra quell’assieparsi di fronde che sanno la tacita ombra, dormiva fra i rigidi compagni del silenzio, Roma e, dall’abisso, il vigile tempo dalla gran chioma solare vegliava su quel sonno dal quale doveva balzare una volta ancora la dolce figlia sua per l’eterna vicenda dell’andare.
Ad un usciolo grigio che si apriva sul muro di un orto, Omero sostò e, con le nocche, picchiò tre colpi a distanze uguali, lentamente.
Non attese molto che l’uscio si dischiuse e un vecchietto apparve.
— Hai tardato questa sera — disse rivolto a Omero. — Come è andata la vendita?
— Bene; cioè, abbastanza bene. Lo sapete Paolo, nel pomeriggio non si busca troppo.
— Fa vedere — riprese il vecchietto avvicinandosi alla carretta. — Peuh! Non t’è rimasta gran cosa. Domattina si smercierà tutto.
— Così ce ne fosse! — esclamò Omero volgendo la carretta verso il vano della porta.
— Guardatevi Paolo — riprese: — Voi e la carretta non passate insieme.
Paolo si scansò e quando Omero fu entrato, rinchiuse la porta che cigolò sui cardini.
Si avviarono per un’andana fiancheggiata da alberi nani.
— Avete parlato con la superiora? — chiese Omero ad un tratto.
— Sì — rispose Paolo.
— E che vi ha detto?
— Puoi rimanere.
— Fin che vorrò?
[187]
— Fin che vorrai.
— Ma come le avete presentato la cosa?
— Capirai, non ci voleva molto.... — Si fermò a togliere con le mollette un po’ di seccume da una pianta:
— Non ci voleva molto — riprese rialzandosi e traendo un sospiro. — Io sono vecchio e l’orto è grande; poi bisogna avere un occhio anche al giardino. Venti anni fa ne avrei curato il doppio della terra; ma ora le ossa sono logore e non ci resisto. Le ho detto che avevo bisogno di un aiuto.
— E lei?
— Lei? È buona Suor Anna; quando potrai conoscerla vedrai di quale bontà angelica sia quella donna! Non ha fiatato. Poteva anche rispondere: Non voglio aumentare le spese! — Invece ha detto: — Hai già in vista l’uomo che deve aiutarti? — E dopo qualche parola ha convenuto su tutto ciò che le ho detto. Tu dormirai nella casa in fondo all’orto. Sabato, verrai con me dal Sindaco del convento per intenderti con lui circa la paga.
— E posso cominciare a dormir qui da questa sera?
— Sicuro! Che cosa vuoi aspettare? Mi terrai compagnia. Io sono vecchio e solo; starò più tranquillo.
— Ma Suor Anna non vi ha chiesto chi ero, da quale parte venivo? Non ha voluto avere informazioni sul mio conto?
— Certo: non potrebbe mica accettare qui il primo capitato. Io l’ho rassicurata subito però, dicendole che ti conoscevo da molti anni e le ho fatto il racconto di tutto ciò che mi ricordavo della tua vita.
— Poca cosa — fece Omero sorridendo.
— Non tanto poco! Due anni non sono corti e ci [188] stemmo ben due anni insieme, a lavorare nel Veneto. Non ricordi?
— Ricordo benissimo. Avevate allora la vostra figliuola con voi. È a Roma ora?
— No, sta su, in un paesetto della Sabina. Si è maritata. Ha già tre figli.
— Ne sarete contento.
— Figurati, non ci vedo che per loro. Alla nostra età se non ci fossero i figli, i nipoti, chi ti farebbe campare? Li vedrai domenica che bei figliuoli! Sembrano tre belle rame fronzute! Io li benedico sempre nel nome di Dio.
Tacquero. Erano giunti ad una capanna nella qua le Paolo soleva riporre gli strumenti da lavoro.
— La lasciamo qui la carretta? — chiese Omero.
— Sì — rispose il vecchio. — Ora spruzzo gli erbaggi perchè si conservino meglio, poi andremo a mangiare un boccone.
— Avrai fame — soggiunse raccogliendo da terra una secchia ricolma d’acqua.
— Un pochino — rispose Omero.
Riposero la carretta e chiusero l’apertura della capanna con un battente contesto di paglia e di stipa. Il sole allungava sul suolo ombre azzurrognole.
La casa dell’ortolano sorgeva al limite dell’orto, prossima al muricciuolo che la divideva dal giardino. Presero per una redola lungo un filare di viti. Paolo andava innanzi soffermandosi di tanto in tanto a guardare un solco, una vite, una pianticella. Omero seguiva col capo basso e le mani annodate dietro le reni.
S’intravvedeva a pena, in fondo, fra la fitta trama dei rami, il rosseggiare del convento; solo la cima del campanile splendeva libera nell’azzurro superando [189] gli alberi. Stormi di passeri passavano frullando e cinguettando per l’aria.
La casa dell’ortolano sorgente fra un gruppo di eucalitti dal tronco roseo e grigio, era a due piani ed era tutta annerita dal gran tempo che aveva.
— Ho preparato la tua camera — disse Paolo allorchè si soffermarono su la soglia — guarda a levante, verso il convento; avrai il primo sole. Hai il sonno leggero?
— No.
— Tanto meglio; altrimenti il suono della tempella non ti lascierebbe passar la notte in pace. Le prime settimane che stetti al convento non potei chiudere occhio.
— Per me non ve ne preoccupate. Oltre la tempella potrebbero suonare a stormo che non mi desterei.
Omero si sedette innanzi alla tavola nella piccola stanza a terreno; Paolo, curvo sul focolare, attizzò le bragi per apprestare il mangiare.
— E le monache vengono mai nell’orto? — chiese Omero ad un tratto.
— Mai — rispose Paolo senza volgersi — mai. Non lo potrebbero perchè ci siamo noi. D’altra parte non oziano neppure un minuto; o pregano o lavorano.
— Dunque, pure essendo qui col permesso della superiora possiamo ugualmente spaventare le monache?
— Certo — fece Paolo tralasciando il soffiar su le bragi. — Non debbono vedere uomini. E ormai — aggiunse ammiccando — di noi non dovrebbero temere!
Dopo un breve riso concorde, Omero riprese:
[190]
— L’avete veduta oggi quella novizia di Comacchio?
— Sì, l’ho veduta in cortile; passava sotto il portico.
Tacquero; avevano esaurito ogni argomento di conversazione; a Omero non importava saper altro e Paolo taceva volontieri più per consuetudine che per natura.
Mangiarono una zuppa d’erbe e quando Paolo ebbe riposte le scodelle era già notte. Allora accese due lucerne, ne porse una a Omero e gli chiese:
— Vieni a dormire?
— Sì.
Presero a salire la breve scala. Si soffermarono ad un pianerottolo sul quale si aprivano due porte, una contro l’altra.
— Questa a destra è la tua camera — disse Paolo — e questa è la mia. Buonanotte.
— Buonanotte.
I due usci si rinchiusero contemporaneamente.
Appena entrato, Omero girò gli occhi per la stanza assegnatagli. C’era una branda, una sedia, una cassa e, appeso al muro, un grande crocifisso. Fu contento della sua fortuna; quel luogo era una vera reggia per lui. Posò la lucerna su la seggiola e si avvicinò alla finestra aperta dalla quale si intravvedevano rame e gruppi di stelle. Stette qualche attimo in ascolto, appoggiato al davanzale. Nel silenzio notturno si udiva giungere a traverso gli alberi un mormorio sommesso e continuo; parevano voci litanianti; o non era piuttosto un pullulare remoto di acque, un indefinibile lamento nell’oscurità? Forse giungeva dalla piccola chiesa in fondo al giardino, nascosta fra gli alberi. Come più si raccolse all’intesa, [191] distinse qualche parola. Era la preghiera notturna delle sorelle, delle povere sole che piangono la vita e non sanno e cercano il loro Dio nel martirio, anzi un demone che le torturi per l’amore che non hanno avuto o per la pena della loro anima malata.
Cresceva e diminuiva in intensità; a una sola voce che intonava il cantico se ne aggiungevano cento altre ad intervalli uguali sì che pareva morisse e risorgesse di continuo come il mormorio del mare.
Nel silenzio del bosco, a traverso il quale trapelava a pena qualche bagliore dalla chiesetta sperduta nel suo cuore, quella voce dell’affanno umano aveva un sì doloroso incantesimo che Omero se ne sentì tutto compenetrare e stette in ascolto con la tensione con la quale si segue un grido implorante da una via silenziosa, da una tragica immensità di campi sotto la notte nera.
Non avrebbero chiesto aiuto? Perchè soffrivano tanto? Chi le faceva piangere, Iddio?
Egli non concepiva un martirio che si chiude inutilmente in sè stesso per giungere alla follia ed alla morte. Questa misera carne di cui ci vestiamo sotto al sole ha pure i suoi diritti! L’Ignoto che armonizzò le stelle volle per noi, nel nostro piccolo mondo, una simile armonia di amore e di pensiero, di passione e di elevazione.
Chi non sa vedere il Mistero dell’Universo in questa sua grande bontà, adora un mostruoso carnefice, un implacabile figuro sculto nella pomice, il quale si diletta di supplizi tantalici e la larga bocca ghignante, chini gli occhi triangolari, sogguarda esultando la sua bell’opera di miseria!
Iddio è troppo lungi nell’inconcepibile infinito. [192] La vela del nostro povero sogno, contesta di asfodeli, ci conduce a naufragare nei tranquilli mari della morte, molto lontano dai cieli del Signore. La grande soglia non si varca.
Il cozzo acerbo e continuo di mille civiltà, di milioni e milioni di uomini non ha destato neppure un tremito nella compatta soglia di basalto.
Chi ci dette un’armonia vive in noi; adoriamolo in noi e in tutte le creature.
La morte nulla ci toglie; ognuno reca con sè il suo mondo sotto il sole e nel poi.
L’amore, il semplice amore è la parola di Dio: adoriamolo in gaudio chè le sue vie sono innumerevoli, eterne di primavera. A lui solo soggiace il dolore ed il suo regno è l’eternità.
La prece lontana si spense ad un tratto senza che l’immobile taciturnità della notte ne fosse turbata. Così passa una stilla di rugiada fra i rami, così muore un mondo negli spazi oltresolari.
Omero ascoltava ancora. Vide spegnersi l’incerto bagliore che traspariva fra gli alberi. Le sorelle si allontanavano per un sentiero remoto nel bosco. Ascoltò più intensamente ancora ma non udì se non il fruscio sommesso che trascorre fra le rame; la notte, come se nimbi di invisibili ali si muovessero in un volo continuo; non udì che il rimbombo lontano di una grande porta rinchiusa. E pensò che anche Serenella avesse pianto laggiù fra le inconsolabili; pensò allo strazio della piccola sensitiva che sapeva amare con tanto ardore.
Non riusciva a spiegarsi tuttavia per quali singolari eventi ella fosse stata tratta a rinchiudersi in quel triste silenzio di chiostro; non era per lei la vita contemplativa e se aveva intrapreso il lungo [193] viaggio da Comacchio a Roma non era stato certo per isolarsi dal mondo. Il desiderio di consolar l’anima di lei in pena gli avrebbe fatto tentare prove insensate; ma il consueto equilibrio che lo reggeva gli consigliò l’attesa. Fra non molto avrebbe saputo e il provvedimento era sicuro perchè il cuore di Serenella non poteva essere diverso da quello che era lassù nella città adorna di vele e di antenne.
Volse gli occhi intorno, poi chiuse le imposte e si gettò su la piccola branda, per dormire; ma in quella improvvisa pace pensò ancora alle molte difficoltà che aveva superato per iscoprire il rifugio di Serenella; pensò a tutte le astuzie alle quali era ricorso per avvicinarsi ai conventi e parlare ai guardiani; pensò allo scoramento che lo aveva invaso allorchè tutte le prove erano fallite e all’improvvisa fortuna che lo aveva condotto lassù e gli aveva facilitato la strada facendogli trovare a guardiano del convento nel quale era rinchiusa Serenella, un vecchio amico.
Una soave tranquillità lo tenne e senza avvedersene passò da questo stato di riposo al torpore del sonno.
Pochi momenti dopo non udì lo stridulo battolìo della tempella che chiamava le religiose al coro.
[194]
Si udiva un tonfo monotono ed uguale sopra al mio capo; il tonfo di una sedia altalenante in un dolce dondolio di cuna. E una voce modulava una nenia di sonno mossa in un ordine di lunghi intervalli e di tristi cadenze.
Vedo su dall’Orïente
tre corone risplendenti:
porteranno per ristoro
mirra, incenso e un dono d’oro.
Come alzavo il capo per riposare un poco, la voce materna infaticata e soave fino al suo consumamento mi giungeva più chiara. La seguivo perchè mia madre mi era vicina, sorta dal suo silenzio per me, una volta ancora.
La donna che cantava così tutte le notti per addormentare il suo bimbo, non m’era ignota.
Da quando avevo lasciato la mia vecchia stanza, improvvisamente, di notte, per esser più certo che nessuno potesse spiarmi e mi ero stabilito in una [195] cameretta ad un quarto piano in via di Porta Salara, m’era apparsa tutte le sere, seduta su gli scalini della porta di strada, una giovane donna. Aveva sempre, abbandonata sul grembo, una creaturina di pochi mesi.
Le prime volte ero passato senza porre attenzione all’incontro; ma in seguito, notando come la sconosciuta mi osservasse timidamente, mi ero soffermato a guardarla ricevendone un senso di sorpresa. Quel viso non mi era nuovo, l’avevo veduto altre volte; ma dove?
Siccome non avrei saputo su qual punto di riferimento fissarmi per parlarle e siccome poteva darsi ch’io fossi giuoco di una rassomiglianza, vinsi la tentazione che avevo di rivolgerle parola. Una sera rincasando, trovai la giovane donna ritta su la soglia della porta di strada; pareva fosse là ad attendermi.
Non appena mi vide sorrise, poi, quando le fui vicino arrossì e disse:
— Non si ricorda di me? Ella fu buono con noi e trovò l’avvocato che difese mio padre. Mi chiamo Pavona.
Ora sì, mi tornava in mente; non eran trascorsi molti anni da quel tempo ma la mia vita era stata sì avventurosa! Mi era parso riconoscerla fin da principio, però non avrei saputo identificarla con esattezza tanto che non le avevo parlato per primo. Ora sì ora ricordavo tutto ed ero contento di ritrovarla tanto lontana dalla nostra terra.
Ella mi ascoltava sorridendo e gli occhi le si eran fatti più luminosi. Il bimbo le dormiva fra le braccia, la testa appoggiata su la spalla ed era sì grande il contrasto fra il volto pallido e consunto di lei e [196] quello bianco e roseo del figlio che pareva si fosse dissanguata, la misera madre, perchè la sua creatura fiorisse. E mi narrò — il dolce accento toscano scese come una musica; ell’era di San Benedetto dall’Alpe nell’alta Romagna — mi narrò con la concisione che è propria di tutti coloro che hanno sofferto e non conoscono la vanità del loro dolore, come, nonostante la difesa dell’avvocato al quale le avevo raccomandate, il padre di lei fosse condannato a tanti anni di prigione che ne avrebbe avuto per il resto della sua vita se pure resisteva a quello schianto.
Era stata una pena, uno struggimento da non si dire.
Parlava a bassa voce, con gli occhi chini, pareva temesse infastidirmi. Il suo respiro si era fatto più frequente, era come un anelito.
— Quando tornammo a casa, s’aveva il core in sospeso, si sarebbe rimaste sempre sole! Passarono giorni che non finivano mai, pareva cominciasse l’eternità! Poi alla mamma le si travolse il cervello e cominciò a piangere e urlare che ne rintronavano le selve. Io non aveva più sentimento di nulla; per tanti giorni è stata una passione continua; la mamma non parlava più; bisognava imboccarle il cibo, come ad una bambina. Qualche volta pareva pregasse; ecco che a un tratto si fermava incrociando le mani e mettendo il capo in seno, abbandonata. Il sonno non le tornò più se non per trasognare. I vivi le eran fuggiti di mente. E passaron così più di quaranta giorni. Li ho conti a goccie di sangue! Poi Iddio le fece la grazia e morì.
Si chinò a baciare lievemente, per non rompergli il sonno, il tondo visetto del suo bambino poi ebbe una ripresa simile ad un singulto:
[197]
— A contare tutto quello che ho passato da allora, sarebbe una leggenda da far rabbrividire!
E pianse mutamente, senza scosse, per la consueta pena.
Quant’era mutata dal mattino lucente in cui mi aveva dato allegrezza il vederla! Aveva fatto come la stagione che declina allorchè i giorni rilucono appena e c’è, nelle nubi, il sentore della neve e il vento ingagliardisce a furia. La sorella primavera era trascorsa, la dolce bocca di baci, e c’era rimasto di lei sì poco che un nulla è più ancora. Quando le nebbie si affoltano pare ch’ella non sia stata mai. Pavona, per il rapido intendimento dell’animo femminile, s’avvide del mio triste ragionare, ma tacque; tacque ed arrossì.
Ah pozzo splendevole d’acque chiare, pozzo di limpida vena d’un subito riarso dalle sabbie! L’arca tua nera non ha più riso, nè pianto, nè guizzi di luce, nè stelle; aperta contro il cielo come una bocca sitibonda, come un occhio spento, attende la vana promessa delle scorrenti nubi! Attende la promessa dei sogni come la vita nostra allorchè, spenta la giovinezza, amore sia dileguato con lei.
Altro mi disse Pavona della sua vita triste. Abbandonata a sè stessa aveva pensato al poi. Le era parso camminare su gli orli di una voragine perchè non aveva nessuno al mondo, nemmeno un parente che potesse accoglierla. Allora l’uomo al quale si era rifiutata sempre, per una sua selvaggia volontà di essere sola, di sentirsi sola chè il mondo le pareva più grande dell’amore; l’uomo ch’ella credeva offeso dalle sue repulse era andato a lei una volta ancora ed avean sposato. Dopo, era stata la loro vita come quella di tutti i poveri che poco hanno a [198] sperare; erano passati di patimento in patimento; di tribolazione in tribolazione. Giunti a Roma quando c’era lavoro, ora stentavano a tirare innanzi e se Giammaria non fosse stato cagionevole di salute la buona speranza di qualche giorno migliore poteva rifiorire; ma così?
Incontravo tutte le sere il dolce viso pallente, la giovinezza sfiorita e a notte udivo il suo canto materno nel quale l’anima pensosa si schiudeva quasi a seguire le vie di un pensamento di sogno sempre vivo e splendente simile a una vita interiore gettata oltre la morte.
Anche quella volta, come sempre, Pavona si tacque e si abbandonò al sonno allorchè giunse il suono di una campana che batteva le ore. Erano le dieci. La pace notturna si distendeva sempre più grande.
Dal mio tavolino, posto contro alla finestra, vedevo, levando gli occhi, un gran lembo di cielo stellato; negli attimi di sosta la fantasia mi rapiva in quegli abissi. Era la prodigiosa amica della mia solitudine, la madre inesausta che trae incantesimi e terrori dall’ignoto, e corre infaticata dalle viscere della terra ai gurgiti dello spazio; la generosa maga che sa il paese d’oblio e piccoli e grandi e vecchi trae con sè fra le sue magnificenze onde inebriarli di sogno, nei castelli levati in cima dei monti più in cima fra magici boschi azzurri.
La Signora dell’ideale giungeva a quando a quando a distogliermi dalla mia fatica diuturna. C’erano d’innanzi a me le luci degli altissimi astri, le parole del fuoco che è la voce dell’eternità e, perso nelle remotissime signorie di soli vermigli, smeraldini, azzurri; fisso su le effimere luci che avean [199] brillato nei gurgiti nell’inaccessibile, ai tempi in cui la marmorea mole di Roma era sacra al genio degli imperatori; attratto da quelle vertigini, il mio pensiero, tremante al limite del finito, ai confini del magico cerchio che natura ci prescrisse per l’armonia del nostro intelletto, vedeva con occhi nuovi la vita che ha dato a noi un niente de’ suoi tesori più numerosi delle arene dei deserti e delle goccie che formano gli oceani.
Tutto che la notte fugacemente ci addimostra scendeva alla mia solitudine, lassù, in quel nido isolato ed alto su le case ricurve, simile ad un camino che azzurri nastri di fumo ornano ed un sommesso pispiglio di passeri freddolosi allegra.
È dolce la sosta al pensiero costretto ad una lunga via.
Ero ritornato a’ miei studi che la morte di mia madre mi aveva fatto interrompere d’improvviso, e con vera gioia venivo constatando come nulla avessi perduto del poco che sapevo. La mia memoria si era afforzata e l’intelligenza era più agile, più disposta alla rapida comprensione, alla associazione e al dedurre. Ritrovavo il mio Io che tanto aveva amato, nei primi tempi della giovinezza, le lunghe veglie sui libri, che aveva cercato avidamente la sapienza ad ogni sua fonte e se ne era nutrito per soddisfare la continua bramosia di vedere un punto più in la nella vita degli uomini e del mondo. Allora le grandi biblioteche nelle quali le parole si accumulano in montagne, mi avevano incusso un sacro terrore perchè sentivo infinita la mia ignoranza fra quell’affoltarsi di sapere e credevo rinchiusa nel silenzio di quei volumi antichi e recenti, la spiegazione di ogni perchè, la soluzione di ogni dubbio, la pace [200] dello spirito, la tranquillità armonica che ricercavo anelando.
La Morte e Iddio, i due problemi terribili che facevano le mie notti insonni e tormentose, i due limiti fra i quali l’anima mia pensosa ed irrequieta si agitava senza posa scrutando, interrogando, avida di fede ma repugnante da ogni dogma, da ogni scuola, da ogni cieco aggiogamento ad un principio imprescindibile, mi stavano innanzi di continuo; e fra i sistemi filosofici che erano stati di alcuna pace agli uomini, cercavo il rivoletto tranquillo sul quale gettarmi prono per ispegnere l’avida sete. Inutilmente. Le parole, i pensieri guizzavano nella mia mente senza stabili bagliori; troppo lontano ricercavo la pace che era sotto agli occhi miei nel grande libro della natura. Allora non avevo imparato a leggervi, o meglio ne provavo l’estremo fascino senza comprenderne il senso. L’anima era traviata, raminga; andava come una vela dispersa, come una nube nel turbine: non aveva amato ancora.
Senza l’amore ogni astrazione è vana nè l’anima vi può riposare.
Ora avevo ripreso le diuturne fatiche di un tempo.
Un giorno me ne andavo lungo via Nomentana verso Sant’Agnese (erano trascorse due settimane dall’attentato di Sita ed altro avvenimento non era occorso) il caso, compagno degli uomini e della scienza, mi fece imbattere in un amico di vecchia data. Si chiamava Leonello Robbia e discendeva da una fra le famiglie più facoltose della città che aveva dato i natali ad entrambi. Si trovava a Roma a trascorrervi l’inverno. Conduceva vita elegante ed era annoiato perchè anche la noia è elegante e denota una certa superiorità di spirito. Così, secondo la Bibbia dei ricchi.
[201]
Eravamo stati compagni di scuola. Allora Leonello non pensava ad annoiarsi; era un caro ragazzo che due istitutrici esotiche, due rifiuti dell’estetica e dell’amore, non avevano tormentato tanto, da fargli dimenticare compiutamente la lingua italiana e da fargli perdere la sua bella franchezza di modi per ridurlo al tipo comune dei manichini bene allevati. Non era, a dispetto della sua condizione, nè un pappagallo, nè una bestiuola addomesticata secondo le rigide smorfie dell’etichetta. Amava le corse, le risate, i giuochi, ed aveva un cuor d’oro. Ci si voleva bene per il naturale accordo delle nostre anime. In seguito la vita ci aveva disgiunti.
Nonostante la lontananza che si faceva sempre maggiore per l’enorme divergere delle nostre condizioni sociali, ogni qualvolta ci si fosse trovati era una festa; ma le occasioni si eran fatte sempre più rare. Leonello viaggiava, spendeva le sue rendite; io consumavo inutilmente la mia giovinezza quale scrivano e galoppino di un avvocato che aveva il cuore di una talpa e l’intelligenza di una rana, ciò che gli fruttava naturalmente la stima dei più.
Erano forse cinque anni che non ci incontravamo quando il caso ci pose di fronte a Roma. Benchè ravvisassi subito nel giovanotto elegante che mi veniva incontro per il largo viale, Leonello Robbia, non volli esser primo a salutarlo per tema ch’egli potesse interpretar male il mio gesto. Proseguivo indifferentemente, allorchè mi giunse la sua voce che mi fu più cara di un tesoro, in quel momento e in quella condizione:
— Duccio?
Era ancora il buon amico di un tempo. Mi gettò le braccia al collo chè non ebbe ripugnanza de’ miei cenci.
[202]
Poi mi si pose a fianco; volle sapere tutta la mia vita e mi ascoltò con amore.
Mi parve rinascere. Qualcosa che era rimasto a lungo, troppo a lungo in fondo all’anima mia; una piena di affetti, di pensieri, di amarezze che non avevo potuto comunicare mai compiutamente ad alcuno, aveva trovato una via, poteva manifestarsi e irruppe. Il dolore mi fece eloquente. Vidi inumidirsi più volte gli occhi di Leonello.
La mia parola purificava tutta la volgarità alla quale ero stato costretto; mi pareva ch’ella mi coprisse di una nuova veste. L’anima usciva più pura da quella confessione; dal racconto in cui potevo liberamente, con piena certezza di essere inteso, tutto dire, manifestare libero il mio pensiero. Mi sentii più forte; l’entusiasmo e le lontane speranze ritornarono a frotte poichè la mia giovinezza risorse impetuosa e ringagliardita, pronta a nuove lotte per la sua ultima finalità d’amore.
All’indomani Leonello Robbia mi trovò un lavoro particolare, non troppo simpatico ma molto rimunerativo.
Una persona di sua conoscenza stava compilando uno studio su la vita e le opere di Seneca e voleva far seguire a tale studio una traduzione limpida ed esatta delle opere stesse; mancandogli tempo per condurre a termine sì ampio lavoro, mi proponeva occuparmi di tutta la seconda parte promettendomi un lautissimo compenso sul quale mi anticipava cinquecento lire affinchè potessi a tutto agio pormi all’opera.
Era l’attimo della fortuna e non ebbi esitanze. Sì come si pagava l’opera mia, avrei posto ogni forza intellettiva nel’curarne l’ottima riuscita. Inoltre non si trattava di una forma larvata di elemosina; il mio [203] orgoglio rimase tranquillo. Accettai assumendo l’impegno formale di presentare dopo due settimane, gran parte della traduzione compiuta e quando ebbi, coi danari riscossi, adempito alle prime necessità, come quella di cambiar casa, di rivestirmi, di comprarmi i libri indispensabili mi posi alla particolare fatica con novissimo ardore travagliando giorno e notte.
Le ore trascorrevano inavvertite. Ero contento. Serenella sarebbe giunta fra non molto; l’attendevo di giorno in giorno; di giorno in giorno aspettavo Omero che me ne annunciasse l’arrivo. Ella m’era vicina: la dolce figlia delle acque, la piccola pensosa che amore aveva guidato chi sa per quali vie di tormento. Come avevan mai resistito i piccoli piedi a tanto cammino? Non aveva ella lasciato tracce di sangue lungo il suo passare? Altre volte Roma chiamava le anime stanche così, da lontanissimi paesi per il fascino di un Dio che era nel cuore delle turbe; ora l’amore compiva il dolce miracolo.
Ferma nella sua fede la debole giovanetta era giunta fino a me per portarmi il superbo dono della sua tenerezza, della sua gioventù. E chiedeva un nulla: un poco di posto al mio lato, per riposare; una parola buona che la facesse contenta, nè avrebbe voluto mai che la legge giacesse fra noi inutile ombra avvincente.
— Quando l’amore è morto meglio è abbandonarsi.
Così aveva detto più di una volta lassù, nella terra sperduta; eppure anche se il dubbio di un abbandono le era passato per la mente, non si era lasciata turbare, e sola, fra i mille pericoli che la bellezza sua poteva farle sorgere innanzi ad ogni passo, era partita.
[204]
Perchè non veniva ora? L’attendevo con tanta trepidazione! A volte un sommesso picchiare all’uscio, un piccolo stridore della maniglia mi facevano dare un sobbalzo improvviso. Mi volgevo trattenendo il respiro per l’ansia di vederlo apparire avvolto nello zendado azzurro, quel suo bel viso di madonna!
Sita, la maledetta, era riuscita a nulla, piacendo al destino. Ora poco la temevo. L’ambiente nel quale era caduta non le serviva all’accusa chè non poteva sorgere da quel brago per vendicare su me, innocente, la morte di suo padre. Altra volta la giustizia, che vede troppo spesso con occhi di talpa, sarebbe stata facile arma nelle mani di lei; ora non più, Sita aveva intuito ciò nella sua perfidia cercando farmi sopprimere nella suburra. Il terribile fascino de’ suoi grand’occhi verdi ed ambigui sul viso bruno macchiato dalla violenza delle labbra rosse e sensuali; tutto l’incantesimo della sua bellezza imperiosa ch’era già stata fatale a Zalèbi, avevano facilmente inebbriato i figli delle strade; senza concedersi era riuscita ad incatenarli e tenerli schiavi del suo volere; ora non avrebbe potuto continuare il giuoco.
Così credevo e ciò mi era sorgente di tranquillità.
Anche per me sarebbe giunta l’ora soave della pace; la mia vita tribolata vi aspirava ardentemente.
Il canto dei galli mi fece levar gli occhi dalle carte. L’alba era sorta. Superato il sonno, nell’eccitamento del lavoro non sentivo più stanchezza; come altre volte non pensai a coricarmi.
Ad un tratto la porta si aprì e udii il grave passo della padrona di casa: una donna sesquipedale dal rotondo viso appoggiato su l’enorme mensola del seno e dagli occhi chiari fra il burbero e il benevolente. [205] Veniva tutte le mattine a portarmi il caffè; si soffermava dietro la mia sedia attendendo e come vedeva ch’io non le prestavo attenzione aveva sempre la stessa frase:
— Stra rusbugghiete mo’, num ddurmire![11]
Era abruzzese; donna di cuore e di silenzio. In molti mesi che vivemmo insieme tali furono le uniche sue parole.
Ne ho serbato memoria dolcissima.
[206]
— E questo che sarebbe? — chiese Giusto Sorani indicando, appeso al muro, una specie di calendario infarcito di incomprensibili segni.
— E che ne so? — risposi levando le spalle — siamo in pieno regno di magia, non vedi?
Oddo Spiro, il giovane siciliano, conversava in disparte animatissimamente con Sulpicio Alanna il quale, non sapevamo per quale insolita disposizione d’animo, pareva prestasse somma attenzione alle parole del bizzarro filosofo.
Lo Spiro parlava, come sempre, con somma rapidità accompagnando i lunghi periodi con gesti da spiritato.
— Oddo — gridò Giusto Sorani — quando avrai finito il discorso vorrai spiegarci, spero, che significhi questo affare.
— Quale affare? — chiese Oddo interrompendosi ad un tratto e volgendosi verso noi.
— Questo — riprese Giusto Sorani indicando il calendario — Da [207] un’ora Della Bella ed io ci lambicchiamo il cervello senza riuscire a decifrarne sillaba.
Oddo Spiro rimase un attimo in silenzio, sorrise e soggiunse:
— Due parole ancora e sono da voi.
Attendendo, esaminammo più particolarmente il curioso cimelio. V’eran notati tutti i trecentosessantacinque giorni dell’anno ed ogni giorno era suddiviso in cinque parti ed ogni parte aveva speciali annotazioni.
— Oggi è il venti gennaio ed è domenica — disse Giusto Sorani. — Guardiamo un po’ che diavolo ci tocca!
Si avvicinò al cartellone e lesse:
D. 20 Janv. — | Ciel | — Entrée du soleil dans le verseau. |
Terre | — Génie du Décan: Ptiau, Oroasoer. | |
Homme | — Influence de Ieialel. | |
Opérations | — Spécialisation de l’influence de Mercure sur le plan intellectuel (Uranus). | |
Memento | — 1556. Jean Dee adresse une mémoire à la reine Marie. |
— Sarà la cabala per estrarre i numeri del lotto — riprese come ebbe compita la lettura. — Costui è capace di questo e d’altro.
— Non lo credo — soggiunsi. — Oddo Spiro è un entusiasta ed è sempre in buona fede anche quando espone le maggiori strampalerie: anzi tanto più se ne anima quanto maggiori sono.
— Converrebbe ammettere ch’egli avesse una inverosimile capacità di fede; una specie di cecità involontaria [208] e ciò non è possibile. Oddo Spiro è un giovane d’ingegno.
— Ciò nulla toglie — risposi. — È un ingegno incline all’astrazione: un’anima avida di mistero; dotata di una ipersensibilità che noi non conosciamo.
— Allora è un allucinato! — soggiunse Sorani scrollando le spalle.
Tacemmo perchè Oddo Spiro e Sulpicio Alanna venivano verso noi.
— Quella — disse Oddo avvicinandosi —, è l’Agenda magica o calendario che serve di guida agli iniziati. Ogni giorno comprende quattro indicazioni essenziali: Nella prima sono segnate le posizioni degli astri indispensabili a conoscersi per compire le operazioni magiche; la seconda è riservata a certe festività particolari, ai genii di Décan e alle note personali dell’operatore; nella terza si trovano le operazioni magiche o ermetiche da eseguirsi in determinati giorni dell’anno e nella quarta è riportato qualche avvenimento importante come, ad esempio, la nascita di Santa Teresa al ventotto marzo; la condanna di Cagliostro al sette aprile; la morte di Shakespeare al ventitrè aprile e così via.
— Ah è un bel pandemonio! — conchiuse sorridendo Giusto Sorani.
— Ma niente affatto! — esclamò Oddo Spiro. — Questa necessariamente è la parte esoterica della dottrina, quella riserbata agli iniziati. Se vi deste la pena di voler sapere, vedreste che non si tratta poi di quell’oscurantismo del quale andate cianciando. Noi ci avviciniamo al mistero che vi impaurisce o vi lascia indifferenti e lo studiamo secondo i principii della scienza.
— È una metafisica pazza — disse Sulpicio Alanna scrollando il capo.
[209]
— Vedo che non vi ho persuaso — constatò tristemente Oddo Spiro. — Eppure mi era parso fin dal primo momento, per l’impressione che ho provato vedendovi, che le nostre anime fossero avvinte dal karma.
— Ahi! — esclamò Giusto Sorani aggrottando lievemente le ciglia.
Tutti demmo nel ridere, solo Oddo Spiro rimase serio, evidentemente contrariato dalla interruzione intempestiva.
— Ma sai che cosa sia il karma? — chiese rivolto a Sorani.
— Niente affatto — rispose quest’ultimo — ed è appunto per questo che ne temo.
— E perchè ridi allora?
— Per principio. Il riso è la magnifica difesa dell’ignoranza.
— Compenso meschino.
— Ma bello. I miei vecchi che avevano imparato a conoscere unicamente l’ombra e il sole, dicevano che il riso fa buon sangue. Io mi attengo al loro principio perchè amo la mia salute.
— La tua anima è serva del tuo corpo; è soggiogata dagli istinti bestiali che prediligi.
— Forse hai ragione. Io ho la tranquilla coscienza di essere un grazioso animale venuto al mondo per goder quel poco o quel molto che il mondo può dare, ne ho forse colpa?
— E non ti preoccupi della ricerca della verità?
— No. Guardo voi. Mi accontento del mio umile posto in platea.
Oddo Spiro sorrise crollando lentamente il capo dai lunghi capelli castani, spartiti a mezzo alla fronte in due grandi ali che condiscendevano in massa [210] compatta ad ombreggiargli il collo, poi tacque convinto dell’inutilità delle sue ragioni di fronte alla gaia indifferenza di Giusto Sorani.
Sulpicio Alanna ruppe l’imbarazzante silenzio.
— Ma ditemi, Spiro, credete seriamente alla logica de’ vostri studi?
— In apparenza tutto ciò che avete visto e che vi ho detto potrà sembrarvi illogico, eppure non è che la manifestazione naturale di cause che sono ancora ignote a noi.
— Del resto — soggiunse e gli occhi suoi si riaccesero d’improvviso per il grande entusiasmo che lo animava allorchè era tratto a discutere delle sue dottrine — del resto si trova logica l’azione della macchina elettrica che, isolata su piedi di vetro, trasforma in energia il lavoro meccanico; ma, con procedimento aprioristico, si trova più che assurda, addirittura pazza, l’azione del mago il quale, isolato al centro del suo circolo tracciato col carbone, trasforma in energia astrale il lungo e penoso lavoro di allenamento a cui ha sottoposto il suo organismo, e condensa la forza prodotta, nella palla metallica fissata al termine della sua verghetta di legno rivestita di vernice isolante. Tutto ciò, che sostengono i nostri contradditori, vi sembra coerente?
Si arrestò un attimo e continuò poi con maggior lena.
— E non si trova forse logica e razionale l’azione del parafulmine che attira ed attenua l’energia elettrica di una nube? E non si trova logica l’azione di una punta metallica che permette la dilatazione dell’elettricità contenuta nella macchina di Ramsden, o la direzione dell’ago calamitato che tende misteriosamente e costantemente verso un determinato [211] punto dell’orizzonte? Ma che un cultore di scienze magiche, armato di una punta metallica chiamata spada magica, spilli l’energia condensata in un agglomerato di forza astrale, no, non può esser logico per nessuno: per gli scienziati sarà un folle, un allucinato; per il gregge sarà un ciarlatano!
— Eppure — riprese fissando gli occhi al suolo — la follia dell’oggi sarà la sapienza del domani. Le forze su le quali agisce un cultore della magia sono dello stesso ordine al quale appartengono tutte le altre forze che agiscono in natura, e ubbidiscono alle stesse leggi! Noi non crediamo nel soprannaturale.
— Non è questione che di un lieve spostamento di termini — disse Sulpicio Alanna. — Comunque sia la vostra difesa è buona.
— Ma non vi persuade!
— Non siate troppo precipitoso, non è da scienziato! Non vi ho detto ancora che non possiate convincermi.
— Io non faccio il sacerdote delle mie idee — rispose Oddo Spiro — pur tuttavia non sarei meravigliato se il vostro spirito venisse a noi. In questi ultimi anni molti uomini di gran valore scientifico si sono dati all’occultismo, attratti dalle grandi verità svelate da questa antichissima scienza. Agli scettici i quali pensano essere i nostri studi vani sogni, potremo chiedere se la legge dell’evoluzione non debba applicarsi alle forze fisiche come si applica a tutta la natura e se abbiamo diritto di fissare limiti all’energia, sotto qualsiasi aspetto essa ci si presenti.
Trascorse una nuova pausa. Oddo Spiro si era animato di vivissimo rossore e pareva scosso da un tremito nervoso. Era il pensiero, in lui, come una [212] occulta fiamma di cui tutto il corpo vibrava. Anche quel giorno il giovane teosofo vestiva semplicemente di nero senza palese cura; nessuno fra noi lo aveva visto una sola volta indossare abito diverso.
Giusto Sorani lo accusava di portare il lutto delle sue malinconie trascendentali, altri aggiungevano ch’egli voleva assumere una cert’aria sacerdotale; comunque fosse, viveva la maggior parte del suo tempo nell’isolamento mostrandosi di rado nella società de’ suoi simili e anche quando compariva era di preferenza taciturno vinto forse dal terribile scetticismo degli amici suoi.
— Quando ci conduci nei penetrali? — chiese Giusto Sorani.
— Anche subito — rispose lo Spiro — ma prima voglio una promessa.
— E quale?
— Ciò che vedrete non turberà certo la vostra immaginazione predisposta allo scherno, nè la vostra coscienza muta, ch’io direi ripiegata su sè stessa in una terribile oziosità. Rimarrete indifferenti e ciò non mi preoccupa; vi prego però di non ridere: la cosa mi offenderebbe. Ogni idealità, come tentativo di elevazione dell’anima nostra, è sacra.
— Vi prometto che Giusto Sorani non muoverà critiche di sorta — rispose Sulpicio Alanna.
— E te lo prometto anch’io — soggiunse Giusto.
Allora si avviò innanzi, verso una porta celata da una pesante cortina rossa.
La stanza da studio dello Spiro era molto semplice. Su le pareti bianche, a calce, oltre l’agenda magica erano appesi i ritratti di Eliphas Levi, di Camillo Flammarion, di Hoene Wronski, di Eugenio Dus, di Charles Fauvetry, celebri cultori delle scienze [213] occulte. In disparte, sotto la piccola finestra celata da tendine color di cielo, era un tavolo ripieno di teschi, di storte, di alambicchi, di antichi volumi rilegati in pergamena e di altri oggetti, sacri già alla memoria degli alchimisti medioevali. Nel lato più buio della stanza era situata la scrivania su la quale giacevano carte e libri a catafascio; di fronte alla scrivania pendeva dal muro una enorme croce nera.
Osservai ancora, posato su l’uscio della camera segreta, un gufo reale che ci sogguardava fissamente dai grand’occhi gialli dall’espressione ondeggiante fra il terribile e l’idiota.
— Possiamo entrare? — chiese Giusto Sorani.
— Non ancora — rispose dall’interno Oddo Spiro.
Dopo non molto le cortine si levarono come per incanto e ci trovammo innanzi una piccola stanza tutta nera nella quale di primo acchito non distinguemmo se non una livida fiammella oscillante e un fumo bluastro e luminoso che si disperdeva sfioccandosi per l’aria. Si distinse poi, al bagliore incerto di una lampada a spirito, una lunga tavola ricoperta da un tappeto nero. Al centro della tavola era posta una stella circondata da sette cubi e ai quattro lati sorgevano: un vaso di vetro; una coppa; un fornello a spirito e una lanterna magica la quale proiettò ad un tratto il suo fascio di luce sui vapori uscenti dal fornello e ne trasse magnifiche iridescenze.
Dietro la tavola, su la parete tappezzata di panno nero, mi parve scorgere il miraggio di uno specchio situato ad arte sì da rendere come un incantesimo indefinito di tenui luci lontananti nello spazio.
— Questo è l’altare magico — disse Oddo Spiro dall’ombra.
[214]
Secondo la promessa data, nessuno fiatò. Ci aggruppammo su la porta, vinti da una curiosità nuova per le cose che avremmo vedute ed udite.
— La magia — riprese Oddo Spiro — è l’applicazione della volontà umana dinamizzata alla rapida evoluzione delle forze viventi della natura. Qualsiasi operazione magica deve comprendere almeno il seguente rituale: Dinamizzazione della volontà dell’operatore per mezzo del desiderio; purificazione degli oggetti impiegati; evocazione delle influenze benefiche dell’invisibile (angeli planetari e angeli delle ore); congedo.
Sentii il braccio di Giusto Sorani premere fortemente il mio; se non era per la promessa data non sarebbe stato improbabile che il gaio incredulo avesse rotto l’incanto.
— Passo sulla prima e sulla seconda operazione — continuò il dolce mago — e cioè sulla dinamizzazione della volontà e su gli oggetti impiegati; tali argomenti meno potrebbero interessarvi e mi soffermerò sulla invocazione degli spiriti benefici. Tutte le operazioni debbono essere compiute durante il periodo della luna crescente. L’operatore, ricoperto delle sue vesti sacre, tiene nella mano destra la verghetta e nella sinistra la spada e si pone nel perfetto centro del circolo magico tracciato sul suolo. Al suo fianco ha situato un braciere contenente carboni ardenti sui quali viene proiettando incenso mentre pronunzia la seguente formula sacra: Nel nome di Iod, Iah, Iaô, Ieve; Adaii, Eloim, Aglaon; la cosa ch’io domando si compia per volontà mia e per volontà degli spiriti invisibili dell’Astrale!
La voce di Oddo Spiro giunse dall’ombra con tanta vigoria ed ebbe una intonazione sì strana di orgasmo [215] e di paura che Giusto Sorani si strinse al nostro braccio e non si tenne dall’esclamare:
— Gesù mio, salvateci voi!
Gli tappammo la bocca. Oddo Spiro non intese e continuò:
— Pronunciata tale formula l’operatore potrà bruciare una carta sulla quale avrà scritto il suo desiderio dinamizzato per mezzo dei caratteri geroglifici del tetragramma posto ai quattro angoli della stessa carta. In seguito conviene invocare il genio del giorno e il genio dell’ora. A operazione compita si congedano gli spiriti ringraziandoli in nome di Dio onnipotente.
Cadute le quali ultime parole, le cortine si riabbassarono e la camera magica disparve agli occhi nostri.
Ognuno di noi sorprese sul viso del compagno un muto sorriso.
— È una forma di ciarlataneria — disse a bassa voce Giusto Sorani.
— Credo lo Spiro in buona fede — soggiunse Sulpicio Alanna. — D’altra parte questa tendenza dello spirito non è nuova, riappare in tutte le epoche di maggior scetticismo e di disgregazione morale. Roma ha conosciuto i suoi maghi ben altre volte in tempi ben più grandi di questi e la città di tutti i misteri e di tutti gli Iddii non può essere sorpresa dalle cabale, dagli altari e dalle evocazioni del nostro mago. Non ostante il grido di Orazio, Roma pagana credeva nel meraviglioso; i sogni e i miracoli l’esaltavano. Il poema di Manilio su l’astrologia ebbe a quei giorni numerosissimi lettori. Tiberio proscrisse gli indovini, li fece battere, imprigionare, li uccise ma nello stesso tempo non sapeva farne senza [216] e segretamente ne invitava qualcuno a’ suoi palazzi. La magia di allora come quella d’oggi, affermava essere in possesso di segreti per mezzo dei quali costringeva alla sua volontà le forze della natura e degli stessi Dei. Essa pure faceva risuscitare i morti. I nostri lontani progenitori attraversavano, ai tempi di Tiberio, una crisi dello spirito la quale ha molti punti di contatto con quella che agita il nostro secolo. Cadevano le antiche credenze, il cristianesimo era ancora un’alba troppo pallida; allora come non mai, nella cieca furia della tempesta imminente, le anime che per la scuola degli stoici avevano imparato a sorridere degli antichi idoli, ricercavano qualcuno, qualcosa che appagasse la loro sete di soprannaturale; tutto era buono, tutto veniva accettato con cieca fede; chi più sapeva ingannare più era considerato. Oggi avviene un po’ la stessa cosa. Si è insistito tanto e con tale assurdità nella negazione, che si finirà per credere ciecamente alle più strambe malinconie finchè un nuovo forte grido non sorga a raccogliere il gregge disperso. Per ora io non vedo simile possibilità. La Chiesa decrepita non risponde a’ suoi figli nuovi e d’altra parte non potrebbe. Il campo è e rimarrà libero per molto tempo ancora; Oddo Spiro potrà fare molti iniziati.
— Forse nei manicomi! — esclamò sorridendo Giusto Sorani.
— Anche fuori — aggiunse Sulpicio Alanna.
— Ma per studiare un qualsiasi fenomeno è forse necessario tutto quell’apparato ciarlatanesco?
— Ti risponderanno che quelle sono le uniche condizioni in cui il fenomeno possa manifestarsi. I procedimenti antichi non farebbero breccia su la sensibile anima moderna. Ricorderai, nella Farsalia di [217] Lucano, il racconto di quella maga la quale, invasa da sacro furore, si gettava sui moribondi, sussurrava loro ciò che le piaceva ordinare alle potenze infernali poi, fingendo baciarli, li uccideva. La stessa maga, dissotterrava i morti obbligandoli a rispondere alle sue domande; toglieva loro gli occhi e compiva impunemente orribili nefandezze. Oggi le cose hanno cambiato aspetto. La parte essoterica dell’occultismo moderno non è più popolare, rivolgendosi essenzialmente a spiriti raffinati ha ricorso a forme più raffinate rimanendo identica la sostanza.
Si interruppe; Oddo Spiro era ricomparso. Notammo l’estremo pallore di cui era diffuso il suo bel volto di adolescente.
— Non vi sentite bene? — domandò Sulpicio Alanna.
— È nulla — rispose Oddo Spiro. — Tutte le volte che invoco i genii di Décan, l’emozione troppo forte mi lascia un poco spossato; ma faccio presto a riavermi; l’aria libera mi è un balsamo salutare. Usciamo?
— Certamente — rispose Sulpicio Alanna.
— A che ora abbiamo l’appuntamento con Leonello Robbia?
— Alle cinque, sul piazzale del Pincio — rispose Giusto Sorani — Non c’è da indugiare, mancano pochi minuti all’ora fissata.
Poco dopo percorrevamo la luminosa strada che dalla Piazza dell’Esquilino si lancia in linea retta fino a Santa Trinità dei Monti e si avvalla e risorge in un superbo giuoco di prospettive superando tre colli; chiusa ai termini da due steli granitici sacri alle vittorie di Roma.
[218]
***
Giù, dietro la cupola di San Pietro, gigantesca nei cieli come l’ardimento del genio che la volle, il sole, in una incomparabile ricchezza di luci, salutava la nostra terra che si volgeva verso i diademi stellari. L’ammaliamento del sommo fuoco non mai si era disteso più vasto e superbo fra nuvole ed aria a coronare la città dei magnifici.
Immensa su l’ondulare dei sette colli lanciava Roma l’arditezza de’ suoi fastigi contro la luce che li facea di basalto ed ora appariva in una cima obliquamente, ora scuriva avvallandosi come sul turbine di un mare percosso dai venti occidentali. Dietro la sua compagine, l’ultimo fantasma solare era scomparso fra un alto intercolunnio di rigidi cipressi.
Permase all’estremo cielo, nel punto sul quale le piccole cose del mondo dileguano, una vasta raggiera che si innalzò in un diffuso nimbo quasi a proiettare nell’aria, un’ultima volta ancora, la grande ombra del sole. Dall’invisibile fuoco sorse l’armonica forma stellare e le bianche nubi che spuntavano dall’oriente si orlaron di fiamma. La luce si mantenne viva per qualche attimo in uno splendore che non ebbe graduali morbidezze (chiuse l’orizzonte un lieve color ferrugigno digradante in toni d’oro e di perle fino all’alto azzurro) poi l’incantesimo vesperale si diffuse per la concava vastità.
Fu dapprima una gialla ammantatura di bellezza oltremirabile che ebbe fulgori di topazio; ma per un niente: alle estreme radici illividì; trascorse come un tremolìo d’ignee goccie, subentrò una banda più [219] cupa che per le gradazioni dell’ametista e del berillo salì all’intensità del vermiglio; vinse le prime nubi che si sciolsero in corone di granati; portò, sui monti orientali, nimbi di incognite aurore.
Allora fu che l’Urbe apparve agli occhi nostri indimenticabilmente.
Alta sui palazzi e le chiese, su gli obelischi e le torri, più agile dei colli perchè più sola nel vuoto, la cupola di San Pietro vegliava. Da Piazza del Popolo, ultima armonia in cui si muore il digradante Colle delle Palme, prima ed oltre l’invisibile Tevere, pareva che gli edifizi in graduale ascendere mirassero all’irraggiungibile sommità. Sculta in un monte di bronzo, tratta divinamente dall’informe e costretta in un segno, come un mondo dalle disperse energie, stava, a simiglianza del ricurvo dorso di un ciclope, il fastigio della somma basilica.
Monte Mario si erigeva in fondo coronato da suoi neri cipressi e intorno: la mole di Castel Sant’Angelo, le cupole e le torri di San Giacomo e di San Carlo, l’oscura massa del Pantheon e più lontano la colonna di Marco Aurelio, la torre del palazzo Senatoriale, l’ardua facciata di Santa Maria in Aracœli si levavano nere e rossigne dalle valli o dai colli.
Altre chiese e palazzi e case si stringevano aduggiandosi, affoltandosi, costrette in una oscura marea; solo le antenne fulgevano nei cieli traendo dalla cupa vita dell’ombra tutta la loro forza di impero.
E in fondo, ultima scolta sui deserti della campagna, i cipressi del Palatino, i pini del Gianicolo stavano, enormi tede accese alla gloria del morto Iddio.
In quell’attimo portentoso non si intese parola; ci eravamo soffermati innanzi alla balaustra come su [220] la prora di un antichissimo naviglio colti dallo stupore nel quale annega ogni piccola vanità umana: sperduti nella mirabile visione. Il tempo era spento per noi. L’eternità vive dell’attimo.
L’anima nostra esulò in quel cielo d’intensissimo fuoco sul quale Roma imperava.
Poi l’incanto decadde. Il cielo svariò, ammorbidì angelicandosi. Un’infinita gamma di toni si svolse. Vi furon laghi di smeraldo leggermente crocei ai bordi; nubi ch’ebbero il color delle opali, albe di luna nel sereno splendore; nubi rosee a vene grige, altre di una candida morbidezza di ermellino; archi di luce velati da vapori lattei fino all’estremo occidente dove, su le cose evanescenti appena, si distese una rosea dolcezza di paesaggio invernale.
E decadde ancora, sempre più: ogni tono si fuse nell’ultimo languore violaceo sul quale gli aspetti apparvero tuttavia, lievi ombre irradianti, per disperdersi poi come il sole sotto il soffio della prima stella.
Poi, d’improvviso, balzò dalla nascosta città un torrente di luce perlacea. L’anima notturna di Roma si levava dilagando.
Giungemmo in silenzio fino a piazza Santa Trinità dei Monti. Leonello Robbia si era aggiunto a noi, camminava al fianco di Sulpicio Alanna.
Trascorrevano, frusciando appena, le ultime vetture signorili; si udiva distinto il tonfo delle unghie dei cavalli e il lieve sobbalzare delle gomme sul lastrico ineguale.
Da Piazza di Spagna salivano affrettandosi e volgevano per via Sistina, gruppi di operaie; altra gente giungeva dal Pincio e si univa al fiotto continuo, traboccante, per via Capo alle Case, ai quartieri alti [221] o a Piazza San Silvestro. Il rombo e il tintinnio dei tramway elettrici lanciati per la rapida erta di Porta Pinciana giungeva frammisto al rombo saliente della città in moto. Tutti si trovavan per le vie a quell’ora: poveri e ricchi, ammiranti ed ammirati, domati e domatori a fianco a fianco e pur tanto lontani gli uni dagli altri, più soli che per deserti.
Oddo Spiro andava un poco innanzi, solo.
Si era già soffermato ad ammirare, come soleva ogni qualvolta passasse innanzi a Villa Medici, la bella fontana che sorge a chioccolare nella sua gran vasca rotonda sotto il folto domo che forman le rame dei lecci su lei avvinchiandosi e aveva pronunziato qualche incomprensibile parola mentre gli occhi di lui arridevano sfolgorando — ora procedeva pensoso, astratto, le mani annodate dietro le reni, levando il capo a quando a quando per guardare innanzi a sè ed evitare i possibili ostacoli. Era il tipo più strano ch’io mi avessi conosciuto fra i tanti che avvicinavo in quel tempo; strano sì per il complesso di esteriorità bizzarre, come per il temperamento che aveva alcunchè di inafferrabile e disorganico. Il nome stesso denotava ch’egli non era solo della sua stirpe ad amar le stramberie.
Il viso un poco pallido era composto in una linea di virile bellezza; gli occhi azzurro chiari non avevano mai quella luce di voluttuosa letizia ch’è sì propria ai begli adolescenti i quali sanno precocemente l’amore; ma riverberavano la continua pensosità di un’anima tormentata. Sorrideva di rado; parlava a scatti e, a volte, troppo a lungo, come era solito di rimanersene muto per qualche ora. Le stesse ineguaglianze regolavano le sue apparizioni fra noi che per giorni e giorni era assiduo ai nostri ritrovi e lasciava [222] poi trascorrere lunghi periodi senza farsi vedere. Allora Giusto Sorani lo diceva viaggiante nelle regioni dell’Astrale.
Amava circondarsi di mistero; rispondeva alle domande nostre con sorrisi ambigui e con parole evasive passando la bianca mano gemmata sui lunghi capelli castani. Tale gesto gli era abituale sì nell’intimità come su la cattedra da conferenziere. Era uno fra i più accesi apostoli della Teosofia alla quale era stato conquistato dalle prediche di un bramino. I maligni sussurravano ch’egli si fosse lasciato sedurre più dalla strana veste che dalle parole del sacerdote del Budda perchè in quel tempo Oddo Spiro non conosceva la lingua inglese adottata dal gaio indiano per le sue prediche.
Comunque fosse, ben presto salì in grazia delle esotiche signore le quali, nella loggia teosofica romana, occupavano i gradi più elevati della gerarchia buddistica e la fortuna di lui fu fatta.
Associò poi alla pura morale del Budda le pratiche del magismo, chiamò la scienza a far parte del connubio e si fece sacerdote della miscela. Siccome era bello, le signore di tutti i continenti convenute a Roma a formarvi la strana baraonda di cosmopolitismo femminile di cui la capitale si allegra, gli prestarono fede. Da quanto più lontano giungevano e quanto meno conoscevano la nostra lingua, tanto più erano disposte a vedere in Oddo Spiro un nuovo messia. Egli si accontentava temporaneamente di quel suo corteo di comete sperando in messe più larga nell’avvenire. Sperava anche poter sovvolgere Roma, la moderna Roma città dei pacifici. Così, senza alcuna fede, credo, ma con l’intima speranza di insinuare qualche dubbio nell’anima nostra, ci [223] aveva fatto convenire alla particolar seduta dalla quale eravamo usciti qualche tempo prima più tranquilli che mai.
— Povero Spiro — disse Giusto Sorani — pare sia sempre sotto il fico di Bhodimanda a meditare come il suo maestro su la triplice scienza!
— Miss Twopower — soggiunse a bassa voce Leonello Robbia — ha parlato di lui a Gino Spada con parole entusiastiche.
— Gran mercè, quella vecchiona in guarnellino e in sottano non avrebbe a far la Monna Schifalpoco innanzi a tanta grazia di Dio!
La perenne allegria di Giusto Sorani trasse il discorso ad altri argomenti ai quali partecipammo per la gaiezza che li informavano.
Si giunse così, a passo a passo, ai Prati di Castello, dinnanzi al villino di Eduardo De Diensi. Quella sera eravamo convitati dal raffinato edonista per conoscere una nuova etera apparsa da poco a Roma.
Innanzi al cancello che separava il giardinetto dalla strada, Leonello Robbia mi chiese:
— Ci sarà anche il tuo onorevole?
— Non credo — risposi.
— È da madonna Primavera — soggiunse Sulpicio Alanna. — Non parlate dell’onorevole Miaggi?
— Sì.
— Dà un convito per madonna Primavera, su, al nuovo villino che le ha fatto costruire ai quartieri Ludovisi. Ne parlava oggi, da Aragno, Enrico Deral.
— Era invitato? — chiese ironicamente Giusto Sorani.
— Se ne parlava non poteva essere altrimenti. Si esalta la decorazione per farsene cornice.
— Il dolce esteta! — esclamò Sorani — Chi sa [224] quali asfodeliche bambagerie avrà inventato per trar madonna Primavera a’ suoi sospiri.
— Non si attenta. L’onorevole Miaggi è di una gelosia furibonda e se il pover’uomo ha l’intelligenza di un montone è, in compenso, uno schermidore a tutta prova!
— Che bel conflitto! Lo immaginate? Il grande Miaggi, il grosso Miaggi piantato su quelle sue gambe antiche da glorioso ponte romano; così, in eroico atto di sorpassare una corrente vorticosa, il braccio disteso, la mano dal nero vello ferma su la guardia della spada, la faccia obliqua, corrugate le due atre pennellesse su gli occhiettucoli rossigni, l’ampia bocca che il riso scataverna, serrata nella dura linea della rabbia e, di fronte a lui, Enrico Deral, lo sterpo di chiospa, l’azzurreggiante debolezza, pallido d’insueto pallore, il viso oblungo, le braccia povere coserellucce, natanti nelle maniche soverchie della camicia cospicua; la bianca mano, opera di angelical perfezione, constretta nella costellata guardia del ferro ancipite; fermo nell’atto sovrastante con grazia misurata e alquanto tremebonda. Immaginate tale conflitto degli estremi posti di fronte da Monna Primavera....
— A proposito — soggiunse interrompendosi — v’è fra noi chi sappia il perchè il gentilissimo nome della donna del Cavalcanti sia stato affibbiato ad una impudica ètaira?
— Chiedilo ad Oddo Spiro — disse Leonello Robbia.
— È opera tua? — soggiunse Giusto Sorani rivolto al taciturno.
— No — rispose Oddo Spiro.
— Eppure l’Ines non deve conoscere la letteratura del trecento!
[225]
— In ciò sta il meraviglioso! — esclamò d’improvviso Oddo levando il capo e le braccia. — Ella si chiamò così una sera mentre era in uno stato ipnotico, noi presenti. Lo spirito le suggerì il nome gentile che le fu poi conservato.
Oddo, Giusto e Sulpicio si avviarono su per le scale luminose. Leonello era rimasto un poco indietro con me.
— Ed ora — mi chiese — non lavori più per l’onorevole Miaggi?
— Bisogna gli serbi riconoscenza — risposi —. Grazie alla tua cara amicizia è stato il primo ad aiutarmi. Senza l’aiuto dell’onorevole Miaggi chi sa quante altre amarezze mi sarebbero toccate! Del resto paga cara la vanità di apporre il nome su cose non sue; ma non si lamenta. A me non costa troppa fatica il lavoro che mi chiede, poi mi rimane tempo da dedicare agli studi miei.
— Lavorerai molto?!
— Un poco, sì; ma, come vedi, non ne sono affranto se ho in mente le distrazioni. Il tuo mondo mi seduce, è così nuovo per me, mi abbaglia.
— Te ne stancherai presto.
— Chi sa? Lo conosco troppo poco. C’è qualcosa che assopisce in tutta questa mollezza, qualcosa che addormenta e mi pare temerne talvolta; ma è troppo più forte la gioia che me ne proviene.
Eravamo giunti alla vasta anticamera che si apriva al sommo delle scale, illuminata da una ricca lampada in ferro battuto. La luce scendeva tenue e varia pei vetri colorati. Giungevano, da una stanza vicina, accenni musicali destati come da una mano che, tutta lieve, scorresse la tastiera di un pianoforte. L’aria era tepidamente primaverile. Un senso [226] di benessere, un’intima ebbrezza m’invase; avevo la chiara sensazione di risorgere, di rinascere; il mio sangue era sospinto da una nuova giovinezza aperta a un subito vento d’infiniti desideri ignoti al mio spirito per l’innanzi. La via percorsa si oscurava; le cose del passato dileguavano; la gioia mi aveva chiamato alle sue ricche soglie e m’invitava nel suo regno di incantesimi.
Ero giunto come un ignaro che stupisce dapprima, si adombra, teme poi, affinatosi un poco, anima di tutto il suo entusiasmo la nuova vita che lo accoglie. C’era tant’ombra, tanto male appena un passo dietro me (sì vicino che ne sentivo tuttavia la soverchiante minaccia); era stata sì fiera la mia prova che me ne tornava l’incubo nel sogno. Quante volte ho rabbrividito pensando ricadere! Quante volte un’onda di pessimismo, ridotto a vana speranza qualsiasi affidamento sul mio ingegno, mi dimostrava essere io zimbello di un’effimera fortuna che poteva volgersi da un attimo all’altro per lasciarmi sul punto di prima nell’aspra lotta per il solo pane! Eppure il contrasto mi rendeva più bella la conquista.
Si era dischiuso innanzi agli occhi miei, all’anima mia, sitibonda di sensazioni nuove, una via impensata che avrei voluto percorrere con la vertigine del desiderio. Mi pareva allora che tutta una vita non sarebbe stata sufficiente a comprendere in sè gli infiniti aspetti della gioia. Volevo dissetarmi, essere ebbro; un’ansiosa concupiscenza mi sospingeva per tutti i miei sogni che tornavano ad arridermi vicini, nel campo del possibile. Avevo la fede dell’ignaro, la semplicità del solitario.
Era trascorso qualche mese dal mio primo incontro [227] con Leonello Robbia; lavorando con assiduità da benedettino avevo condotto a termine in poche settimane il breve studio esegetico su le opere di Seneca e, incorato dai guadagni e dalla stima dei nuovi amici, avevo compito, per conto mio, altre piccole cose, le quali, per la loro freschezza nuova, avevano sollevato una certa curiosità intorno al mio nome. Ciò mi valse quale titolo per entrare nella società che praticava Leonello Robbia. Vinta la prima renitenza, il nuovo ambiente mi sedusse; ne vidi unicamente l’orpello.
E vivevo dimentico a volte, a volte in aspra lotta con me stesso. Oh anima mia tormentata; piccola nave sobbalzante sul fiotto della vita!
Per due volte Omero era salito al mio quarto piano per dirmi che Serenella mi aspettava, che egli l’avrebbe fatta uscire dal convento quando io lo desiderassi e per due volte l’avevo pregato attendere scusandomi col presentare un poco lieto quadro delle mie finanze.
— Sta bene — disse Omero e vidi gli occhi suoi farsi d’un subito freddi come l’acciaio. — Sta bene, verrai quando ti piacerà. Sai dove trovarci.
Era partito senza aggiungere parola e da quella volta non era tornato più.
Trascorse un mese senza ch’io salissi la solitaria via dell’Aventino; il lavoro assorbente mi fu valida scusa, blandì il rimorso.
— Andrò — mi dicevo — non posso affrettarmi. Ella sa ch’io lavoro per lei.
In vero un sentimento tutto nuovo sorgeva in me di giorno in giorno più forte e mi costringeva al suo fascino. Un’egoistica freddezza s’impossessava del mio pensiero, di tutto l’essere mio il quale, in un [228] nuovo ardore, aspirava all’intera sua libertà. Non volevo limitare la mia vita al poco, precludermi le vie di gioia che si schiudevano; starmene nell’ombra col tormento di non aver vissuto mai. Era troppo arida la mia bocca ed avida, sitibonda si appressava alla ricca fonte del piacere. Per gli occhi miei tutto era nuovo: gli aspetti, gli uomini, le cose e, alla prima meraviglia, era subentrata nell’anima mia una ferma volontà di partecipare alla squisita raffinatezza di vita che avevo intravveduta.
La giovinezza è un volo, un rapido volo pei cieli: avessi potuto compierlo almeno in un grido festoso e salire salire fin dove l’occhio più spazia. Non mi sarebbe mancata forza a reggere al mio ardimento.
La turbolenza di un tempo che mi aveva sospinto ad emigrare dalla mia terra per il sogno della fiera libertà, si ridestava, saliva agitandomi, mi sospingeva verso l’ignoto nel quale era tutta la gioia, l’unica gioia non trovata mai, pensata solo nell’ardore di qualche desiderio superbo. Un nuovo orizzonte si dischiudeva per me ed io non avrei saputo volgere gli occhi altrove, pensare al passato, ritornare su’ miei passi per conchiudere volenterosamente la mia giovinezza entro un fissato confine. Ma se avevo avuto sempre in orrore i limiti? Se era, l’anima mia, come un’acqua che deve defluire perennemente per serbarsi limpida? Quale sentimento, quale egoismo potevano costringermi al giogo, all’inerzia, alla morte? Andare sempre, come diceva l’insegnamento del mio rude maestro, di terra in terra, senza meta, e soffermarsi appena per riposare, e riprendere la strada verso il punto lontano nel quale la sorella buona ti attende al limite delle nebbie per condurti alla grande soglia, questa la vita!
[229]
Così, non altrimenti volevo. Tutto l’essere mio consentiva in un impeto gagliardo in tale volontà. Temevo la solitudine forse? Quand’anche tutti mi avessero abbandonato e la miseria, ed ogni dolore, ed ogni sofferenza fosse giunta con le sue più sottili torture a martirizzarmi, non mi sarebbe rimasta l’anima mia che il male non lede, che è come il puro fuoco eterno? Solo, con lei, avrei potuto morire sdegnosamente, sotto l’ombra di qualche albero taciturno proteso su la mia via solitaria.
Ma che cosa mi aveva chiesto Serenella? Niente. Taceva nella sua quiete senza interporsi, senza avvertirmi della sua presenza; così sarebbe morta tutta chiusa nel suo sogno d’amore come in una suprema virtù dell’essere. E non era in tale silenzio della creatura debole e mite, un vero eroismo?
Chi sa fra quali stenti aveva errato per raggiungere il suo bene che ora le sfuggiva. Io dimenticavo. Innanzi a me era la vita, ma Serenella era sola, nel silenzio di un chiostro ed altro non poteva sperare s’io le fossi mancato. Non era piuttosto un freddo egoismo e una sciocca ribellione che mi sospingevano a trascurarla?
Inoltre ella era un’anima ed una coscienza e una forza; taceva per il suo giusto orgoglio ed io vedevo in lei il dolore disceso nel mondo a dimostrare la superba divinità dell’amore.
A volte tale insistenza del pensiero di lei che definivo allora sentimentalità morbosa, mi indispettiva; ma perchè non avrei dovuto raggiungere il pieno sviluppo della mia personalità? E s’io cedevo alla voce del cuore, non mi sarei perduto in una incessante penosità di vita, non avrei dovuto rinunciare, per i nuovi obblighi dell’unione mia con Serenella [230] a tutto ciò che poteva promettermi l’avvenire? Non mi sarei precluso mille vie, non avrei soffocato in me molteplici volontà le quali avrebbero potuto nel poi, rivolgersi in odio contro lei che nulla intuiva di tale mio grande tormento?
Mille tentazioni mi assediavano, mi erano d’attorno per assillarmi di continuo; meglio era ceder loro per liberarmene.
E una sera volli esser sincero con me stesso e mi chiesi s’io l’amassi ancora; se tutto il mio tergiversare non fosse l’ultimo risultato dell’amore morto.
No, così non era, non l’avrei dimenticata. Ora più che mai sentivo di amarla perchè un’avversa corrente mi trascinava lontano da lei. Erano in me due anime: l’una sitibonda di vita, eternamente insoddisfatta, chiusa ne’ suoi desideri per un’egoistica volontà irrefrenabile; educata dalla violenza degli elementi ebbri di una libertà che non trovano se non nelle tenebre del caos; l’altra rinchiusa nell’armonica concezione dell’amore per cui tutto rifulge che è vita.
E si soverchiavano in una lotta che non aveva tregua onde seguiva la mia eterna vicenda del giungere e del ripartire.
***
— Verrà? — chiese Leonello Robbia.
— Forse sul tardi — rispose De Diensi.
— E.... è molto bella questa tua Sara?
— Divina, semplicemente divina!
— È bionda?
— No.
[231]
— Bruna?
— Non voglio togliervi la verginità dell’impressione. La vedrete.
— Come mai rinunzi, una volta tanto, all’arte della tua parola?
— Me ne sarete grati. La bellezza di Sara non si descrive. È come un impeto di sole: abbaglia.
— E.... particolari su la sua vita?
— Nessuno.
— Ma da quale parte viene?
— Non si sa.
— È italiana?
— Credo.
— E chi l’ha lanciata?
— Il marchese di Narva; ma per un caso strano che vi racconterò poi. Certo ella è pari al mistero che l’avvolge. Io ne ho ancora accesa la mente e il sangue. Sul conto di lei corrono le più strane leggende.
— Per esempio?
— Si dice ch’ella sia un’emissaria di una nazione estera. Sarebbe venuta in Italia con importantissimi incarichi.
— Davvero?
— E ha fatto capo al marchese di Narva? — chiese Giusto Sorani, incredulo.
— Vi ho detto che è una leggenda. D’altra parte tutto ciò le forma una cornice simpatica. Sara, per conto suo, parla pochissimo, si direbbe quasi muta e non fa male, conserva intatto il fascino della sua bellezza.
— Che ne dici Oddo? — chiese Giusto Sorani volgendosi al giovane che stava seduto in disparte senza interloquire.
[232]
— Egli è puro — rispose il De Diensi — non ha peccato ancora, ciò che vuol dire ch’egli è un raffinato della concupiscenza.
Oddo Spiro non rispose, alzò gli occhi verso una riproduzione della Vittoria di Samotracia ed ebbe un sorriso ambiguo. Si era abbandonato sui ricchi cuscini di un divano situato nell’angolo più oscuro della vasta stanza ottagonale rivestita di tappezzerie stile rinascenza; dietro lui ricadevano le ricche pieghe di una tenda di seta olivastra a disegni azzurri.
Eduardo De Diensi volse un poco il viso composto e gelido, bello nella sua linea classica, ed animato stranamente dagli occhi, neri come l’onice; fissò Oddo Spiro e riprese:
— Eppure potreste avere la vostra giovinezza ricca di tutti i tesori; nulla vi si negherebbe perchè possedete il massimo fra i beni: la bellezza.
— È cosa effimera — rispose Oddo Spiro.
— È tutto! — soggiunse De Diensi attardandosi su le parole quasi a compiacersi del suono della sua voce, la quale aveva, come quella del flauto, squisite morbidezze e cadenze dolcissime.
— Per voi edonisti è tutto, non per noi. Io vorrei già essere vecchio per aver raggiunto quel termine di sapienza che vedo sì lontano ancora. Può forse commuovermi un bene passeggero? Dovrei rinunziare all’infinito bene della conoscenza per la semplice grazia di un’ombra? Voi vivete di vanità, anzi vi siete fatti una veste della stessa vanità. La vita vi accieca. Noi siamo reincarnati per redimere le colpe della nostra passata esistenza. Solo coltivando l’ideale che è in noi possiamo costituirci il futuro destino. Inoltre gli esseri umani non sono che le cellule [233] dell’umanità; ora un uomo non può essere assolutamente felice finchè altri uomini soffrano. Per me ciò è assiomatico.
E dopo una pausa soggiunse:
— Vorreste forse negare anche la nobiltà della mia fede?
Eduardo De Diensi sorrise. Era appoggiato al pianoforte e veniva togliendo da un fascio di alburni che emergevano da un’anfora di cristallo azzurro, qualche corolla. Rispose volgendo gli occhi verso i fiori:
— È sempre nobile il motivo che vi spinge a compire una cosa sciocca.
— Ed è per raggiungere il tuo ideale — soggiunse Giusto Sorani — che hai turbato il sonno secolare della piccola Creperèia Triphaena?
— Chi è questa tale? — chiese curiosamente, sporgendosi, Leonello Robbia.
— Io vivo di quella memoria — rispose Oddo Spiro impallidendo. — Il mio amore è nell’infinito con lei. Io so che innanzi a quell’arca fredda in cui la sua giovinezza spenta posò tanti secoli or sono, un acerbo dolore si risvegliò nell’anima mia. Non ero, come tutti voi, di fronte ad una cosa muta, estranea che non ha altro valore se non quello dell’antichità; io mi trovavo ricondotto alla sofferenza di una vita molto anteriore. Voi non potete intendermi. Io la venero, sì, la piccola Creperèia. I parenti la coprirono d’oro quando fu morta, io le copro l’arca di fiori e le porto le mie parole più belle. Questa purezza vi offende, lo so; voi impiegate la vostra forza nervosa nel soddisfacimento di basse aspirazioni di passioni inferiori, io spiritualizzo il mio ideale. La mia gioia vi è estranea come la breve arca bianca nella quale [234] posa il corpo di lei, la sua polvere. Ella ha raggiunto le regioni dell’Astrale ed io l’ho eletta a mia guida nel cammino difficile di questa vita e per ciò che le feci soffrire quando visse, tanto più soffro ora. Non potrete intendermi, ma il mio amore ha la purezza delle cose eterne, è come un fiore degli astri, vorrei morirne!
Appoggiò i cubiti ai ginocchi; nascose il viso fra le palme. Le sue dita, internandosi fra i capelli, li divisero in ciuffi salienti.
— Voi vivete in un inganno — riprese Eduardo De Diensi — ed io non vorrei distogliervene. Vi siete composto un sogno meraviglioso e folle sul mistero dell’irreale e irridete noi. Siete troppo giovane ancora per dire: di qui non passerò. Certo è, e ne converrete forse, che il profondo mistero della terra è nel visibile.
Dopo una breve pausa riprese:
— Voi esaltate e osservate la castità credendo seguire una superior legge della natura e di qui ha principio l’inganno. La natura se ha una voce e una legge l’esplica continuamente nel grido del piacere. Tale è la sua volontà imprescindibile, imperiosa, sopraffacente. Se vi prenderete la pena di considerarla un poco, potrete accorgervi che è l’unica volontà che dobbiamo intendere con piena intelligenza. Anzichè combattere il piacere e cercare un continuo martirio che non vi condurrà mai ad alcun profitto e vi farà aspro e con voi e coi simili vostri, cercate la compiuta soddisfazione dei desideri che germogliano, che rampollano numerosi dall’anima vostra come i fiori dal mandorlo allorchè giunge la primavera; concedete a voi stesso ogni cosa che possa piacervi: solo quando sarete soddisfatto potrete [235] dire di esser buono ma con voi, non coi vostri simili. Che cosa può significare per l’anima vostra codesta massa amorfa? Voi siete solo nella vita e non potrete essere inteso mai dagli uomini che vi stanno intorno, immersi nelle tenebre. Gli uomini sono, nella maggior parte, spiriti meschini combattuti da antiche, sciocche paure. Iddio li minaccia dal cielo; la società su la terra: fra lo spavento delle due mani tese vivono compressi, sciocca nidiata implume. Vorrete esser da tanto? Vorrete mutilarvi, rinnegare voi stesso? Aggiogarvi alla ferrea catena secolare? Unirvi al nero gregge che va per il suo brago dalla cuna alla tomba? Ah! ascoltate il grido della vostra giovinezza; assecondate l’impeto del piacere; fate a qualunque costo di tutti i vostri sogni una meravigliosa realtà. Non vi avvelenate nella rinunzia cieca. Il martirio che vi imponete oggi potrebbe esservi amaro, troppo amaro domani quando l’immonda vecchiaia verrà a deturparvi il volto con le sue mani adunche e scioglierà la vigoria della vostra persona, e vi farà una brutta, una orribile cosa dolorante alla quale non vorrà togliere la triste eredità del pensiero. Voi credete nel peccato; ebbene, se vorrete essere sincero, non potrete nascondermi di aver peccato con l’intenzione. La cosa è brutta, rientra nel dominio dell’ipocrisia. L’atto stesso che chiamate peccato, qualunque esso sia, è, per me, un lavacro di purificazione. È un tormento che cade.
Si interruppe ancora; sedette sul divano disposto vicino al ricco pianoforte; trasse da un astuccio dorato una sigaretta, l’accese e dopo aver aspirato il fumo azzurro riprese:
— Non voglio persuadermi però; sarebbe immorale. Non voglio in qualsiasi modo farmi di voi una [236] eco dell’anima mia. Mi permetto consigliarvi: d’altra parte so troppo bene che non intenderete.
— Ditemi — disse Oddo Spiro levando il capo — e con tutta franchezza: la vostra coscienza non vi turba mai, non vi lascia perplesso talvolta?
— Volete dire la coscienza come movente morale? Non mi turba, no; per me è cosa perfettamente trascurabile. Io so che se una volta sola avrete il coraggio di vincere il Medioevo che vi opprime e commetterete un grosso peccato per il quale potreste mettere in piena rivolta Iddio e la Società, ritornerete allo stesso peccato più volte, con gioia sempre nuova. Questa è la verità semplice. Noi viviamo in un eterno inganno.
Sulpicio Alanna che era rimasto fino allora silenzioso, intento a sfogliare, innanzi al pianoforte, lo spartito di un’opera di Wagner, levò gli occhi dal ricco volume:
— Ognuno vive secondo l’inganno che più gli conviene — disse. — Tu stesso non senti la sincerità delle dottrine che esponi.
— Io sento la loro bellezza e ciò mi basta. La sincerità può essere talvolta degli apostoli, è sempre un dono dei poveri di spirito. Bisogna rinchiudersi nell’angusto ambito di una qualsiasi morale per essere sinceri e questa è già una povertà di spirito. Io non mi preoccupo affatto delle vostre finzioni. Un uomo, se è una persona di ingegno, comincia con l’ingannare sè stesso per raggiungere la sincerità della sua finzione; rinunzia a una gran parte possibile di godimento; si imprigiona. Bisogna provar tutto, foggiarsi a tutto con uguale indifferenza. Una cosa sola è degna di esser presa sul serio ed è il tuo Io. Ciò basta. Non sentite forse tutto il ridicolo [237] di chi assume seriamente un qualsiasi atteggiamento morale? Vi sono nemici dei pregiudizi che non s’avvedono di esserne schiavi; spiriti liberi che la morale incatena. Il controsenso è frequentissimo e passa inavvertito. Pochi hanno il coraggio di vivere all’infuori di ogni legame; unicamente per il loro piacere.
— E quando la giovinezza sarà trascorsa? Quando il piacere avrà esaurito tutti i suoi fascini e la sua tentazione scuoterà invano il tuo corpo disfatto allora la tua fredda logica non ti sarà tormentosamente amara?
— No — riprese sorridendo Eduardo De Diensi — no perchè non avrò rimpianti. Potrò guardare sorridendo al mio passato. Io svolgo il mio sogno d’arte nella mia vita. La bellezza per me è una cosa tangibile, vive al mio fianco, è mia. La visione di questa armonia ch’io compongo per me stesso nel breve periodo che natura ci concede per la gioia, mi accompagnerà fin ch’io viva. L’artista, normalmente, rinunzia a tutto per gli altri e si appaga del contributo di ammirazione che il gregge gli tributa; credi forse ne valga la pena? Perchè avvizzire l’anima tua ponendola a contatto con quella de’ tuoi contemporanei che non la potranno intendere? Che ne sa dell’amore e del piacere tutta questa gente che è volgare anche quando si uccide? Ma tendi un poco l’orecchio alle voci che ti giungono dal basso: sentirai, ovunque volga il capo, i piagnistei della pietà, la quale, oltre essere un sentimento inferiore, è la perpetua esaltazione di tutto ciò che è brutto, deforme, schifoso. Viviamo in un secolo che si allontana dalla bellezza, che non ne conosce il benchè minimo aspetto; in un secolo povero e ributtante; meschino [238] e vile in cui l’altruismo è levato a grido fra piangevoli querele e grottesche minacce. Che cos’è mai un altruista se non una piccola medusa che assimila i colori del gran mare e vi si perde? Abbiamo perduto il senso della gioia e del riso; solo l’insuperabile Grecia ne conobbe tutto il valore e lo esaltò. Ora l’uomo conosce ed esalta il suo pianto; è quindi la più meschina fra le creature nate. Che vale affannarsi e cercare la sua approvazione? A che ti servirebbe la tua intelligenza in tal caso? Io ti ripeto che può dirsi unicamente un organismo superiore quello che cerca moltiplicar la vita fin dove lo assista la sua potenzialità; e ascolta la voce dell’unica madre; e tutto accoglie in sè senza nulla concedere alla volgarità della folla. Siate come la quercia millenne: ella estende intorno le radici per un raggio immenso e nessun’altra pianta può crescerle vicina perchè tutti i succhi della terra salgono alle sue cime. E si lancia sotto ai cieli al di sopra di tutte le cose viventi e veggenti: è forte, è unica; il regno dell’azzurro è suo. Se la morte si sofferma a’ suoi piedi ella ride. L’anima di lei è in alto, sotto gli iridati archi del cielo. Per l’altezza che ha attinto non può volgersi a sogguardare le cose che gemono nell’ombra che getta su la terra. Il suo destino è il dominio, la sua legge è la gioia di vivere. Ella adempie il suo diritto alla vita possentemente e quando la folgore l’abbatta, precipiterà nel grido della sua grand’anima solitaria e ancora le piccole cose intorno a lei ne temeranno.
Dopo una brevissima sosta riprese:
— No, la vecchiaia e la morte non saranno per me tormentose se potrò vivere così, come la quercia fatale.
[239]
Nessuno disse parola poich’egli tacque; ognuno di noi parve acconsentire. Così non era. Il fascino ch’egli esercitava ci lasciava stupiti come sotto l’azione di un narcotico. Dalle sue parole si dipartiva un profumo strano. La voce languida e penetrante, accesa da una musicalità voluttuosa, sapeva le vie per le quali si scuote la mente e la si intorpidisce nel fascino, e gli occhi di lui assecondavano lo squisito suono delle parole; pareva che tutta l’anima sua, accesa e tranquilla, vibrasse nel breve arco di quelle pupille nere in un profondo senso di gioia.
Mentre parlava, avevo osservato tutti i volti intenti al delicatissimo suono delle sue parole; era una conquista lenta e sicura. L’anima sua si espandeva in noi come un’onda di armonia, senza impeti sopraffacenti, invisibile essenza propagantesi per virtù maliarda. A volte mi sentivo scosso come se una voce mi avesse tolto dal sonno di soprassalto; un profondo turbamento avveniva in tutto l’essere mio; ogni pensiero era sovvolto da quella concezione edonistica della vita. Una nuova ebbrezza mi stordiva.
— Alanna — disse Giusto Sorani — aspettiamo ancora il duetto del Tristano.... siici cortese!
— Anima la superba strofe del senso, te ne sarò grato — soggiunse De Diensi.
Nel silenzio i primi accordi si tolsero lievi, si espansero dolcemente preludiando all’indicibile spasimo d’amore. Poco tenne il sospiro chè crebbe incalzando, si perse nel magnifico canto in cui il Titano raccolse la sua passione, la passione del mondo. Socchiusi gli occhi; vidi gli oggetti lontani svanire pigramente nella penombra. Un’aureola d’oro scendeva dalle lampade elettriche, foggiate in vivi grappoli di strani fiori iridati, ad arricchire i [240] contorni delle cose. Vidi un antico paravento di cuoio di Cordova, un’anfora di agata nebulata entro la quale cadevano sfogliandosi alcune rose gialle, un lembo degli arazzi dai vivi colori di fiamma (gli oggetti che mi erano più vicini) disperdersi in quella luce calda e diffusa.
Un sottil senso di piacere dilatava l’anima mia; ogni rigidezza dileguò dinanzi dalla mia mente per il fascino del canto divino che si innalzava accendendo una voluttuosa letizia. Dava tanta dolcezza il soavissimo grido che ogni viso intorno ne smoriva. Come chiusi gli occhi, Serenella mi riapparve.
***
La cena offertaci da Eduardo De Diensi volgeva al suo termine e l’animazione era grande.
— Non giunge ancora la tua vaghissima incognita? — chiese Giusto Sorani. — Io ne ardo già prima di conoscerla. Deve avere qualche pregio singolare se può piacerti.
— L’unico pregio che possano avere le donne è quello di essere decorative e Sara è meravigliosamente decorativa.
— È interessante?
— Interessantissima perchè sa assolutamente nulla.
— È troppo poco — disse Oddo Spiro.
— Ciò che basta perchè possa piacere. La sua insipienza le fa nascondere la terribile superficialità del suo sesso. Ella tace.
— Una bella statua, allora! — esclamò Leonello Robbia.
— Ti pare poco? — soggiunse Giusto Sorani.
[241]
— Riducete a una miseria del senso anche l’essere più gentile che ci abbia dato Iddio! — gridò Oddo Spiro scattando.
Un breve riso accolse le sue parole.
— Ma se affetti di essere misogine? — ribattè Giusto Sorani.
— Non potete intendervene — aggiunse Sulpicio Alanna — perchè, stando alle vostre dichiarazioni, anche il vostro amore persegue l’irreale. Suppongo non abbiate scambiato mai parola con Creperèia Triphaena!
— Non turbate la sua pura memoria — ribattè vivacemente Oddo Spiro. — Non è questo il luogo nè l’ora più adatta a parlarne. Vi prego. Il mio amore è un sogno e sta bene; ma ho accostate anch’io molte donne del mio secolo e non ne ho riportato l’impressione disgustosa....
— Ma niente affatto disgustosa! — interruppe Giusto Sorani.
— È un ragazzo incorreggibile — soggiunse De Diensi sorridendo.
Oddo Spiro strinse il capo fra le spalle e tacque. Furon servite le frutta e corse ancora per le scintillanti coppe cristalline la bionda effervescenza dello champagne. L’animazione del conversare si faceva più viva.
Sulpicio Alanna aveva composto coi tralci d’edera e coi fiori di cui era cosparsa la tavola una ghirlandella bene contesta.
— Vuoi coronarne De Diensi? — chiese Giusto Sorani.
Alanna si levò dirigendosi verso una statua di Antinoo che sorgeva nella penombra della sala, compose su la fronte dell’efèbo, che la follia di un [242] Augusto divinizzò, la sua ghirlandella e disse rivolgendosi:
— Alla gloria di tutto ciò che è straordinariamente bello!
— E al prestigio della Bellezza quale fatto assoluto; divina e tangibile espressione del Piacere! — rispose De Diensi.
— Fate che non vi senta Oddo Spiro! — esclamò Giusto Sorani.
— Per conto mio non v’intendo nè mi piacerebbe intendervi — rispose Oddo — Noi ci troviamo agli opposti poli; non sarà mai possibile un qualsiasi punto di contatto fra noi.
— Credo che Duccio della Bella, il taciturno — riprese guardandomi — tenda piuttosto alla mia via anzichè alla vostra.
— Io vivo nella mia perfetta indifferenza — risposi —. Tutto mi interessa perchè è nuovo per me. Mi guarderei dal prendere un qualsiasi partito precipitosamente.
— Della Bella fa dell’arte ma non saprebbe viverla — aggiunse Giusto Sorani.
— Come vedi, tento partecipare alla vostra vita!
— Quale curioso.
— Certamente. Sarebbe ingenuo pretendere che un uomo potesse spogliarsi del suo passato come di un nulla.
— Sapete — disse Leonello Robbia — Albula, la ninfa delle maremme, ci abbandona.
— E dove va? — chiesero in coro i compagni.
— Segue il suo pittore, il russo, che se n’è invaghito perdutamente e la sposa.
— Glie lo avrà promesso — disse Giusto Sorani.
— E terrà fede — soggiunse Alanna. — Questi [243] stranieri sono a volte prodigiosamente ingenui e profondamente morali.
— Del resto la stessa sorte è toccata ad Annuccia ed a Bibiana — riprese il Sorani.
— Bibiana? Quella che sposò il pittore malese? — fece Leonello Robbia.
— Lei. Era tanto bella! E quel ceffo obliquo l’uccise!
— Fine sentimentale che invaghirà chi sa quante altre! — commentò De Diensi — Le donne ti amano tanto più quanto più le tratti crudelmente. La loro intelligenza inferiore non concepisce che la schiavitù. Ucciderle, nel loro concetto, significa adorarle.
— Bibiana non era affetta da romanticismi — disse Leonello Robbia.
— Come le venne in mente allora di abbandonare la gaia comitiva per seguire quell’Otello mongolico? — chiese Sulpicio Alanna.
— Era ricchissimo.
— Poteva procurarsi bene altrimenti la ricchezza. C’è sempre qualche unione molto più elegante del matrimonio — conchiuse a commento Eduardo De Diensi.
— Si dice fosse innamoratissima del suo Malese.
— Che donna noiosa allora! — riprese De Diensi —. Una fra le tante che hanno troppo spesso su le labbra la parola sempre e mirano all’eternità! Sono le più terribili nemiche dell’uomo; lo distruggono semplicemente; gli tolgono ogni personalità. Qual’è mai quel sentimento che non debba aver termine? Conviene sapere apprezzare il passato, lasciargli un fascino. Solo una nullità può amare una volta sola e la grande passione è il patrimonio dei meschini. La donna è un essere grazioso appunto perchè dimentica [244] facilmente, in massima. Questo è il suo fascino maggiore. Dopo tutto anche l’amore parsimonioso, è cosa che può divertirci.
A questo punto un servo si accostò a parlare sommessamente al De Diensi il quale rispose:
— Falla entrare.
— È Sara? — chiese Giusto Sorani.
— Credo sia lei.
— Benvenuta, benvenuta!
— Brinderemo alla sua bellezza!
— Ed al suo silenzio!
— Me ne son creata una immagine strana; mi aspetto vedere una maga — disse Sulpicio Alanna.
— Non ti inganni — rispose De Diensi.
— Di quale colore ha i capelli?
— E gli occhi?
— Saranno foschi, immagino, — disse il Sorani — foschi e profondi e terribili nella voluttà!
— Immaginate una lucida malachite stupendamente venata di nero — esclamò De Diensi. — Io non ho visto mai cosa più bella!
— Sono un poco obliqui?
— Hanno la grazia di una foglia di loto.
— Ricorderà Rodopis!
— No, una bellezza egiziaca!
— Venere Anadiomène!
— Eccola! — sussurrò De Diensi.
Tutti tacquero. Ci rivolgemmo protesi. Le portiere ondularono lievemente, poi si scostarono levandosi in due bande e nell’armonico vano apparve l’incantevole bellezza.
Ebbi l’improvvisa sensazione di perdere tutto il mio sangue; un intensissimo gelo mi corse per la nuca, per le reni; mi levai scattando e feci per gridare:
[245]
— Sita, Sita! — ma gli occhi suoi, ch’ebbero un inusitato lampo di preghiera, mi trattennero, mi avvinsero.
Ricaddi a sedere. Ella avanzò fra le voci che l’acclamavano.
Aveva una veste del color verde tenero delle acque; sbocciava la persona da quell’involucro lieve, in tutta la sua bellezza altera. La gran fiamma rossa de’ capelli si spartiva a incorniciare la grazia del pallido viso alabastrino, quasi immobile, fermo in un segno di dominio. Gli occhi verdi, grandi, obliqui, mettevano subite luci ed ombre cupe su la freddezza di quel viso, e così le labbra vermiglie, stranamente accese. Era alta, magnifica; pareva discesa da una reggia. Negli occhi di lei come in tutta la persona era la forza imperiosa che l’avea condotta sempre a trionfare.
E l’udii parlare (anche la voce era grave e dolcissima) e vidi con quale tatto sapeva reggersi tra quei raffinati.
Destò in breve una comune follia.
Sul tardi, mentre sfogliavo un volume, in un salottino attiguo alla sala del pianoforte, sentii all’improvviso il soave contatto di un braccio nudo che passava attorno al mio collo e una voce carezzevole vicina al viso:
— Duccio?
Mi volsi. Sita era curva su me. Ah maravigliosa maschera d’amore!
— Mi perdoni? — mi chiese e vidi il sorriso de’ suoi denti bianchissimi su le labbra vermiglie troppo vicine al mio volto. — Ho sofferto tanto; mi perdoni?
Ella scendeva nel mio sangue, mi stordiva.
[246]
Si avvicinò ancor più.
— Non mi tradire! — sussurrò; poi la sua bocca come una morsa tenace mi baciò, mi morse su la bocca; le sue braccia mi strinsero nella loro carezza fremente; i suoi grand’occhi si arrovesciarono leggermente.
La fatale maliarda aveva gettato il terribile incanto. Vi caddi abbrividendo come per il bacio della morte.
[247]
A quando a quando si volgeva a guardarla. Ella era seduta su la soglia di una fra le piccole case che sorgono, circondate dai campi e dagli orti, intorno a Sant’Agnese; volgeva la faccia al tramonto.
Si udiva dietro una incolta siepe il continuo scroscio dell’Aniene.
— Come ti senti?
— Così!
Ascoltava. Il tramonto desta sempre qualche eco nel cuore degli uomini; vi sono anime che rispondono al muto invito del sole morente.
— Non vuoi andare alla chiesa?
— Sono stanca, Omero.
— Hai dormito questa notte?
— Un poco.
— La medicina non ti ha giovato?
— Non l’ho presa.
— Perchè?
— È inutile, Omero; mi farebbe peggio.
— Ma bisogna guarire!
[248]
— Mi basta il bene che mi volete: guarirò.
Egli si volse a battere ancora, col pennato, su le rame secche dell’olmo. Il suono della rude arme villereccia parve più aspro. I grossi rami precipitavano ai piedi dell’immobile tronco; parevano braccia recise agitantisi nello spasimo della morte.
Ella lo guardava fermo nell’alto. Il capo irsuto e l’ampio torace e le braccia si stagliavano contro il nitore del cielo mentre, dalla cintola in giù, il resto del corpo si perdeva nell’ombra. Si era aperto il duro cortice dell’olmo a nutrire lo strano germoglio. A sommo del tronco scapitozzato si levava sul cielo il tronco umano; due cose fuse mostruosamente in una. La secolare rigidezza della pianta martoriata, costretta nella miserevole corona de’ suoi contorti bronchi, si era ridesta a dar vita alla divincolante forma in cui trovava voce possente il suo eterno dolore. La schiava della terra e delle creature maledette da Dio, provata all’impeto degli elementi e al pennato e alla scure e pur sempre pronta a dar la fresca letizia del verde ad ogni primavera, aveva tolta agli uomini la rapida forza che scaglia, che abbatte, per levarsi terribile vendicatrice fra le sorelle. Tropica e nuda contro il cielo vegliava e, sopra lei, roteavano i falchi su le adeguate ali, nei cieli altissimi.
Le campane di Sant’Agnese suonarono a vespro. Trascorse, si distese per le campagne remote la squillante soavità dei suoni; raggiunse le cose lontane, le ombre che dileguano con la luce, le ultime dimore sperdute su l’agro deserto. Vi sono solitudini su la terra e sul mare che non odono, per volger di anni e di anni, altro suono se non quello affiochito, appena percettibile, di remotissime campane. Ogni sera, [249] se il vento nol tolga, allorchè il sole discende nell’estremo nido, giungono per l’aria, non si sa da qual parte dell’orizzonte; hanno attraversato e miglia e miglia, giungono a morire, pellegrine dell’ignoto, nella silenziosa vastità. L’uomo che non ha tregua e cammina e cammina per monti, per pianure, per deserti e nulla vede innanzi a sè e, dietro le spalle, le sue sole orme vede; l’uomo che non ha fratelli, le ode talvolta e si arresta levando gli occhi fieri a scrutare se appaia con esse l’ombra del Dio favoleggiato. Leva gli occhi e la faccia (il tuo tragico segno, dolore!) la faccia forte, affocata, in cui le rughe si addentrano come solchi nei campi, l’occhio s’infosca saettante, e la guancia lanosa si contrae su l’ampia mascella lupigna, a ricercare un sogno che gli è rimasto nell’indomito cuore dalla lontana infanzia: il tuo sogno, la tua dimora, il tuo profondo mistero Iddio degli astri, sempiterna speranza! Poi riprende il suo andare. Non più nei cieli chè su la terra ha sentito un fratello; il mondo s’infosca nell’anima sua abissale con la singultante bestemmia che scoppia dal suo gonfio cuore tribolato e cammina, cammina, cammina, sempre più sperduto con l’ombra sua bistorta, verso i deserti polari il più grande fra gli uomini ed il più solo: l’anarca.
Passò il sogno crepuscolare e Serenella lo intese nell’ondante armoniosità del vespro; chinò il capo alla prece consueta. Ella credeva in Dio con la sincerità di una bambina e pensava i suoi padiglioni d’oro nell’immensità. Quella sera le salirono alle labbra parole nuove e le mormorò perchè il Grande Spirito le intendesse; parole che sapevano d’amaro, che ella non avrebbe confidate se non a Lui. Si sentiva tanto male! Voleva nascondere ad Omero la verità [250] per non accorarlo; ma invero, da qualche tempo pensava che forse il cammino era più poco ancora.
Una notte, fra Fano e Sinigallia, lungo la riva del mare, era stata assalita da una fiera tempesta dalla quale non aveva potuto difendersi in alcun modo ed era cominciato allora il consumamento. Forse sarebbe guarita in seguito perchè non era tanto debole da lasciarsi sopraffare dal male: ma che valeva curarsi?
Non aveva tristezze languenti, nè si doleva con sè stessa della sorte sua, per compiangersi; abbandonata alla corrente fatale recava con sè il suo amore più grande della vita.
Ad Omero non aveva chiesto nè dove io mi fossi nè che mi dicessi: era giusto il mio silenzio, aveva preteso troppo da me; come avrei potuto convivere con una piccola ignorante par sua? Non mi sarebbe stata di continuo impaccio? La vita era troppo grande a Roma, non era come laggiù, nella città delle vele, tutta racchiusa nella semplicità dell’amore. Ella era partita solo per rivedermi e, chi sa? forse mi avrebbe riveduto per dirmi addio; per dirmi la soave parola che non pesa, che non avvince, che nulla chiede. Se l’amore era morto, era inutile ritentare; non si riconduce l’acqua ai boschi delle sommità; tutto ha un termine.
Un giorno aveva detto a suo padre, Giovanni della Nave:
— Babbo, i pellegrini vanno a sciogliere il loro voto all’Alpe lontana; lasciatemi partire, babbo; anch’io ho un voto da compiere.
— Vuoi andar sola?
— Vado con le compagne.
[251]
— E chi rimane a casa per noi?
— Teodora penserà a tutto; me lo ha promesso.
Giovanni tacque.
— Mi lascierete andare, babbo?
— E quando tornerai? — le chiese Giovanni fissandola intensamente.
Ella reclinò il viso:
— Tornerò con le compagne, non so quando.
— Iddio sia con te — conchiuse il padre. Ella si inginocchiò a’ suoi piedi.
Qualche giorno dopo si unì alla comitiva degli scalzi e, come un’alzavola, prese la via degli orizzonti.
Fra le compagne c’era anche Sita. Sostarono una volta in una città del piano, vicina a un grande fiume. Fino a quel giorno, Sita non le aveva rivolta parola.
Ora Serenella doveva abbandonare la comitiva perchè altra era la strada del suo sogno. Stava silenziosa in disparte allorchè udì una voce improvvisa che la scosse:
— Dove vai?
Si volse e vide l’ambiguo volto della maledetta.
— Vado a Roma — rispose fissandola negli occhi senza timore.
— Ti aspetta laggiù?
— Mi aspetta.
— Lo saluterò per te; credo ch’io giungerò prima.
— Salutalo e digli che porto un caro dono per lui.
— Che cosa? — fece Sita sorridendo.
— Il coltello di Zalèbi! — Si frugò nelle vesti e ne trasse l’arma lucente che fece scintillare all’altezza del viso pallidissimo.
— E digli anche — riprese — digli ch’io vado sola [252] nel nome di Dio; digli che non ho paura perchè questo amuleto è con me!
Sita si era fatta da parte; vedeva negli occhi di Serenella un lucore sinistro; non si sarebbe attesa simile impeto dalla creatura mite. L’odio e l’amore l’avevano trasfigurata.
— Quando parti? — le chiese ancora Serenella.
— Questa notte.
— Con la diligenza?
— Sì.
— E che vai a fare a Roma?
— Vado a pregare per l’anima di mio padre! — rispose cupamente la maliarda.
Le due donne si trovarono di fronte un attimo, gli occhi negli occhi, pallidissime e tremanti come nello spasimo di un assalto imminente. Le due ferme volontà tentarono sopraffarsi; gli odii, radicati nel cuore come tenaci gramigne, si misurarono reciprocamente guatandosi.
— Tu giungerai prima — sussurrò Serenella nell’affanno — ma bada che verrà anche il mio giorno.
— E che m’importa?
— Io non ti perdonerò, ricordati!
— Credi ch’io abbia chiesto mai il perdono?
— Non ti mettere su la mia strada un’altra volta. Tu mi hai fatto più male che non la morte, bada!... Zalèbi mi ha lasciato il suo pegno.... io non ho paura!...
Era immobile il piccolo volto bianchissimo, solo gli occhi minacciavano sfavillando.
— Porti l’eredità della tua famiglia maledetta! — disse Sita.
— Porto il mio santo amore! — rispose Serenella levando la voce — E la mia strada è mia e tu non vi passerai, vipera!
[253]
— Vedremo! — esclamò Sita, l’aspra bacca del selvaggio roveto. Poi volse le spalle. Serenella la guardò dileguare fra la gente. Quando scomparve alzò gli occhi al cielo. Era notte ormai; conveniva attendere.
All’alba del giorno seguente, mentre le compagne dormivano ancora su la paglia, il capo abbandonato sui loro fardelli, si levò e uscì.
Lungo la strada che seguiva la valle nel suo infoscarsi fra i monti, udì il salmodiare di una compagnia che si era avviata alla grotta del Santo. Vide, al pallido albore, in un luogo dove la strada faceva gomito, una massa nera e compatta che saliva l’erta lentamente e aveva tanti piccoli occhi luminosi per quante erano le fiammelle dei ceri e delle torcie; e aveva una voce sola, lamentosa e continua. Un serpe a scaglie d’oro, dall’umana favella.
In quel punto la giovinetta si fermò. Le avevano indicata la via: doveva volgere verso il mare e seguirne la costa per miglia e miglia fino a città delle quali non aveva udito parlare mai.
Si fermò. Il cielo era sereno e il freddo intenso. Si strinse tutta nello zendado azzurro, volse gli occhi intorno dalla piccola altura su la quale si trovava. Vide la città sottostante in cui veniva spegnendosi a quando a quando qualche argenteo lucore; vide il cupo verde della pianura e la linea chiara del lontano mare. L’alba fioriva intorneata di gelsomini. Nel punto in cui si addensava la tenebra settentrionale, giaceva nell’ombra il suo nido. Rivolse il viso a quell’orizzonte e l’anima di lei esulò nella preghiera ai vivi ed ai morti di sua gente: ai vivi nell’aspra fatica quotidiana, ai morti nel nome dell’amore: quelli pronti all’opera continua, [254] questi naviganti nella grande nave stellare verso l’irraggiungibile sole. Forse la sorte le serbava un angolo sul vascello d’argento dalle bianche vele ed ella non avrebbe riveduto la terra romita e i parenti e il doloroso volto del padre. Se la sorte voleva così, andasse l’anima sua all’umile casa a portare, tanto piano da non rompere il dolce sonno ad alcuno, l’addio dell’esule che non sarebbe ritornata mai più. E dicesse, ma piano, senza ridestare il dolore vestito di rovi, dicesse ch’era fatale: il mondo è un breve ritrovo; chi sa da dove si giunge? chi sa mai dove si arrivi? Iddio ci manda e ci attende. Il mondo è una sosta per noi; conviene pensare a lasciarci. Gli dicesse che l’amore è la volontà di Dio Padre e ch’ella seguiva il suo destino d’amore. E null’altro. Ristette qualche attimo a spiare nelle fluttuanti nebbie tutte le forme emergenti, con l’ansia di intravvedere un aspetto noto, poi, come l’alba crebbe, si volse e prese risolutamente il cammino.
Così andò per giorni e giorni fermandosi a dormire vicino alle città, in qualche casolare. Come più si allontanò dalle sue terre, più aumentò la curiosità delle persone nelle quali si imbatteva. Nulla le fu di serio ostacolo. Si accostò al core la sua lama lucente, l’amuleto di Zalèbi; avrebbe saputo difendersi fino al ruggito della morte.
Gli uomini che braccano, intesero e si tennero guardinghi. Ella aveva subiti scatti di indomita fiera; lo spirito della sua gente ribelle era nel suo cuore di giovinetta. E camminò, camminò come la bella della fiaba, sostando appena, sorgendo che il sole non era alto ancora. I pochi soldi che le aveva dato suo padre, prima di partire, le eran più che sufficienti per il pane. Voleva giungere e sarebbe giunta; ma [255] la strada era interminata. Sempre nuove città, nuove soste e Roma si allontanava nei cieli come il sole.
Le stava nel cuore il tormento di Sita. Che avrebbe fatto la maliarda s’ella non giungeva a tempo? La vendetta guidava la figlia di Diavolo e Duccio non avrebbe saputo difendersi.
Ma Sita, dopo aver fatto mercato di sè stessa a Bologna, dove aveva trovato gente che si era incaricata di indirizzarla, a Roma, a persone che potevano giovarle, raggiunse Serenella e inavvertitamente la seguì spiandola.
La vide allungare sempre più le soste a mano a mano che la Città si avvicinava; assistette al progressivo indebolirsi della tempra consunta dall’estrema fatica.
Senza lasciarsi vincere, benchè la febbre le ardesse nel sangue, Serenella continuò il cammino. In quegli ultimi giorni le parve vivere in un sogno, in un incubo. A volte la coscienza l’abbandonò. Il viso le si era fatto smunto e tutto il corpo era ridotto a un niente; ma c’era il suo canto di innamorata in fondo al core, il canto che la traeva al suo destino. Tutto ciò che amore reca le arrideva giovanil fuoco di gioia! Per un attimo solo Duccio avrebbe voluto s’ella traeva da tanto lontano! Non potea darsi ch’egli avesse dimenticato; non potea darsi ch’ella giungesse inutilmente dopo tanta pena! E se la lunga strada l’aveva resa brutta? Poteva rivederlo così?
Una mattina si guardò in uno specchietto; non era brutta, no; ma quanto mutata! Un’ombra! Gli occhi erano più grandi; il mento affilato; le guance come fiori di neve. Chiusa nello zendado pareva una piccola morta! Si commosse, poi crollò il capo, gettò via lo specchietto, sorrise e si levò. Quanto sole c’era [256] in quelle terre! Così fosse stato per lei. Allora le giunse dal tempo una voce ben nota ch’era sorta dal silenzio per trarla alla luminosità della primavera. Ah che tremito di pianto! Se non avesse potuto più adunque? se non fosse giunta?
Ma si levò, ma si trasse sotto al sole, arsa dalla febbre; si trascinò per il suo sogno; volle giungere come l’alzavola ferita, ma giungere per abbandonarsi sul mio petto vinta, stremata, disfatta.
Proseguì un giorno ancora senza aver più conoscimento, e giunta, alla sera, in un paesello alle soglie di Roma, cadde delirando e non si rialzò.
Fu raccolta. Una società femminile pensò a ricoverarla e a riabilitarla chè la credette una meretrice. Ella seppe nulla; solo, allorchè riacquistò perfetta conoscenza si trovò rinchiusa nel triste convento su l’Aventino.
Sita vide e gioì nel suo cuore di lupa.
La convalescenza fu lunga e penosa. Quando si sentì migliorare stette per ore ed ore seduta al sole, nel giardino dove crescevano tante alberelle dalle foglie di un verde intenso. Erano melaranci. Ella non aveva veduto mai simili piante; ne conosceva solo il frutto saporoso, bello e lucente come uno scrigno d’oro.
Le rifiorivan ricordi di fiabe. Quanto aveva fantasticato e sognato nel tempo in cui sostava sui ponti per ascoltare i vecchi novellatori che si accontentavano di sì poca cosa per raccontare le meraviglie dell’impossibile. Ora non aveva tregua un attimo. Una vecchia suora le stava sempre attorno per parlarle del Signore misericordioso e dei peccati ch’ella aveva commessi. Sentiva la minaccia, non l’avrebbero lasciata uscir più. Frattanto che ne era mai di Duccio?
[257]
Come le forze le ritornavano la pena aumentava di giorno in giorno. Ella era giunta per l’amore; avrebbe odiato Iddio in quel silenzio. Di quali peccati le parlavano le vecchie femmine ossute? Che ne sapevano della sua grande anima dolente? Come potevano conoscere il martirio che la torturava?
Sita, frattanto, avrebbe potuto compiere la vendetta e Serenella pensava che se ciò fosse avvenuto nè per lei nè per la rossa c’era via di salvezza. L’aveva giurato sul nome del Signore e su la croce di lui.
Passarono molti giorni ancora; poi il caso l’aiutò: vide Omero. Il miracolo di gioia le ridette vigoria in un attimo.
Una sera, col suo vecchio amico, uscì per la porticina dell’orto su la via di Santa Prisca. Era salva. Andarono da quel giorno ad abitare nella casetta che Paolo, l’ortolano del convento, aveva ceduta ad Omero a patto coltivasse l’orticello che la circondava, e da quel giorno, come dalle poche frasi di Omero intese ch’io tutto sapevo e me ne stavo in disparte, ammutolì, sbiancò, non oppose alcuna resistenza al male che la consumava tuttavia.
La sua vita passò penosamente nel silenzio della casetta sperduta ai limiti dell’agro deserto. In principio uscì qualche volta con Omero, andarono verso ponte Nomentano su l’Aniene tortuoso.
Omero le stava a fianco senza parlare. Ella si appoggiava al braccio di lui; sedevano su la spalletta del ponte nè ritornavano finchè il sole non fosse caduto.
La gente si rivolgeva a guardarli perchè la bellezza di Serenella era come puro argento.
Racchiuso nello zendado il viso di lei fioriva simile a un giglio; aveva una grazia stanca, una dolorosa [258] soavità. Ed era ella sì umile e gentile nell’aspetto che, se levava un poco gli occhi sorridendo, dava una letizia d’incantesimo mattutino.
Per quanto i passanti fossero usi a vedere ogni sera, seduti su lo strano ponte turrito, il vecchio e la fanciulla, si rivolgevano sempre a guardarli.
Poi non comparvero più. Serenella sfioriva rapidamente come un effimero diurno.
— Vuoi rientrare? — le chiese Omero quando ebbe compita l’opera faticosa.
— Sì.
Egli la guardò. Era livida.
— Questa sera andiamo male, non vi siete curata: volete far passare un nuovo dolore al vostro vecchio! — riprese Omero scuotendo il capo.
Ella levò gli occhi luminosi:
— Perdonami Omero, prenderò la medicina, farò ciò che vorrai!
— Andiamo, dammi il braccio — disse curvandosi; ma la sorresse per le ascelle perchè non si reggeva, poi se la recò fra le braccia come una bambina. Ella gli abbandonò il capo su la spalla.
Il sole era morto. Giungeva da qualche stagno remoto un tremulo gracidare di rane.
— Vuoi rimanere sola? — le chiese quando l’ebbe adagiata sul letticciuolo dalle bianche coltri.
— Sì, vorrei dormire — rispose Serenella.
Egli uscì su la punta dei piedi e socchiuse lentamente la porta.
Scese la notte e Serenella non trovò sonno. Omero vegliava nella stanza attigua.
Si era distesa supina, aveva poi tentato rivolgersi ma l’estremo sfinimento glielo aveva impedito. Ritentò ancora e il respiro le venne quasi meno. Il [259] cuore le batteva a pena; un freddo, un gelo intensissimo le saliva per le gambe e per le braccia. Che cos’era mai? Tanto presto adunque? In quel silenzio solenne la morte l’impaurì. Sbarrò gli occhi, volle gridare ma non un gemito le uscì dalla bocca.
Allora l’assalì un terribile affanno. No, così no, almeno avesse potuto stringere la sua bocca su la mia; almeno avesse potuto rivedermi; dopo, era meglio forse ch’ella si fosse addormentata per sempre, ma non prima, era troppo terribile! Rivolse la mente a Dio, pregò nel crescente affanno, implorò straziata ed affranta. — Era giusto, Signore, una sola volta, una sola!
Nella constretta forza di tutta la sua volontà ribelle mandò un lungo grido.
La porta s’aperse d’impeto e Omero comparve su la soglia.
— Serenella?
Ella si levò un poco con uno sforzo supremo; aprì gli occhi stupiti già dal sogno della grande sorella e trovò fiato per dire:
— Omero per l’ultima volta.... va... va... io voglio vederlo.... io muoio!...
Egli si volse e di un balzo scomparve.
Udì ancora, la triste, un rapido trepestio perdersi lontanamente sotto la notte profonda.
[260]
In quale nuova invincibile illusione ero caduto? Dove mi aveva tratto mai la flammivoma chimera, il meraviglioso mostro dell’infinito? Sentivo esattamente l’inganno nel quale vivevo e una vaga ansietà si dibatteva in fondo all’anima mia senza vincere il nuovo senso d’insofferenza sorto in me per ogni dubbiosa voce, per ogni improvviso richiamo della coscienza.
Un orgasmo fisico spinto alle sue estreme conseguenze, mi teneva di continuo. La mia giovinezza casta si era ridestata avvolta in una turbinosa fiamma; il senso della vertigine la stordiva inebriandola.
Non pensavo, non volevo pensare; vivevo in una terribile discontinuità psichica, preso dall’impura violenza del senso; ogni mia visione era torbida, affannosa, ritornava per mille vie agli stessi aspetti, agli stessi atteggiamenti, agli stessi deliri della voluttà; una diabolica follia mi traeva per l’ardente roveto nel quale fra aspre grida e contorcimenti si consuma l’insaziata concupiscenza farneticando.
[261]
Era una crisi impetuosa e ottenebrante dalla quale non sapevo poter sorgere ancora.
Ne ho l’immagine di una piovra orrenda dagli innumerevoli tentacoli che si protende blanda, carezzosamente ti avvolge, ti stordisce e non ti lascia un attimo, anzi moltiplica i suoi baci, ti stringe, s’avvinghia, s’incanisce furiosa e fremebonda finchè non t’abbia distrutto. La terribile contaminazione trae di continuo il suo fosco popolo disfatto alla follia ed alla morte.
Ma allora ero ebbro; la stessa mia castità aveva affrettato il fenomeno fisiologico; da un perfetto stato di calma ogni mia forza era trascorsa nel delirio; si era levata in me, squassando le fiammanti chiome, l’ombra obliqua e superba del piacere infrenato e faceva vibrare spasmodicamente il mio giovane corpo come una tesa minugia; si era levata simile a persona che superata a fortissimo stento un’erta precipitosa e dirupante, raggiunge di un balzo la cima, ivi s’impianta e dominando rimane.
Le mie avide labbra tese agli orli dell’aurea coppa indelibata tremavano per la siziente bramosia e quanto più avevo tanto più desideravo. Ricordo il breve trascorso come attraverso l’incubo di un’altissima febbre.
Sconvolto dalle dottrine edonistiche, non trovavo freno che bastasse al mio dirupare. La dispoglia nave correva perdutamente alla deriva nel mare tempestoso ed oscuro.
Era quella dunque la finalità che mi ero imposta di continuo nella vita avventurosa e tribolata? Quella la gioia, quella la tranquillità soave d’amore?
Le domande che salivano timide nelle rare limpidezze del mio pensiero erano ben tosto ricacciate [262] quali sciocche paure, quali viltà di un’anima schiava del pregiudizio. Non so quale cinica violenza ottundesse ogni mio senso intellettivo; solo a volte avevo l’esatta coscienza della mia pazza bestialità.
A Serenella non pensavo se non nei momenti di abbandono e mi appariva allora, irraggiungibile, perduta in un silenzio interminato come la stella dell’albore.
Sita compiva la sua vendetta.
Fin dalla prima sera, nel villino di Eduardo De Diensi, ella mi aveva sì fortemente avvinto da farmi dimenticare l’ombra oscura del passato e da sorgermi innanzi come persona nuova, tutt’affatto diversa da ciò che era stata un tempo. E nelle apparenze, in vero, era alquanto diversa, ma nell’anima no, la perversità dell’anima di lei si manteneva intatta.
Nei giorni che seguirono non la rividi e mi trattenni dal frequentare il villino De Diensi per non incontrarla. Presagivo l’oscuro influsso che avrebbe esercitato su me e volevo difendermene per quel senso d’indipendenza che mi sarebbe piaciuto serbare in ogni atto della vita e per la quiete della quale il mio lavoro necessitava.
Ma era acceso il mio sangue sì che non potevo ottenere il desiderato riposo psichico. Invano mi costringevo per ore ed ore ad una forzata veglia sui libri; l’attenzione mi sfuggiva. Leggevo intere pagine senza intenderne il senso; vi ritornavo varie volte ottenendo lo stesso risultato: dopo qualche riga, per un fenomeno di sdoppiamento comunissimo, la parte più viva del mio intelletto non seguiva la lettura; trasmutantesi in puro atto meccanico, ma si perdeva in una varia e rapidissima figurazione di immagini impure, di lussuriose lascivie, di aspre [263] violazioni onde, dopo vane ore di lotta, mi levavo con la fronte accesa, coi polsi, con tutte le vene tremanti e mi appoggiavo al davanzale della finestra sperando qualche ristoro dalla brezza notturna.
Da simili stati di massimo eccitamento, caduto in subite prostrazioni, ne sorgevo avendo in gran dispetto me stesso per le sciocche paure che mi tenevano tuttavia lontano da lei. Perchè dovevo soffrire tanto? Ero io adunque qualche antico cenobita aspirante alla suprema grazia del paradiso? Non era ridicola, puerile la continua lotta che mi toglieva anche la possibilità del lavoro? Soddisfatto il desiderio, la calma sarebbe ritornata e forse il disgusto.
Pure l’immagine di Zalèbi, del fratello morto, mi teneva ancora e mi avrebbe tenuto sempre lontano da Sita; mi pareva che la maliarda sorgesse tutta contaminata da quel giovane sangue, credevo che avrei potuto averne improvviso ribrezzo se l’ombra dolente del povero amico fosse sorta fra noi. Poi la piccola stella dell’albore appariva col suo tranquillo e mesto riso fra le rosse nubi a quando a quando; viveva radicata in fondo aìl’anima mia.
Sita mi aveva detto, nella funesta sera dell’incontro:
— Duccio, dimmi che hai dimenticato tutto; che niente più sorgerà dal passato per te; che tu mi guardi ora come se mi vedessi per la prima volta!
E quantunque avvertissi l’insidia delle sue parole, tratto dalla vertigine della persona maravigliosamente protesa, avevo promesso ciò ch’ella chiedeva.
— Io ti ho voluto bene sempre sempre — aveva ripreso — era la gelosia che mi accecava; anche laggiù ho pensato a te dal primo giorno che ti ho veduto. Ma ora mi perdoni, tu mi perdoni... io mi getterò [264] a’ tuoi piedi, io bacerò la terra dove passi, ti benedirò se mi batterai, se vorrai battermi fino a farmi morire.... ti benedirò sempre sempre perchè ti amo e ne soffro!
L’ironico stupore che ferveva entro l’anima mia era vinto dal diabolico fascino di Sita. Quale altro male meditava? Quale via sceglieva per trarmi all’inganno dal quale ero sfuggito una volta? Eppure la sua bellissima maschera celava sì bene la menzogna, c’era nelle parole di lei un impeto tale di sincerità, ch’io scrollai le spalle e mi dissi: — Ebbene che m’importa di tutto s’io posso goderla? Se posso tenerla vinta sotto le mie braccia? — E, la mente torbida ed annebbiata, cedetti.
Fu anche un orgoglio virile che mi sospinse: quella donna che tanti desideravano inutilmente e per la quale avrebbero speso tesori veniva ad offrirsi a me e mi pregava; potevo io disdegnarla per un meschino senso di vigliaccheria? Potevo mostrarmi agli occhi di lei pusillanime? Non era mio costume la paura, molto meno poi quando la minaccia mi sorgesse apertamente di fronte; non ebbi esitanze e tutto ciò ch’ella volle promisi.
— Verrai a trovarmi?
— Sì.
— Quando?
— Prestissimo.
— Posso accoglierti degnamente. Conosci il mio villino ai quartieri Ludovisi?
— Lo conosco.
— Vieni nel pomeriggio, alle cinque; sono sempre sola in quell’ora.
— Verrò.
— Promettimelo!
[265]
— Te lo prometto.
Poi con un lunghissimo bacio aveva voluto lasciarmi come il suggello del desiderio.
Per quella notte e per tutto il giorno seguente non ebbi bene; cominciava la crisi del piacere e della sofferenza.
Trascorsero tre giorni così; un’ombra sola valse a trattenermi: l’ombra di Zalèbi. Si levava tragica e fosca bestemmiando il nome di lei e la perfidia sua; sorgeva da un’immensa tenebra tinta leggermente di sanguigno agli estremi limiti, apparizione cinerea che mi ossessionava; l’avevo sempre innanzi agli occhi: li tenessi aperti e fermi su la fiamma della lucerna, reclinati su le carte o chiusi per il sospirato ristoro del sonno; non mi abbandonava un attimo, vegliando in quella sua rigidità spettrale che m’incuteva spavento. Erano fisse entro l’anima mia quelle pupille scrutanti e minacciose quasi a leggerne ogni segreto, ogni più riposta voglia; fisse terribilmente dall’immobilità del volto composto nel supremo segno della morte.
Ne avevo pietà e ribrezzo; commovimento ed orrore. E lo spettro dell’incipiente rimorso non scompariva se non quando improvvisi turbini di immaginazioni lussuriose irrompevano in una ridda di procaci nudità a rinnovellare l’ansimante bramosia del possesso.
Alla sera del terzo giorno qualcuno bussò alla porta della mia stanza; senza volgermi gridai l’invito ad entrare e mi attendevo qualche strana domanda dalla mia vecchia abruzzese, allorchè un sottile fruscio, un grato profumo, la sensazione di esser guardato fissamente mi fecero volgere di scatto:
— Sita! Tu qui?
[266]
— Io — rispose sorridendo la maliarda.
— Come mai sei venuta?
— Volevo vederti; tu non sei stato uomo di parola.
— Avevo troppo lavoro — mormorai.
— Non ti chiedo scuse; non sono venuta per rimproverarti; avevo bisogno di stare un poco con te e non ho resistito al desiderio.
Indossava una superba veste di velluto blu cupo. La persona alta e sottile, la bianchezza del volto ed il grande volume dei capelli rossi ne traevano splendore. Con un bel gesto delle braccia che si levarono arcuandosi e dettero maggior risalto alla soave procacità del seno, si tolse il ricco cappello dalla larga tesa ricadente sul dinanzi ad ombreggiare il viso e apparve come in una nuova intimità sotto il casco dei capelli spartiti a mezzo la nuca in due volute condiscendenti su le piccole orecchie rosee; poi volse i grandi occhi verdi, leggermente obliqui come due foglie di saggitària opposte a uno stelo, e disse accostandosi al tavolo sul quale erano sparsi alla rinfusa libri e carte:
— Ti ho disturbato?
— No davvero! — esclamai sedendo vicino a lei.
— Posso restare un poco?
— Fin che vorrai.
— E... verrai a restituirmi la visita?
— Verrò.
— Voglio un impegno formale.
— M’impegno formalmente!
— Ciò non vale. Vediamo: quando verrai?
— Posdomani.
— Benissimo. A che ora?
— Alle cinque. Ti par tardi?
— No, è troppo presto! — rispose scoprendo la [267] bianchissima gola nel riso. — È troppo presto; ho un five o’ clock tea all’Hôtel de Russie a quell’ora, posdomani.
— Come? Hai già fatto l’ingresso nel gran mondo cosmopolita?
— Ma certo! Ho approfittato del mistero che mi circondava. Desto una curiosità enorme. Il marchese Di Narva ne è entusiasta; mi presenta sempre come sua cugina e i più credono all’inganno. Gli altri continuano a sostenere ch’io vengo chi sa da quale parte del mondo. Alcuni si sono incaponiti a spacciarmi per una rivoluzionaria russa. Li lascio dire; che mi importa? La mia condotta è irreprensibile e ciò mi salva.
— Irreprensibile? — chiesi levando gli occhi a ironica interrogazione.
— Ma certo — rispose — non uno fra i tuoi amici può vantarsi di avermi sfiorato una guancia con una mano. So tenerli alla debita distanza. Ti ha meravigliato vedermi al villino De Diensi? Ci sono andata e ci vado perchè.... indovina un po’ il perchè?
— Non saprei.
— Perchè mi avevano detto ci capitava un certo Duccio della Bella ch’io voleva rivedere!
— Per ritentare...
— Basta!... — gridò ponendomi una mano su la bocca. Si era fatta ad un tratto pallida.
— Non avevamo detto — riprese lentamente, a bassa voce, guardandomi negli occhi quasi a tener l’anima mia tutta nel fascino della sua forte volontà — non avevamo detto che del passato non se ne parlerebbe più? Che sarebbe cancellato per sempre dalla tua, dalla mia memoria? Perchè vi ritorni? Non puoi o non vuoi dimenticare?
[268]
Scrollai il capo senza rispondere.
— Credi tu ch’io non abbia sofferto? — riprese —. Che ne sai per misurare la mia pena?
Dopo un istante vidi il volto di lei trasfigurarsi; si indurì nelle linee, una subita rigidezza lo tenne e gli occhi divenner foschi. Disse con voce che parve un soffio:
— Io so amare e odiare!
Sostò ancora.
— Se non ti amassi — riprese — credi tu ch’io non avrei trovata altra via per vendicarmi? Tutto potevo; ma avrei fatto troppo male a me stessa! Perchè devi credermi Duccio, altrimenti non sarei qui, sola, senza temere una tua rivincita; devi credermi per tutto il male che ci siamo fatti a vicenda: io ti amo da impazzirne!
— Non senti — riprese tendendomi le mani — non senti come ne tremo tutta?
Non mi curai di studiarla, nè volli scoprire la sua finzione; mi era vicina: ne vidi e ne sentii l’insuperata bellezza. Il profumo che si spandeva lievissimo dalle sue vesti, da tutta la persona, mi stordiva. Gli occhi suoi, la sua bocca, i capelli, il viso, il seno palpitante rinnovarono la terribile ansia che mi stringeva a sommo della gola come un soffocamento. Ogni cosa nel mondo si oscurò in quell’attimo; ogni moto della coscienza che non convergesse all’esaltazione di lei, non ebbe valore, trascorse inavvertito; si fece buio intorno a me; l’anima mia annegava nel lume di quelle pupille fisse che si addolcivano in un carezzoso invito, in una promessa di voluttà frementi. Ogni esitazione cadde.
— Saprai dimenticare? — chiese ella, appena, chinandosi, conscia già della sua vittoria.
[269]
— Saprò adorarti!
La sua bella bocca si dischiuse come in un atto di spasimo; le fini alette del naso si contrassero un poco; un rossore diffuso le colorì la sommità delle guance; negli occhi, che rifulsero più vivi dalle palpebre soccallate, vibrò un’ansia nuova, una veemenza desiderosa, un oscuro languore di aspra sensualità accesa.
— Mi prometti di non parlarne più, mai più? — riprese e sentii l’alito suo sfiorarmi il viso.
— Sì.... sì!...
— Ch’io sarò per te non più Sita ma Sara, la tua Sara che ti vuol bene?
— Te lo prometto.
— Che per quante cose possano avvenire ancora, non mi dimenticherai?
— Tutto ciò che vuoi, tutto.... ma non farmi soffrire.
Allora si levò un poco, mi guardò sorridendo negli occhi poi si dette al mio abbraccio con un breve grido:
— Ah! amore, amore, amore mio!
Il rivo ardente dei capelli le si sparse intorno al viso magnifico e superbo; la candida nudità del seno e delle spalle apparve come una maraviglia statuaria. Mi aveva condotto al colmo dell’esasperazione. L’oscura tempesta incominciò.
Nei giorni che seguirono anzichè cader soddisfatta la mia febbre si accese ancor più; ero giovane e forte, nuovo alla sapiente lussuria della maledetta. Sita aveva saputo avvinghiarmi al carro del suo piacere, trascinarmi via con gli altri; in seguito, per l’immancabile spossamento, per l’esaurirsi di ogni mia forza fisica e intellettiva sarei divenuto suo umile servo, suo [270] ridicolo satellite: un’ombra livida e distrutta che ella avrebbe condotto alla morte. A questo mirava la misurata vendetta, il mostruoso giuoco. Ebbe il mio grido ribelle, forza sufficiente a rompere poi il torbido sopore.
Ma allora, allora farneticavo di continuo in una diabolica accensione del sangue e non avevo bene e non avevo posa quand’ella non mi fosse vicina. Passavo la notte seduto come un pezzente su gli scalini della sua villa intento ad ogni suono, ad ogni voce che mi potesse giungere dall’interno; con, alle tempie, un continuo battere affannoso e il pensiero pieno di voluttuose immagini, di ansimanti lotte, di voci e di grida e di sussulti.
Ogni compagnia mi riusciva intollerabile e, d’altra parte, anche frequentando gli amici non potevo seguire i loro discorsi; dopo qualche parola ricadevo sotto l’infausto dominio della follia. Alle domande che essi mi movevano circa quel mio nuovo stato di continua astrazione non volevo rispondere. La loro curiosità mi turbava e mi inaspriva. Preferivo starmene solo e, quando non ero con Sita, mi aggiravo senza meta per i dintorni di Roma, il capo basso, il pensiero offuscato.
Anche il lavoro mi era divenuto uggioso. Le poche volte che tentai riprenderlo e mi costrinsi al tavolo per qualche ora, mi levai inebetito, nulla avendo concluso. In quale abisso di ignominia sarei caduto proseguendo per quella via?
La domanda mi si presentò qualche volta ma la ricacciai subito con folle rabbia. Che m’importava? C’era sul fosco orizzonte, erta la fronte sotto le stelle lucenti, l’ombra di Zalèbi. Mi attendeva. Saremmo stati fratelli anche nel destino.
[271]
L’amara violenza del senso travolgeva ogni mio saldo equilibrio sospingendomi a furia verso la bestialità.
Sita moltiplicava le sue carezze chè le premeva liberarsi di me quanto prima avesse potuto. Le tornavo importuno. Mi eccitò con ogni disordinata libidine, mi accese con la più sfrenata lussuria; fece di me una povera cosa cieca e brancolante.
Quanto tempo passasse così non ricordo con esattezza; forse fu molto; allorchè mi ridestai ebbi la sensazione di sorgere da un secolare silenzio.
Quella sera compivo il mio abbigliamento; ero convitato con gli amici comuni al villino dell’onorevole Miaggi. Andavo perchè Sita mi attendeva al convegno di gioia.
L’onorevole idiota dalla gran faccia vermiglia, simile a una mela francesca irta di inopportuni peli, compiendo non so più quale anniversario della sua brillante carriera politica ed anche per far piacere a madonna Primavera che inciprigniva a star tutta sola e dava in ismanie, aveva meditato e proposto il gaio festino al quale mi accingevo a partecipare.
Il convegno era per le nove; non pensavo ad affrettarmi; da poco era discesa la notte.
Come ebbi ultimato le vane faccende uscii, ma, giunto in fondo alle scale, mi soffermai colpito dalla figura di una donna avvolta in uno zendado nero. Stava ritta oltre la porta di strada, immobilmente. Reggeva in una mano protesa un piccolo cero e pareva vegliasse qualcosa che si perdeva nell’oscurità.
Mi avvicinai sogguardando. Giunto su la soglia vidi un piccolo carro al quale era attaccata una brenna. Il cassino del carro era ricoperto da un drappo nero che un uomo s’ingegnava a disporre in guisa da nascondere ai passanti una cassa oblunga.
[272]
Intesi e il cuore mi battè più forte per un rapido commovimento allorchè nel pallido volto reclino della donna distinsi i tratti di Pavona. Era lei, la perseguitata dal fato, la debole creatura che rimaneva per la seconda volta terribilmente sola. Reggeva col braccio sinistro il suo povero bimbo sogguardante con occhi stupefatti e spauriti, e nella mano destra recava il cero mortuario.
Non la vidi piangere; attese inconscia senza un sussulto.
Ad un tratto l’uomo si volse e con subita asprezza gridò:
— Annamo? Er morto è pronto!
Attese qualche istante, poi, come vide che la donna non intendeva, frustò la brenna e le si pose a fianco.
Quando il piccolo carro si mosse, Pavona lo seguì come un automa, sola, dietro quella lacerante miseria.
Per buon tratto andai anch’io, il capo scoperto e l’anima sconvolta da quel tetro dolore, cieco come le terribili forze che ci assalgono e ci distruggono; andai tratto da un’ardente volontà di soffrire, da un bisogno di sentirmi migliore, di spiare in me il risorgere di un sentimento che mi pareva sepolto da un’eternità. Io vidi entro l’anima mia chiaramente per la prima volta e per la prima volta provai un brivido di orrore e di sdegno per tutto ciò che avevo compiuto.
Pensai una simile scena; il pallido volto di mia madre mi arrise nella lontananza del tempo. Ah! dove precipitavo mai? In quale brago mi trascinava la mia incomposta volontà di vita?
All’angolo di una strada deserta ed oscura mi soffermai. Stridendo e sobbalzando sui ciottoli, il carro [273] continuò la triste via. Guardai ancora Pavona, il bimbo taciturno, l’insieme di quel miserabile convoglio. Un uomo dileguava per sempre sotto il silenzio e le tenebre della notte. Ella sola gli era rimasta fedele, ella gli aveva serbato amore, ella piangeva quando tutti l’abbandonavano, lo seguiva quando era già nell’oblio del mondo, dimenticando sè stessa per lui che poco l’aveva amata, che molto l’aveva fatta soffrire! In quella bontà non era forse la divina scintilla dell’umana famiglia?
L’uomo passa vicino al tesoro con occhi vani e ricerca fra gli sterili fantasmi del suo intelletto la felicità che lo sfugge.
Ne avevo alla gola i singhiozzi, chè mi sentivo perverso innanzi alla bontà di quella creatura sola e sperduta su le vie della morte.
Guizzò qualche volta ancora rimpicciolendosi la fiammella del cero; un ultimo cigolìo si udì, un ultimo bagliore apparve, poi anche quel dolore annegò nell’immensa notte.
Quando mi tolsi da quel luogo e ripresi la via del convegno sentii che un mutamento si era compiuto nell’anima mia; si effettuava un ritorno. Riudii gli echi lontani del cantico della mia giovinezza ed al subito rifiorire, la vana finzione che mi aveva abbagliato cadeva come uno scenario che il chiaro giorno renda deforme.
Alle nove fui puntuale al convegno.
Il vecchio Sileno, l’onorevole Miaggi, mirabile espressione di umano ebetismo elevato a rappresentanza di un sistema, aveva fatto le cose a modo dimenticando una volta tanto la sozza avarizia, peculiar dote della famiglia sua. Tale elettissima virtù lo aveva innalzato, per il ben nutrito tesoro, nella [274] considerazione degli uomini e del mondo chiamandolo ad esprimere, nel consesso dei più eletti lumi del paese, la volontà di un popolo di pitocchi infingardi.
L’onorevole Sileno (gli avevamo imposto il nome del vecchio compagno di Bacco perchè come cavalcatura preferiva l’asino) era arcimilionario, la qual cosa non impediva che madonna Primavera si dolesse della sua poca generosità e della meschina valutazione ch’egli faceva dei vezzi di lei. Comunque fosse, quella volta volle apparire generoso e vi riuscì.
Nell’ampia sala sfarzosa nella quale fui introdotto trovai già gli amici nonchè varie donne di gioia note ed ignote, alcuni personaggi del mondo politico ed un imberbe giovanetto di cui non seppi spiegarmi a tutta prima la presenza in un luogo che non era certo adatto all’edificazione della gioventù.
Madonna Primavera in una rosea veste composta alla foggia del 1830 e tutta adorna di esili rami di edera; i capelli esageratamente ricadenti su le guance tanto da ricordare due nere valve, da cui pareva spuntasse il viso timidetto come l’animaluccio dalla conchiglia, riceveva gli ospiti con squisita grazia di sorriso e di parole cercando atteggiarsi a quella Cleo de Mérode ch’ella aveva scelto come supremo limite di imitazione.
Era invero graziosa. Il visetto di bimba innocente, ed i grandi occhi ingenui le davano tale apparenza di candore da scambiarla per un’educanda. In compenso era sufficientemente sciocca.
Quando entrai conversava in disparte con Marta, formosa bellezza romana, celebre per le illustri persone che avea potuto onorevolmente ospitare. Data la somma intimità delle due etère, i mondani, compiacendosene, [275] sussurravano avere esse intessuto un meraviglioso idillio saffico.
L’onorevole Sileno ritto in mezzo alla sala, sotto il lampadario, per mettere in piena luce i brillanti del suo sparato, discuteva con tre giovani appartenenti a ricche famiglie romane. Uno era fra costoro, Sismondo dei Sismondi, il quale più degli altri si accalorava nel dire e, tutto acceso in volto, lanciava i suoi aforismi all’onorevole Miaggi che li accoglieva stralunando e sbuffando senza intenderne probabilmente parola.
Lasciai l’onorevole Sileno alle sue prove oratorie nelle quali portava la sua innata virtù parlamentare e mi appressai alla comitiva che faceva capo a De Diensi. Udii Oddo Spiro, insolitamente animato, raccontare sotto voce i turpi misteri di una messa nera. E mi allontanai di nuovo. Forse era in me una soverchia insofferenza; forse la rivolta latente mi faceva aspro. Fino a quel punto avevo creduto Oddo Spiro in buona fede, non supponendo che egli potesse nascondere sotto l’apparente velo di castità, le più oscene degenerazioni del senso; quel suo brutale svelarsi, il compiacimento che poneva nel raffinato racconto dei minimi particolari della scena mi avevano acceso di sdegno e di commiserazione. Nella miseria avevo trovato gli stessi aspetti del vizio: i poveri non escono dal loro brago, i ricchi vi giungono per vie diverse, e gli uni e gli altri si fanno della vita letame.
La sala veniva animandosi sempre più. Giungevano le belle in abbigliamenti sfarzosi di ambigua eleganza e gli uomini impettiti nel loro grottesco abito da società creato forse da qualche ridevole gnomo implacato persecutore dell’uman genere.
[276]
Ed anche Sita apparve e con lei il marchese Di Narva ch’io vedevo per la prima volta. Era uno scheletro, un lungo scheletro rivestito da una pelle troppo bianca su la quale non appariva l’ombra del sangue.
Le spalle ricurve, le lunghe braccia pendule, il capo ricadente verso la concavità del petto, seguiva Sita a passo a passo con cieca fedeltà bestiale.
Quando levò un poco il viso n’ebbi ribrezzo. Gli occhi semispenti, atoni, dall’iride quasi bianca si fissarono su me senza luce; le labbra sottili s’incresparono ad un sorriso che infoscò ancor più le guance ombreggiate da una rada barba; mi rivolse una parola che non intesi e seguì Sita che si dirigeva altrove.
— Lo ha distrutto! — esclamò Giusto Sorani.
— Era già a mal passo prima di conoscerla — rispose Leonello Robbia.
— Ma non a questi estremi.
— Da un mese in qua precipita.
— Sarà la fortuna di lei — soggiunse Alanna. — Di Narva muore senza eredi.
— Questo mi spiega tutto!
— Dicono abbia fatto testamento a favore dell’Ines.
— Quella scema non può averlo indotto a tanto; non ne aveva l’arte. Per Sara la cosa è diversa e lo si vede dallo stesso atteggiamento ch’egli ha assunto. Guardate come la segue.
— Ne è rimbecillito!
— Se Sara raggiunge il suo scopo mi saprete dire dove arriva!
— Dove vorrà. È troppo bella perchè le possa essere vietata una sola soglia.
[277]
La guardai. Io pure, che da tanto tempo l’osservavo, non l’avevo veduta mai tanto bella. La sua persona aveva raggiunto la suprema grazia; pur mantenendosi fine ed elegante s’era addolcita ancor più. Era uscito interamente dall’invoglio il rosso fiore velenoso, dalla fatale malìa.
Ancora ne tremai: mi parve dover ricadere nel tragico incantesimo.
Non le parlai, quantunque per due volte mi facesse cenno da lontano perchè mi accostassi. Un’ansimante nervosità mi teneva, sul punto di infrangere l’idolo mostruoso. Non avevo ancora piena padronanza dell’anima mia.
Alla ricca tavola scelsi un posto remoto. Mi trovai fra Leonello Robbia ed una sciocca creatura la quale rideva di tutto, sì di una briccica di pane come di un elefante. Aveva l’idiosincrasìa del riso. Si sarebbe divertita oltremodo a veder crollare la cupola di San Pietro e simile gioia le avrebbe procurato il giuoco del capinascondere. Tutto era egualmente ridevole nel concavo specchio della sua intelligenza. Gli uomini l’amavano perchè era decisamente stupida. Si chiamava Giovanna.
La follia orgiastica incominciò come il simposio volse verso il suo fine; gli ultimi freni si disciolsero, e la bestia umana si appalesò in tutta la sua sozzura.
Il giovanissimo Batillo, che era alla destra di Eduardo De Diensi; il fine fanciullo dalla lunga capellatura bionda, dalle labbra soverchiamente rosse e dal perfetto viso fermo nel costante stupore dell’anima sua oscurata, fu tosto, più che le femmine, termine fisso del desiderio comune. Come ogni finzione era caduta, quell’accolta di satiri dalla vista obliqua non ebbe più alcun ritegno e corsero frasi [278] e parole delle quali risento tuttora la nausea. Il nobile ritrovo avrebbe fatto schifo in quel punto anche alle femmine de’ porci.
Dove finiva mai la schietta urbanità che mi era parso intravvedere? dove s’impantanavano le brillanti dottrine edonistiche di cui il De Diensi faceva sfoggio?
Io non mi sentivo buono; non ero un dei loro, un corrotto. Avrei voluto vederli all’obelisco di Antinoo, al Pincio, trattati a scudiscio finchè la mala foja, umiliata e vinta, fosse caduta col loro spirito superbo, per sempre.
E si fosser levate le galle su quelle bianche membra da cortigiane! E il dolore che non sapevano li avesse resi alfine uomini fra gli uomini dolenti! Questo avrei voluto; questo grido si levava dall’anima mia inasprita a tanta turpitudine.
Nè si tenner alle sole parole sì come l’eccitazione si accrebbe, e il vino, le luci, i fiori, le grida, l’inconsueto sfarzo, il cibo soverchio accesero la loro concupiscenza.
Si udì un grido:
— Giovanna denùdati!
Fu il segno del furore. Si rivolsero a lei perchè era la più sciocca fra le presenti.
Ella parve dapprima renitente, protestò; ma poi il suo riso la vinse e si lasciò strappare le vesti da venti mani furiose che se la palleggiarono increspandosi e tanto più si attardarono quanto più l’opera volgeva al compimento.
Ad un tratto cadde anche l’ultimo velo. Un urlo ansimante si levò; gli occhi accesi di lussuria scintillarono cupi.
Fu fatta salire su la tavola: fra i fiori, i vasellami [279] d’argento, le innumerevoli lampade elettriche. I capelli le si disciolsero. Qualcuno intonò sottovoce un canto itifallico, mentre l’oscena baccante, protese in aria due coppe ricolme, se le riversava sul capo contorcendosi nel suo folle riso. Le grosse mani, incise di verruche e di schianze, dell’onorevole Sileno si avanzarono a raccorre in due calici il vino che scendeva in rivoletti per il nudo corpo della femmina; altri lo imitarono; da ogni parte si gridò:
— Alla fonte, alla fonte!
E un’incomposta furia travolse tutte quelle anime farneticanti.
Poi venne la volta del giovanissimo Batillo. Già mi ero levato per andarmene allorchè un subito grido mi trattenne. Volsi il capo e vidi, proteso tragicamente dall’altro lato della tavola, il marchese Di Narva. Travolgeva rapidissimamente gli occhi stralunando, aveva le braccia stecchite, il volto paonazzo, le labbra strette con violenza come per un martirio orribile.
Rimase qualche secondo così, poi, prima che gli astanti si fossero riavuti dallo stupore, si levò in tutta la sua lunghezza spettrale con un rantolo, un urlo, per due volte annaspò per l’aria e stramazzò riverso.
Quando Sulpicio Alanna si curvò sul corpo disteso, un altissimo silenzio regnò intorno.
Accosciata su la tavola, a simiglianza di un’enorme rana, Giovanna riguardava dai tondi occhi inebetiti.
La trepidante attesa fu rotta dalla voce di Sulpicio Alanna:
— È nulla; uno svenimento.
Un subito mormorio accompagnò la buona novella. Approfittai dell’occasione per scivolare nell’ombra ed ecclissarmi.
[280]
L’aria notturna calmò un poco la mia eccitazione nervosa ma non tanto che non permanesse in me un senso di pena e di sgomento. Mi affrettai, corsi, quasi presago di una sventura imminente.
Fu quando stavo per entrare nell’andito di casa mia: un uomo balzò dal buio, mi afferrò per le braccia e con voce rotta dall’affanno gridò:
— Vieni, corri, insensato!... Serenella muore!
[281]
— Dèstati dèstati amore; dèstati dèstati a cantare! Sono giunte le nubi bianche, le piccole nubi altissime e la primavera è con loro, il viso del maggio; il tuo viso Serenella!
Tutto era venuto meno qua dentro, tutto si era oscurato nella mia casa e nell’anima mia quando sei sorto per me, mio piccolo cuore di sogno.
Levati, socchiudi gli occhi belli, piega le labbra al sorriso; da tanto tempo veglio in ginocchio il tuo sonno.
L’arco del sole era breve quando ci lasciammo; gli alberi dormivano e l’ombra loro si allungava su la terra; ora tutti gli orti sono in fiore; si è compito il miracolo di gioia, anima, e la capinera è ritornata, la tua piccola sorella.
Dèstati dèstati, il sole è fra le siepi degli orti dove sono i nidi degli usignoli e le vesti delle rugiade, dove saltellano i ghiri dagli occhi di onice tersa; è basso e si attarda ad illudere le umili cose che gettano una grande ombra.
[282]
Amica, sorella mia, la terra è tutta un giardino.
Chi viene dai confini del cielo? Non senti il sussurro intorno ai rami dei meli in fiore? La falcata luna, navicella d’opale, ascende in un mare di rose, dilegua nell’infinito e dalla siepe di un orto sperduto giunge il canto di un usignuolo dalla voce d’amore.
È l’amico nostro, Serenella; viene sul fior dell’erba, la fronte coronata di biancospino; giunge con occhi lucenti e prende la tua, la mia mano e bacia la tua, la mia bocca!
Vi è una porta sprangata, una porta ignota ai termini della tenebra ed egli con lieve mano l’ha dischiusa.
Lo senti?... lo vedi?... apri gli occhi stellari, Serenella; l’amore, il nostro amore è giunto! —
Sotto voce, lentamente io le cantavo così, sul ritmo di una nenia delle nostre terre, il sommesso invito, ed ella sorrideva socchiudendo gli occhi e le labbra.
La giovinezza di lei aveva superato il male; il miracolo si era compito in breve. V’è giorno nella primavera in cui tutte le pratelline si dischiudono come candide mani di bimbo dalle dita rosee.
Molto si vive di volontà. Ella era già su la pietra del muto confine, quando si era rivolta per il ritorno e risorgeva innanzi agli occhi miei ad ora ad ora per meraviglia d’amore.
Omero si aggirava intorno a noi muto e severo come sempre; ma io avevo sorpreso troppe volte nelle sue pupille chiare ed azzurre un rapido scintillìo fiammeggiante per non intendere tutta la sua contentezza. Evitava parlarci forse per non turbare la risorta soavità: si attardava nell’orto a dirompere [283] le zolle levando il capo talvolta a sogguardare la casa tranquilla. C’era in quel suo gesto consueto una paterna bontà commovente.
Pensava che l’acqua, ripresa ormai la sua china, non avrebbe stagnato più fino al mare dove tutto si fonde in un’anima sola; in una sola luce. E se ne stava in disparte; pareva lo guidasse una timidezza estranea. L’anima sua rude e sensibile voleva farsi dimenticare; il solo pensiero d’interporsi l’avrebbe offesa. E talvolta lo dimenticavamo per l’amore che è una dolce solitudine di due anime.
Trascorsero giorni e giorni; passarono ore tranquille e serene nel gran tepore della stagione nuova e Serenella si levò dal suo sonno triste; si trascinò dapprima al mio braccio lentamente per giungere fino alla finestra, poi discese, si trattenne nell’orto, ogni giorno un po’ più, ogni giorno più animata, più colorita, più forte. Le gengive, le labbra, da pallide che erano, riebber il loro vermiglio; il viso rifiorì, gli occhi si fecer più vivi e l’anima con essi che dilagò in un nuovo sentimento d’amore a tutte le cose.
— Rinasco, Duccio; mi pare che solo da ieri io sia nella vita, da quando sei venuto. Chi può dirmi s’io vivessi veramente prima di adesso? C’era Serenella, ma l’anima di Serenella non c’era. Tu l’hai richiamata dal buio e che tu sia benedetto.
L’ascoltavo parlare tremando. Come mai avevo potuto farla soffrire sì brutalmente per una sciocca illusione?
La sosta all’aperto fu sempre più lunga, poi venne giorno in cui la bella, nata dalle acque turchine dei Sette Mari, riebbe la sua piena vita.
Quante generazioni erano passate mai per la casa [284] silenziosa fra gli orti? La pietra della soglia era consunta; ma quando udivo lo scricchiolio dei calzari di Serenella, quando udivo la sua voce, il suo passo là dentro, mi pareva che il piccolo nido fosse sorto per lei sola e da tempo infinito l’attendesse.
Il nostro primo pensiero, allorchè, come un tempo, andammo per i romiti sentieri della campagna, fu per la terra lontana. C’è, nel rievocare, la stessa dolcezza del sogno. Le cose lontane si trasfigurano.
Parlavo a voce lenta ed ella ascoltava, assentiva, sorrideva. Fu così che per la prima volta, dopo sì lungo sostare, le nostre labbra si trovarono riunite in un impeto di gioia.
— Ricordi quando si levava dai monti lontani dell’occidente la stella dell’amore e della notte? In fondo alla laguna l’aria era più chiara e si vedevano i monti remotissimi di una terra sconosciuta per noi; da quei monti balzava la prima stella. Ti soffermavi con gli occhi lucenti: Che cosa porta mai l’astro della sera? — Io tacevo; si udiva solo il fremito delle sottili canne. Poi passavan sotto la nuova luna, passavano cantando, raccolte in lunghi sandali neri, le compagne tue dalla timida voce nei festosi ritornelli. Qualcuna andava a nozze fra il rosseggiare delle faci. Si udiva l’epitalamio, si udiva un singhiozzo d’amore. E le fanciulle? Le vergini dal piccolo zendado che stavano su le vuote soglie a sogguardare dagli occhi incerti e sognanti? Sarebbe venuta la loro volta? Che cosa portava mai l’astro della sera?
Scendeva la notte primaverile ed era sì dolce sostare all’aperto! Le vergini dagli occhi di viola, dal piccolo seno acerbo correvano per le fondamenta con accese tede di biancospino: — Benvenuta primavera! Benvenuta sorella verde! — Voci timide ma [285] soavi, ma belle. Passavano le fiamme a chioma lasciando uno sfolgorìo di falene subito spente e la città lagunare si cingeva di un diadema di stelle d’oro.
Ricordi il nostro silenzio? Avevamo un tumulto nel core. Così si sostava ogni notte finchè i pastori scendessero per il Bosco Eliceo a calpestare i primi gigli del freddo.
Ero giunto anch’io con le greggi a rompere il tuo silenzio. Da terre lontane, lanciato verso un sogno, mi ero soffermato a guardarti. Ma tu eri sì alta su la tua soglia, chi poteva giungere fino a te? Eri come un fiore sbocciato in un giardino chiuso. Eppure mi trattenni per il tuo primo sorriso!...
Dopo avermi ascoltato con gli occhi fissi lontano, nel cielo lontano dove smorivan le nubi, si volgeva ad un tratto e mi guardava intensamente quasi a rassicurarsi ch’ero ben io che parlavo; poi, gli occhi si addolcivano nell’acconsentimento.
Si seguiva a volte il corso dell’Aniene; a volte sostavamo sotto i grandi archi rossigni di qualche acquedotto in rovina o vicino a un disperso sepolcro ai limiti della solitudine.
A me fiorivan su le labbra i baci e gli inni; traboccavan su dall’anima commossa perdutamente. E Serenella ascoltava e taceva abbrividendo per la troppa dolcezza.
Eravamo arrivati a quel punto per foschi roveti; non sono pianeggianti le vie della gioia nè aperte e battute; avevamo quasi disperato della vita per giungere ma il cantico superbo dell’amore si levava ora, per noi, come un volo d’aquile scagliate contro il rutilante sole, nei cieli altissimi.
Che mi poteva turbare ormai? Non i pallidi compagni, [286] gli elucubratori di sterili dottrine pomposamente drappeggiate nella porpora. L’abbagliante sfoggio dei loro paradossi non bastava a nascondere o ad abbellire il fine bestiale.
Non Sita. Senza odio e senza rancore, spenta l’aspra crisi in cui mi dibattevo peritando, era scomparsa per me anche l’immagine di lei.
L’amore non è fatto di violenza: Sita era trascorsa simile a una nave in fiamme sopra un cupo mare sconvolto da una tempesta notturna.
L’anima mia, in una chiarezza mattinale, risaliva alle sue origini di semplicità. Una volta ancora sentivo la gioia, la forza, il significato della vita. Ben temprato al dolore che non aveva saputo rendermi cinico, nè farmi schiavo, nè abbattermi, levavo una volta ancora la fronte al mio sogno, io che non recavo altro fra gli uomini se non quel poco d’armonia che aveva sorriso a mia madre dal piccolo mondo, dall’universo stellare. Il lavoro in cui ogni uomo lascia il segno della sua volontà su le brevi vie della terra e l’amore in cui l’anima s’imparadisa verso l’ignoto, questo il confine o meglio il ritmo della vita.
Avevo ben visto su la mia via orribili sciagure, tragiche disperazioni, rovine inenarrabili e avevo visto le creature colpite levarsi foscamente e fissare con occhi torti il cielo e scagliare a Dio la bestemmia e la maledizione. Il cielo splendeva sereno e l’affannata gente bestemmiava e malediceva sè stessa. Guai a chi si sente troppo solo nel mondo; guai a chi non conosce l’amore che è il divino segno della natura nostra.
Solo le aquile delle sommità, sanno soffrire e morire sdegnosamente nel silenzio.
Ma il grande stuolo deve rispondere alle sue leggi [287] d’armonia, solo da queste si irradia la gioia e la pace.
Vivemmo in quei primi giorni del ritorno quasi inconsapevoli ancora di tutto il nostro bene. Era su la terra e nel nostro cuore una trasfigurazione gentile.
Io mi sentivo oppresso da una moltitudine di pensieri che non potevo esprimere; ogni mia sensazione si era affinata; il sorriso di tutte le cose aggiungeva un suono, un colore, un’idea al mio cantico fraterno; non dall’attimo nè dal tempo; non dal minimo nè dall’infinito discendeva in me forma o pensiero discordante. Serenella, la capinera degli orti, si stringeva al mio braccio sorridendo, sempre più bella.
Nelle ore in cui, per necessità di vita, riprendevo l’interrotto lavoro, ella sedeva in disparte a compire qualche sua opera femminile. Sedeva presso una finestra o passava per la stanza sì lievemente ch’io l’avvertivo appena.
Trascorrevano giorni dolcissimi. Il primo sole ci svegliava; il canto delle creature festose che spiano sui prati o fra le rame il ritorno dell’astro d’oro saliva alle nostre camerette ch’erano sotto ai tetti. Dalla finestra aperta irrompeva una deliziosa frescura; vedevamo le prime nubi rosee navigare per l’incantevole giovinezza del cielo. Come tremavano le anime nostre dietro le forme vanenti!
E di lassù, simile ad un annunzio solare, scendeva il trillo delle allodole, il canto che trema in note perdute e gorgoglia ed ha il fremito, il chiocchiolio delle piccole fonti.
I rami più alti dei meli che salivano a spiare dal piccolo vano delle nostre finestre, i rami tutti fioriti si tingevano lievissimamente d’oro. Talvolta ondulavano [288] per il posarsi di una cincia fra corolla e corolla.
Mi appoggiavo al davanzale. Omero era già partito con la sua carretta. Il lontano orizzonte era chiuso dai monti Albani biancheggianti qua e là di paesi e di ville fino alla vetta di Monte Cavo. Dietro la grande ombra azzurra pareva si stendesse un incognito mare lucente.
Più vicino, la terra si raccoglieva nella sua fioritura. Oltre la siepe dell’orto mormorava un fontanile ombreggiato dalle rame di un pesco e nell’acqua tersa, dallo sfondo del cielo, spuntavano altri rami parimenti in fiore. Le rondini rasentavano guizzando con lunghe strida le acque dell’Aniene.
Ad un tratto dalla cameretta vicina si levava una voce, un canto dolce, poi udivo un lieve picchiare all’uscio.
— Duccio? Amico mio?
Appariva col suo zendado su le spalle, animata dal sonno tuttavia; superbamente giovane e bella. Fioriva il collo, nella sua soave nudità, dalle radici del seno al principio della gola dove ancor più si ingentiliva in una morbidezza di giacinto e il viso, bianco come un alburno, si ravvivava su le guance di un rossore tenuissimo. La mia bella Boopis aveva gli occhi sì grandi sotto il lieve arco cigliare e così puri! Tutta l’anima del mattino e della primavera si specchiava in quelle nere pupille!
Scendevamo nell’orto. Ella si riempiva il grembo di fiori per adornarne il mio tavolo da lavoro. Andava tacita fra pianta e pianta sotto il sole novello che le accendeva i capelli dello stesso color delle viole. La vedevo chinarsi con atti aggraziati. La figura sottile, dalla mollezza di uno stelo, non aveva mai [289] disarmonie. Le sue stesse mani facevano sbocciare i fiori: non era ella la Primavera?
La veste chiara, la messe floreale, quel suo incedere lieve, quasi inaudibile per cui pareva sfiorasse la terra, e il nimbo, il gran nimbo d’oro del mattino che tutta l’avvolgeva compivano la grazia dell’incanto.
La seguivo da lontano per non turbarla. Intorno a noi, dalle siepi, dall’intrichio dei rami stridevano le cincie inseguendosi fra voli e frulli.
Ad un tratto si volgeva verso me con un sorriso.
— Perchè stai tanto lontano? Ho finito. Vado a portare i fiori sul tuo tavolo. Mi aspetti?
— Ti aspetto.
Udivo il suo canto dalla piccola casa. E ricompariva in un battibaleno.
A volte sostavamo su l’orlo del fontanile. Ella guardava l’acqua che pareva si stendesse limpidissima sopra un altro cielo ma più pallido, più remoto.
— Eccoci isolati fra due cieli — diceva sorridendo. — Guarda Duccio, come una barca sul mare!
E ancora:
— Perchè dicono che gli alberi non hanno un’anima? Gli uomini non sanno parlare come gli alberi fioriscono! Noi ci esprimiamo con la parola e gli alberi col colore. Non ti sembra più bello? Fanno meno chiasso loro, e dicono tante cose di più!
Poi rompeva in un chiaro riso appoggiando il capo su la mia spalla.
Talvolta mi guardava fra il serio e il faceto per chiedermi improvvisamente:
— Ti sembro molto sciocca?
E come la fissavo, stupìto dalla subita domanda riprendeva:
[290]
— Rispondi, rispondi.
— Ma perchè mi chiedi una cosa tanto strana?
— Perchè? — dopo un attimo di silenzio, sotto voce, come per farsi perdonare sussurrava:
— Perchè ho paura di non piacerti abbastanza!
I baci erano la correzione di tali errori frequentissimi.
A volte la nostra giovinezza irrompeva in subite giocondità irrefrenabili.
— Siamo stati mai tristi? — chiedevo dimentico già del passato.
Ella si avvicinava, con un dito su le labbra.
— Lasciali dormire — rispondeva — lasciali tranquilli nell’Isola della Croce.
Ad un mio sguardo interrogativo, distesa la mano verso il remoto orizzonte, soggiungeva con un tremito nella voce:
— I morti!
Erano ombre fuggevoli.
Quant’era più bella Roma nel cantico del nostro amore! Roma che sorge fra una corona di fontane, eternamente giovane come l’acqua che l’irradia!
Il giorno trascorreva per noi sì rapido come un battere di palpebra. Quando ero stanco di lavorare verso l’ora del tramonto, mi volgevo a chiamarla:
— Serenella?
— Duccio!
— Vogliamo andare a Roma?
— Sì.
— Sei pronta?
— Prontissima.
Si partiva soli, osservando, ridendo, per la via Nomentana verso Porta Pia. E, a parte a parte, l’anima della grande Sfinge millenaria ci appariva nella sua vastità.
[291]
Un giorno sostavamo nella chiesa enorme, nella basilica della cristianità, stupiti più che ammirati, mentre si trasognava, nella Cappella Sistina, innanzi all’eternata visione michelangiolesca.
Serenella guardava ascoltando. Talvolta, nelle sale del Vaticano, innanzi a qualche splendore d’arte ho visto gli occhi di lei luccicare d’improvviso per un rapido commovimento.
Certi giorni salivamo alle grandi ville principesche: al Gianicolo, al Pincio; o si sostava nei musei di Villa Borghese o ai solitari prati di Villa Pamphili. Questi ultimi, cinti da grandi masse di pini, ci ricordavano i nostri boschi lungo l’Adriatico; i nostri boschi selvaggi nei quali s’inselva il tasso e sibila la serpe dagli aspri ginepri. Così dagli scavi ai musei; dalle membra disperse dell’antica Roma agli ultimi aspetti che assunse; attraverso alla sua storia che fu la storia del mondo, andavamo pensosamente animando del nostro amore tutte le cose.
A sera si tornava un poco stanchi, ma al piccolo desco quand’eravamo vicini, a fianco a fianco e dalla porta e dalle finestre dischiuse entrava l’ultima luce, l’ultimo alito del crepuscolo; quando la raccolta dolcezza del nostro nido ci era intorno, ogni segno di stanchezza scompariva per dar luogo al lieto, al soave conversare interrotto a volte da pause. E le pause aumentavano sempre più.
Come l’aria s’era fatta tepida, Omero dormiva sotto il pergolato; si udivan, da qualche gora sperduta, le rane che pare annunzino con la loro tremante voce il tremolio delle stelle; dalle macchie si levavano i primi squittii, le prove sommesse degli usignuoli. Vedevamo salir la luna tra le rame dei peschi: fiore d’argento fra fiori di corallo.
[292]
I nostri silenzii si facevano più penosi; più lunghi i baci, più lunghi, interminabili. Ogni cosa ha la sua stagione ed ogni azione sotto il cielo ha il suo tempo. Io sapevo perchè gli occhi di Serenella si oscuravano per subite tristezze.
Una volta salimmo al Palatino, al colle degli imperatori. Fra antri e rovine e fra gruppi di cipressi e di palme giungemmo alla sua parte più estrema, più isolata.
Sorge laggiù, poco lungi da una casa silente, un’ara di travertino, un antichissimo altare sacro al dio ignoto. Dice la frase dedicatoria: — Sei deo sei deivæ sacrum.
Noi non ti conosciamo Signore, tu sei l’Ignoto, la divinità arcana che si cela nel silenzio dei boschi e nell’immensità dell’Universo. Noi ti adoriamo nel tuo mistero, Signore.
Così i primigeni, gli armati di scure, le anime semplici che semplicemente adorarono. La luce smoriva colorando in croco l’ara solitaria presso la quale ci soffermammo, il capo e gli occhi reclini. Sentivo la mano di Serenella che era fredda benchè la stringessi fortemente.
— Hai inteso?
— Sì — rispose a pena.
— Vuoi che sia qui, di fronte al silenzio, all’ara del Dio Ignoto?
— Sì, lo voglio.
Allora ci inginocchiammo invocando mutamente la pace al nostro amore e su la terra e nel poi.
Quando l’amore congiunge due anime non v’è forza al mondo che possa disgiungerle. Ella sarebbe rimasta per sempre l’amica, l’amante mia, non la sciocca moglie che la consuetudine impone; non l’utile donna, ma la compagna dell’anima.
[293]
A notte nella nostra casa fra gli orti, salimmo le piccole scale recando due lucerne come sempre e, all’ultimo ripiano, ci soffermammo. Su la bocca della mia piccola amica correva un sorriso. Levai fino al volto di lei lentissimamente la mia fiamma.
Due voci di giovanetti si levarono dall’ombra come in un accordo incantesimale:
Ah! quando l’uva invaia
quando arossano le viti
io verrò alla tua soglia....
Forse ella disse una parola, non so, ma la mia lucerna si spense.
Poi l’amore socchiuse la porta.
[294]
La lotta non era finita ancora (la perfetta quiete prelude alla morte, alla trasmigrazione delle nostre energie verso un’altra lotta ignota) pure mi ero composto una sicura finalità di vita onde potevo più liberamente esplicarmi.
Uscendo dal niente, mi ero conquistato anch’io un piccolo posto nel mondo; il mio lavoro era retribuito; potevo fare assegnamento su la mia intelligenza alla quale gli uomini avevano dato già qualche valore.
Cominciava allora, è ben vero, il periodo più acerbo; sapevo quante difficoltà mi sarebbero sorte innanzi a rendermi più difficile il proseguire; ma che m’importava? Quale pregio avrebbe un qualsiasi bene se lo si potesse ottenere agevolmente senza affanno? E nel comune apprezzamento, stimiamo forse un bene le cose che ci sono a portata di mano e il possesso delle quali non ci costa il minimo sforzo?
Uscito, per merito della mia stessa natura ripugnante da qualsiasi pervertimento, dalla crisi dell’intelletto e del senso che per poco non m’aveva respinto nell’ombra dalla quale era uscito, mi trovavo ora, [295] con la mia dolce amica, nelle migliori disposizioni di spirito e di vita.
La via era aperta; avanti, adunque, verso le lontane aurore su le quali si affissano gli occhi dell’umanità lanciata sopra una strada eterna verso un apparente confine; avanti finchè l’armoniosa giovinezza cantava. Quando sincerità ci accompagna, la nostra voce può destare qualche eco nelle anime che attendono.
Un campo più vasto di quello che avevo fino allora tentato, mi seduceva; il campo dell’azione sul quale, fra odii e violenze, le classi sociali si combattono. Ivi agii in seguito.
Dirò ciò che vidi e vissi della gigantesca lotta fra i poveri e i ricchi in altra parte del romanzo della vita mia.
Allora, per ciò che riguardava l’armonia dell’anima, ero giunto a compimento.
Di Sita sapemmo un giorno che aveva ereditato l’enorme patrimonio del marchese Di Narva e che era partita improvvisamente senza dire ove andasse a destino.
Dileguava dal nostro mondo chi sa verso quali oblique avventure. Oltre alla sua bellezza ella possedeva ora l’arme più sicura al dominio: il denaro.
Che ne avrebbero pensato mai i pescatori del suo oscuro nido disperso fra le lagune quando fosser venuti a conoscenza di tutto?
Molto probabilmente avrebbero dimenticato Sita di un tempo per inchinarsi alla signora dell’oggi. D’altra parte ella non sarebbe ricomparsa mai più su le tredici isolette che reggono Comacchio a fior dell’acqua; nell’anima di lei non era nè gentilezza di ricordo nè desiderio di ritorno.
[296]
Dalla memoria dei più, col trascorrere del tempo si sarebbe cancellata l’immagine della superba.
Zalèbi dormiva per sempre nell’Isola della Croce e Diavolo accanto a lui, nello spazio breve. Poco dopo la mia partenza la verità circa l’omicidio di Diavolo si era risaputa per la voce di tutto il popolo e, esaurito qualche inevitabile procedimento burocratico, anche la Giustizia aveva messo la cosa in tacere. Scomparsa Sita (ed ella, prima di partire, avea messo nessuno a parte de’ suoi propositi di vendetta) ogni incentivo al ricordo della tragedia trascorsa era caduto così che, toltone Pietro e Giovanni della Nave (gli unici due superstiti ai quali Serenella ripensava sovente con subite tristezze) forse nessun altro ricordava.
Solo Serenella ed io saremmo ricomparsi laggiù a rallegrare per qualche giorno la solinga casa troppo silente fra il continuo risciacquio dei canali.
Era il nostro proposito che avevamo manifestato anche ad Omero.
— Non vorrai essere con noi?
— Non parliamone; c’è tempo ancora — aveva risposto. Poi si era allontanato pensosamente scuotendo il capo.
Da qualche tempo venivo notando sul suo viso, tracce di un interno turbamento che non riuscivo a spiegarmi. Gli occhi suoi avevano un continuo velo di malinconia che scompariva solo quando glie ne muovevo dolce rimprovero; più volte l’avevo sorpreso seduto all’angolo della casa vicino al pergolato, la faccia nascosta fra le mani. Siccome odiava l’inerzia e trovava modo di occupare ogni minuto della sua vita, quello stato di abbandono, sì nuovo in lui, mi aveva colpito profondamente. Quale pensiero doloroso l’opprimeva?
[297]
Avrei voluto interrogarlo, ma ne conoscevo troppo intimamente il carattere per tentare una prova che gli sarebbe riuscita discara.
Le nostre attenzioni, il nostro palese affetto lo facevano contento. Non era stato egli per noi più che un buon padre? Quale dovere lo aveva spinto a sacrificare la sua vita per il nostro bene?
Il saperlo triste mi era di continua amarezza; ciò turbava un poco la gioia di quei nostri giorni belli; pure non ne parlavo con Serenella per non addolorarla. Ella si era legata ad Omero con sì forte tenerezza femminea che troppo si sarebbe accorata supponendo solo ch’egli potesse soffrire.
A volte gli imponeva le mani sul capo baciandogli i capelli ed era come un fregio di grazia il nodo delle piccole mani sul capo che incanutiva. Omero era invaghito di quell’amore ma lo sfuggiva dolcemente quasi temesse una commozione troppo intensa. Raccoglieva il frutto della sua abnegazione.
Era uscito dall’ombra per noi, per noi soli; dal giorno in cui mia madre era morta mi si era posto al fianco per vigilare sul mio destino dapprima, su la nostra gioia di poi senza voler nulla per sè, tenendosi in disparte quando vedeva raggiunta la nostra, la sua volontà. Quale dio di bontà lo guidava? Per quale profonda dolcezza rendeva agli uomini bene per male?
Il suo muto cuore stoico aveva incomprensibili grandezze. Il sacrificio ch’egli compiva in silenzio era come un semplice atto della sua vita di eroe. E quando aveva dato tutto, anche il poco che possedeva, anche la sua lacera veste, riprendeva la via senza rivolgersi, per non veder tristi coloro che abbandonava.
[298]
Lo accoglievano diffidenti e piangendo lo vedevano ripartire. Chi era mai quell’uomo forte e buono che aveva la voce profonda, le parole di un saggio e gli occhi sì dolci ed azzurri sul viso adusto? Chi era? Da quale parte era giunto? Dove andava?
Pareva un ramingo, un pezzente, forse un bandito. Giunto nel paese verso sera, aveva chiesto ospitalità a qualcuno, senza nulla ottenere perchè i dispersi hanno sempre alle calcagna l’ombra della minaccia. Rifugiatosi vicino a qualche pagliaio, coi cani, il giorno dopo si era incaponito a restare benchè tutti gli facessero brutto viso. Nessuno lo aveva accolto; non gli avevano dato nè una vanga nè un tozzo di pane. Allora si era unito ai poveri: a coloro che vanno raccogliendo gli stecchi e gli sterpi lungo le siepi; aveva prestato mano ai bimbi poveri e soli e ancora gli anziani vedendolo passare avevano gridato: — Vattene! Chi sei? Che cerchi da quelle creature? — Non si era adirato mai, neppure una volta; que’ suoi grand’occhi chiari non si turbavano, nè sapevano l’ira. Così con minor diffidenza gli si eran dischiuse le porte. E l’avevano veduto lavorare per dieci e voleva solo il pane per la sua cena e la paglia per dormire. Era dunque un Santo? Le donne lo guardavano stupite. Poi la diffidenza si cambiava in amore, in venerazione.
Aveva fatto del bene a tutti, come poteva: soccorrendo i poveri con l’opera sua e co’ suoi guadagni; si era intromesso nelle sfide; aveva vinto con la forza i più forti, senza vantarsi, ritraendosi sempre nel suo grande silenzio di solitaria grandezza.
E un giorno non si era più riveduto. Gli uomini erano corsi nei dintorni a cercarlo; le donne, i bimbi l’avevano atteso all’aurora e ai tramonti piangendo invano, invano. Le bisacce su le spalle, gli occhi [299] fissi al sole occiduo, Omero aveva ripreso la strada interminata.
Era il destino di lui; la sua gioia e il suo dolore eterni.
Quante volte, nelle soste meridiane, allorchè andavamo insieme verso una comune sorte, avevo intuito da qualche sua vaga parola un simile ricordo che gli si ridestava nell’anima. Allora abbassava il capo fra le mani e, quando lo rialzava, gli occhi suoi erano più lucenti.
— Che hai Omero?
— Nulla.
— Rimpiangi il tuo passato?
— Non lo rimpiango, lo vivo.
— E perchè non hai sostato mai?
Tendeva una mano verso l’estremo occidente:
— Perchè c’è chi m’aspetta laggiù.
Una volta sola mi aveva parlato di Donetta e sì intensamente e con tale commozione che i singhiozzi mi erano saliti alla gola irrefrenabili perchè in quella tristezza dell’uomo che aveva votato tutta la sua vita di bontà al ricordo di una creatura amata fugacemente io vedevo una grandezza divina.
Era ripreso forse dal ricordo, dal rimorso?
Temevo fosse così e di giorno in giorno mi aspettavo il doloroso addio. Avrei fatto il possibile per trattenerlo; ma sapevo già vano ogni mio tentativo.
Un giorno Serenella lavorava nelle stanze superiori; si udiva il suo canto tranquillo. Omero era stato quel giorno più irrequieto del solito. Ero giunto allora da Roma e mi disponevo a salire allorchè udii la voce di Omero che mi chiamava. Mi volsi: lo vidi ritto sulla soglia della capanna nella quale soleva dormire. A’ suoi piedi giacevano le sue bisacce. Era pallido e commosso. Intesi ma non parlai.
[300]
— Duccio — mi disse a voce bassa in cui trascorse come un fremito di pianto — non dir nulla a Serenella.
— Di che cosa?
— Io parto.
— Parti? E perchè?
— Tu sei felice e Serenella è felice... io non ho più niente da fare qui: il mio compito è finito. Non parto per sempre: ci rivedremo, non so quando, ma ci rivedremo. Non pregarmi, non dire ch’io resti, ne soffrirei. Tu conosci il mio destino. A Serenella dirai, per adesso, che Paolo mi ha voluto con sè al convento: poi, quando l’idea della mia lontananza non le sembrerà troppo grave, le dirai la verità. Non bisogna farla piangere, ha pianto troppo: ne è quasi morta! Promettimi di far così, Duccio, promettimi di non attristarla per me: mi faresti tanto più amaro il cammino!
— Ma perchè parti? Che posso fare perchè tu sia contento, perchè tu riposi tranquillo?
— Niente.
— Vuoi vivere solo?
— No.
— Io non posso nulla, proprio nulla per darti la pace?
— Non puoi nulla!
— E ti ho invidiato un tempo! Credevo tu recassi con te la tua gioia: libero, solo, soddisfatto...
M’interruppi, il suo viso era divenuto più pallido ancora. Mi guardava con severità dolente; non avevo udito mai la sua voce tremare così:
— Lo sapevi già, Duccio: Io sono un miserabile!... — Raccolse le bisacce, si calcò il berretto su gli occhi e si incamminò. Lo seguii senza aver core di aggiungere parola.
[301]
Dall’alto discese la voce di Serenella. Cantava la leggenda del re Artigù. Omero si rivolse ad ascoltare, poi chinò il capo e proseguì in silenzio.
A Porta Pia volle lo lasciassi. Mi baciò, si passò il dorso della mano su gli occhi e partì. Gli tenni dietro da lontano. Era l’ultima volta forse.
Lo seguii fino al Testaccio.
La grande collina sepolcrale della Roma degli imperatori che la leggenda, a significare l’inaudita potenza dell’Urbe, disse formata dai frantumi dei vasi entro ai quali i popoli vinti mandarono annualmente i loro tributi d’oro e d’argento all’impero, stava contro la luce del vespero, troneggiando. Si levava oscura e solenne intenta all’arrivo del nuovo guerriero il quale giunto di un balzo su la cima, tragga dalle viscere di lei il vermiglio ancìle a propiziare un superbo volo di fiammanti vittorie su l’Urbe che ancora attende.
Intorno era il silenzio.
Omero proseguiva a buon passo: lo vidi prendere il cammino verso la vetta solitaria. Andava col capo ricurvo pensando forse gli astati armentari delle sue lande; il sorriso di un piccolo volto velato dalla morte.
Ascese, ascese verso la luce estrema, si allontanò su i cieli.
Si udì sotto, nell’ombra, un improvviso tinnire di campanacci. Dalle rive occulte del Tevere giungeva un immenso gregge che trascorse compatto come una lenta fiumana, docile alle grida ed ai vincigli dei pastori dall’aspetto di fauni.
Ma il mio cuore, gli occhi miei erano lassù verso l’uomo che scompariva.
Il sogno e l’aspra libertà, sanguinosa chimera che [302] sospinge gli uomini servi degli uomini alla furiosa lotta, al grido ribelle, al folle impeto di rovina; che sospinge gli uomini servi del fato all’amara solitudine dei dispersi, lo traeva per mano a nuove soste nel mondo degli ignoti.
Abbandonava tutto per lei; riprendeva la sua miseria per lei.
Ah! non sola; non era sola nel suo cuore: un’altra voce lo traeva al suo viaggio. Giungeva dalla città dei boschi e delle lande la voce di Donetta. Era di notte, andavano insieme ed egli recava sul capo il carico di sterpi che ella aveva raccolto; si tenevano per mano: ella anzi aveva preso la mano di lui per stringerla e aveva mormorato alcune parole di soavità.
Vivevano, in fondo all’anima del solitario, quelle sole parole dolci e tristi come un singulto represso.
Ascese ancora, sempre più; forse il mio pensiero lo fece gigante.
Ad un tratto lo vidi fermo nell’impeto di luce rossigna che coronava la vetta del colle sepolcrale.
Al fianco di lui, protesa all’abbraccio, si elevava una croce di ferro.
Ristette un attimo a capo scoperto, poi una voce lo chiamò da altre rive, da lontani Oceani. Mosse qualche passo ancora su la cima e dileguò per sempre verso le livide maremme.
Fu allora che si levò nell’aria con le prime stelle il canto nostalgico dei pastori errabondi.
Fine.
[303]
PARTE PRIMA | ||
VERSO LA LIBERTÀ. | ||
I | — Aeternum vale | pag. 3 |
II | — Alba nuova | 12 |
III | — L’ignoto | 26 |
IV | — Solo l’amore è eterno | 38 |
V | — Serenella | 49 |
VI | — La minaccia | 63 |
VII | — Il ballo agli Argini | 74 |
VIII | — I corsari della laguna | 90 |
IX | — Aspri confini | 101 |
X | — Solitudini amare | 111 |
PARTE SECONDA. | ||
AMOR FONS VITAE. | ||
XI | — A Roma | 121 |
XII | — Homo homini lupus | 132 |
XIII | — L’inattesa | 150 |
XIV | — Nella suburra | 160 |
XV | — Omero | 173 |
XVI | — La casa del sogno | 182 |
XVII | — Surge et ambula | 194 |
XVIII | — Artifex vivendi | 206 |
XIX | — Nel silenzio | 247 |
XX | — Il piacere | 260 |
XXI | — L’altare del dio ignoto | 281 |
XXII | — L’uomo e la croce | 294 |
DEL MEDESIMO AUTORE:
Anna Perenna, novelle | L. 3 50 |
I primogeniti, novelle | 3 50 |
1. A Comacchio si chiamano campi i vari compartimenti nei quali la grande laguna è divisa per mezzo di argini melmosi.
2. Il Campo dei Poveri è un tratto di laguna nel quale la pesca non è vietata ad alcuno.
3. Si chiamano casone le varie abitazioni sparse su le isole della laguna. Servono ad un tempo da stazioni di pesca e da ricovero per le guardie vallive.
4. Paradello (forcino) è la stanga con la quale si guidano le imbarcazioni nelle acque poco profonde.
5. Fiocinini sono i pescatori di frodo. Il loro nome deriva da fiocina.
6. La gente di Comacchio chiama ordini le prime burrasche novembrine. Quando detti ordini cominciano, allora le anguille migrano in grandi masse dalle lagune al mare e comincia la pesca.
7. La veste è un abito di rozza tela resa impermeabile con l’olio.
8. Uccello palustre.
9. Le genti di Comacchio chiamano lavorieri gli ingegnosi congegni di pali e di canne coi quali si catturano le anguille.
10. La bolaga è un enorme canestro sferoidale, contesto di vimini; può contenere fino a mille chilogrammi di pesce. Si tiene immerso nell’acqua, legato ai pali del lavoriero, per conservar viva la preda.
11. Su via ridestati, non dormire!
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.