Title: Storia della città di Roma nel medio evo, vol. 2/8
dal secolo V al XVI
Author: Ferdinand Gregorovius
Translator: Renato Manzato
Release date: August 12, 2025 [eBook #76678]
Language: Italian
Original publication: Venezia: Antonelli, 1872
Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This transcription was produced from images generously made available by Bayerische Staatsbibliothek / Bavarian State Library.)
STORIA
DELLA
CITTÀ DI ROMA
NEL MEDIO EVO
DAL SECOLO V AL XVI
DI
FERDINANDO GREGOROVIUS.
PRIMA TRADUZIONE ITALIANA SULLA SECONDA EDIZIONE TEDESCA
DELL’AVV. RENATO MANZATO.
VOLUME II.
VENEZIA,
GIUSEPPE ANTONELLI
1872.
PROPRIETÀ LETTERARIA.
STORIA
DELLA CITTÀ DI ROMA
NEL MEDIO EVO.
[1]
[3]
La caduta del reame dei Goti dà inizio al decadimento universale del mondo antico e alla ruina di Roma. Le istituzioni, i monumenti, le stesse tradizioni storiche del vecchio tempo poco a poco si coprono d’obblianza. I templi vanno crollando. Dalla sua deserta collina il Campidoglio eleva nell’aere muto uno splendore meraviglioso di colonne e di monumenti, il cui silenzio di sepolcro interrompe soltanto il gemito lugubre del gufo; a quella vista ben avrebbe potuto commoversi al pianto il più fiero cuor di romano. L’immenso palazzo degli Imperatori, che pur serba incolumi le maggiori sue moli, simile a un labirinto di vuote sale ancora adorne dei marmi più preziosi e qua e colà coperte di tappeti trapunti in oro, va anch’esso decadendo ed è una rocca fatata, quasi residenza di Faraoni [4] defunti; soltanto una sua breve parte è stanza del Duce bizantino di Roma, che è un eunuco della corte dell’Imperatore greco od un generale di origine e di costume a mezzo asiatici. I fori pomposi dei Cesari e del popolo romano sono cadenti di vecchiezza e diventano argomento di leggenda. Nei teatri e nel Circo massimo, dove non si rinnovellano più le corse di carri, ultimo e prediletto sollazzo dei Romani, s’alzano monti di ruine e cresce l’ortica. L’anfiteatro colossale di Tito sostiensi ancora nella sua saldezza, ma, messo a ruba, ha perduto il decoro degli ornati; le grandi terme non sono liete più di correnti d’acqua, non servono più al bagno e somigliano a città deserte su cui l’edera comincia a inerpicarsi. I rivestimenti di marmo prezioso che coprivano le loro muraglie cadono o sono strappati per bisogno di materiali, e i pavimenti di musaico si dissolvono in pezzi. Ancora in isplendide camere trovansi sedili da bagno di marmo bianco o scuro e preziosi bagnatoi di porfido o di alabastro orientale; ma i preti di Roma poco a poco tolgono di là quelli e questi per farne, nei santuarî delle loro Chiese, cattedre vescovili, o urne per raccogliere nelle confessioni le ossa di qualche Santo, o bacini pei battisterî; le statue che in gran numero adornano le terme vi rimangono abbandonate finchè qualche muraglia cadendo le infrange, e il cumulo dei ruderi per secoli le seppellisce. Il completo abbandono di quei magnifici monumenti di Roma, altra volta animati di tanta vita, ha qualche cosa che mette ribrezzo; gli era col terrore che destano gli spettri che il discendente dell’antica Roma guatava i loro portici bene dipinti e le loro ombrose gallerie simili a [5] grotte di viva roccia gradatamente bagnate dalle acque; e il ladro e l’assassino, il falso monetario, il negromante, il settario, ivi ponevano loro nascoste dimore.
La mente umana non è capace di ricercare qual fosse l’animo del Romano de’ tempi di Cassiodoro e di Narsete, nè può comprendere qual cuore fosse il suo, quando percorreva quella Roma priva di vita, cui il genio della ruina andava gettando tutt’intorno le sue spire fatali, quando mirava nel silenzio senza lena di quell’età gli archi di trionfo, i templi, i palazzi, le colonne, le statue stare in piedi, come per forza di magìa, o smoversi, o cadere, o ingombrare di ruderi il suolo. Per quanto la fervida fantasia possa tentare di dipingere a sè stessa lo squallore di Roma nel primo periodo della signoria bizantina, allorchè il popolo, travagliato dalla fame e dalla peste e agitato sempre dal terrore della spada dei Longobardi, si smarriva per le vie deserte della morta città dei Cesari, le sarà pur sempre negata la forza di produrre un quadro fosco di tanta ombra spaventosa. Oltracciò Roma si trasformava come crisalide, si copriva di conventi nella più strana guisa; e durante il tempo dei Bizantini, in mezzo al profondo mutismo della Storia, altro non s’ode che il sordo rimbombo della caduta dei monumenti, che il romore di costruzioni senza posa di chiese e di chiostri, che il triste canto delle litane espiatorie, e le salmodie monotone di frati e di monache, e gli inni delle comitive di pellegrini germanici. Ma la cittadinanza civile dei Romani precipitata in basso, incapace di qualunque sentimento di libertà, povera, mendica, vero cumulo di ruine morali, sembra, come i dormenti di Efeso, immersa in un sonno di secoli [6] nel mezzo ai ruderi della grande antichità, finchè nel secolo ottavo ne la desta la voce di un mago, la voce del Papa. Duranti questi tempi è il Papa il solo che veglia, il solo che opera, che non posa mai ed eleva l’edificio della gerarchia romana. Il graduale svolgimento di questa, il suo innalzamento dalle rovine dell’antico Stato romano in mezzo alle più aspre difficoltà, a ragione induce i posteri ad ammirazione, avvegnachè essa sia stata la trasformazione più potente dell’umanità, e nel tempo stesso insegni quali grandi fatti nell’ordine morale possano compiersi per via di un organamento condotto a sistema, quali risultamenti possano ottenersene. Lo studio di quel lavorio interno è còmpito di chi tratta della storia della Chiesa, non di chi scrive gli annali della città di Roma; a noi basterà pertanto di additarne in termini generali il procedimento. Il periodo politico di Roma si chiude colla caduta di quei Goti, che per qualche tempo ebbero sostenuta in vita la cultura antica e l’ordinamento civile dei Romani, ed or che proseguiamo nella storia della Città, ci è duopo ravvisare che siamo già entrati nel periodo ecclesiastico o papale di Roma. La energia di vita ancora rimasta ai Romani era rivolta ad esclusivo servigio della Chiesa erede di Roma imperiale, perocchè spenta già fosse l’operosità nelle bisogne civili. Nell’ordine politico serva a Bisanzio, ove durava lo Stato romano o pagano con tutte le conseguenze di una signoria despotica, la Roma profana degli antichi si trasformava nella città santa della Chiesa. La podestà spirituale piantava il suo vessillo sulle ruine di Roma e sedeva al riparo di quelle mura di Aureliano onde noi abbiamo [7] già posta in rilievo l’importanza che ebbero nella storia del mondo! In mezzo a queste mura essa salvò il principio latino della unità d’impero e dell’accentramento del genere umano, serbò le leggi civili romane e le opere della cultura latina; di qui essa intraprese la grande lotta contro i barbari che avevano fatto in pezzi l’Impero, e gli educò cogli insegnamenti del Cristianesimo nel tempo stesso che gli incatenò a Roma. Questo còmpito, che nella civiltà storica fu affidato alla Chiesa, non sarebbe stato raggiunto mai se i Germani che dominavano Italia avessero conquistata anche la città di Roma. Eglino le mossero assalimento e l’assediarono ripetute volte; ma Roma ne fu sempre salva, così che la sua conservazione sembri quasi aver obbedito a una legge istorica.
Le conquiste stesse dei Longobardi in Italia, che minacciavano lo sterminio alla Chiesa di Roma, nei risultamenti giovarono invece alla vittoria di essa. I Longobardi fiaccarono la potenza dei Bizantini, i quali ad ogni modo seppero resistere in Ravenna per il corso di due secoli; eglino costrinsero i Vescovi romani ad usare di tutta la loro energia per dare opera a un ordine politico indipendente, da cui poco a poco il Papato conseguì sua potenza in Italia; eglino rianimarono l’amor di nazione fra i Romani, che dalla più profonda apatìa chiamarono a difender sè stessi con forza di armi. Bentosto la Chiesa romana, sodamente organata e difesa da Italia, potè combattere contro Bisanzio una lotta di questioni dogmatiche che in breve s’elevò ad un vero rivolgimento politico, da cui la Chiesa uscì ricca e fornita di podestà temporale e signora di Roma. [8] E l’esito della lunga battaglia di Roma contro i Longobardi e contro l’impero assoluto bizantino si fu che questo venne cacciato di Europa, che la Chiesa ottenne libertà, che ne derivò la costituzione dell’Impero occidentale in forma di uno Stato feudale e cristiano dei Latini e dei Germani federati.
In mezzo alle rovine che ingombravano lo Stato e la Città dei Romani, si eleva, ancor negli ultimi tempi dei Goti, la persona solitaria e triste di un Latino che rifletteva in sè l’indole di quell’età di transizione; perocchè la sua vita e le sue opere dischiudano quei secoli tenebrosi che noi dobbiamo ora descrivere. Questo uomo insigne è Benedetto; figlio di Euprobo, nato nella Nursia umbrica intorno all’anno 480, è il patriarca del monachismo d’Occidente. Narrasi che giovinetto di quattordici anni venisse in Roma per compiere di erudirsi nelle scienze, ed oggi ancora in Trastevere, e precisamente nella piccola chiesa di san Benedetto in Piscinula mostrasi il luogo in cui dovette esistere la casa appartenente al dovizioso suo padre. Colpito di terrore allo spettacolo della caduta del mondo romano, il giovine fu preso da irrefrenabile desiderio di scamparne e di consecrarsi solitario alla contemplazione dell’Eterno. Egli fuggiva a Subiaco, dove l’Anio colle «sempre frigide» acque bagna una delle più amene vallate d’Italia[1].
[9]
Ivi, nella maestosa solitudine delle montagne, poneva stanza in una grotta, coperto di pelli d’animale e fornito di cibo da Romano, un anacoreta suo eguale. Le sue estatiche meditazioni, come quelle di Girolamo nel deserto, erano talvolta interrotte dalle ricordanze seducenti delle donne di Roma, ma il giovine, animato dal fervore di Dio, gettate le pelli che lo vestivano, si voltolava fra ortiche e fra nidi di vipere e fugava il demone tentatore. Si sparse la rinomanza della sua santità. Accorsero a lui altri fuggitivi del mondo che coltivavano animo eguale, e bentosto ei potè innalzare dodici piccoli conventi nelle montagne di Subiaco. Qui visse molti anni, incorato dalle lodi della pia sorella di lui, Scolastica, attendendo a raffermare la regola del suo Ordine. Financo illustri patrizî a lui adducevano i loro figliuoli perchè gli educasse; il senatore Equizio gli conduceva il figlio Mauro, Tertullo il figlio Placido, e in quei due discepoli Benedetto coltivava i suoi apostoli per le Gallie e per la Sicilia. La gloria del fondatore dell’Ordine svegliava però la gelosia dei preti di Varia e di Vicovaro; eglino congiurarono a cacciare il Santo e a distruggere il suo maggiore convento. Un dì mandarono colà sette avvenenti cortigiane, ed alcuni fra i tiepidi seguaci di Benedetto ruppero i loro voti e la fede claustrale. Il Santo allora decise di abbandonare Subiaco profanato, e seguito da tre giovani corvi, cogli angeli che lo ammaestravano della via, si condusse sul monte di Castro Cassino, che è un luogo posto lungo la via Latina, in quella parte montana della Campania che è irrigata dal Liri. Su quel monte egli trovò ancora pagani; avvegnachè le leggi degli ultimi Imperatori [10] di Roma avessero potuto sì poco estirpare l’antico culto degli Dei, che lo stesso Teodorico dovette promulgare un editto contro gli adoratori degli idoli. Nei loro boschetti sacri di allori e di mirti gli abitatori di Castro Cassino sacrificavano a Venere, e in un tempio ben conservato alzavano preci ad Apollo. Non appena giunto, Benedetto distruggeva questi altari, al riparo delle leggi dello Stato faceva atterrare quell’ultimo tempio di Apollo onde parli la Storia, e sui suoi ruderi innalzava un convento, non temendo un demone che, posando sopra il tronco di una colonna abbattuta, cercava di porre impedimento all’edifizio cristiano. Questo chiostro di Cassino, che più tardi diventò l’Abazia di Monte Cassino, fu nel corso dei tempi la metropoli veneranda di tutti i conventi di Benedettini dell’Occidente; faro solitario della scienza splendette gloriosamente in mezzo alla tenebra densa del medio evo, ed uno spiro delle Muse dal tempio distrutto di Apollo si salvò in questa accademia di monaci che attendevano alla prece e al lavoro[2]. La fondazione del convento operata da Benedetto [11] avveniva, con mirabile riscontro, in quello stesso anno 529 in cui l’imperatore Giustiniano cacciava gli ultimi filosofi dalla scuola platonica di Atene[3].
Ivi fu il prode Totila a visitare il Santo, che con veste mentita tentò invano di ingannare, e dalla bocca di lui udì vaticinarsi le vicende della sua vita; ivi Benedetto profetò la ruina che le tempeste avrebbero inflitto a Roma, predizione che gli scrittori posteriori sogliono addurre per discolpare i Goti di accuse odiose: ed ivi passò di vita il santo patriarca, nell’anno 544, credesi, tosto dopo la morte della sua fida sorella. La leggenda ornò di racconti poetici la vita mirabile del padre del monachismo di Occidente; e i pittori del medio evo se ne giovarono traducendola in innumerevoli affreschi sui muri dell’alta chiesa che a Subiaco fu eretta sul monte. Pregevoli per leggiadria e per sobrietà d’imagini, immuni così dalla esagerazione delle storie dei martiri come dall’assurdità [12] delle leggende posteriori, quelle narrazioni possono appellarsi la vera epopea santa del monacato. Papa Gregorio, contemporaneo di Benedetto, ma di lui più giovane, dedicava alla storia leggendaria del Santo il secondo libro dei suoi Dialoghi, e più di due secoli dopo il longobardo Warnefredo, ossia Paolo Diacono, monaco di Monte Cassino, espiava la colpa del suo popolo che un tempo aveva distrutto quel convento, scrivendo distici adorni, nei quali celebrava i miracoli di Benedetto[4].
In un tempo in cui l’ordinamento politico dello Stato romano si sfasciava, in cui la società civile precipitava in rovina e molti di quell’età rifuggivano nella solitudine secondando un impulso quasi istintivo dell’animo, quell’uomo meraviglioso sorgeva a farsi legislatore nella cerchia di vita del sentimento cristiano. Prima ancor di Benedetto, l’Occidente aveva avuto i suoi monaci, ma fino a quel tempo eglino, per gran parte vagabondi e indisciplinati, erano vissuti secondo la regola del greco Basilio o di Equizio di Valeria, di Onorato di Fundi o di Egesippo di Castel Lucullano di Napoli o secondo altri ordinamenti. Ora però Benedetto dava opera ad una riforma d’ordine romano, e sottometteva il monacato ad un reggimento severo e durevole. [13] Per lui la Chiesa latina riceveva il primo organamento claustrale autonomo, di tal guisa poteva liberarsi dalla soggezione di Grecia e d’Oriente; e si è appunto questo merito che attribuisce a Benedetto una altissima importanza nazionale in riguardo a Roma e all’Occidente governato dall’Episcopato romano. Chi giudica l’istituto monastico colle vedute e cogli intendimenti della società attuale, non può rendere giustizia ad un uomo quale si fu Benedetto; ma per chi lo consideri tenendo conto delle necessità dei tempi suoi, egli certo appartiene agli uomini più illustri dei primi tempi del medio evo onde egli fu il Pittagora. Entrambi quei legislatori ebbero in mira un idealismo sociale. Quello del grande Greco si esplicava in una fratellanza di uomini generosi e forti, che, inspirandosi all’amore della libertà e della filosofia, dovevano svolgere la loro operosità nell’adempimento dei doveri tutti della vita, nella famiglia, nella società, nello Stato. La repubblica monacale di Benedetto, inspirata ad un solo scopo, si chiudeva invece entro i confini sociali più angusti, così che Benedetto non poteva costituirla che a spese della società. Nelle sue leggi accoglieva la idea cristiana della negazione dello Stato, ripudiava il matrimonio, creava semplicemente una fratellanza di anacoreti; e queste associazioni di uomini, pochi di numero e tutto soli, si asserragliavano dapprincipio nel mezzo della solitudine immensa dei monti, più tardi anche nel mezzo delle città. L’affrancamento dalle necessità mondane apparve allora sotto la miseranda forma della servitù, avvegnachè coloro che si associavano in religione monastica altro non fossero che servi votati al Signore. [14] Quel problema per cui s’era chiesto se fosse possibile cosa trasportare sulla faccia della terra l’imagine del regno celeste, doveva trovare sua soluzione in unioni solitarie di chiostri; sennonchè questa democrazia dei santi, causa le esigenze terrene, si convertì col proceder dei tempi in una sconciatura ridicola. L’ordinamento tremendo, in cui all’uomo null’altro è concesso che una libertà di puro misticismo, in cui l’anima vivente è strappata sì alle lotte del mondo, ma anche ai suoi godimenti, esce fuor dello scopo che è imposto dalle leggi di natura, ma non trascende però al di là dei confini dell’organamento dell’uomo; e quanto più in generale è dura, servile e infelice la vita della società, tanto più numerosi sono quelli che, astretti o volonterosi, rinunciano ad un mondo odioso e cercano rifugio nell’idea cui intende l’intimo desiderio della coscienza[5]. L’animo elevato e poetico, tutto in sè romito di Benedetto comprese i bisogni religiosi di quel tempo procelloso, li raccolse nella sua repubblica e quale legislatore ne costituì il reggimento colla mira generosa di far fruttificare in iscuole pratiche le dottrine cristiane dell’obbedienza alla legge morale, [15] dell’umiltà e dell’amore, dell’abnegazione, della libertà morale e della comunanza dei beni. E quel che v’ha di grande nel suo Ordine monastico si è che esso svelò come quegli insegnamenti non ispaziassero nel mero campo dell’idea, ma potessero tradursi efficacemente nell’opera; e se vogliasi tributare una giusta lode a quel monacato, sì benemerito un tempo della cultura e sì venerando, questa è, che in un tempo barbarico, alle fiere e rotte passioni dell’egoismo, dell’avidità di potere e della sensualità esso potè opporre una repubblica eroica di uomini che s’imponevano a dovere la operosità, la povertà, il sacrificio di sè. Benedetto non permise che i suoi monaci perdessero sonnacchiosi il loro tempo nella ignavia contemplativa; obbedendo alla legge sociale della divisione del lavoro, eglino avevano obbligo di faticare colle braccia e collo spirito; laonde i Benedettini in molti paesi dell’Occidente divennero maestri dell’agricoltura, delle industrie, delle scienze, merito durevole di questo che fu il più illustre, il più glorioso, e, ciò che val meglio, il più umanitario di tutti gli Ordini religiosi sorti dal Cristianesimo. I conventi che obbedivano alla regola di Benedetto prestamente si diffusero nell’Occidente; Spagna, Gallie, Italia, Inghilterra e, dopo il secolo ottavo, anche Germania, ne furono piene. La Chiesa romana se ne giovò tosto al suo scopo; essi diventarono per la Chiesa ciò che erano state per la vecchia Roma le colonie militari; e, non appena lo Stato era caduto in pezzi, monaci romani a piè scalzi, cinti i fianchi di cilicio, non trattenuti da paura, si inoltravano, simili a conquistatori, fino alla estrema Tule, e penetravano in quelle regioni [16] selvagge dell’Occidente che un tempo i consoli antichi, alla testa delle legioni, non avevano potuto sottomettere appieno.
Le terre tutte d’Italia in questo tempo vedevano sorgere conventi novelli. Ad uno di essi tributar dobbiamo venerazione profonda, avvegnachè fosse l’ultimo asilo di Cassiodoro. Dopo che per trent’anni quel grand’uomo di Stato ebbe con isplendore governata Italia sotto di Teodorico, di Amalasunta, di Atalarico e di Vitige, e dopo che per sì lunga età ebbe salvati gli Italiani dalla barbarie, stanco, triste e mosso a pensieri di pietà, egli si partì dal mondo romano che crollava, per seppellire nella cella di un chiostro, insieme colla sua vita, anche la scienza e la sapiente ragione di governo dell’Antichità. Nell’anno 538 fondò il Monasterium Vivariense nella sua terra nativa di Squillace nelle Calabrie, la cui positura incantevole egli stesso descrive da poeta, quando la paragona ad un tralcio di vite che pende da un monte petroso. Dopo che ebbe tentato con alcuni scritti di inspirare negli studî teologici qualche gusto di stile classico, morì nel 545, nei suoi cento e più anni di vita, contemporaneo di Boezio e di Benedetto, di quei due uomini che si sogliono nominare l’uno allato dell’altro per dipingere i profondi contrasti di quell’età. Cassiodoro, ultimo dei Romani, che si copre la testa di un cappuccio monacale per morirvi, offre un quadro commovente e di tragica tristezza, perocchè si sveli in lui il destino stesso della città di Roma che omai entra in convento[6].
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Anche in Roma fondavansi già, intorno a questo tempo, molti chiostri; e infatti, dopo che Atanasio di Alessandria discepolo dell’egiziano Antonio, verso la metà del secolo quarto, avea qui introdotto il monacato, questo vi si era diffuso con meravigliosa prestezza: e al tempo di Rutilio non v’era un palmo d’isola del mar Tirreno, per quanto piccola fosse, come Igilio, la Capraia, la Gorgona, e Palmara e Monte Cristo, dove anacoreti «pavidi della luce» non avessero posto loro stanza[7]. Agostino parla con chiaro discorso di conventi che esistevano in Roma, e Girolamo con orgoglio vi conta frati e monache innumerevoli. Questo apostolo zelatore del monacato in una lettera indiritta a Principia, pia [18] donna romana, offre descrizioni curiose e particolareggiate sull’origine che in Roma ebbero i monasteri di donne. La pupilla della celebre Marcella avevalo chiesto di dettare una biografia di questa matrona, e Girolamo non sapeva tributare onoranza migliore alla Santa di quella per cui la celebrava prima monaca di Roma che fosse nata di nobile progenie. Marcella, discendente di una famiglia, che fra i suoi antenati contava una lunga serie di consoli e di prefetti di Roma, aveva perduto lo sposo dopo sette soli mesi di matrimonio; indi, respinte le istanze che il console Cercalis movevale per ottenerne la mano, aveva eletto vita monastica, affrontando colla fermezza dell’animo suo quella ignominia che agli occhi delle illustri donne le procacciava un proposito che non aveva riscontro d’esempli. Ciò avveniva non molto dopo che Atanasio e più tardi Pietro di Alessandria, fuggendo dalle persecuzioni degli Ariani, erano venuti a Roma. Le idee che questi uomini avevano qui diffuso e le narrazioni meravigliose della vita di Pacomio e di Antonio, delle monache e dei frati che dimoravano nei deserti petrosi della Tebaide, avevano acceso l’ardente fantasia di Marcella siffattamente, che la pia vedova nel suo fervore avrebbe ambito di raccogliere in chiostro le donne tutte di Roma. Occorsero degli anni perchè l’apostolato di lei mettesse frutto, ma poi ella con orgoglio potè contare fra le seguaci sue Sofronia, Paola ed Eustochia patrizie romane. In Roma finalmente ella conobbe Girolamo e tenne quindi con esso una frequente corrispondenza epistolare. È cosa incerta se Marcella fondasse il primo convento femminile di Roma nelle sue case [19] che sorgevano sul monte Aventino[8]; perocchè dapprincipio ella non vivesse entro la Città, ma eleggesse a chiostro un suo possedimento di campagna, dove ella abitava insieme alla discepola Eustochia. «Abbiate ivi lunga vita,» così le scriveva Girolamo, «il vostro esempio ha operate molte conversioni, e Roma, giubiliamone, s’è trasformata in Gerusalemme; poichè vi sono parecchi conventi di vergini donne, e innumerevole è la moltitudine dei monaci»[9].
Ad ogni chiesa di Roma si cominciò quindi in poi ad aggiungere un monastero; già Leone I uno ne aveva edificato congiungendolo al san Pietro e l’aveva consecrato ai santi Giovanni e Paolo. L’operosità di Benedetto a quella tendenza del tempo inspirava una forza novella: ricchi patrizî fondavano chiostri; Gregorio, sceso della celebre stirpe degli Anicii, spendeva il patrimonio della sua famiglia per erigere nel palazzo Anicio sul Clivo Scauro un convento che dedicava all’apostolo Andrea e che dura oggidì ancora [20] presso la chiesa di san Gregorio sul monte Celio[10]. Quando poi Gregorio diventò papa, la moltitudine dei frati e delle monache, che vivevano associati in conventi o solinghi in celle, era così numerosa, che di sole monache ei poteva contare tre mila donne, le quali ogni anno ottenevano sussidio dal patrimonio della Chiesa[11].
La costituzione monastica di Benedetto, sorta fin dagli ultimi tempi dei Goti, aveva preceduto all’invasione di Alboino, e in essa la Chiesa conseguiva una [21] delle armi più valide per sottomettere quei Longobardi che dapprincipio si erano mostrati tanto terribili. Ariani di credenza come i Goti, ma commisti a genti pagane della Germania e della Sarmazia, quei popoli erano incapaci di accogliere in sè la civiltà antica che eglino ancor trovavano in Italia[12], e soltanto alla Chiesa latina riusciva di poter loro mettere un freno, poco a poco trasfondendo in essi le reliquie di cultura classica che avevano trovato rifugio in quei conventi. Corsero tuttavolta più di centocinquant’anni perchè i Longobardi accogliessero quel mutamento nell’indole loro, e quel tempo fu uno dei più spaventosi periodi della storia di Italia. Quando quel popolo discese, le città italiche, sebbene dalle guerre dei Goti devastate e vuote di popolo, duravano tuttavia nella loro forma romana piene di monumenti deserti, testimonî dello splendore dell’antichità, ed offrivano allo sguardo uno spettacolo di estrema tristezza che a parole mal si può pingere. Ma una dopo l’altra cadevano adesso sotto la spada di quei barbari, e con esse perivano anche gli ultimi avanzi di costituzione latina del municipio antico. Il popolo di Alboino era animato da spiriti ben differenti [22] da quelli del popolo del gran Teodorico; i generosi Goti avevano protetta la cultura latina, i Longobardi selvaggi la fecero in pezzi. La peste e le devastazioni di guerra avevano resa Italia quasi incapace di opporre resistenza, e fiacca era la difesa dei Greci. Già nell’autunno del 569 Milano s’era arresa ad Alboino, il quale nel 572, dopo un assedio di tre anni, entrava in Pavia nel palazzo di Teodorico, e dall’Italia superiore ora imprendeva l’opera di assoggettamento di tutta la penisola. Soltanto Ravenna, Roma e le città marittime tenevano alto il vessillo dello Stato e dell’Imperatore, e la conservazione di Roma, che appena si difendeva, sembrava un prodigio agli stessi Romani. Al possedimento della capitale agognava Alboino desideroso di porre la sede del suo reame nel palazzo dei Cesari; e già le sue orde guerriere, con orribili guasti, da Spoleto si avanzavano fin sotto le mura di Aureliano. Ciò avveniva ancora al tempo del vescovo Giovanni III (560-573), che, dopo un reggimento di quasi tredici anni, moriva addì 13 luglio 573.
Roma era premuta allora da difficoltà sì gravi che la sede di Pietro rimase più di un anno vacante, ed invero i Longobardi avevano posto campo innanzi alle porte o in vicinanza della Città e impedivano ogni relazione con Bisanzio, di dove l’Imperatore doveva dare la conferma al novello Pontefice. Fu questi Benedetto I, romano (574-578). Del suo reggimento, che durò quattro anni, poco si sa; il Libro Pontificale narra soltanto che durante esso i Longobardi ebbero invase tutte le terre d’Italia, e che la moria e la fame infierirono. Anche Roma ne fu afflitta, e Giustino imperatore, o piuttosto [23] il generoso Tiberio, ebbe cura di alleviare la penuria della Città mandando granaglie d’Egitto a Porto[13].
Dopo che in sull’anno 575 fu morto Clefi, cui i Longobardi avevano data la corona di Alboino assassinato, l’impero di quel popolo, preda dell’anarchia, si era diviso fra trentasei Duchi, e Farvaldo, primo duca di Spoleto, teneva assediata Roma precisamente nel tempo in cui moriva Benedetto I, addì 30 Luglio 578[14]. Il suo successore, Pelagio II, figlio di Vinigildo, romano di origine gotica (578-590), fu perciò consecrato senza che avesse ottenuta conferma dall’Imperatore[15]. La pressura ond’era gravata Roma, rendeva ancor più necessaria la pronta elezione del suo reggitore spirituale, avvegnachè la Città non avesse nè un Duce, nè un Maestro di milizia. Ignoriamo massimamente in che modo Roma potesse provvedere alla sua difesa, nè sappiamo se fin d’allora alla poca soldatesca greca, che v’era di presidio, si unisse una milizia cittadina; abbiamo però motivo di accogliere l’opinione che l’assedio di Roma desse origine al primo organamento militare [24] della cittadinanza. I Romani, che già un tempo colla forza delle armi avevano soggiogato il mondo, in quest’altro periodo della loro vita storica tornavano ai loro principî primi, e, dopo un lungo letargo che non aveva riscontro pari, imprendevano di bel nuovo a istituire una scarsa soldatesca cittadina, quasi che prima Roma non avesse avuto mai geste di guerra.
L’afflitta Città o piuttosto il suo Vescovo, chè la necessità ne lo faceva il rappresentante e ben presto il reggitore, si volgeva all’Imperatore di Bisanzio signore suo, chiedendone soccorso. Un’ambasceria solenne di senatori e di sacerdoti con a capo il patrizio Pamfronio, recava innanzi al trono di Costantinopoli il grido di dolore di Roma e tremila libbre d’oro smunte alla miseria della abbandonata Città. Ma la guerra di Persia occupava tutte le forze dello Stato, l’Imperatore mandava soldati insufficienti al bisogno a Ravenna, che per l’importanza gli stava più a cuore di Roma; era però generoso abbastanza da rinunciare all’oro romano, e consigliava che con esso si tentasse di corrompere i comandanti militari dei Longobardi[16].
I Romani conchiusero un trattato coll’inimico pagando riscatto, e Zoto, duca di Benevento, ritirò il suo esercito al di là del Liri, dove nell’anno 589 mise a distruzione il monastero di Monte Cassino[17].
[25]
Egli lo assaltò di notte tempo, ma gli sventurati monaci ebbero tempo di fuggire e di salvarsi a Roma seco portando il libro della Regola monastica scritto di mano del loro Santo[18]. Pelagio diè loro ricovero presso la basilica Lateranense, dove i padri di Monte Cassino fondarono il primo convento di Benedettini in Roma, che eglino appellarono col nome dell’Evangelista e del Battista Giovanni; e quando più tardi loro fu affidato l’officio liturgico della chiesa, la basilica di Costantino o del Salvatore, dal nome del chiostro, ricevette il titolo di san Giovanni Battista. Primo abate fu Valentiniano, e durante i centoquarant’anni in cui Monte Cassino fu abbandonato in ruina, il convento fiorì splendidamente; più tardi decadde così, che nel secolo ottavo Gregorio II fu costretto a rinnovellarlo[19].
Prima ancora che i Benedettini fuggiaschi trovassero ricovero in Roma, Gregorio, uno dei patrizî più illustri di Roma, aveva fondato, come già osservammo, un monastero sul dolce declivio di quel monte Celio che già diventava deserto; ed ivi allora ei viveva in solitudine monastica. Il vescovo Pelagio conobbe in lui virtù capaci a vincere le avversità dei tempi futuri, e pertanto, trattolo da quell’abbandono romito di sognatore, lo spediva suo nunzio alla corte bizantina, che voleva pacificare del dispetto cagionato dalla sua ordinazione avvenuta senza conferma imperiale. La Chiesa [26] romana si faceva rappresentare (ed è questa la prima istituzione dei Nunzî) da un Apocrisario, ossia da uno stabile ambasciatore, così in Ravenna presso l’Esarca, come in Bisanzio presso l’Imperatore, e noi abbiam veduto che un officio sì illustre poteva essere considerato l’eccelso dei gradini che adducevano alla sedia di san Pietro. È probabile che Gregorio andasse a Costantinopoli con quella stessa ambasceria di patrizî e di preti che nel 579 era ita a chieder ajuto contro i Longobardi. Ivi, così in corte che fra gli ottimati più influenti, Gregorio si fece degli amici illustri, quali furono la imperatrice Costantina figlia di Tiberio, Teoctista sorella dell’imperatore Maurizio, e quest’ultimo, che salì al trono nell’agosto dell’anno 582. Ancora nel 584 egli stava in corte dell’Imperatore, come si pare da una lettera degna di nota a lui indiritta da papa Pelagio. Gregorio nunzio assediava del continuo con sue preghiere Maurizio, affinchè porgesse soccorso alle necessità di Roma, dove a quel tempo non trovavasi neppure un generale imperiale: alla fine l’Imperatore vi mandava Gregorio duce e Castorio maestro dei militi, e la Città era liberata dall’inimico mediante un armistizio di tre anni. Il trattato era conchiuso nell’anno 584 tra Smaragdo, successore di Longino nell’Esarcato, e re Autari, che in quello aveva di bel nuovo riunito sotto un solo governo lo Stato dei Longobardi[20]. Presto però ruppero [27] costoro il patto della tregua, e fu questa la ragione per cui Pelagio scrisse a Gregorio la lettera onde più sopra facemmo menzione. Egli lo richiedeva che, fattosi compagno il vescovo Sebastiano latore a Costantinopoli dello scritto, andasse all’Imperatore instando di presti soccorsi. Quella epistola getta una tristissima luce sulle condizioni miserrime di Roma: «Parlate dunque», scriveva Pelagio, «e operate insieme per modo che, quanto più tostamente si possa, rechiate ajuto al pericolo nostro; perocchè la Repubblica sia qui ridotta a tal estremo che ci penda sopra inevitabile lo sterminio se Dio non mova il cuore del piissimo Imperatore ad aver pietà dei suoi servi e a concedere benignamente a questo suo dominio un Maestro dei militi ed un Duce[21]; ed invero il territorio romano, massimamente, sembra essere spoglio di qualunque presidio. L’Esarca scrive di non poterne soccorrere e protesta di non aver forze bastevoli a difendere neppure quel paese. Voglia dunque Iddio ispirarlo a correr tosto in salvezza nostra, prima che l’esercito del più empio tra i popoli riesca a impadronirsi di quelle città che la Repubblica ancora serba»[22].
[28]
Fin d’allora pertanto a sì diserto abbandono era ridotta la metropoli antica dell’Impero romano. Gli Imperatori greci, intenti a lottare in Oriente contro la potenza di Persia, indeboliti da rivolgimenti interni, affidavano alla balìa del destino le loro province d’Italia. Il Vescovo romano, che non fidava più nel soccorso di Ravenna, quasi lo inducesse previdenza del tempo futuro, cominciava perciò in allora a rivolgere i proprî sguardi al remoto Occidente, dove Clodoveo, già fin dall’anno 486, aveva fondato nelle Gallie sopra i ruderi dell’Impero romano il possente reame dei Franchi. Questo popolo, dopo la sua conversione, seguiva la fede cattolica di Atanasio, epperò il Papa scorgeva in esso chi avrebbe prestato ausilio alla Chiesa, e già i preti avevano appellato Clodoveo il re cristianissimo e lo avevano detto Costantino novello. Una lettera importante, che Pelagio II scriveva ad Aunacario vescovo di Auxerre, esprime manifesta fiducia che i Franchi ortodossi avessero ricevuto da Dio la missione di salvare Roma dalle mani dei Longobardi[23]. Per il fatto, anche l’imperatore [29] Maurizio stringeva urgenti trattative con Childeberto re dei Franchi per muoverlo a guerra contro i Longobardi; e già nell’anno 584 Childeberto scendeva con un esercito in Italia, ma Autari lo induceva a far pace ed a ritornare tostamente alle sue contrade.
Poco dopo l’anno 584, Gregorio era tolto all’officio che teneva in Bisanzio, dove aveva a succeditore l’arcidiacono Lorenzo: ed ei tornava alla cella del suo monastero sul Celio, del quale non doveva più uscire che per salire alla cattedra di Pietro.
Gli anni che seguono sono involti in un buio profondo; i Cronisti di quei tempi sono, al paro di essi, laconici e oscuri, e parlano soltanto delle calamità che inflissero a Roma i nembi e la peste. Sulla fine dell’anno 589 il Tevere inondava una parte della Città e distruggeva molti templi e molti monumenti che, dobbiamo credere, esistevano nel Campo di Marte. Il celebre vescovo Gregorio di Tours aveva allora spedito a Roma un suo diacono per raccogliervi reliquie, e ciò che questo testimonio oculare, tornato in patria, gli raccontò con meravigliose amplificazioni, egli a sua volta [30] narrò nella Storia dei Franchi. «Con tal violenza di flutti», dic’egli, «il Tevere coperse la Città, che ne precipitarono gli edifici antichi e ne furono distrutti i granai della Chiesa»[24].
Il guasto che recarono le acque fu sì grande che se ne deplorò la ruina di parecchi monumenti antichi; più terribile però fu il danno della peste che tosto dopo rese squallida Roma. Sul principio dell’anno 590 scoppiò essa in molti luoghi d’Italia, che al paro di Roma erano stati devastati da allagazioni simili a diluvî. Il morbo spaventoso, cui gli scrittori latini danno il nome di lues inguinaria, dall’anno 542 in poi non aveva cessato di disertare le contrade d’Europa[25]. Sorta dalle paludi dell’egiziano Pelusio, la peste era di repente comparsa a Bisanzio, indi, come suole avvenire nelle grandi sventure dei popoli, aveva seguite le orme delle guerre. L’età di Giustiniano ne fu afflitta per modo, che difficilmente in altri tempi la «morte nera» ebbe menato stragi eguali. Procopio e, dopo di lui, Paolo Diacono diedero descrizioni efficaci di quel [31] flagello[26]. Senza che il fervore del morbo risentisse influenza di stagione, coglieva gli uomini al paro degli animali, nè aveva bisogno di contatto per propagarsi. La fantasia delirante delle genti udiva spandersi lungo per l’aere un suon di tube, mirava scolpito sulle case il segno dell’angelo dello esterminio, e nelle vie scorgeva errare il demone della peste e fantasime (φάσματα δαιμόνων) che d’un solo colpo infliggevano la morte ai passanti. La morte non era repentina; spesso avveniva solo dopo tre giorni: gli infermi trapassavano assopiti in un plumbeo sonno o arsi dalla febbre, e, se si apriva il cadavere, trovavansi le viscere rose da ulceri e nei tumori materie come di sostanza carbonica.
Già durante la guerra gotica e dopo di essa, Italia e Roma erano state a parecchie riprese afflitte dalla pestilenza; ma quando, nel gennaio dell’anno 590, scoppiò di nuovo, imperversò fieramente sì da minacciare che Roma si vuoterebbe d’abitatori. Gregorio nei suoi scritti ne fa menzione, e con terrore superstizioso asserisce che ad occhio veggente d’uomo miravansi scendere dal cielo frecce che parevano trafiggere i petti degli uomini. Lo spavento partoriva visioni, ed egli stesso porge un esempio che sembra quasi preannunciare le descrizioni dell’inferno dantesco. L’anima di un soldato infermo di peste, così egli narra, era trasportata fuori del corpo e trascinata nel mondo di sotterra. Ivi il moribondo vedeva un ponte gettato sopra un torrente nero nero, e al di là di esso splendidi prati smaltati [32] di fiori, dov’erano raccolti uomini vestiti di abiti bianchi ed erano abitazioni luminose e belle. I giusti potevano valicare il ponte, ma i malvagi precipitavano nella fetida palude. Il visionario era tanto malizioso da scorgere in loco orrendo un Pietro prete, avvegnachè egli fosse steso sul nudo terreno sotto la pressura di un gran peso di ferro: però affermava di un sacerdote straniero che ricevendo oneste accoglienze e liete passava oltre il ponte, laddove il romano Stefano ne precipitava, per di sopra spinto da candidi spiriti, di sotto da diavoli: e probabilmente, se l’anima sua non fosse stata troppo presto ricongiunta al corpo, affè che il bravo soldato avrebbe potuto scernere qualche prete romano di più entro le fiamme dell’inferno[27].
Di questa pestilenza moriva anche Pelagio II, addì 8 febbraio 590. E ricordanza di lui, che resse la Chiesa in tempi sì oscuri e dolenti di tanti guai, è offerta dal suo edificio della basilica di san Lorenzo fuor delle porte[28]. Già nel secolo quarto, e più tardi per opera di Sisto III, la tomba di quel Santo, che trovavasi nell’agro Verano, era stata racchiusa entro una cappella. L’onoranza tributata al Martire crebbe nel corso degli anni; nei giorni della sua festività accorrevano comitive di pii visitatori a quelle catacombe di Ermete e di [33] Ippolito, e già v’erano state costruite case pei pellegrini e piccole basiliche. Oltre a Lorenzo, quale protomartire veneravasi di singolare devozione Stefano, arcidiacono della chiesa di Gerusalemme, le cui reliquie narra la leggenda che Pelagio portasse di Bisanzio a Roma, dove ebbero sepoltura nell’urna di quell’altro Martire. I due Santi, principi del Diaconato, rappresentavano nella mitologia romana l’ordine dei sacerdoti, laddove altri appartenevano all’ordine dei nobili guerrieri o alla eletta cittadinanza od al popolo. Pelagio riedificò, ampliandola, la chiesa che già sorgeva sulla tomba del Santo venerato, e nella iscrizione apposta sull’arco trionfale della basilica magnificò sè stesso di aver compiuta l’opera di quell’edificio in mezzo alle ostili spade (dei Longobardi). La iscrizione dura tuttodì a ricordanza di una delle epoche più oscure di vita della città di Roma[29].
Quell’arco di Pelagio costituisce oggi la volta che [34] unisce le due parti ond’è composta la mirabile chiesa, la cui storia antica è assai incerta. La basilica infatti consta di una parte anteriore, di cui è manifesta la costruzione più recente, e della parte posteriore che è più antica; quest’ultima poi in origine fu edificata sopra catacombe, delle quali si vedono oggidì ancora tracce di sepolcri e di pitture antiche. La chiesa contiene due serie di colonne, delle quali l’una posa sopra l’altra. Le colonne inferiori, cinque per lato e due all’estremità del coro, sono magnifiche e antiche; i loro capitelli sono quali corinzi, quali fantastici di stile differente, ma belli tutti; due di essi sono adorni di vittorie e di armature. Gli architravi sostenuti dalle colonne sono composti di frammenti preziosi dell’arte antica, ma commessi insieme rozzamente; per certo sono spoglie strappate a splendidi templi del miglior periodo imperiale, messi a ruba. È probabile che Pelagio trovasse quella prima serie di colonne già eretta e ch’egli sopra l’architrave edificasse soltanto la serie superiore di colonne minori, avvegnachè sembri che la tomba del Martire nell’età più antica fosse, a foggia di tempio, circondata soltanto di un portico, finchè vi fu aggiunta più tardi la chiesa posteriore che or trovasi di undici gradini più elevata dell’altra parte. Il disegno dell’edificio dimostra che la tomba del Martire in origine non era compresa entro una basilica, e forse Pelagio per il primo, all’uopo di raccogliervi il sepolcro, edificava la chiesa anteriore, al di sopra della Confessione innalzava l’arco trionfale, e, costruendo nel primitivo portico di colonne un coro elevato, ne costituiva così un presbiterio. Il distico che leggesi sotto il musaico antico, parla di templi, e con ciò [35] sembra accennare alla duplice edificazione. Pelagio ornò l’arco trionfale di musaici che oggi molto hanno perduto del loro stile antico a causa di restaurazioni. Vi è figurato il Cristo avvolto in manto nero; siede sopra un globo e tiene nella sinistra il bastone colla croce; la destra alza in atto di benedire. Ai lati di lui Pietro e Paolo; vicino a Paolo stanno santo Stefano e santo Ippolito; a Pietro è prossimo san Lorenzo che tiene nelle mani un libro aperto e sembra raccomandare Pelagio alla protezione del Redentore. Il Papa veste un bianco paludamento, è a capo scoperto e senza aureola, e nelle mani sostiene il modello del suo edificio: ai due lati del quadro sono disegnate le città di Gerusalemme e di Betlemme, splendide di oro secondo il costume antico. I musaici originarî erano condotti con secchezza di stile; il san Lorenzo non è ancora dipinto in quell’aspetto giovanile e dolce che a lui, Santo prediletto, del pari che a Stefano, l’arte ecclesiastica si compiacque di attribuire nei tempi posteriori[30].
Morto Pelagio, il clero ed il popolo concordi eleggevano a papa quel Gregorio che tra i più illustri pontefici [36] ottenne gloria imperitura (590-604)[31]. Discendeva egli dell’antichissima progenie degli Anicî, che per isplendore ebbe superate le altre grandi famiglie degli ultimi tempi dell’Impero romano, e la cui tradizione si serbò viva in Roma durante il corso di tutto il medio evo. Suo avo era stato papa Felice; ebbe a padre Gordiano; a madre Silvia che possedeva un palazzo presso santo Saba sull’Aventino; le sue parenti dal lato paterno, Tarsilla ed Emiliana, erano donzelle sante e pie, laddove Gordiana, una terza sorella, aveva invece preferito vita di piaceri mondani. Gregorio era cresciuto nel più terribile di tutti i tempi, quando i Longobardi, soggiogata la patria di lui, si spingevano fin sotto Roma, e nel furore selvaggio della devastazione cadevano distrutte le ultime reliquie del mondo latino. In giovinezza, designato agli officî politici, egli si era erudito in quella cultura dialettica e rettorica che allora insegnavasi in Roma, dove a stento ei poteva profittare degli ultimi avanzi di quelle scuole cui un tempo Teodorico aveva dedicato cura solerte. Tenne l’officio, non ancora cessato, di prefetto [37] urbano[32]; però quali servigî un patrizio romano poteva in tanta tristizia di tempi prestare allo Stato, a quali onori poteva salire nella Repubblica? La meta più elevata cui il discendente degli Anicî potesse intendere si era soltanto il trono dei vescovi. Gregorio invaghito del desiderio di solitudine claustrale e afflitto delle condizioni politiche di Roma, si nascose, come Cassiodoro, nel sajo del monaco; l’uomo «che aveva costume di percorrere le vie della Città in abiti tessuti di seta e splendenti di pietre preziose, vestiva tonaca modesta e succinta per dedicarsi al servizio del Signore»[33]. Abbiamo già veduto che egli profondeva tutto il suo patrimonio a fondare monasteri; sei ne erigeva in Sicilia, e questo dimostra quanta ricchezza di possedimenti ivi avesse la sua famiglia. Pelagio lo ordinava diacono e lo spediva nunzio a Bisanzio, ed ora tutta Roma d’una voce lo acclamava pontefice[34].
Nessun uomo in mezzo a sì aspre difficoltà sembrava acconcio al governo della Chiesa meglio di quello illustre e benefico che un tempo era stato prefetto di [38] Roma. Ma l’eletto tentava di sottrarsi al grande incarico e con lettere chiedeva all’imperatore Maurizio suo amico che negasse la conferma all’elezione; ma l’epistola, intercettata da Germano prefetto della Città, era cambiata con altra nella quale si conteneva fervida istanza affinchè la elezione fosse approvata. Nel tempo che durava la vacanza della santa sede, il reggimento della Chiesa era sostenuto dall’Arciprete, dall’Arcidiacono e dal Primicerio ossia preside dei Notai; egli sembra però che al solo Gregorio fosse affidato l’officio di tener le veci di vescovo: chè, prima ancora di essere consecrato, egli bandiva per tre dì litane di penitenza affine di supplicare dal cielo la cessazione della peste. Il morbo infieriva ancora orridamente; ed egli stesso, nell’orazione che tenne ai 29 di Agosto in santa Sabina, diceva che i Romani in gran moltitudine ne morivano e che le case rimanevano deserte di abitatori[35]. La processione fu ordinata nel modo seguente: il popolo doveva dividersi in sette schiere a seconda dell’età e del ceto, ed ognuna doveva riunirsi in una chiesa, donde muovere solennemente ad una meta comune che era la basilica di santa Maria Maggiore. I cherici partirono dai santi Cosma e Damiano coi preti della sesta regione; gli abati coi loro frati dai santi Gervasio e Protasio (san Vitale) col clero della quarta regione; dai santi Marcellino e Pietro mossero le abbadesse con tutte le monache e coi sacerdoti della prima regione; tutti i fanciulletti di Roma dai santi Giovanni e Paolo sul Celio coi preti della regione seconda; tutti gli uomini [39] laici da santo Stefano sul Celio col clero della settima; le donne vedove da santa Eufemia coi sacerdoti della regione quinta[36]; finalmente tutte le donne maritate partirono da san Clemente coi preti della terza regione[37].
In mezzo a questa città che si seminava di cadaveri, in cui nel silenzio delle ruine e nei vasti tratti vuoti di abitatori l’orrore del deserto dev’essere stato spaventoso, mostravasi adesso uno spettacolo triste e strano con cui, nell’anno 590, per la prima volta si palesano i caratteri proprî del medio evo. I Romani antichi, se avessero potuto mirare a questa solennità cristiana, ne avrebbero abbrividito. Le donne dolenti si coprivano di manti e di veli abbrunati, e gli uomini velavano la testa di cappucci probabilmente simili a quelli con cui oggidì ancora si mascherano le confraternite di Roma. E intanto che quei lugubri cori di tutto il popolo romano facevano risonare l’aere di loro inni, avrebbe potuto sembrare che eglino trasportassero alla tomba la Roma antica e che celebrassero i presagî di quei secoli sciagurati che or dovevano incominciare.
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La moria seguiva i pellegrini; nel mezzo della processione uomini cadevano morti al suolo, ma una visione soprannaturale conchiuse consolatrice le litane e il morbo. Gregorio stava già per entrare colla processione nella chiesa di san Pietro ed era venuto al ponte, quando un’imagine celeste si rivelò agli occhi del popolo. Sulla tomba di Adriano un angelo raccoglieva il volo e rimetteva nel fodero una spada di fuoco per significare che la peste era finita. Da questa bella leggenda la mole di Adriano ebbe fin dal secolo decimo il nome di Castel sant’Angelo, e la statua di bronzo dell’arcangelo Michele che ripone nella vagina la sua spada, posa ancora colle ali aperte sul vertice di quello che è il mausoleo più mirabile del mondo[38].
Altre leggende attribuiscono la cessazione della peste alla vera imagine della Vergine che il Papa fece portare in processione. Dei sette quadri effigiati della Madonna che furono attribuiti al mitico pennello dell’apostolo Luca, quattro si vedono in Roma; il quadro della chiesa di Araceli vale come più antico. In questa chiesa stessa sulla porta d’argento che racchiudeva la santa imagine, vedevasi, un tempo, il disegno che figurava la leggenda della peste. L’opera apparteneva al secolo decimoquinto; ad un secolo posteriore appartiene invece il quadro in ischisto, che vi rappresenta una processione in atto di trasportare la [41] imagine sopra un carro funebre, e di valicare il ponte dietro al quale s’innalza il castello[39].
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Come fu venuta di Bisanzio la conferma della elezione pontificia, Gregorio fu atterrito del grave officio[40], e, com’egli stesso confessò, volle fuggirne. Nel secolo nono narrava la leggenda che egli secretamente si facesse trasportare fuor di Roma da alcuni mercanti e si celasse in un bosco: i Romani però movevano a cercarlo; [44] una colomba raggiante di splendore oppure una colonna di luce svelava il nascondiglio di Gregorio; si riconduceva l’eletto con pompa di trionfo in san Pietro ed ivi era consecrato pontefice[41]. Gregorio saliva alla cattedra di Pietro addì 3 Settembre 590, e, per usare delle sue stesse parole, assumeva il governo della Chiesa come di una barca antica dove l’onda penetrava da tutte le parti, e le cui tavole sconnesse dalla tempesta collo stridìo annunciavano prossimo naufragio.
Le condizioni spaventose nelle quali Roma allora si trovava offrivano argomento alla sua prima predica. In quel tempo, ogni qualvolta il Vescovo romano, che nel senso vero dell’espressione era sacerdote e padre del suo popolo, saliva sul pergamo, ciò ch’egli vi parlava era parola di verità storica. Gregorio raccoglieva in san Pietro le reliquie del popolo di Roma, e gli sciagurati nepoti di Cicerone, accalcati nella basilica, a fioco lume, stavano intenti ad udirlo con ansia febbrile ancor maggiore di quella con cui i loro antenati avevano ascoltato, nel tempio della Concordia, i discorsi eloquenti degli oratori.
«Nostro Signore», diceva il Vescovo mestamente, «vuol trovarci parati alla sua chiamata, e ci mostra la [45] miseria del mondo invecchiato affinchè possiamo sgombrarne da noi ogni affetto. Voi avete veduto quante tempeste ne annuncino la prossima fine; se non placheremo in pace lo spirito di Dio, converrà che temiamo di apprendere il suo giudizio che s’avvicina in mezzo a flagelli tremendi. Al frammento dell’Evangelio di cui udiste testè le parole, il Signore premise questo: Una gente si leverà contro all’altra gente ed un regno contro all’altro e vi saranno terremoti, fame, pestilenza e prodigî spaventevoli, e grandi segni del cielo[42]. Di tutto questo abbiamo già visto colpirci alcuni guai, e dell’approssimarsi del resto già viviamo in paura. Imperocchè di popoli che calpestano altri popoli e di contrade oppresse di desolazione ai tempi nostri abbiamo veduto più di quello che nelle Scritture possa leggersi. Troppo di sovente da altre parti del mondo udiste di terremoti che distrussero cittadi innumerevoli, e noi soffriamo pestilenza senza fine. Di prodigî nel sole, nella luna e nelle stelle per vero ancor non sappiamo, ma che questi pure siano vicini ce lo avvertono le mutazioni dell’aria. Questo sì abbiamo veduto, prima che Italia fosse abbandonata alla balìa del ferro longobardo, balenare nel cielo spade di fuoco rosse del sangue del genere umano che tosto dopo fu sparso a torrenti. Vigilate attenti alla difesa di voi; chi Dio ama deve giubilare che il mondo finisca; chi ne sente amaritudine sono coloro nel cuore dei quali ha posto radice l’amore del mondo, coloro che non desiderano la vita futura, che non ne hanno la fede. Ogni dì il mondo è percosso da calamità [46] novelle; mirate quanto pochi dell’antico popolo senza numero siano rimasti, eppure noi ogni dì nuovi mali flagellano, e sventure impreviste abbattono. Il mondo diventa antico e incanutisce, e per un mare di dolori volge quasi a morte vicina»[43].
La prima predica di Gregorio ci trasporta nel buio profondo di quell’età, in cui Roma andava precipitando alla sua fine, in cui nel mondo che in sè chiudeva tanti germi di vita nuova, l’umanità altro non vedeva che i ruderi accumulati dell’Impero sovra i quali sedevano i Romani, ruina di popolo incanutito, e si adagiavano pronti a morirvi. Ma quello stesso Vescovo che gli ammoniva a rendersi famigliare il pensiero della caduta e della morte, in pari tempo dava opera sollecita a serbarli in vita ed a rialzarli. Per lui primo dovere era la salute della Città, e i tempi correvano tali che il Vescovo doveva riputarsi suo vero reggitore, avvegnachè in mezzo a quel rovinìo orrendo non vi fosse che un asilo, la Chiesa; non vi fosse che un proteggitore ed un salvatore, il Pontefice. La fame desolava la Città deserta, e Gregorio scriveva a Giustino pretore di Sicilia affinchè prestamente mandasse grano, di cui ancor sempre la Città da quell’isola ricavava provvisioni[44]. Poco l’Imperatore poteva darne, e la parte maggiore traeva la Chiesa stessa dai ricchi suoi possedimenti. A quella necessità potevasi provvedere ben più facilmente che alla pressura dei nemici, [47] imperocchè la spada di re Autari o quella di Ariulfo, duca di Spoleto, fossero rivolte contro Roma che i Longobardi circuivano come avoltoi intorno ad un cadavere. Scarso era il presidio della Città, e la soldatesca, cui facevasi mancare lo stipendio, non obbediva a disciplina. «Se viene Maurenzio cartulario», scriveva Gregorio allo scolastico Paolo, «pregovi di provvedere fervidamente insieme con lui ai bisogni di Roma, chè di fuori ogni dì più senza fine ci colpisce il ferro dei nemici, e dentro con maggior pericolo ci minaccia la rivolta dei soldati»[45].
Le esortazioni di Maurizio imperatore erano riuscite a trarre in campo di bel nuovo, nell’anno 590, Childeberto di Francia contro re Autari, ma la fame e il contagio distruggevano in Lombardia l’esercito franco, e per tal guisa la grande impresa che doveva condursi in unione coll’Esarca, riusciva vuota di risultamento; Roma però ne ebbe vantaggio, perocchè ne fosse così allontanato l’inimico. Autari poi moriva nel Settembre dell’anno 590; la vedova di lui, Teodolinda principessa di Baviera, faceva dono della sua mano e della corona dei Longobardi al giovane e bello Agilulfo duca di Torino, ed il novello Principe, per felice ventura della Chiesa, non era muto all’influenza della sua donna che professava fede cattolica. Roma, che sospirava ad una pace durevole, ne avrebbe goduto un qualche tratto, se i desiderî dei Pontefici fossero proceduti d’accordo cogli intendimenti politici o coll’energia dell’Esarca. Ariulfo di Spoleto e re Agilulfo stesso, nell’anno 593, stringevano Roma fino [48] agli estremi; Gregorio con lettere scritte all’Arcivescovo di Ravenna si lagnava acerbamente delle astute arti di Romano esarca, che ritardava la conchiusione della pace, e nel tempo stesso il Papa svelava l’orgogliosa coscienza di superare di gran lunga per grado e per dignità quell’officiale imperiale. Egli raccomandava all’Arcivescovo che inducesse l’Esarca alla pace con Ariulfo; lamentava che s’avessero tolti alla Città i soldati imperiali che v’erano di presidio, e che la milizia teodosiana, sola rimasta, appena accondiscendesse a tener la guardia delle mura, perocchè non avesse toccato stipendio[46].
Qualche tempo prima, Romano era venuto nella Città; incontro a lui che, per quanto sappiamo, fu il primo Esarca che mettesse piede in Roma, erano mossi i Romani, popolo e clero, ordinati in corporazioni con bandiere, e l’esercito; e con solenne corteo dal Laterano, dove il Papa gli faceva accoglienze, lo avevano condotto alla sua dimora che egli tuttora poneva nel palazzo dei Cesari[47]. Il patrizio greco ricevette gli omaggi più alti che erano dovuti all’Imperatore onde teneva le veci. Feste al popolo non diede, venne a mani vuote, e dopo di avere senza dubbio smunto oro dagli scrigni della Chiesa, se ne tornò via, seco traendo tutta la milizia mercenaria greca, financo i Teodosiani, [49] affine di guernire altre città minacciate dal nemico, quali erano Narni e Perugia. La ragione che aveva indotto a guerra Agilulfo si era la spedizione con cui l’Esarca, ad onta dei trattati, s’avea fatto signore di alcune città di Tuscia, già divenute longobarde, di Orta, di Polimarzio e di Bleda, ed inoltre il tradimento di Perugia, già poc’anzi presa dai Longobardi, che avveniva nell’anno 592 per opera di Maurizio loro duca in quella città. E poichè il Re moveva tosto ad assalire Perugia, Roma, causa la vicinanza, ne era colta di massimo spavento; chè infatti, non appena quella città, nell’anno 593, fu caduta in potere del Re, egli con tutti i suoi eserciti comparve innanzi a Roma.
Il movimento di guerra dei Longobardi era cagione che Gregorio interrompesse il corso dei sermoni coi quali interpretava Ezechiello al popolo; egli stesso dice che alla vista di coloro che tornavano colle mani mozze ed al racconto della prigionia e della morte di altri, l’animo suo non era stato capace di proseguirvi[48]. In quelle prediche pronunciate sotto l’impero degli avvenimenti, se vuoi anche con colori da retore, si dipinge viva e storicamente vera la condizione in cui allora trovavasi Roma; e la Omelia decimottava è un impareggiabile quadro di quei giorni tristissimi.
«Che avvi mai», sclama Gregorio, «che ancora in questo mondo ci allieti? Dappertutto vediamo lutti, dappertutto udiamo gemiti; le città sono saccheggiate, le castella demolite, le campagne devastate, la terra fatta [50] un deserto. Sui campi non resta più un colono, nelle città trovi appena un abitatore; eppure le poche reliquie del genere umano sono colpite ogni dì e incessantemente di guai; i flagelli della giustizia di Dio non hanno termine, perchè tanti castighi non bastano ancora ad espiare le peccata. Vedemmo questi tratti in servitù, quelli mutilati, altri uccisi. A che basso stato sia discesa poi quella Roma che altra fiata era signora del mondo, ci è facile scorgere: da acerbo cordoglio oppressa, spopolata di cittadini, assalita dagli inimici, fatta cumulo di ruine, in essa si compie ciò che un tempo di Samaria vaticinava il profeta Ezechiello: «Prendi una caldaia e versavi dentro dell’acqua e getta i suoi brani di carne entro di essa.» E più oltre: «Essa bollirà e cuocerà e saranno cotte le sue ossa.» Ed ancora: «Accumula le ossa che io vi dia fuoco; le carni si consumeranno, e tutto quello che è dentro la caldaja si struggerà, e le ossa saranno sfatte. Poni anche la caldaja vuota sopra i carboni, acciocchè il suo rame si arroventi e si liquefaccia.» Sì, la caldaja fu messa al fuoco fin d’allora che Roma ebbe fondamento, vi fu versata acqua e vi furono gettati entro tutti i suoi brani di carne allora che d’ogni parte i popoli della terra erano trascinati ad essa che, al paro di calda acqua, nell’incendio delle opere mondane bolliva, e come brani di carne si sciolsero in mezzo all’ardore del fuoco. E fu detto con mirabile parola: «Essa bollirà a scroscio e vi si cuoceranno entro anche le ossa.» Imperocchè dapprima vi si agitasse violentemente l’amore della gloria mondana, ma poi questa gloria si spense con quelli che del suo desiderio si accendevano. Le ossa significano gli [51] uomini potenti della terra, ma la carne i popoli, avvegnadio siccome le ossa sostengono la carne, così la fralezza dei popoli sia governata dai possenti della terra. Ma vedi, or le furono già tolti tutti i potenti del mondo, le ossa sono dunque cotte; vedi, i popoli sono caduti, dunque anche la carne è distrutta. Può dunque esser detto: «Accumula insieme le ossa che io vi dia fuoco; le carni si consumeranno, e tutto quello che è dentro la caldaja si struggerà, e le ossa saranno sfatte.» Ed invero, dov’è il Senato? dove il popolo? Le ossa sono distrutte, la carne consunta, in essa è spento tutto lo splendore delle dignità terrene. La moltitudine del suo popolo è discomparsa; e tuttavolta noi, pochi rimasti, ogni dì siamo minacciati di spada e di calamità senza fine. Può dunque esser detto: «Poni anche la caldaja vuota sopra i carboni;» ed invero se manca il Senato, se perì il popolo, se tuttavia sui pochi che sono ancora in vita si aggravano ogni dì dolore e pianto, ciò significa che tutta in fiamme arde Roma deserta. Ma che dir degli uomini, se già per cadute continue gli edificî stessi vediamo al suolo distrutti? Per lo che alla Città già deserta mirabilmente si adegua quanto è scritto ancora: «Si arroventi il suo rame e si liquefaccia.» Conciossiachè sarà distrutta persino quella caldaja in cui prima furono cotte la carne e le ossa, chè dopo caduti gli uomini, crolleranno anche le muraglie. Dove sono quelli che un giorno insuperbivano della loro gloria? Dov’è la loro magnificenza? Dove l’orgoglio? Dove i sollazzi tanti e smodati? In essa ebbe compimento quello che il Profeta ha detto di Ninive distrutta: «Dov’è la dimora dei leoni e l’alimento dei [52] figli de’ leoni?» I suoi generali e i principi suoi non erano forse leoni che correvano le terre di tutto il mondo e con rabida sete di sangue ne riportavano la preda? Qui i piccoli dei leoni trovavano il loro cibo, perocchè fanciulli e giovani, figli degli uomini mondani, qui d’ogni parte accorressero se volevano sgombrarsi le vie della fortuna terrena. Ma ahimè! or la Città è fatta deserto, ora è in ruina, e per lungo gemito affranta. Niuno più corre ad essa per conquistarsi la fortuna di questo mondo. Adesso più non le rimane un solo uomo possente e nella violenza operoso, che col sopruso sappia carpire bottino. Diciamo dunque: «Dov’è la dimora dei leoni, dov’è il nutrimento dei figli dei leoni?» Ad essa incoglie ciò che il Profeta ha detto di Giudea: «La tua calvizie si diffonde come quella dell’aquila.» E invero la calvizie colpisce l’uomo nel capo, ma la calvizie dell’aquila si distende per tutto il corpo, imperocchè, quando è invecchiata molto, le sue piume e le sue penne cadano d’ogni parte. Così, al pari dell’aquila spennacchiata, la Città s’è cosparsa di quella calvizie che fu la perdita del popolo suo. Caddero anche le penne possenti delle ali, colle quali un tempo soleva alzarsi a volo, perocchè sieno morti quegli eroi tutti per opera de’ quali un tempo essa metteva a ruba le proprietà degli stranieri»[49].
[53]
I Romani, che ascoltavano quel ditirambo del dolore risonare nell’alta e silenziosa basilica di san Pietro, dalle cui pareti i Santi d’aspetto severo dipinti nel musaico parevano guardar fissamente in giuso, dovevano sentirsi schiacciati sotto il peso di queste parole tremende. Il loro destino desolato si svelava ai loro occhi come un vaticinio compiuto: Roma era morta! Alla parola solenne del grande oratore tenevano bordone il pianto delle matrone e il gemer dei vecchi nati già negli splendidi tempi di Teodorico; e negli intervalli in cui la voce di Gregorio posava, la fantasia agitata del popolo avrebbe potuto imaginare di udir le grida furibonde degli inimici irrompenti alle porte, oppure la frana romorosa di Roma e de’ suoi antichi monumenti, dai quali, sordi e pesanti, precipitassero i massi marmorei. Non v’ha dipintura di Roma più tremenda di questa che ci è offerta da quella adunanza e da quella predica; e la imaginativa fiera e grandiosa dell’Omelia, che associa la storia della capitale dell’Impero romano alle profezie degli Israeliti, è tale da destarci dal profondo dell’animo una tristezza di tragico senso. È il discorso funebre di Roma che il Vescovo recitava sulla sua tomba, e possiede un’importanza storica altissima, maggiore persino di quella che s’abbia il discorso di Marc’Antonio presso il cadavere di Cesare. Il Papa che pronunciava quell’orazione era nel tempo stesso l’ultimo discendente d’una famiglia romana antica ed illustre, laonde il suo discorso di tetri concetti s’inspira alla vera energia del sentimento nazionale romano.
Agilulfo assediava Roma, ma non la stringeva soverchiamente; come avrebbe potuto infatti resistere a [54] lui la Città che, a detta dello stesso Gregorio, «priva di popolo numeroso e senza ajuto di soldati» stava sotto il solo usbergo della protezione dell’apostolo Pietro o di Dio[50]? Se il Papa saliva sui merli delle mura di Aureliano e di Belisario cadenti di vecchiezza, poteva co’ suoi proprî occhi mirare i Romani trascinati dai Longobardi come cani al guinzaglio per esser venduti schiavi nelle Gallie; e i parecchi assalimenti coi quali il nemico moveva contro le porte, lo avranno indotto a terrore, mentre il prefetto Gregorio e Castorio maestro de’ militi, ch’erano i soli officiali imperiali di grado ragguardevole che fossero in Roma, attendevano alla incerta difesa. Non la loro vigilanza, nè la perseveranza dei cittadini armati avevano merito che il nemico finalmente si ritirasse, sibbene le ricchezze della Chiesa; e Gregorio in una lettera, che più tardi scriveva alla imperatrice Costanza, lamentava con ironia di dover sè stesso appellare tesoriere dei Longobardi, sotto le spade dei quali il popolo romano serbava la vita soltanto perchè la Chiesa la riscattava ogni giorno[51].
L’Imperatore non rivolgeva al Papa nemmanco una parola di gratitudine per la liberazione di Roma; ed anzi l’Esarca cercava di mettere in sospetto a Bisanzio il Vescovo che alla sua autorità diventava pericoloso, e contro cui era irritato, sembra, perchè di propria volontà aveva trattato della pace coll’inimico. Maurizio scriveva a Gregorio una lettera di stile violento, [55] in cui gli rimproverava che Roma durante l’assedio non era stata bastevolmente provveduta di vettovaglia; e in brevi e sonore parole gli dava del cervel grosso, poichè s’era lasciato corbellare da Ariulfo colla promessa che questi per la conchiusione della pace sarebbe venuto a Roma. A quella lettera il generoso Gregorio rispondeva con dignità e con acutezza diplomatica; enumerava tutti i pericoli ai quali lo avevano esposto i comportamenti dell’Esarca, tutti i danni che ne erano conseguiti, e nel tempo stesso in cui affermava di volere assumere a titolo di onoranza l’offesa che l’Imperatore gli faceva, cercava di salvare dalla disgrazia gli officiali imperiali, e celebrava la vigilanza operosa con cui eglino avevano provveduto alla difesa di Roma[52].
La menzione che ci occorse di fare del Prefetto e del Maestro de’ militi, ne richiama a esaminare brevemente come fosse costituito il reggimento temporale della Città in quel periodo di tempo, e ci trae quindi a toccare di uno dei punti più oscuri nella nostra Storia. Abbiamo veduto che in quell’età non si parla più di un Duce [56] che sedesse in Roma, nè riscontrasi mai cenno di un Ducato romano[53]. All’invece, alcune città erano governate da Comites e da Tribuni, e in Roma e nel territorio alla Città attinente trovansi dei Magistri Militum, che manifestamente avevano autorità di comando generale ed erano investiti della piena potestà di un Duce. Tuttavolta, e soltanto di tempo in tempo, anche questo officio appare esistere in Roma, come allora che Castorio resse la difesa contro l’assedio di Agilulfo[54]. Le cose di guerra e la giurisdizione loro relativa, dipendevano da questo comandante; e di Ravenna o di Bisanzio era spedita a Roma la moneta per supplire allo stipendio della soldatesca sotto nome di roga, di precarium o di donativum, che era pagato dall’Erogator, sempre che però il denaro venisse[55].
Più di frequente, le lettere di Gregorio fanno menzione del Prefetto; una sol volta però v’è usato dell’espresso addiettivo Urbis[56]; ed il Papa ben di sovente parla di Prefetti senza aggiungervi qualificazione ulteriore, cosicchè ogni qual volta ei ne discorra ci convien guardarci dall’intendere per essi sempre i Prefetti [57] della Città. V’era ancora un Prefetto d’Italia, uno d’Africa e uno dell’Illirio, ossia delle tre Diocesi che erano un tempo soggette al Prefetto del Pretorio d’Italia; Gregorio ne fa parola nelle sue lettere[57]. Le funzioni del Prefetto, il quale dall’Esarca era chiaramente distinto, ci sono ad ogni modo più conosciute di quelle che spettavano all’officio di Proconsole d’Italia[58]. Il Prefetto reggeva con podestà immediata tutte le bisogne civili, così in argomento di finanza e di giustizia che di amministrazione delle città. La raccomandazione del Papa non era priva di influenza nell’elezione all’officio della prefettura d’Italia e di quella della Città. Per recarne un esempio, nell’anno 602 l’ex-prefetto Quertino pregava il Pontefice che s’adoperasse presso l’Imperatore affinchè Bonito ottenesse la prefettura, quella d’Italia senza dubbio. Rescrivevagli il Papa essere quella una carica travagliata di difficoltà, essere oltracciò disacconcio che un uomo dedito agli studî delle scienze andasse a mettersi [58] in mezzo a negozî senza costrutto: non voler egli però mettervi ostacolo, sebbene dovesse già fin d’allora deplorare le future amarezze che soffrirebbe quell’uomo, perocchè l’esempio dei predecessori lo ammaestrasse abbastanza dei mali che lo aspettavano[59]. E per verità le sue lettere contengono gravi documenti di una simile esperienza.
Allorquando i Prefetti uscivano d’officio dovevano render conto della loro amministrazione al succeditore o ad altri che riceveva incarico di quella censura; nè il grado elevato (Gregorio dà loro titolo di Magnificus, di Gloriosus e di Illustrissimus) li salvava in parecchi casi da punizioni che per fermo possono appellarsi turchesche. L’ex-prefetto Libertino era citato a giudizio straordinario innanzi l’ex-console Leonzio in Sicilia, e ignominiosamente flagellato a colpi di verga. La barbarie di quella esecuzione commoveva Gregorio a nobile sdegno, ond’egli scriveva a Leonzio una lettera che per eccellenza è prima nella intiera collezione delle sue Epistole e massimamente onora l’animo suo generoso. Ei vi parla da romano, cui concita ad ira il solo pensiero che su un uomo libero possa alzarsi la frusta. Questa, dic’egli ricordando i tempi antichi, quest’è la differenza tra i re barbarici e gli imperatori romani, che i primi sono signori di gente schiava, i secondi reggitori di uomini liberi: in tutte le opere vostre voi dovete tener fermo lo sguardo anzi tutto a giustizia, indi, sopra ogni altra cosa, a libertà; e minaccia Leonzio [59] colla potenza che gli viene dalla dignità di vescovo romano; avvegnachè, soggiunge, se io avessi trovato l’accusato nel suo buon dritto, a me sarebbe spettato di ammonirvene già prima per lettere, e se non avessi trovato ascolto, io mi sarei rivolto all’Imperatore[60]. Da questa lettera si pare manifestamente qual podestà lo stesso Gregorio potesse attribuirsi al di sopra dei più eminenti officiali dello Stato, perocchè la loro opera fosse soggetta alla sopravveglianza di lui.
I pubblici ministri ch’erano minacciati di castigo cercavano la sua protezione. Ed era consuetudine che i magistrati uscenti di carica rifuggissero negli asili delle chiese e non gli abbandonassero se non allora che da un notajo imperiale ricevevano guarentia della vita, dimostrazione segnalata delle condizioni cui era ridotto il reggimento bizantino. Così aveva fatto l’ex-prefetto Gregorio, e noi troviamo una serie di lettere che il Papa indirizzava agli uomini più potenti per raccomandar con fervore alla loro protezione quell’uomo affinchè lo salvassero dall’arbitrio dei giudici[61]; laonde da quei trattamenti inonesti possiamo scorgere agevolmente a che segno di abbiezione il despotismo bizantino avesse trascinato l’ordine degli officiali pubblici, anche di quelli che tenevano le cariche più illustri.
Al tempo di Graziano e di Valentiniano il Prefetto della Città era un altissimo magistrato; era principe [60] del Senato e per dignità precedeva tutti i patrizî e tutti gli uomini consolari. Dopo di Augusto, la sua giurisdizione si estendeva fino alla centesima pietra miliare, e dalle provincie suburbane a lui si moveva ricorso di appello. Nella Città poi stavano sotto il suo reggimento tutte le bisogne pubbliche, l’annona, i mercati, il censimento, la polizia dei fiumi e dei porti, delle mura e degli acquedotti, gli spettacoli e l’ornato della Città. Il decadimento di Roma aveva trascinata con sè anche la decadenza del suo officio; però nel secolo sesto esso era tuttavia sì importante che teneva il governo di tutta l’amministrazione civile, laddove l’autorità nelle cose politiche e militari si spettava al Maestro dei militi. Solo in tal modo si spiega come possa trovarsi che il prefetto Gregorio era ancora nella difesa e nel reggimento della Città la persona maggiore allato del comandante militare. Al contrario, quest’ampiezza di funzioni scomparve nel secolo settimo in cui gli officiali militari acquistarono il completo imperio supremo; e mentre il Prefetto della Città trovò i limiti del suo officio nella semplice Jurisdictio esso decadde per altra parte sotto la podestà del Duce di Roma ch’era il governatore generale. Già dopo l’anno 600, in cui Giovanni tenne la prefettura, non s’ode più parlare di Prefetti fino all’anno 744 in cui quell’officio ricompare; e la celebre magistratura cittadina si conserva, sebbene sotto forme mutate, unico ministero di origine dell’antichità, e negli anni più tardi del medio evo giunge persino ad ottenere alta importanza[62].
[61]
Oltre al Prefetto della Città ed al Maestro dei militi o Duce, altri officiali imperiali erano in Roma, ma le loro funzioni e i loro rapporti ci sono involti nell’oscurità: così tratto tratto occorre di trovare dei Legati che esercitavano incarichi dell’Imperatore e l’arbitrio dei quali incuteva alla Città grave terrore[63]. Come stesse la cosa pel Senato, non sappiamo. Quegli scrittori i quali sostengono che continuasse ad esistere, altri argomenti non hanno per suffragare la loro opinione fuor di questi: gli squarci a noi ben noti della Sanzione Prammatica di Giustiniano, la notizia di Menandro su quell’ambasceria composta di alcuni Senatori che andò a Costantinopoli nel 579, e la continuazione dell’officio del Prefetto che eglino dichiarano essere stato, anche di quel tempo, capo del Senato secondo la costumanza antica. Tutti questi [62] argomenti però non si sostengono su buon fondamento, e cadono innanzi al silenzio degli Storici. Se al tempo di Gregorio il Senato avesse ancora durato in vita, tenendo funzioni di magistrato consultivo o di depositario dei diritti politici della Respublica romana, come mai Gregorio avrebbe potuto dimenticarlo e negligerlo onninamente in mezzo alle più difficili necessità dello Stato? Vedremo più tardi com’egli, nell’anno 599, trattando con Agilulfo della pace, usasse di un abate Probo a mediatore dei negoziati; nè allora è fatta mai parola di Senatori o di parte politica che nemmanco remotamente ivi prendesse il Senato. E quando Agilulfo spediva suoi messaggeri a Roma, chiedeva del solo Pontefice la sottoscrizione al trattato di pace; del Senato non facevasi neppur cenno. Si potrebbe perciò tutt’al più credere che il Senato perdurasse ancora come corporazione dei Decurioni, per analogia, ad ogni modo, assai dubbia, colle città d’Italia che non erano ancor cadute sotto la conquista dei Longobardi, e che erano ridotte alle reliquie della costituzione curiale romana[64]. Ma neppure di una Curia in tal significato si [63] discorre più, e pertanto ci è duopo di ricorrere, come ad argomento efficace che sorregge l’opinione nostra, a quelle celebri parole della Omelia decimottava di Gregorio che affermano il Senato non aver più esistito[65]. Per lo contrario, non può supporsi che parimenti in modo assoluto si fosse estinta la corporazione civica, municipale; questa infatti ricomparisce nell’Ordo di quel tempo, una parte del quale dev’essere stata quello che più tardi appellossi il Consilium, il consesso cioè degli officiali amministrativi che esercitava una ristretta giurisdizione cittadina sotto l’autorità del Prefetto della Città.
Per quanto scarse sieno pure le notizie sulle forme [64] del reggimento di Roma in quell’età, quest’è certo che la podestà in argomento delle cose militari, delle civili e delle politiche era esercitata da officiali dell’Imperatore; al Papa ne competeva d’ordine legittimo una certa sopravveglianza, a lui movevasi ricorso di appello. Nel restante vediamo il Pontefice attendere unicamente al governo della Chiesa ed alla giurisdizione ecclesiastica; tuttavolta Gregorio, stante il concorso del suo alto ingegno e delle condizioni dei tempi, riusciva a tenere nello Stato grandissimo luogo, così che in via di eccezione diventava capo supremo di Roma e tale erane tacitamente riconosciuto: a buon dritto pertanto deve ravvisarsi in lui il fondatore della signoria temporale dei Papi.
La potenza di Gregorio superava l’autorità degli officiali dell’Impero; in lui i Romani onoravano il loro signore, l’uomo che provvedeva alla loro salvezza, che riuniva nella sua persona la dignità santa di vescovo e lo splendore della più illustre stirpe patrizia. Dopo che la caduta del reame dei Goti avea fatto spegnere con sè l’ultimo spiro di vita pubblica nella Città, Roma subiva una trasformazione completa. Non v’erano più consoli, non senato, non sollazzi che ricordassero il regno del mondo; le case patrizie s’erano estinte pressochè tutte, e le lettere di Gregorio non fanno neppur motto che in Roma esistessero famiglie doviziose [65] d’antica progenie, se ne togli quelle che erano emigrate a Costantinopoli[66], laddove si trovano nomi antichi attribuiti a possedimenti che omai appartenevano ai patrimonio della Chiesa[67]. L’operosità nelle cose ecclesiastiche o teologiche aveva imposto silenzio ai negozî d’ordine civile, e già abbiam veduto il popolo romano chiudersi tutto in un vestimento sacerdotale. Non più festività pubbliche fuor delle sacre; ciò che occupava come di un avvenimento importante il popolo infingardo si erano gli argomenti religiosi. La Chiesa stessa aveva incominciato ad essere un immenso asilo della Società; sotto il terrore di calamità inaudite della natura e della guerra s’era fatta universale la credenza della prossima fine del mondo; e immenso era il numero di coloro che correvano a chiudersi nei conventi o si consecravano al sacerdozio. Quell’accorrenza era accresciuta dalla povertà per una parte, dall’ambizione per l’altra; avvegnadio i bisognosi vi trovassero nutrimento e tetto, gli ambiziosi dignità e onoranza, in un’età in cui il titolo di diacono, di prete, di vescovo era divenuto [66] pei Romani ciò che un tempo erano state le cariche del tribunato, della pretura, del consolato. Persino uomini di guerra abbandonavano le loro bandiere per assumere la tonsura; il numero della gente d’ogni ceto che ambiva agli officî ecclesiastici era grande così, che Gregorio cercava di opporvi un argine, nel tempo stesso in cui l’imperatore Maurizio, nell’anno 592, promulgava un editto in cui proibiva che i soldati entrassero nei conventi e che i ministri del governo civile ottenessero officî ecclesiastici[68]. L’inopia di Roma stendeva le mani ai tesori della Chiesa non inutilmente. I tempi in cui il Console dispensava denaro al popolo, in cui il Prefetto, a cura dello Stato, provvedeva alle somministrazioni pubbliche di grano, d’olio, di grasce, quei tempi non erano più; il grido del popolo chiedente Panem et Circenses sonava ora soltanto a metà; esso domandava del pane, e il Papa ne donava largamente. Già ancora quand’era monaco, dal suo convento del Clivo [67] Scauro Gregorio aveva ogni giorno provveduto di cibo i poverelli; quando fu papa continuò a nutrire il popolo. Al principio d’ogni mese distribuiva ai bisognosi grano, vesti e denaro, e in ogni festività maggiore largiva doni alle chiese, ai conventi, agli istituti di pietà. Al pari di Tito, credeva perduto quei giorno in cui non avesse saziata la fame o coperta la nudità dei mendici, e avendo un dì udito che un accattone era morto in una via di Roma, si rinchiuse nelle sue stanze afflitto di vergogna, e per qualche giorno non osò presentarsi all’altare nel ministero di prete.
I Romani avevano un tempo ricevute loro provvisioni nelle gallerie, nei teatri, nei granai publici dello Stato; oggidì invece si accalcavano nei cortili delle basiliche e dei conventi per ricevervi da ministri ecclesiastici vettovaglie e vestimenta. Le turbe di pellegrini vegnenti d’oltremare trovavano a Porto già pronto ad accoglierli l’antico ospizio che vi aveva edificato il senatore Pammacchio, l’amico di Girolamo; e chi entrava nelle porte di Roma, pellegrino o fuggente dai Longobardi, trovava negli ospitali o negli alberghi ricovero e nutrimento. Intorno a lunghe tavole sedevano gli stranieri di tutte le province, e con pia gratitudine si cibavano dei doni della Chiesa romana. La carità cristiana dispensava e il bisogno non bugiardo riceveva il beneficio vero[69].
[68]
I beni che la Chiesa poco a poco aveva acquistato dai patrimonî privati per donazioni dei fedeli, erano adoperati da Gregorio con onesta coscienza che adempieva all’intendimento pietoso dei donatori. E quei beni omai erano molti ed amplissimi, così che il Papa, se ancora non imperava da signore di duchee, era tuttavia il più ricco posseditore di terre che fosse in Italia; e qui sedeva, se non da sovrano, almeno da proprietario di latifondi tenuti in retaggio dalla Chiesa e sui quali egli poteva entro certi limiti esercitare giurisdizione. Le proprietà della Chiesa romana, dedicate a Pietro apostolo, erano sparse in parecchie contrade; in Sicilia, nella Campania, in tutta l’Italia meridionale, in Dalmazia, nell’Illirio, nelle Gallie, in Sardegna, in Corsica, nella Liguria e nelle Alpi Cozie, la Chiesa possedeva suoi patrimonî o dominî. Come un re spedisce ministri nelle provincie, così il Papa mandava suoi diaconi e suddiaconi (Rectores Patrimonii), che riunivano in sè le funzioni d’ispettori spirituali e temporali o di consultori del governo amministrativo[70]. La loro gestione era soggetta ad una revisione severa, perocchè il grand’uomo non volesse che «la borsa della Chiesa s’insozzasse di vergognosi guadagni.» Tenevasi un diligente registro dei redditi e delle spese, nel tempo stesso in cui il Papa, ispirandosi all’amore del giusto, con sollecita cura vigilava affinchè i contadini della Chiesa non fossero gravati oltre giustizia nella misura e nel peso delle prestazioni che dovevano soddisfare in [69] natura, e affinchè non fossero soverchiamente colpiti d’imposta personale.
Le molte lettere che Gregorio indirizzava a quei Rettori del patrimonio destano la nostra più viva curiosità; esse ci forniscono notizia di quelle condizioni della classe agricola romana, che per secoli si mantennero immutate. I beni della Chiesa erano coltivati da coloni, uomini che, avvinti alla loro gleba, pagavano in moneta o in prodotti della terra un canone che in generale appellavasi pensio, ed era riscosso per mezzo dei Conductores ossiano percettori dei tributi. Spesse volte costoro per avidità di guadagno opprimevano i coloni elevando ad arbitrio la misura del grano; eglino costringevano talvolta i contadini a portare il moggio al di sopra della sua misura regolare, che era di sedici sestarî equivalenti a ventiquattro libbre romane, esigendone financo venticinque sestarî; e su venti staja di raccolto gli obbligavano a cederne uno. Gregorio pose impedimento a queste angherie; egli fissò il moggio a diciotto sestarî, e stabilì che uno staio dovesse cedersi soltanto sopra trentacinque. Questi ordinamenti riguardavano la Sicilia, che ancor sempre era il granaio di Roma, e donde, due volte all’anno in primavera ed in autunno, partiva per Porto un naviglio carico di frumento per approvigionare i fondachi della Città[71]. Se il carico andava perduto in naufragio, il danno per certo gravava le spalle ai poveri coloni, fra i quali era ripartito l’obbligo dell’indennizzo; e, soltanto, Gregorio ammoniva i Rettori che non istessero negligenti a profittare della stagione più propizia alla [70] navigazione, chè altrimenti a loro colpa avrebbe dovuto attribuirsi la perdita. L’ordinamento economico era magistrevole; per ciascun colono si teneva un registro appellato Libellus securitatis; in esso annotavasi quanto il colono pagava, e costituiva una prova a favore di lui: se poi le calamità agricole dell’annata o le concussioni lo facevano cadere in povertà, egli poteva star certo che l’equità d’animo del Pontefice lo avrebbe soccorso con novelle scorte di vacche, di pecore e di maiali. I beni di san Pietro in Sicilia prosperavano; perocchè vi fossero stati introdotti parecchi miglioramenti di ottima cultura; il grande Papa poteva con orgoglio intitolarsi anche eccellente agricoltore; e quando traeva in processione o saliva a cavallo, aveva dritto di gloriarsi che i suoi palafreni erano forniti dagli armenti che la Chiesa possedeva in quella Trinacria antica, di cui Pindaro un tempo aveva cantato i corsieri vincitori nel circo. Per fermo però c’incoglie qualche leggiero dubbio che Pindaro avesse trovato in adesso meritevole di una sua ode la razza dei nepoti ond’erano forniti i cavalli apostolici. «Tu mi hai mandato,» scriveva una volta Gregorio al suddiacono Pietro, «un gramo cavalluccio e cinque begli asini; sul cavallo non posso salire, tanto è meschinetto, e i begli asini non posso cavalcare perchè asini sono»[72].
[71]
I possedimenti dell’apostolo Pietro nel territorio della città di Roma da ambe le sponde del Tevere erano divisi in quattro scompartimenti: il Patrimonium Appiae, che comprendeva tutte le terre poste fra la via Appia ed il mare fino alla via Latina; il Labicanense che si stendeva tra la via Labicana e l’Anio; il Tiburtinum tra la via Tiburtina ed il Tevere, e finalmente il Patrimonium Tusciae, maggiore di tutti, che abbracciava i vasti tratti delle terre situate sulla destra riva del Tevere[73]. Ognuno di questi scompartimenti si divideva in masserie che avevano nome di Fundus o Massa; colla parola Fundus si designava un ristretto pezzo di terreno cui appartenevano delle casae ossiano casales per i coloni; parecchi Fundi componevano una Massa, o, secondo l’espressione romana odierna, una tenuta; parecchie Massae costituivano un patrimonium.
[72]
La Chiesa era giunta in principalità a possedere una gran parte dell’Ager Romanus. Goti, Greci e Longobardi da dugento anni a questa parte avevano calpestato la campagna circostante alla Città, e le tracce delle invasioni nemiche erano scritte nelle rovine che attorniavano Roma. Basiliche e abazie, e tuttora alcune nobili case signorili erano seminate miserevolmente su quel suolo, ove ancora durava qualche cultura di oliveti; e nella campagna stavano tuttavia alcune borgate deserte crollate in ruina, come il Vicus Alexandri e Subaugusta. Conventi con qualche adiacenza di fabbriche e molte chiese di catacombe, che oggidì sono scomparse, si alzavano in mezzo alle ville distrutte dei grandi romani; si strappavano le colonne e i marmi di queste case di delizie per ornarne le chiesette della campagna, come già mettevansi a sacco i monumenti di Roma per adoperarne i materiali alla costruzione delle chiese della Città. Tutta la campagna di Roma era la pianura più silenziosa e più sublime del mondo, e già nel secolo sesto presentava la vista di un deserto che riempieva di mestizia l’animo di chi la mirava[74].
[73]
La Chiesa dunque imperava su un popolo di clienti e di servi; la ricchezza del suo tesoro era inesauribile, laddove le proprietà delle genti private sempre più andavano scomparendo. Per tal guisa il Papa poteva provvedere a dispendî cui sembrava quasi impossibile di sopperire, avvegnachè su di lui pesasse la conservazione delle chiese, la vettovaglia di Roma, il riscatto degli schiavi di guerra, e finalmente la moneta, di cui doveva largheggiare ai Longobardi per ricomprare la pace. Ai tesori del suo Vescovo Roma andava debitrice se otteneva la liberazione da quegli inimici e se, tratto tratto, ergevasi quasi a condizione d’independenza di rincontro a Ravenna: in pari tempo la Chiesa s’atteggiava davanti l’Imperatore in veste di mendica, e con ossequiose parole di gratitudine accettava il dono di poche libbre d’oro che egli di quando in quando, auree stille della sua compassione, lasciava cadere su quel cumulo di ruine che era Roma[75].
Affranta dalla guerra, dalla fame e dalla peste, congiunta a Bisanzio soltanto per la dipendenza di alcuni pubblici ministri, separata da Ravenna, chè i Longobardi [74] in mezzo ne troncavano ogni adito, vigilata appena dall’Esarca, indifesa quasi di armi, Roma trovava in papa Gregorio un reggitore nazionale e suo eletto.
Gregorio per fermo aveva quasi autorità di principe; le redini del reggimento temporale da sè medesime erano venute nelle mani di lui. Nè ciò avveniva soltanto per la città di Roma ma per altri luoghi ancora; avvegnachè una volta si trovi che egli spediva un duce Leonzio al castello di Nepe in Tuscia, e ammoniva il clero, l’ordine e il popolo di prestargli obbedienza; e si trovi persino ch’egli mandava a Napoli un Tribuno per provvedere alla custodia di questa città e comandava alla soldatesca del presidio di starsi soggetta agli ordinamenti di quello: e già in tempo anteriore egli aveva dato incarico a Gennaro, vescovo di Cagliari in Sardegna, che ogni luogo munisse di buona guardia[76]. Poichè però la cura di Roma lo toccava assai più davvicino, non ci deve meravigliare che egli, al pari di un reggitore di governo temporale, si occupasse di provvedimenti militari, [75] ed ai comandanti delle soldatesche scrivesse, non aver reputato opportuno di far uscire di Roma le milizie perchè loro si congiungessero, e che a quei capitani desse consigli in argomento delle imprese che dovevano tentare contro l’inimico[77].
Le condizioni sciagurate in che Italia era ridotta, e l’angustia onde più prossimamente Roma era premuta, facevano Gregorio interpositore di pace, e la conchiusione di essa finalmente era dovuta alla energia di lui. Egli si sentiva compreso della propria autorità siffattamente che, per mezzo del suo nunzio, diceva all’Imperatore, che se egli, suo servo, avesse voluto la distruzione dei Longobardi, oggi quel popolo non avrebbe più nè un re, nè un duca, nè un conte. Con essi però, dei quali prevedeva la conversione o temeva la vendetta sulle molte chiese cattoliche e sui beni che queste possedevano nel loro territorio, volere egli mantenere una pace amichevole; già da anni essersi sforzato a conseguirla, ed avernelo invece impedito i raggiri dell’Esarca. La pace fu conchiusa finalmente nell’anno 599 colla mediazione dell’abate Probo legato del Papa[78]; sembra tuttavia che l’imperatore Maurizio gliene avesse dato piena facoltà. Le due parti contraenti erano, dall’un lato Agilulfo e i suoi Duchi, tra i quali quell’Ariulfo di Spoleto che per Roma era più pericoloso di tutti, dall’altro l’esarca Callinico proclive alla pace e successore di Romano. L’autorità di Gregorio era tenuta però [76] in estimazione sì alta, che il Re dei Longobardi lo considerava fornito di podestà independente, laonde spediva suoi messi a Roma chiedendo che il Papa dovesse sottoscrivere il trattato di pace. Ma Gregorio se ne schermiva; egli non voleva colla sua sottoscrizione gravarsi di obbligazioni; oltracciò, un Papa di que’ tempi comprendeva sè essere soltanto sacerdote, e dovere per comando del Vangelo tenersi remoto dai negozî mondani e dalle faccende politiche: il concetto della podestà regia congiunta al sacerdozio era in quel tempo ancora sconosciuto, e della teoria delle due spade non s’era peranco trovato il conio[79]. L’armistizio doveva durare fino al mese di Marzo dell’anno 601, ma probabilmente fu indi prorogato, avvegnachè si trovino più tardi delle lettere nelle quali Gregorio prega Maurizio maestro de’ militi e Arichi duca di Benevento di fargli venire per mare delle travi commesse negli Abruzzi per le basiliche di san Pietro e di san Paolo.
La novella di un rivolgimento sanguinoso avvenuto in Bisanzio, sorprendeva la Città in mezzo alla pace dubbiosa onde adesso godeva. L’imperatore Maurizio era caduto vittima di una rivolta soldatesca, ed uno dei mostri più scellerati che s’abbia la Storia bizantina, era salito sul trono di Costantinopoli. Foca, oscuro centurione, sozzo del sangue dell’Imperatore e de’ suoi cinque figli, che con immane crudeltà egli aveva fatto trucidare sotto gli occhi del padre, dominava fino dal giorno 23 novembre 602 nel palazzo di Giustiniano. Il novello Imperatore s’affrettava a mandare a Roma il [77] proprio ritratto e quello di Leonzia moglie sua, dove giunsero addì 25 aprile 603. Era infatti costumanza che ogni Imperatore, tosto dopo il suo avvenimento al trono, spedisse la sua imagine e quella della sua donna ai magistrati delle Provincie. Chiamavansi quei simulacri Laurata, forse perchè erano adorni il capo d’una corona d’alloro; rappresentavano le veci dell’Imperatore, e quando giungevano nelle città i popoli servi non avevano a schivo di muovere loro solennemente incontro con torce accese, come ad omaggio di persone vive e divine, e di collocarli poi in un luogo consecrato[80]. Tosto che dunque le imagini imperiali furono giunte in Roma, si radunavano il clero e la nobiltà nella basilica di Giulio nel Laterano, e col grido: «Esaudisci, o Cristo! Lunga vita a Foca Augusto ed a Leonzia Augusta!» acclamavano il tiranno a imperatore: indi il Papa ordinava che i due ritratti fossero conservati nell’oratorio del martire Cesario nel palazzo vescovile[81]. Per la basilica [78] di Giulio poi, cui si accenna, non deve già intendersi una chiesa, sibbene una qualche parte del palazzo Lateranense[82], di guisa tale che il luogo eletto per questa festività di omaggio non fu il palazzo antico dei Cesari, ma una sala nel palazzo patriarcale del Laterano. Che vi intervenisse qualche officiale dell’Imperatore non sappiamo; nè è fatta menzione di sorta del Senato in un avvenimento sì importante quale era il riconoscimento del novello principe dell’Impero. È piuttosto di bel nuovo anche qui il Papa che dà il comando di riporre il ritratto imperiale nell’oratorio di un Martire, e dell’oratorio dobbiamo cercare il luogo nel Laterano[83].
Gregorio nel profondo dell’animo doveva sentire abborrimento di un imperatore che con opera da carnefice era salito alla signoria, ma la ragione politica lo [79] costringeva a indirizzare con umiltà di frase auguri e gratulazioni a Foca ed a Leonzia. Nella sua lettera il Papa fa che si allietino cielo e terra, come se colla morte del giusto Maurizio, cui un tempo lo avevano stretto legami di amicizia personale (Maurizio s’era sforzato di abbassare la crescente potenza del Vescovo romano per via del Patriarca di Costantinopoli), Roma avesse scosso un giogo intollerabile, e come se il novello reggimento fosse per restituire libertà e prosperità di fortuna[84]. Di rimpetto alla persona orribile di un Foca non possono leggersi queste lettere senza sentirne vergogna; esse sono e resteranno sola macchia oscura nella vita di un uomo glorioso; esse serbaronsi a scapito della fama di lui, in pari guisa che per obbrobrio di Roma si conservò nel suo foro la colonna ivi elevata in omaggio di Foca.
Gregorio non ebbe parte alla sua erezione, avvegnaddio la si innalzasse soltanto nel 608, quattro anni dopo la morte di lui. Caduti in basso di servitù i Romani, [80] sulle cui teste torreggiavano le colonne meravigliose di Trajano e degli Antonini che forse ancora sulle cime portavano le statue di quegli Imperatori gloriosi quasi sollevandoli in apoteosi verso il cielo, erano costretti dall’Esarca a supplicare l’imperatore Foca che alla Città concedesse l’onore della sua statua; e Smaragdo la innalzava nel foro, dalla parte laterale che prospetta l’arco trionfale di Settimio Severo. Ma Roma e l’arte non avevano più la potenza di edificare una nuova colonna; una colonna antica scanalata d’ordine corinzio, alta settantotto palmi, fu tolta ad un qualche vecchio edificio e la si impose sopra un grande piedestallo di quadruplice gradinata a foggia di piramide. Sopra l’alto capitello si collocò la statua in bronzo dorato dell’Imperatore, e se l’artista non avrà inteso ad adularlo, i Romani avranno potuto, meglio che in san Cesario, mirare con nausea il ceffo irsuto dell’Imperatore bizantino simile a quello di uno sconcio folletto. Così l’ultima opera che, a decoro pubblico secondo lo stile antico, Roma vedesse innalzare in mezzo alle sue ruine e fra le angustie onde la circuivano i Longobardi, si era la statua di un tiranno, monumento della servitù bizantina che pesava su Roma.
La Nemesi della Storia risparmiò quella colonna e la tenne eretta, mentre tutto d’intorno le statue e le colonne del foro cadevano senza lasciar traccia di sè; per il corso di tutti i secoli pugnò, quantunque ruinosa, cogli anni e fu ai dotti oggetto di studî, finchè addì 23 marzo 1813 sgombrate le ruine che coprivano la sua base, se ne scoperse l’iscrizione. Il nome dell’Imperatore insieme ad alcuni dei predicati che l’adulazione vi aveva [81] affastellati, era stato già cancellato dal giusto odio dei Romani. La colonna di Foca sta anche oggidì nel luogo ove fu eretta; in mezzo a piedistalli nudi e senza nome dai quali da lunghissimo tempo sparvero le statue, sopra un mare di ruderi dei marmi crollati, essa stessa senza capo, senza effigie, s’innalza solitaria e simboleggia la vita di un despota con efficacia maggiore di quella che potrebbe avere la parola più eloquente di un Tacito[85].
[83]
Il discorso che or qui convienci tenere, è quasi il rovescio di quello onde ebbe argomento il Capitolo precedente. Se poc’anzi abbiamo mirato la persona illustre di Gregorio rifulgere di splendore per acuto ingegno e per operosità svariata che non ha riscontro, qui dobbiamo vederla circuita della tenebra del suo secolo. L’animo del grand’uomo era preso di superstizioni parecchie, e chi giudica con savio avviso ha pur duopo di confessare ch’egli con alcuni dei suoi scritti contribuì a diffonderle nel mondo e tra i popoli. Ma non per questo ci uniamo alla schiera dei censori troppo acerbi, avvegnachè soltanto chi coltiva sentenze fuor di senno possa pretendere che un uomo del secolo sesto possedesse la chiara intelligenza degli uomini che vennero dopo. Il genio può in alcuni argomenti sollevarsi [84] fuor dell’età in cui nacque, in altri no; e l’animo dell’uomo sarà sempre travolto dall’onda dei sentimenti che dominano il suo tempo e che gli pesano sopra come l’aria dell’atmosfera in cui vive.
Il secolo sesto è nella Storia uno dei più meravigliosi. In esso l’umanità sopravviveva alla caduta estrema di una civiltà antica e grande, e perciò correva credenza che il mondo volgesse al suo termine. Una nebbia fitta di barbarie, sorta come dal cumulo delle ruine, s’aggravava sull’Impero romano che i flagelli della peste, della fame e delle calamità di natura, scatenatisi coll’ira delle furie, andavano da un capo all’altro scorrendo e devastando. Il mondo entrava in un periodo procelloso di svolgimento nuovo; sui ruderi dello Stato antico ove erano caduti, apostoli prematuri della Germania, gli eroi Goti, lentamente si esplicavano le forme della vita germanica giovane e robusta, in Italia per opera dei Longobardi, dei Franchi nelle Gallie, dei Visigoti in Ispagna, dei Sassoni in Bretagna. La Chiesa cattolica comprendeva di essere l’alito vivificatore di questi popoli che s’indirizzavano tutti ad un centro unico; e poco a poco, colla vittoria riportata sull’Arianesimo, li traeva a quella unità che tosto o tardi doveva assumere forme politiche in un novello «Impero» d’Occidente. Ciò avveniva nel tempo medesimo in cui un pari moto di svolgimento travagliava l’Oriente, e in cui Maometto si apparecchiava a fondare la religione nuova, che, riunendo insieme i popoli di quei paesi sopra le rovine ivi rimaste della signoria romana, costringeva in prima l’Impero bizantino a ritirarsi d’Italia, indi lo incatenava come rigida mummia a una torpida immobilità fra le contrade [85] del Settentrione e quelle del Levante. Gregorio e Maometto sono i due sacerdoti dell’Occidente e dell’Oriente, che sui ruderi del mondo antico fondarono le due gerarchie dal cui urto ostile vennero più tardi a costituirsi i destini di Europa e di Asia. Roma e la Mecca, qui la basilica di san Pietro, ivi la Caaba, divennero i templi d’alleanza simbolica della novella cultura nelle due metà del mondo antico, laddove il miracolo d’arte dell’Impero bizantino, quella chiesa che Giustiniano aveva edificata a santa Sofia, non si conquistò mai per l’umanità pari importanza di civiltà storica.
Sarà a meravigliare che in una età simile di transizione, a preferenza d’ogni altra cosa, la fantasia s’affaticasse operosa negli argomenti di religione? Quando nell’infermo tutte le altre forze dell’anima posano chete, l’imaginazione spazia senza freno nel regno dei sogni. Come già era avvenuto al tempo di Costantino, così adesso il fervore del misticismo di bel nuovo s’impadroniva degli uomini, e già abbiamo veduto Benedetto farsi fondatore di un novello monacato, che da Roma od almeno dalla sua campagna ebbe diffusione. Roma entrava in convento; e l’animo del popolo, infermo tuttavia di sofferenze inaudite, premuto dal terrore della morte, s’immergeva in fantasticherie profonde e tetre. Dobbiamo considerare avvenimento assai significativo nella vita religiosa dei Romani di quell’età, che eglino nelle litane celebrate quando infieriva la peste, e delle quali abbiamo discorso, prefiggessero a meta dei loro pellegrinaggi la chiesa di Maria Vergine. Non dal Redentore, ma dalla madre di lui imploravasi il salvamento, laonde si ravvisa pervenuto già a signoria [86] quel culto della Vergine che oggi ancora in Roma, come in tutta Italia, è fervido sovra ogni altro. Prima di Costantino, una di quelle processioni, se avesse potuto avvenire, avrebbe inteso a supplicare Cristo, fondatore della religione; nei tempi dei Goti e dei Vandali s’avrebbe tolto a patrono l’apostolo Pietro; ma ora invece la madre di Gesù esaltava la fantasia popolare più davvicino che non facesse il figlio, il quale, dipinto ne’ musaici con maestà severa e terribile, colpiva lo sguardo dei supplicanti in vista di giudice temuto del mondo. Potremmo affermare che la trasformazione dell’imagine ideale del Cristo, dai tratti giovanili di un tempo, pressochè simili a quelli dell’Apollo, nella figura tetra e canuta che era adesso effigiata nei musaici, abbia contribuito per reverente terrore ad allontanare l’animo del popolo dal culto del Redentore? L’onoranza purissima di quella Divinità, cui non è possibile rimpicciolire entro i concetti umani, era soprattutto, e già da gran tempo, fatta a brandelli in una mitologia nuova; il culto dei Santi, le ceremonie, il costume delle messe, il rito ecclesiastico celebrantesi con solennità pompose, ottenevano svolgimento dopo che s’era chiusa l’età dei Padri della Chiesa e dopo che erano giunte a loro fine le controversie dogmatiche intorno alle dottrine fondamentali del Cristianesimo. Da Cristo discendendo agli Apostoli, principi della gerarchia, la venerazione dei fedeli s’era volta più tardi alla turba numerosa dei Martiri, campioni del Cristo. Le città erano piene delle loro chiese, le chiese delle loro ossa e dei loro altari. Il popolo dei Latini, proclive al senso, punto filosofo, era stato in tutti i tempi incapace di comprendere il monoteismo; e [87] i Romani, fatti appena cristiani, continuavano a popolare la loro Città, che fin dall’antichità era stata Panteon degli Dei, con novelli Santi di tutte le province, colle loro reliquie, colle loro chiese. Lo spirito che vive d’idea, che s’alza al di sopra della materia, minacciava di scomparire; l’operosità assopita dell’anima non sollevava più il volo alla spera del pensiero, ma si attaccava alla realità palpabile di un culto dei morti materiale e ributtante. Le ali possenti della poesia ne furono perciò tarpate per secoli, e la pittura, ch’è arte la quale talenta meglio al senso e la cui importanza per quei tempi non può essere apprezzata mai abbastanza, era quella che ancora assumeva nell’umanità imbarbarita la missione di rappresentare l’idea.
Il culto delle reliquie ai tempi di Gregorio s’era già statuito completamente qual’è oggidì. La venerazione dei Romani pei loro morti era grande e gelosa; eglino affermavano con gran vanto di possedere, anzi tutte le altre cose sante, le reliquie degli apostoli Pietro e Paolo, così che avrebbero piuttosto ceduto la loro Città ai Longobardi che abbandonato un sol minuzzolo di quelle. L’imperatrice Costantina avea tanta ingenuità da rivolgere a Gregorio domanda che le mandasse la testa dell’apostolo Paolo o qualche frammento del corpo di lui, chè voleva renderne venerata la Confessione di una chiesa ch’ella edificava nel palazzo di Bisanzio; ma Gregorio le rispondeva con lettere nelle quali durava fatica a dominare il suo risentimento. Le diceva essere delitto degno di morte toccare i corpi dei Santi e perfino avvicinarsi loro soltanto collo sguardo degli occhi; aver egli voluto imprendere una lieve [88] novazione alla tomba di san Paolo, e poter accertare che uno fra i deputati al lavoro, il quale aveva osato di toccare alcune ossa, che neppure al corpo dell’Apostolo appartenevano, era stato colpito di subita morte. Pelagio, continua egli a narrare, aveva fatto aprire il sepolcro di san Lorenzo nel tempo in cui dava opera alla costruzione della sua cappella, e tutti i monaci e i guardiani della chiesa che avevano mirato il cadavere, erano passati di vita nel corso di dieci giorni: bastava un lembo della tela che avesse coperto la tomba dell’Apostolo, perchè, raccogliendolo entro una custodia, si avessero benedizioni di sua potenza miracolosa; e di quelle tele, quasi fornite di virtù magnetiche che chiamavansi Brandea, o qualche frammento delle catene dell’apostolo Pietro diceva voler mandare all’Imperatrice, purchè però fosse possibile distaccarne; avvegnaddio il prete che ha ministero di farlo, prosegue egli accortamente, non sia sempre capace di conseguire lo scopo per tutti quelli che ne fanno istanza, chè spesso egli fatica sulle catene colla lima senza poterne cavare nemmanco una minutissima scheggia[86].
I Romani avevano motivo di vegliare ansiosamente a guardia delle loro reliquie, perocchè esse fossero avidamente ricercate. V’erano allora molti uomini che intendevano a scoprire tesori e forse più ancora che dissotterravano ossami, gente che viaggiava per guadagno o per incarico di vescovi stranieri a frugare silenziosamente nei cimiteri dei Martiri, scampando indi col raccolto bottino. A grave commovimento erano [89] messi i Romani un dì che coglievano alcuni uomini greci occupati a disseppellire ossa nelle vicinanze della basilica di san Paolo, laonde custodivano le reliquie della loro Città con cura più sollecita che le mura di essa. Orgogliosi di possedere tali sacri pegni, che nessuna altra Chiesa del mondo poteva con loro dividere, in essi veneravano i palladî di Roma ed anche un poco la calamita che qui faceva accorrere pellegrini d’ogni contrada. Quando il Papa regalava qualche grano di limatura delle catene dell’apostolo Pietro, alle quali già nel secolo sesto si attribuiva la salvezza di Roma, lo si aveva per un donativo cospicuo sì, quanto fu più tardi la rosa d’oro benedetta. S’era fatto costume di porre alcuni piccoli frammenti del ferro di quelle catene in una chiave d’oro e di portar questa appesa al collo come amuleto[87]. Talvolta vi si aggiungeva qualche pezzetto di [90] ferro della favolosa graticola di san Lorenzo, e si distribuivano delle croci d’oro, nelle quali erano contenute scheggie del legno «della vera croce»; ed era fede che quelle croci e quelle chiavi d’oro avessero valore di preseverare da’ morbi e da ogni malanno[88]. Lo stesso Gregorio della loro santa virtù sa raccontare che un soldato Longobardo, il quale voleva mutar forma ad una croce di san Pietro rubata in saccheggio, era punito di quel temerario ghiribizzo artistico, dacchè la lama della spada gli tagliava la gola[89]. Gregorio di quegli amuleti faceva presenti soltanto a persone del più illustre grado, a ex-consoli, a patrizî, a prefetti, a principi, come a Childeberto di Francia, a Reccaredo di Spagna, a Teodolinda. Chiese di remoti paesi erano fornite dell’olio che ardeva in lampade davanti le tombe dei Martiri. Si intigneva in esse per immersione della bambagia, indi la si chiudeva in vasi, la si segnava col nome del Santo e la si spediva a quei santuarî. Bastava toccarla, così afferma [91] Gregorio, per ottenerne miracoli; e v’erano giorni determinati nei quali i fedeli solevano ungersi con quell’olio delle reliquie. All’opposto, era costume di mandare in dono da Gerusalemme a Roma dell’olio della santa Croce[90].
Gregorio, che aveva rifiutato ai Bizantini la testa di san Paolo, dall’Oriente aveva invece recato egli stesso nella Città un braccio dell’apostolo Luca ed un altro di Andrea; e Roma ferveva di zelo a raccogliere entro le sue mura, in copia sempre maggiore, reliquie di altissima rinomanza. Dicesi che il Papa avesse rinvenuta anche la veste miracolosa dell’evangelista Giovanni e l’avesse deposta nella basilica Lateranense. Giovanni Diacono, tre secoli dopo, affermava che quella tunica non aveva cessato fino al tempo suo di operare splendidi miracoli, e che ai tempi di siccità, quando innanzi alle porte del Laterano la si scoteva, riconduceva la pioggia, e allorchè le nubi si scioglievano in torrenti d’acqua, aveva virtù di rifar sereno il cielo: così i Romani avevano con bella ventura trovato di che sostituire al lapis manalis, ossia pietra della pioggia, che ai tempi pagani per lungo tratto di secoli portata tutto all’ingiro nella via Appia, aveva operato eguale prodigio[91].
[92]
A questo culto si associano tutte le altre credenze che quell’età prestava ai portenti; apparizioni di Maria e di san Pietro, risurrezioni di morti, profumo di corpi, aureola di gloria dei santi, comparsa di demonî; e tali credenze s’erano già da lungo tempo completamente affermate. Può soltanto destar meraviglia che tali superstizioni mettessero radice nell’animo d’un uomo qual era Gregorio, i cui sensi di umanità avevano tolto a proteggere persino gli Israeliti dalle persecuzioni di vescovi fanatici. Nelle sue Lettere e nei Dialoghi egli paga il tributo al suo tempo, e molte delle idee che ivi compaiono, volentieri ameremmo considerare come errori dell’umana natura da lunghissimo tempo superati, se per fortuna desiderata ce ne desse ragione il mondo attuale in cui viviamo. Gregorio dava opera a consecrare la chiesa che Ricimero aveva fondata nella Suburra, e la dedicava a santa Agata di Catania la quale, oggi ancora, ivi è venerata quale proteggitrice dalle fiamme dell’Etna. Le strette relazioni che Gregorio teneva colla Sicilia furono ragione che egli accogliesse la Santa di quest’isola nel culto romano della Città; ed egli in pari tempo volle cancellare l’ultima ricordanza dell’Arianesimo in Roma e perciò riaperse al rito cattolico quella chiesa che fino al suo tempo era stata chiusa. Racconta Gregorio con tutta serietà che, compiuta la ceremonia della consecrazione, il diavolo in forma non vista ma sensibile d’un majale, dopo d’aver scorrazzato qua [93] e colà fra le gambe degli astanti, era uscito a corsa dalla porta[92]: per tre notti s’ebbero uditi romori spaventosi sulle travi del tetto, ma alla fine una nube olezzante di profumi scese a posare sull’altare. Questo narriamo non tanto per la curiosità dell’aneddoto quanto per l’importanza storica che se ne rivela: la tolleranza della fede ariana era cessata colla caduta dei Goti; le ultime tracce della dominazione gotica in Roma si associavano ancora ad alcune chiese serrate; e parecchie devono averne appartenuto agli Ariani, avvegnachè Gregorio dica di voler purificare una chiesa ariana nella terza Regione presso il palazzo Merulano e di volerla dedicare a santo Severino, le cui reliquie egli dà ordine che gli sieno spedite dalla Campania[93]. È superflua cosa l’aggiungere che da lunghissimo tempo s’era raffermata la credenza nell’Inferno, laddove da Gregorio stesso procede il dogma del Purgatorio (purgatorius ignis). Una considerazione soltanto merita nota, ed è che, quantunque il terrore pio collocasse le anime dei dannati nella valle della Geenna, tuttavia altri luoghi ancora erano reputati siti del mondo di sotterra. Credevasi che l’anima di re Teodorico fosse stata precipitata nel cratere del vulcano di Lipari. Germano vescovo di Capua, infermo di paralisi, per consiglio dei suoi medici andava ai bagni di Anguli, oggidì sant’Angelo negli Abruzzi; ma appena [94] v’era entrato, il venerando prelato ne aveva ragione di terrore gravissimo; chè egli discerneva sudante e ansante nel mezzo ai vapori delle acque l’anima del diacono Pascasio: e il fantasima lo ammoniva che ivi stavasi in punizione della eresia per cui aveva aderito all’elezione dell’antipapa Lorenzo[94].
Quello che abbiamo detto fin qui, può bastare a dar conferma delle opinioni nostre su Gregorio e sui Romani della età sua; e furono soltanto alcuni larghi tocchi delle credenze e degli errori che in quel tempo accoglieva [95] l’umanità. Chi voglia apprenderne cognizione più completa può leggere i Dialoghi di Gregorio, che sono quattro libri di storie di singolari portenti che egli narra al suo fido diacono Pietro, il quale lascia cadere qua e là un motto, tanto che di un dialogo siavi conservata la forma. Gregorio scrivevali nel quarto anno del suo pontificato. Pochi libri furono letti con più fervida avidità; si divulgarono in Oriente e in Occidente con copie e con traduzioni, fra le quali una ne comparve in lingua araba sulla fine del secolo ottavo; e più tardi ancora re Alfredo d’Inghilterra ne faceva una versione in lingua sassone. Quelli della Congregazione di san Mauro, che attesero all’edizione delle opere di Gregorio, hanno attribuito alla virtù di questi Dialoghi la conversione dei Longobardi, e si può convenire collo Storico della Letteratura italiana in ciò, che gli argomenti in essi contenuti erano acconci a persuadere l’animo infantile di popoli rozzi. Ma chi legge quei racconti vorrebbe desiderare che fosse riuscito alla Critica di liberare il grande papa Gregorio dal carico di esserne autore, avvegnachè ei confesserà ch’essi dovettero consecrare la superstizione coll’autorità del nome di un Pontefice illustre. Dubbia o fuggevole fu la loro utilità in riguardo alle conversioni, ma durevole ne fu il nocumento. Tuttavolta i Dialoghi hanno un’importanza cui non è lecito preterire in silenzio, ed è che le loro storie di portenti sono tutte nazionali d’Italia e di Roma; perocchè Gregorio vi racconti soltanto di quelle leggende che accrescevano la gloria dei Santi italiani del suo tempo, e che adoperavansi quali armi di battaglia contro l’Arianesimo dei Longobardi per dimostrare che la Chiesa romana possedeva [96] ancora la virtù del miracolo. Tutto il libro secondo è dedicato alle geste di Benedetto, e così Gregorio spediva i suoi Dialoghi nelle province, taciti missionarî della Chiesa romana.
In ricompensa di tante storie di prodigî che il grande Papa vi ebbe narrato, egli stesso meritò di diventare soggetto di leggenda. Un dì, così correva credenza nel secolo ottavo, Gregorio passava per il foro Trajano, e il suo sguardo, ammirando la magnificenza di quell’opera meravigliosa della grandezza romana, si arrestava sopra un gruppo di bronzo che rappresentava Trajano, il quale, partendo per una spedizione di guerra, stava per iscendere di cavallo a porgere ascolto ad una vedova che lo supplicava atteggiata di lagrime e di dolore. La donna piangeva un figlio ucciso e chiedeva all’Imperatore giustizia. Trajano promettevale di far ragione della sua causa come fosse ritornato della guerra; ma, se tu non torni, sclamava l’afflitta donna, chi mi farà vendetta? E poichè non la confortava la risposta che farebbela il suo succeditore, essa costrinse Trajano a scendere di sella e a pronunciare sentenza sul luogo stesso. Questo avvenimento Gregorio vedeva scolpito nel bronzo, e lo accorava tristezza desolata che un principe sì giusto fosse caduto in dannazione eterna. Quel pensiero gli traeva lacrime dal ciglio durante il suo cammino, finchè, entrato in san Pietro, vi cadeva svenuto e udiva una voce del cielo dirgli: La tua prece per Trajano è esaudita, l’anima dell’Imperatore pagano è sciolta dai ceppi, però non t’avvenga più d’intercedere per gli uomini idolatri. Più tardi la leggenda aggiunse che Gregorio svegliasse alla vita le ceneri dell’Imperatore [97] per mondarne col battesimo l’anima, dopo di che, quelle ricaddero nei regni della morte, ma questa spiegò sue penne al cielo[95].
Il cardinale Baronio con serietà solenne e con lungo procedimento sentenziò la condanna di questo leggiadro racconto che ebbe origine in mezzo al decadimento della cultura di Roma, e con una larga spugna faticò a lavare santo Gregorio di quell’innocente tinta di poesia, dimostrando che il Papa non sentì mai compassione di Trajano, nè ebbe mai gettate sue preghiere per verun pagano. Egli ha ragione di dubitare che al tempo di Gregorio esistessero ancora delle statue di bronzo nel foro Trajano, ma il suo zelo si scalda in quest’occasione siffattamente, che sulla povera anima di Trajano accumula montagne di delitti per ricacciarla di bel nuovo nel fondo dell’inferno. Noi però non intendiamo di prestare più a lungo l’orecchio nè a lui, nè al cardinale Bellarmino, che ebbe smentito il racconto con pari serietà ma senza ira; tuttavia ci piacque discorrere di questa leggenda, come di una delle più commoventi ricordanze di Roma cadente[96]. Essa ci mostra come i Romani del secolo ottavo, mirando la colonna [98] di Trajano, ne serbassero ricordanza omai fievole, e fra loro narrassero storie meravigliose delle geste del generoso Imperatore, di tal guisa che quella leggenda, come pianta dagli steli rampicanti, crebbe e si distese sulle ruine del foro di Trajano[97].
In che stato allora si trovasse quest’opera magnifica, ignoriamo. Sembra che al tempo di Paolo Diacono il quale narra di quella leggenda, e cioè nel secolo ottavo, non fosse ancora completamente caduto in ruina[98]; e ancor dopo il tempo dei Goti, i Romani continuavano a congregarsi colà per udirvi leggere i versi di Omero, di Virgilio e di altri poeti, come si pare da due passi di Venanzio Fortunato vescovo di Poitiers, che fu contemporaneo di Gregorio. Egli dice:
Vix modo tam nitido pomposa poemata cultu
Audit Trajano Roma verenda foro.
[99]
Quod si tale decus recitasses auri senatus,
Stravissent plantis aurea fila tuis[99].
Lo Storico del Senato di Roma nel medio evo, avrebbe potuto far suo prò di questi distici per avvisarne la esistenza continuata; però essi possono veramente riferirsi così al tempo antico che all’età più recente[100]. Un Autore moderno che scrisse della Letteratura d’Italia nel medio evo, fu tuttavia da quei versi indotto ad affermare che «alla fine dei secolo sesto si leggeva Virgilio con gran solennità nel foro di Trajano. Ivi i poeti contemporanei recitavano le loro opere, e il Senato decretava un tappeto di drappo d’oro a chi riusciva vincitore in quelle tenzoni letterarie»[101]. Noi non vogliamo per fermo scambiare fiori rettorici per tappeti tessuti in oro, ma ci è pur d’uopo riconoscere che ancora al tempo di Gregorio si declamavano versi nel [100] foro di Trajano: e questo fatto ci trae a indagare quali si fossero le condizioni della scienza in questa età.
Durante il loro principato abbiamo veduto Teodorico e Amalasunta intendere con cura sollecita a riporre in fiore le scuole di Roma ed a remunerarne i maestri con publico onorario: il periodo della dominazione gotica conseguiva splendore dagli ultimi nomi che suonino con laudato pregio nella Letteratura latina, da Boezio, da Cassiodoro e dai vescovi Ennodio, Venanzio Fortunato e Giornande; e i loro scritti ci fanno testimonianza che ancora bellamente associate si professavano la poesia, la storia, la filosofia e l’eloquenza. La stessa arte poetica classica degli antichi non era stata peranco cacciata in bando dalla Chiesa, e nel tempo stesso in cui nel foro di Trajano si leggeva Virgilio, nell’anno 544, entro la chiesa di san Pietro in vincoli, tra i plausi romorosi del popolo, ascoltavasi l’ex-conte e suddiacono Aratore recitare quel suo poema in cui celebra la storia degli Apostoli con esametri, la forma dei quali non può ancora dirsi barbarica[102]. Nella dedicatoria a papa Vigilio, [101] cui egli intitolava il poema, Aratore giustifica l’opera sua, dicendo la versificazione non essere straniera alle Sacre Scritture, e i Salmi provarlo; accogliere l’opinione che anche il Cantico dei Cantici e Geremia e Giobbe nella lor lingua originale fossero scritti in versi esametri. La musa di Virgilio, che rendeva lieto dei suoi sorrisi un suddiacono del secolo sesto, lo strascinava a qualche timida reminiscenza, ed in fatto talvolta fanno in lui capolino le forme del paganesimo; laonde il cielo cristiano ei chiama Olimpo, e Iddio pietoso appella Tonante col nome del Dio del fulmine. A quei concetti pagani papa Vigilio nell’anno 544 non s’offendeva di repugnanza, nè più nè meno di quel che avrebbe fatto Leone X nel secolo decimosesto, allorchè le idee dell’Antichità di bel nuovo avevano con l’arte invaso il Cristianesimo[103]. Così parimenti, col carme antico e col lieto amore dell’antica poesia, il Paganesimo compare nel coetaneo di Gregorio, nel celebre monaco irlandese Colombano morto nell’anno 615, fondatore e abate del monastero di Bobbio: colla più schietta ingenuità di [102] animo ei collocava Cristo con Pigmalione e con Danae, con Ettore e con Achille[104].
Ma le guerre bizantine e la caduta del reame dei Goti insieme alle istituzioni politiche soffocavano anche gli studî delle umane scienze. Non s’ode più che in Roma esistessero scuole di rettorica, di dialettica, di giurisprudenza; soltanto la medicina, che Teodorico aveva protetto con grande amore, può esservi stata ancora in qualche fiore; e sembra anzi che i medici di Roma superassero in rinomanza quelli di Ravenna, perocchè Mariano, arcivescovo di quella Città, infermo di petto, era da Gregorio invitato a venirsene a Roma per guarirvi[105].
All’istruzione della gioventù si provvedeva assai scarsamente e d’istituto privato anzi che publico; cessare la istruzione non poteva; maestri e studiosi d’umane scienze avranno sempre esistito. Se si voglia prestar fede alle ampollose parole di Giovanni Diacono, Roma sotto il reggimento di Gregorio per fermo sarebbe stata «il tempio della sapienza cui le sette arti, a guisa di colonne, sostenevano,» e Gregorio non avrebbe avuto intorno a [103] sè uomo alcuno barbaro nella lingua o nel costume, chè ciascuno alteramente si erigeva colla maestà della miglior tempra latina[106]. Rifiorivano gli studî di tutte le arti liberali, nè i dotti premeva cura penosa di sostenere la vita, ed il Pontefice amava circondarsi degli uomini più colti anzi che degli eccellenti per grado. In breve, Giovanni Diacono, nella barbarie del suo secolo nono, descriveva la corte di Gregorio come se avesse dipinto i tempi di Nicolò V, venuto tanto tempo più tardi. Una sola menda deplorava il monaco erudito, ed era che alla curia di Gregorio non si sapeva parlare il greco. Il Papa stesso confessava di non l’intendere, e questo fa meraviglia dappoichè egli avesse vissuto per lunghi anni nunzio a Costantinopoli: qui per contro non era alcuno che sapesse interpretare a dovere le scritture latine. Così ci è dato di scorgere qual grave separazione fosse sorvenuta a rendere straniera l’una all’altra città, e di quanto Roma fosse stata distolta dallo studio della classica letteratura di Grecia[107]. Giovanni Diacono per [104] verità attribuisce a Gregorio il vanto di una dottrina profonda in tutte le libere discipline; e lo dichiara siffattamente erudito fin dalla fanciullezza nella grammatica, nella rettorica e nella dialettica, che sebbene a quel tempo ancora (così dic’egli) Roma brillasse per la eccellenza negli studî delle lettere, tuttavolta nella Città il Papa non era secondo a chicchessia. Sennonchè su quel quadro in cui tratteggia lo splendore della scienza romana, Giovanni Diacono gitta dell’ombra oscura, allorchè con chiare parole soggiunge che Gregorio aveva vietata ai cherici la lettura degli autori pagani; ed egli stesso riferisce quel passo, divenuto sì celebre, di una lettera del Papa, onde si pare la inimicizia che questi nutriva contro le scienze umane. Gregorio con parole d’ira scrive a Desiderio vescovo di Gallia, di aver arrossito come di un’onta udendo che questi a taluno insegnasse grammatica; e mentre parla della letteratura antica come di stupide baie e dichiara cosa empia il tenerla in pregio, soggiunge non potere le lodi di Cristo e le lodi di Giove capire nella medesima bocca[108]. E altrove confessa di non evitare i barbarismi di stile e di sprezzare l’osservanza della sintassi e la costruzione del discorso, avvegnachè reputi indegna cosa di costringere la parola di Dio nell’angustia delle regole di Donato[109].
[105]
Se v’abbiano tutte le buone ragioni, specialmente in causa del primo di quei due passi, per affermare che Gregorio avversava gli studî delle umane scienze, non ve n’ha alcuna per sostenere che la cultura di lui avesse la ruvidezza della barbarie, o peggio ancora per dire che egli fosse un ignorante. La sua dottrina era d’indole teologica. Seppure egli sia stato addottrinato nella dialettica degli antichi, nè questo è dato di conoscere dagli scritti suoi che non s’ispirano mai a filosofia, certo è che egli la ripudiava da sè. Le sue opere sono segnate dell’orma del suo tempo, ma la lingua usata da Gregorio si solleva spesso ad eloquenza rettorica, nè il suo latino è bruttato di barbarismi. La missione propria di lui lo obbligava ad agire soltanto entro la cerchia della vita cattolica, e poichè colla indicibile operosità dello spirito costringeva le cure del suo officio e la costante condizione infermiccia del corpo a consentirgli l’agio di dettare scritti teologici di gran lena, non era possibile di pretendere da lui, massime nel tempo in cui viveva, che desse opera anche alle lettere profane, e che si persuadesse della necessità di quegli studî alla cultura dell’umanità. L’apostolo della conversione d’Inghilterra vedeva Italia qua e colà ancora inebbriata dalle dolci finzioni [106] del Paganesimo[110]; non poteva egli dunque esser benevolo ai poeti dell’Antichità; e fa duopo soprattutto considerare il vescovo Gregorio da un lato ben differente da quello dello statista Cassiodoro che, educato alla cultura classica, conforta i monaci del suo convento allo studio della grammatica e della dialettica. In una parola, se non si può lodarnelo ei si convien pure scusarlo. Dove però si tratti d’istituti ecclesiastici, Gregorio offre allo Storico della Chiesa vastissimo argomento, chè questi deve massimamente descriverne l’opera legislativa e ordinatrice dello splendido culto romano, segnatamente della liturgia. Il suo Biografo celebra la gloria di lui che fondava in Roma la scuola di canto del san Pietro e del Laterano: questa scuola della musica ecclesiastica gregoriana diventava maestra dell’Occidente; l’antichissima cappella pontificia raccoglieva in sè le tradizioni musicali del Paganesimo, e quantunque indicesse guerra ai poeti antichi, Gregorio pur tollerava che i ritmi di Catullo ripetessero le loro melodie innanzi ai ministeri della Messa santa[111].
[107]
Nei secoli posteriori, e persino nei tempi più recenti, parecchie e gravi accuse furono scagliate contro Gregorio, ma di esse non si dà dimostrazione. Fu detto che egli perseguitasse gli studî matematici, ma questa taccia si fonda soltanto su d’una parola, a rovescio interpretata, di uno Scrittore inglese vissuto sullo spirare del secolo duodecimo[112]. Più rilevante è l’accusa mossa dallo stesso Autore, che Gregorio facesse mettere in fiamme la biblioteca Palatina; ed è per lo meno notevole a sapersi che nel medio evo correva tradizione che quel fervido zelatore del Cattolicesimo avesse distrutto l’antica biblioteca di Apollo: è un sospetto che sembra punire papa Gregorio della colpa di avere scritto i suoi Dialoghi. Ma la sorte della celebre biblioteca che un tempo Augusto aveva collocata nel portico del tempio di Apollo, è involta nel buio; forse gli Imperatori greci la facevano trasportare a Bisanzio, forse essa trovava sua fine fra le angustie che premettero Roma, e forse, rosa dalla polve e dal tarlo, continuava ancora ad esistere ai tempi di [108] Gregorio. La ruina delle scienze seppelliva miseramente con sè la biblioteca di Augusto e la biblioteca Ulpia; ed in vece dei tesori della sapienza greca e latina, la cui perdita l’umanità deve deplorare ancor più vivamente che la distruzione di tutti gli splendidi monumenti marmorei di Roma e di Atene, poco a poco compaiono gli Atti dei Martiri, le scritture dei Padri della Chiesa, le Decretali e le Lettere dei Papi, e sono serbati in apposite biblioteche. Vien detto che papa Ilario fosse il primo a fondarne nel Laterano, e Gregorio stesso parla di biblioteche che esistevano in Roma e dell’archivio della Chiesa romana che fu precursore dell’attuale Archivio Secreto nel Vaticano[113].
Noi possiamo risparmiarci il tentativo di spurgare Gregorio dell’accusa d’una barbarità sì feroce, avvegnachè essa sostenersi non possa, se pur solo si consideri che delle opere publiche di Roma non apparteneva la proprietà al Pontefice sibbene all’Imperatore greco, e che questi non avrebbe mai dato licenza che la massima biblioteca di Roma si incendiasse in un solenne falò. E se qualche cosa più di una fola esista nel racconto che Gregorio con rabbia singolare giurasse morte alle opere di Cicerone e di Livio e ne distruggesse i codici ovunque gli capitassero fra le mani, sarà sempre pensiero qualche po’ confortevole che una ventura propizia abbia concesso al cardinal Mai di trarre dalla tomba del medio [109] evo di Roma i libri che Cicerone scriveva della Republica[114].
Il fervore dei difensori del grande Pontefice ha pure un’altra matassa a dipanare; chè a quel sospetto se ne associava un altro, poco meno atroce: Gregorio, così correva fama nel medio evo, ispirato da zelo cattolico avrebbe fatto abbattere i monumenti di Roma per cancellare le ultime vestigia del Paganesimo e per impedire che gli occhi dei pellegrini si distraessero dalle chiese e dalle tombe dei Martiri per mirare le opere dell’Antichità pagana. Lo narrano due Cronisti del secolo decimoquarto; e lo spirito incolto di un Domenicano e di un frate Agostiniano descriveva con gran giubilo il santo Papa intento a troncar le teste degli idoli antichi e a mutilarne le membra[115]. Oltracciò, uno Storico della vita dei Papi che scrisse sullo scorcio del secolo decimoquinto, rinveniva in qualche luogo narrato che Sabiniano, succeditore di Gregorio, durante il tempo di una carestia sollevava il popolo contro la memoria del Pontefice perchè questi aveva distrutto in ogni parte della Città le statue antiche; e s’affermava persino che a [110] gran cumuli le avesse fatto gittare nel Tevere[116]. Ma questa taccia, che trovò fede non solo fra’ Protestanti ma anche presso alcuni Cattolici, non si raccomanda a prova alcuna. Gregorio per certo non deve aver sentito vaghezza della splendida arte plastica degli antichi, ma noi di buon grado conveniamo nell’opinione di coloro che con ragione rammentarono l’affetto di lui per Roma, il diritto di proprietà dell’Imperatore su tutte le opere pubbliche, e finalmente la moltitudine di monumenti della Città che sopravvisse al Pontefice. Tuttavia, alle asserzioni del medio evo in generale ci è forza attribuire una qualche aggiustatezza di giudizio; il rimprovero di vandalismo coi Barbari devono pur dividerlo parecchi Papi, avvegnachè non sia giusto che sopra di quelli soltanto s’aggravi tutto il pondo dei ruderi de’ monumenti distrutti, chè più d’una statua di Roma potrebbe attribuire la sua distruzione all’ardore pio di qualche Vescovo[117].
Ogni dì più la Città precipitava in ruina e non ne [111] avea salvezza. Gregorio, che senza rimpianto vedeva i templi di Roma cadere, mirava con duolo franti in pezzi gli acquedotti della Campagna che fra non molto sarebbero caduti in finale disfacimento se la Città non avesse pensato a restaurarli. Egli scriveva ripetute volte al suddiacono Giovanni, suo nunzio in Ravenna, acciocchè sollecitasse il Prefetto d’Italia a provvederne al riparo; e pregava che di ciò fosse dato incarico al viceconte Augusto, avvegnachè sembri che quest’officiale fosse da Ravenna insignito del titolo antico di Conte degli Acquedotti. Nulla di più però fu fatto; gli acquedotti rimasero in balia alla distruzione, e forse, ad eccezione di qualche debole tentativo, neppur un condotto d’acqua fu rimesso in buono stato[118].
In generale, soltanto allora che v’abbia occasione a discorso di chiese e di conventi, tornano i nomi antichi di Roma a comparire con menzione fuggevole; chè la tenebra d’una notte profonda calava ognor più, e nell’ombra nera celava i monumenti degli antichi[119].
[112]
Noi dobbiamo qui restringerci a discorrer soltanto dell’influenza che il grande Vescovo esercitò sulla città di Roma e dell’opera che egli vi rivolse, avvegnachè alla Storia della Chiesa convenga in generale di parlare dell’importanza che il reggimento di Gregorio si ebbe in relazione ai negozî d’indole religiosa. Allorchè fu fatto papa, erano già vinte quelle battaglie durate da secoli, in mezzo alle quali era sorto l’edificio della dottrina ecclesiastica, ed erano stati per sempre statuiti i dogmi fondamentali della fede cattolica sulla natura del Cristo e sulla trinità. Compiuto s’era il periodo dei Padri della Chiesa, e si schiudeva un’êra nuova in cui l’Oriente si distaccava dall’Occidente, e nell’Occidente si fondava la podestà assoluta del Pontefice romano. Fu Gregorio il grande che iniziò quest’epoca e pose le fondamenta della signoria pontificia, dopo che Leone I, predecessore di lui, aveva già conseguito che il primato della sede apostolica si elevasse ad autorità di principio. Questo primato era combattuto acremente sempre dalle Diocesi orientali di Antiochia e di Alessandria e, innanzi tutte, da quella di Costantinopoli, il cui patriarca Giovanni Digiunatore si assumeva il titolo di vescovo ecumenico ossia universale: ma Gregorio si opponeva con energia a siffatta usurpazione, nel tempo medesimo che, [113] primo tra i Papi, con accorta modestia sè appellava «servo dei servi di Dio»[120].
I dissensi profondi tra la Sede romana e l’Oriente spalancarono, col proceder del tempo, un abisso cui nulla valse a colmare; di qui l’Occidente trasse giovamento a conseguire una sua propria autonomia, che essenzialmente derivò dall’associazione della Chiesa romana all’elemento germanico, laddove l’importanza della Chiesa orientale andò ognor più diminuendo, perocchè i suoi patriarcati, fondazioni antichissime del Cristianesimo, in gran parte fossero inghiottiti dal Maomettismo irrompente.
Ei si fu parimenti Gregorio che in Occidente estese la ragione di autorità della Sede romana oltre i confini del suo patriarcato. Giusta l’estensione di limiti della Diocesi costantiniana di Roma, il Vescovo romano esercitava la giurisdizione ecclesiastica di metropolita precisamente sulle dieci province suburbicarie d’Italia soggette al Vicarius Romae; però le Chiese metropolitane di Ravenna per l’Emilia e per la Flaminia, di Milano per la Liguria, per le Alpi Cozie e per le due Rezie, di Aquileja per le Venezie e per l’Italia, combattevano la podestà apostolica di Roma tentando di escluderne l’imperio dai loro territorî, nè si reputavano suddite ad essa. Ma Gregorio sostenne contro le loro [114] pretese il primato dei successori di san Pietro; e si elevò a podestà di vero patriarca dell’Occidente[121]. Fu pur desso che avvinse alla Sede romana con più stretti nodi le Chiese germaniche delle Gallie e di Spagna, dove il re visigoto Reccaredo col suo popolo s’era fatto confessore della fede cattolica: e nel tempo stesso la conversione dei Longobardi, per la massima parte seguaci ancora delle dottrine di Ario, che era dovuta al pio fervore della regina Teodolinda, progrediva nel suo cammino a sicuro porto, così che Italia ne conseguiva l’unità della fede[122]. Gregorio, «console d’Iddio,» conquistava altresì alla soggezione di Roma la remota isola britanna[123]. Narrasi che un dì, quando non era ancora papa, nel foro dove allora tenevasi mercato di schiavi, vedesse tre leggiadri fanciulli stranieri ch’erano messi in vendita, e istruito di loro origine, sclamasse: «Angli, quasi angeli sono»[124]. E riscattava [115] quei tapinelli senza patria, e acceso di zelo di apostolo voleva partir in missione per quelle terre; ma il popolo ne lo tratteneva, e soltanto nell’anno 596 era dato a Gregorio di spedire dal suo convento una schiera di monaci sotto la capitananza di Agostino a quell’isola remota un tempo dominata da’ Romani. Splendidi e rapidi furono i risultamenti: la Britannia, che due secoli prima era uscita di mano dell’Impero romano e indi era divenuta conquista del poderoso popolo degli Anglosassoni, era soggiogata adesso dai fraticelli di un convento che s’ergeva solitario presso il Colosseo, e, provincia nuova e fervida nello ardor della fede, era riunita alla Chiesa romana. Gregorio con orgoglio patrio invocava ricordanze antiche, e appellava re Adelberto e la sua donna Adelberga coi nomi di Costantino novello e di novella Elena[125].
Per tal guisa lo spirito possente di quest’uomo, che fu il più grande del suo secolo, penetrava in paesi remoti e dimorava in mezzo a popoli lontani tra i quali rendeva venerata e temuta Roma la santa. Egli componeva sè stesso ad elevata dignità di rimpetto all’Imperatore ed ai Re, e gli ammoniva a ministrare la giustizia ai loro sudditi e a governarli con mitezza. Proteggeva persone ed anche province dalle concussioni [116] degli officiali imperiali, e l’orecchio suo acuto raccoglieva i lamenti del popolo perfino nella selvaggia Corsica e nella remota Africa[126]. Non fuvvi mai altro Papa che abbia compreso come lui l’altezza della sua missione e che l’abbia sostenuta con pari operosità e con eguale valore; le sue cure e le sue relazioni si estesero a tutti i paesi della Cristianità. Nessun altro Pontefice lasciò tanta copia di scritti quanta lascionne egli che fu appellato ultimo Padre della Chiesa: nè animo sublime e generoso pari al suo sedette mai sulla cattedra di san Pietro. Dopo un reggimento veramente glorioso, durante il quale ebbe fondata nella Chiesa occidentale quella podestà suprema del Vescovo romano che durar doveva un mille anni, ma di cui egli nè intese, nè presagì il mutamento degenere, Gregorio I passò di vita in Roma addì 12 marzo 604[127].
Di lui oggidì non rimangono in Roma che pochi monumenti. Il rovinio cui volgeva quella sua età non ebbe concesso a Gregorio di ornare di edificî la sua città natale, o, forse, il suo spirito compreso soltanto della salute dell’anima degli uomini, disdegnava, per usare delle parole del monaco Beda, di affaticarsi intorno [117] alle pompe esterne di chiese splendide d’oro e d’argento, come altri vescovi fecero. Il Libro Pontificale, che contiene un copioso catalogo degli edificî e dei doni votivi dei suoi predecessori, nella biografia di Gregorio che è di meravigliosa brevità, fa menzione soltanto che egli elevasse all’apostolo Pietro un ciborio con quattro colonne d’argento ossia un baldacchino dell’altare maggiore, ciò che appellavasi anche Fastigium. Leggiamo nelle sue Lettere ch’egli commetteva nelle Calabrie delle travi per intraprendere restaurazioni nelle basiliche di san Pietro e di san Paolo, ma è pur dubbio se per verità siffatti lavori si compiessero. Della fondazione del suo convento sul Clivo Scauro abbiamo già tenuto parola, e certo ei sarebbe stato di somma importanza per la storia della pittura se si fossero conservati i dipinti che ivi nell’atrio Gregorio avea fatto condurre: Giovanni Diacono, che potè ancora vederli, ne dà una descrizione particolareggiata. Erano affreschi, ond’è dimostrato che in quel tempo ancora esercitavasi in iscuole la pittura di colori. Vi era rappresentato Pietro seduto su di un trono, e, innanzi a lui, il padre di Gregorio che stringevagli la destra. Gordiano vestiva abito di diacono; una pianeta di color castano bruno scendeva sulla dalmatica, i piedi erano stretti in piccoli stivali. Lunga era la forma del volto, l’aspetto grave; avea barba breve, capelli folti, occhi vivaci. Un altro quadro, che conteneva il ritratto della pia madre di Gregorio, ci rappresenterebbe una nobile matrona romana di quell’età. Silvia era coperta di un candido ammanto a foggia di velo il cui panneggiamento, secondo l’antico costume romano, risaliva dalla spalla destra [118] alla sinistra; portava una tunica bianca chiusa al collo che scendeva fino alle piante in larghe pieghe, ornata di due liste a mo’ di dalmatica. In capo aveva una bianca mitra ossia cuffia: le dita della mano destra alzava in atto di segnarsi, nella sinistra teneva un libro di preci su cui stava scritto: «Vive l’anima mia, e dirà le tue laudi, e i tuoi cenni saranno mio ausilio:» Vivit anima mea et laudabit te, et judicia tua adjuvabunt me. Giovanni Diacono mirava con venerazione l’imagine di quella matrona, e confessava che neppur l’età senile aveva cancellato i tratti di una bellezza antica. Il volto rotondo e cosparso di pallore era solcato di rughe, ma i grandi occhi azzurri sotto ciglio soave, e le labbra graziose e la serena letizia di tutto il sembiante, la diceano beata del figliuolo che aveva dato al mondo.
In una piccola abside entro un rotondo di stucco era dipinto anche il ritratto di Gregorio; le sembianze erano gradevoli, dolci le fattezze del volto ornato di barba bruna. Avea fronte calva, alta, ampia, coronata di pochi capelli neri; il guardo esprimeva mitezza; le mani belle mettevano in mostra dita ritondette, dalle quali il suo biografo arguisce prestezza a scrivere. Una pianeta castano-bruna scendeva sulla dalmatica, e il pallio ornato di croce ne copriva gli omeri, il petto e i fianchi. Il capo non era cinto dell’aureola, ma una cornice quadrangolare dimostrava che egli viveva ancora quando era fatto il quadro, avvegnaddio soltanto ai defunti si ponesse in capo l’aureola, indizio di loro santità[128].
[119]
Il convento di sant’Andrea non è più. Cent’anni dopo la morte di Gregorio, diserto di frati, fu restituito in vita da Gregorio II; indi, incerto il tempo, cadde. Si afferma che la chiesa di san Gregorio, onde s’ignora l’epoca dell’edificazione, sorga sul luogo ov’esso prima stava. Quivi, del pari che nelle vicine cappelle, si illustrò con monumenti la storia del massimo di tutti i Papi. Fra essi, nella cappella Salviati, si mira un ciborio di squisito lavoro, fondazione di un abate avvenuta nell’anno 1469, in cui è istoriata in rilievo la processione e l’angelo che raccoglie il volo sul mausoleo di Adriano. Nella cappella di Gregorio, di faccia all’altare, v’è un rilievo di sottilissimo lavoro, che appartiene probabilmente alla stessa epoca: esso rappresenta il Papa in atto di orare per la redenzione delle anime del Purgatorio; però la leggenda relativa a Trajano l’artista non produceva.
Il Baronio, ch’era stato altra volta commendatore del convento di Camaldoli presso san Gregorio, fondava nelle vicinanze di questa chiesa tre cappelle dedicate a sant’Andrea, a santa Silvia e a santa Barbara. La prima deve sorgere sul luogo stesso dove Gregorio avea edificata una chiesa a quell’Apostolo. Le sue pareti sono adorne di pitture del Domenichino e di Guido Reni, ma [120] il valore illustre di quegli affreschi omai sbiaditi, che non rappresentano alcun fatto della vita di Gregorio, attragge lo sguardo meno assai del brutto quadro di un artista oscuro che si collocò nella cappella di santa Barbara e che figura la conversione dell’Inghilterra.
[121]
Morto Gregorio, la sedia di san Pietro restò vacante sei mesi, finchè giunse la confermazione del suo succeditore. Fu questi Sabiniano di Volterra, altra volta diacono e nunzio della Chiesa romana alla corte di Bisanzio. Egli assunse il pontificato in mezzo alla più grave tristizia di tempi, giacchè su Roma e su tutta Italia incrudiva il flagello della carestia e della fame[129]. Quantunque Sabiniano schiudesse i granai della Chiesa, le provvisioni non furono sufficienti a nutrire il popolo. Una rozza leggenda narra che l’anima irata di Gregorio apparisse al suo successore e lo colmasse di rimbrotti, e che per ultimo il Santo lo picchiasse nel capo così, che il Papa tosto dopo ne moriva. Alcuni Romani senza dubbio impressero in fronte a Sabiniano un [122] marchio vituperevole, perocchè il dichiarassero acceso d’inimicizia e di gelosia delle opere del suo antecessore[130]; e perfino la salma di lui morto dovette temere la ferocia della bordaglia famelica, poichè dal Laterano per vie ascose intorno le mura della Città fu tratta al san Pietro[131]. Lo sciagurato Sabiniano, condannato a venir dopo di un uomo grande, moriva già nel Febbraio dell’anno 606.
Un anno intiero la cattedra pontificia restava indi priva di reggitore, fino a che Foca approvava la elezione di Bonifacio III romano (607), figlio di Giovanni Cataaudioce, del cui nome dee cercarsi la patria in Oriente anzi che in Roma. Anche durante il breve governo di questo Papa, la storia della Città serba il silenzio; soltanto le Croniche narrano il fatto meritevole di nota, che a Bonifacio III riusciva di ottenere da Foca un decreto, il quale, con prospero risultamento per Roma, poneva fine a quella controversia del primato che il Vescovo romano avea sostenuto contro il Patriarca di Costantinopoli: l’Imperatore greco statuiva che Roma dovesse essere riverita quale Sede apostolica e quale capo [123] della Cristianità. Bonifacio III moriva nel giorno 10 Novembre 607: questa almeno è la data che assumono gli scrittori della Chiesa. Addì 25 di Agosto dell’anno successivo era elevato al soglio pontificio Bonifacio IV, marsio nativo di Valeria e figlio a un Giovanni medico.
Tenne egli il reggimento più di sei anni, e furono anni luttuosi e mesti per fame, per contagi e per pressura di nemici; laonde ci è agevole credere di quanto in basso Roma diserta allora rapidamente precipitasse. Eppure gli è precisamente sotto di questo Papa che spunta fuor della tenebra uno dei più egregi monumenti della Città, cui per lunghi secoli avea coperto dimenticanza profondissima. Il vasto Campo di Marte era stato tutto pieno di edificî splendidi d’ogni maniera, ma i suoi portici, i bagni, i templi, e i suoi stadî, i teatri, i boschetti deliziosi avevano servito soltanto al sollazzo dei cittadini, e perciò non poteva essere che scarso il numero della gente che in quel luogo abitava. Le chiese che ivi sorgevano raccoglievano più tardi intorno a sè nuova vita di popolo; nelle regioni deserte di Roma, al paro che nei territorî abbandonati della Campagna, esse giovavano massimamente a riunire, quasi intorno ad un centro, nuove congregazioni di gente. Mentre però la Città si era riempiuta di tante chiese, fino a questo tempo abbiamo veduto erigersene invece due sole di rinomanza nel Campo di Marte e proprio agli estremi suoi limiti; quella di san Lorenzo in Lucina, e l’altra di san Lorenzo in Damaso: nel mezzo del Campo di Marte s’alzavano soltanto degli oratorî minori. Ivi poi stava il Panteon in un suolo tutto coperto di grandi monumenti di marmo, che erano stati aspramente danneggiati [124] dall’inondazione dell’anno 590; tutto in giro all’intorno erano le terme di Agrippa, quelle di Nerone o di Alessandro, il tempio di Minerva Calcidica, l’Iseo, l’Odeo, e lo stadio di Domiziano; e mentre dall’un lato si elevavano gli edifizî magnifici degli Antonini, sorgevano dall’altro il teatro di Pompeo e gli Arcadi confinanti. Questi splendidi monumenti dell’Antichità erano già in balia della ruina e dovevano perciò offrire alla vista uno spettacolo di contristante bellezza.
Il Panteon era forse il solo edificio del Campo di Marte che si serbasse affatto incolume da guasto. Questo monumento bellissimo di Agrippa da ben seicento anni pugnava contro l’ira dei turbini; nè le inondazioni del Tevere, che ancora fino al dì d’oggi quasi ogni anno flagellano la Rotonda colle loro onde e piombano nel suo interno colla violenza di un torrente, nè le piogge invernali che penetrando a scroscio dal foro della cupola battono l’affondato pavimento di marmo e sono raccolte in canali sotterranei, avevano avuto potenza di scrollare l’edificio saldissimo. Il magnifico vestibolo, cui si ascendeva per cinque gradini, durava illeso colle sue sedici colonne di granito dai capitelli corinzî di bianco marmo; e può darsi che nelle loro due nicchie stessero ancora le statue di Augusto e di Agrippa, che quest’ultimo vi aveva collocato. La ingiuria del tempo non aveva valso a infrangere l’armatura del tetto formata di travi di rame dorato; nè violenza di predoni aveva ancora strappato le tegole di bronzo dorato onde il vestibolo e la cupola erano ricoperti[132]: però non ci è dato [125] di sapere se il frontone possedesse tuttavia i suoi ornati, dei quali non ci è rimasta la descrizione. Addossato alle terme di Agrippa, non è possibile che il Panteon in origine fosse rivolto ad uso di tempio; ma la costruzione del vestibolo, avvenuta più tardi quando Agrippa lo fece erigere durante il suo terzo consolato, dimostra che allora di tempio ebbe destinazione. Già Plinio gli dava nome di Pantheon, e Dione Cassio, oltre alle statue di Marte e di Venere, vi mirava quella di Cesare onorato con divino culto, cui Augusto rifiutava d’essere associato[133]. Sebbene il tempio in genere ricevesse suo titolo da Cibele madre degli Dei ed in ispecie da Giove Ultore, tuttavia l’esistenza di quelle statue fa ricavare la conseguenza che si destinasse ad onoranza de’ Cesari, quale monumento della grande vittoria che Augusto riportava ad Azio[134]. Gli editti degli Imperatori [126] cristiani avevano comandato che si serrassero tutti i templi pagani, e forse da due secoli nessun Romano aveva messo piede entro il Panteon; egli è certo però che i grandi battenti delle porte guerniti di rame verdiccio (è difficile che sieno ancora quegli stessi di oggidì) erano stati forzati dai Visigoti e dai Vandali. Ivi entro però costoro non trovavano tesori; lo splendido intonaco di marmi o le cassette della volta probabilmente adorne di rosoni di metallo potevano appena allettare il loro talento rapace. Nelle sei nicchie della rotonda interna e nelle edicole poste tra esse eglino però trovavano simulacri abbandonati di Dei, ed è possibile che di essi portassero via quelli che per materia erano preziosi, chè persino Bonifacio IV alcuni ancor ne trovava nel Panteon[135].
Il Pontefice mirava con occhio commosso di desiderio quel miracolo dell’arte che si conveniva perfettamente ad una chiesa. L’edificio tutto chiuso d’intorno, che si erigeva sopra una piazza sgombra, e si discostava dall’architettura consueta dei templi, lo allettava a prenderne possedimento; e la bella cupola formata di una sfera lanciata nell’aria, entro cui con incanto portentoso [127] si riversava a larghe onde la luce, apparivagli dimora condegna di Maria, regina del cielo. Gli ultimi Imperatori con loro editti avevano bandita legge che i templi dei pagani non si distruggessero, ma al culto cristiano si consecrassero; e Gregorio con suoi comandamenti al vescovo Melito aveva raffermato quel principio, almeno per la Bretagna[136]. Tardi però si seguì un tal sistema, che già probabilmente s’avea adoperato nell’antica Atene, dove il celebre Partenone, sede della vergine Atene, era stato tramutato in chiesa alla vergine Maria[137]. Nulla poi serve con maggiore evidenza a provare che i Papi non possedevano dritto di proprietà sugli edificî publici, di quanto lo faccia la chiara narrazione dei Cronisti, che Bonifacio con preghiere ottenne da Foca il Panteon in dono[138]. Il Papa convocò il clero di Roma; le porte [128] guernite di rame, cui si affiggeva la croce in segno di possedimento, furono spalancate. Nell’elevata Rotonda di Agrippa entrarono per la prima volta le litane di preti salmeggiando, nel tempo stesso in cui il Papa aspergeva di acqua benedetta le pareti di marmo donde era stata rimossa ogni traccia di Paganesimo; e al suono del Gloria in excelsis ond’era ripercossa la splendidissima volta con echi sonori, la fantasia dei Romani poteva discernere i demonî atterriti cercare nell’aria libera uno scampo, spertugiando per l’apertura della cupola. E quei diavoli tanti erano, quante erano state divinità pagane, chè già fino al tempo di Bonifacio il Panteon misterioso era stato additato qual sede vera e propria che i demonî s’avevano in Roma prescelta. Nel più tardo medio evo si pretendeva sapere che Agrippa avesse sacrato il tempio a Cibele ed a tutti gli Dei, e si credeva che egli avesse collocata la statua in bronzo dorato di quella Dea sopra l’apertura della cupola[139]. Ciò che si narrava nel secolo duodecimo poteva esser già stato seicento anni prima una credenza popolare, e il Panteon innanzi tutto era appellato tempio di Cibele. Ciò possiamo d’altronde argomentare di piena ragione dai titoli onde Bonifacio IV [129] insignì la Rotonda; egli infatti la consecrò a Maria Vergine ed a tutti i Martiri. La Chiesa romana si compiaceva di collocare, nei templi conversi al culto divino quei Santi che in qualche guisa facessero riscontro agli Dei che n’erano stati banditi. Così il tempio che probabilmente avea appartenuto a Romolo e a Remo fratelli gemelli, era consecrato ai gemelli Cosma e Damiano; così santa Sabina aveva cacciato dall’Aventino la diva Diana; così Sebastiano e Giorgio, due santi tribuni militari, erano succeduti a Marte dio della guerra. Bonifacio seguì pertanto la tradizione: la madre dea Cibele fu cacciata in bando da Maria madre di Dio, e il tempio «di tutti gli Dei» fu convertito nella chiesa di tutti i Martiri. Le pretensioni universali del culto romano della Città, che accoglieva entro le sue mura Santi cristiani d’ogni paese, con senso veracemente romano trovavano in questo novello Panteon un simbolo acconcio.
Invece delle statue delle Divinità pagane vi si collocavano adesso scheletri di Santi, nè abbiamo ragione di dubitare su quanto si narra, che Bonifacio mettesse a sacco tutte le catacombe di Roma, e che, caricate ventotto carra di così dette ossa di Martiri, le facesse seppellire sotto la Confessione della novella chiesa[140]. Se si stia al Martirologio romano, il Panteon fu consecrato nel giorno 13 di Maggio, ma la data dell’anno pende [130] incerta tra il 604 e gli anni 606, 609 e 610[141]. Oggidì ancora si celebra a Roma in quel giorno la dedicazione del Panteon; la festività poi di tutti i Martiri e di tutti i Santi cade nel giorno primo di Novembre, e quella dei morti in beatitudine avviene nel dì secondo di quel mese, sia che già Bonifacio stabilisse, all’uopo di solennità, quelle giornate, sia che per il primo ordinassele Gregorio IV; chè soltanto nel secolo nono questa ceremonia d’origine romana ottenne celebrazione anche presso i popoli d’oltralpe[142]. Di tal guisa, dalla bella Rotonda di Agrippa ebbe origine la festa della doglianza universale della Cristianità; dal Panteon di tutti gli Dei si diffuse pel mondo cristiano uno spirito di mite mestizia e di sante ricordanze, che ancora nei secoli più tardi, in Italia e in Alemagna, animò il genio della musica alle sue creazioni più commoventi. Il Panteon di Roma fu fatto tempio di pietà e di requie, ed oggidì ancora s’entra con senso di venerazione in quella Rotonda senza pari, irradiata con effetto incantevole di luce, dove Raffaello ebbe trovato il suo ultimo letto di riposo. Se il più bell’edificio di Roma antica ebbe salvamento dalla ruina se ne deve saper grado alla Chiesa che lo adoperò al suo culto. Ove ciò stato non fosse, quello splendido monumento, durante il medio evo, [131] sarebbe diventato un castello di qualche nobile, avrebbe sofferto devastazione in mezzo ad innumerevoli turbini di guerra, e tutt’al più si sarebbe conservato in forma ruinosa, come avvenne della tomba di Adriano. A ragione, quell’opera avventurata di Bonifacio IV fu reputata grande abbastanza perchè sulla tomba di lui ne fosse iscritto il racconto, ad acquistargli titolo di immortal rinomanza[143]. La novella chiesa ebbe indi nome di S. Maria ad Martyres. La sua antichità, la bellezza e la santità sua fecero sì che i Romani di ogni tempo la tenessero in conto di gioiello della Città loro; rimasta proprietà dei Papi ne fu vigilata con fervidissime cure. Tuttavia nel decimoterzo secolo ogni Senatore di Roma faceva giuramento di difendere e di conservare pel Papa, oltre al san Pietro, al castel sant’Angelo e ad altri dominî pontificî, anche la santa Maria Rotonda[144].
[132]
Bonifacio IV trapassava di vita, secondo la data accolta dagli Scrittori ecclesiastici, addì 7 Maggio 615; e cinque mesi dopo era fatto papa il romano Diodato, figlio di Stefano suddiacono: ciò avveniva precisamente nell’anno settimo dell’impero di Eraclio che, tolti trono e vita al tiranno Foca, aveva indi spinte le sue armi fino nel cuore della Persia; ed avveniva nel primo anno del regno di Adelvaldo, che era succeduto al grande Agilulfo padre suo. I Longobardi mantenevano pace, ma la guerra orientale influiva a mettere confusione nelle condizioni dell’Esarcato, dove la nazione latina incominciava a dividersi profondamente ognor più dalla greca. In Ravenna scoppiava un rivolgimento, il primo ond’abbia notizia quella storia; l’esarca Giovanni Lemigio era trucidato, e soltanto ad Eleuterio, succeditore di lui, riesciva di domare la insurrezione. Forse ad essa associato era il moto di ribellione che avveniva in quel di Napoli, od altrimenti la tristizia dei tempi qui pure ne dava cagione. Giovanni di Compsa, uomo ragguardevole di questa città, il cui nome compare sulla fine della guerra gotica, era insorto contro il governo bizantino e s’era impadronito di Napoli. Eleuterio era costretto a [133] scendere di Ravenna con un esercito; veniva a Roma, dove papa Diodato lo accoglieva con ogni maniera di onori, conquistava Napoli, metteva a morte i ribelli, e trionfante tornavasi a Ravenna[145]. Può darsi che ciò avvenisse nell’anno 616, oppure nel successivo 617.
Il Libro Pontificale, che adesso è sola e scarsa fonte della nostra Storia, dichiara che così fu restaurata la pace in tutta l’Italia. Frattanto, nel secolo settimo, anche le sorti italiche mutavano. La nazione latina si faceva robusta entro la Chiesa e opponeva un contrasto sempre più efficace alla signoria greca, contro cui incominciava con ripetuti rivolgimenti a sollevarsi, nel tempo stesso in cui alcuni governatori bizantini tendevano a conseguire l’independenza. La Chiesa romana diventava proteggitrice di questi moti nazionali, ed essa stessa, nel campo delle controversie dogmatiche, entrava contro l’Impero greco in una lotta violenta che recava conseguenze gravissime per Roma, per l’Italia e per l’Occidente.
Diodato moriva agli 8 Novembre 618, probabilmente in quella pestilenza che di Costantinopoli era venuta ad infestare l’Occidente. Prima ancora che il suo succeditore, Bonifacio V napoletano, ricevesse l’ordinazione, [134] un secondo rivolgimento scoppiava in Ravenna. Erane a capo adesso lo stesso esarca Eleuterio; chè la occasione propizia fornita dalla guerra in cui era involto l’Imperatore bizantino contro i Persiani e gli Avari, allettava quell’ambizioso eunuco a farsi independente; laonde ei si gridava imperatore d’Italia e moveva contro Roma per impadronirsene e per ottenervi la conferma della sua usurpazione. Ma i suoi medesimi soldati lo uccidevano nel castello di Luceoli e mandavano la sua testa a Bisanzio[146]. Ciò avveniva nel 619; nel Dicembre poi di questo stesso anno succedeva l’ordinazione del nuovo Pontefice eletto[147]. Ma anche di Bonifacio V nulla si narra fuori del numero di anni del suo reggimento; la sua morte deve esser avvenuta nell’Ottobre dell’anno 625.
L’oscurità più profonda cela la storia di Roma in questa prima metà del secolo settimo, che per la Città fu massimamente orrendo e grave di ruina. Nel tempo stesso in cui nell’Oriente Eraclio con isplendide fazioni di guerra scrollava il regno persico di Cosroe ed apriva il varco alla prossima conquista che ne avrebbero fatto gli Arabi; nel tempo stesso in cui nell’Arabia, in mezzo a lotte gagliarde, si costituiva e si diffondeva la religione di Maometto, Roma giaceva prostesa al suolo simile a scoria riarsa dei monumenti storici. Dello stato interno della Città nulla sappiamo; non v’ha luogo in cui sia fatto cenno di Duci, o di Maestri de’ militi, o di Prefetti; e con vani sforzi s’affaticano [135] gli eruditi di scoprire una sola traccia della costituzione municipale cittadina. In mezzo a questo deserto anche adesso non risuona altro che lo spesso fragore dei colpi di martello, con cui gli operai, d’ordine del Pontefice, edificano chiese o danno opera a restaurarne.
Onorio I, uomo della Campania, figlio di Petronio nobile latino, che portava titolo di console, saliva alla cattedra di Pietro cinque soli giorni dopo la morte di Bonifacio V; e ciò fa credere agli Annalisti della Chiesa che l’esarca Isacco allora si trovasse in Roma, e vi impartisse la confermazione[148]. Mentre eglino ammettono che, fino a questo tempo massimamente, il diritto di conferma della elezione pontificia fosse stato dagli Imperatori ceduto agli Esarchi, quegli Scrittori si riportano con qualche ragione ai formularî del Liber Diurnus dei Vescovi romani, che fu raccolto insieme tra l’anno 685 e il 752. Infatti, quantunque vi si trovi la formula della istanza che movevasi all’Imperatore per ottenere la conferma, essa ricade nell’ombra, dappoichè quella indiritta all’Esarca sia compilata in termini di sollecita preghiera e con istile di reverenza sommessa. L’Arciprete, l’Arcidiacono e il Primicerio dei notai solevano infatti render nota all’Esarca la morte del Papa; indi si deponevano nell’archivio del Laterano gli atti della elezione sottoscritti dai preti e dai laici, e se ne spediva una copia all’Imperatore. Più importante assai era naturalmente l’annuncio che se ne spediva all’Esarca; non soltanto con umile eloquio si sollecitava il Vicerè d’Italia a [136] impartire la approvazione della elezione, ma si chiedeva all’Arcivescovo ed ai Giudici di Ravenna che si adoperassero presso quel reggitore onnipossente affine di ottenerne il placito favorevole. Quei formularî non lasciano argomento di dubitare della pienezza di potere dell’Esarca, e noi possiamo financo accogliere come certo che egli in questo tempo, fungendo le veci dell’Imperatore, addirittura confermasse i Papi eletti; egli rimane dubbio però se posteriormente, massime dai tempi di Onorio in poi e per sempre, quel diritto di conferma l’Esarca abbia conservato. Il clero ed il popolo di Roma doveva cercare il favore dell’Esarca anzichè quello dell’Imperatore, avvegnachè quegli si trovasse in rapporti diretti con Roma e fosse arbitro della decisione che pronunciavasi dalla corte bizantina: è possibile che i Romani medesimi, i quali soffrivano di gravi danni quando si ritardava la ordinazione dei loro Vescovi, avessero implorato dall’Imperatore che loro fossero risparmiate quelle difficoltà; e ciò dacchè egli la conferma all’Esarca demandava[149].
I Romani aveano motivo di esser lieti della elezione di un uomo che scendeva di illustre stirpe latina, avvegnachè Onorio, colto e pio, tendesse sulle orme del grande Gregorio. Ma nella nostra Storia non possiamo [137] tener discorso nè dei suoi sforzi a riporre il re Adelvaldo sul trono da cui Arialdo lo aveva rovesciato nell’anno 625, nè delle sue cure per la conversione dei Sassoni orientali e occidentali della Bretagna, nè della sua accondiscendenza, sì acerbamente biasimata dai Cattolici, alla eresia dei Monoteliti. In Roma valsero splendore ad Onorio le edificazioni di chiese, per modo che egli conseguì nominanza durevole allato di Damaso e di Simmaco. Il lungo catalogo delle sue opere di restauro o di costruzioni nuove è specificato nel Libro Pontificale; laonde, dopo una lunga dimora di tempo, trovasi ancora un Pontefice che ebbe contribuito di molto alla trasformazione della Roma antica. La pace coi Longobardi gliene concedeva ogni agio, e le guerre che erano nel tempo innanzi avvenute non avevano esaurito il tesoro già dovizioso della Chiesa. Il figlio del consolare Petronio non andava a rilento nello spendere le rendite dei patrimonî, allorchè si trattava di adornare di nuova magnificenza le chiese di Roma.
Nella basilica di san Pietro egli rinnovellava collo sfarzo più dovizioso tutti gli arredi, e rivestiva la Confessione con argento massiccio del peso di centottantasette libbre[150]. Lo splendore odierno di questa tomba dell’Apostolo è un ornamento modesto in paragone della sfolgorante ricchezza che ivi si profuse in quel tempo e nel secolo seguente. Con grevi lamine di argento, pesanti novecento settantacinque libbre, Onorio ricopriva perfino la porta media d’ingresso della basilica, che [138] aveva nome di Janua regia major o mediana, e che dal suo ornato fu in seguito detta anche argentea[151]. Una antica iscrizione in distici leggevasi nei tempi addietro su questa porta; e poichè essa fa menzione che Onorio aveva posto fine allo scisma istriano, ne consegue che egli ebbe compiuta quest’opera dopo l’anno 630. La iscrizione appella il Papa, con bello e semplice motto, Duca del popolo, Dux plebis[152]. Il rivestimento d’argento della porta ben doveva essere adorno di lavori a cesello, perocchè non si possa supporre che fosse un nudo tegumento di metallo. Ne lo rapirono i Saraceni nell’anno 846. Oltre alla porta principale, quattro altre ve ne aveva nell’antico san Pietro; e forse, fin d’allora, portavano i nomi ad esse attribuiti nel medio evo. La seconda, a mano destra, era detta Romana perchè era destinata a quelli che venivano di Roma; la terza, appellata Guidonea, serviva ai pellegrini; la quarta, a mancina della porta maggiore, era chiamata Ravignana o Ravennata, perchè per essa passavano gli abitatori del [139] Trastevere (che nel medio evo aveva nome di città dei Ravennati); la quinta nomavasi Janua judicii, perchè per essa s’introducevano le salme dei morti[153].
Onorio collocava puranco innanzi la tomba dell’Apostolo due grandi candelabri, che avevano più di duecento settantadue libbre di peso. Però tutti questi ornamenti di gran prezzo erano oscurati dallo splendore del nuovo tetto della basilica. I preti aveano rivolto da lungo tempo il loro cupido sguardo alle tegole di bronzo dorato del tempio di Roma e di Venere, di quel bellissimo edificio di Adriano, che, al pari del tempio Capitolino, i Vandali non avevano messo a sacco, e i cui tetti d’oro, per quanto anche fossero in decadimento, sfavillavano pur sempre sotto i raggi del sole. Onorio chiedeva all’imperatore Eraclio quel tetto antico in dono; così anche lo splendido tempio di Adriano fu consecrato alla distruzione, e le sue tegole emigrarono sul coperto del san Pietro[154]. Tali però correvano i tempi, che vi sarà stato appena un Romano a non rallegrarsene o a lamentare la distruzione di quel monumento antico.
Onorio rendeva adorna di lamine d’argento anche la Confessione della cappella di sant’Andrea, eretta da Simmaco presso il san Pietro, ed un’altra cappella edificava [140] a sant’Apollinare nel Porticus Palmaria della basilica. Così si esprime il Libro Pontificale; tuttavolta questa piccola chiesa era attigua al portico, ma non si erigeva nell’interno di esso. Apollinare di Antiochia era per Ravenna quello che l’apostolo Pietro era per Roma, cioè a dire il primo Vescovo e patrono di quella città: può darsi che, accogliendolo nel culto romano, Onorio tendesse ad ingraziarsi l’Esarca e l’Arcivescovo; sennonchè senza dubbio egli non intendeva mai di dimenticare che Apollinare, discepolo di Pietro, per autorità di questi, dalla sede di Roma era stato mandato vescovo a Ravenna. Così per lo meno narrano le Istorie ecclesiastiche.
Roma va debitrice a Onorio della costruzione puranco di altre chiese mirabili, che tuttora vi durano a monumento di lui. Nel Foro, in vicinanza dei Tria Fata, innalzava la chiesa di santo Adriano, quasi a beffa dell’antico Imperatore, del cui tempio egli aveva saccheggiato il tetto[155]. Il Santo era un martire di Nicomedia, dove ei sarebbe morto nell’anno 302. Si ebbe affermato che la sua chiesa fosse convertita da un tempio già eretto a Saturno; la facciata di prospetto pesantemente costruita di mattoni e il greve cornicione hanno una nota sufficiente di antichità, ma la cattiva architettura fa conchiudere che l’edificio sia del tempo di Onorio[156]. In qual [141] condizione allora il Foro antico si trovasse, e in che stato fosse la basilica di Emilio Paolo, ci è oscuro. Gli antichi monumenti di quel luogo offrivano senza dubbio cave di materiali per l’edificazione della nuova chiesa, che veramente fu eretta sulle ruine di quella basilica. Sant’Adriano fu pertanto la seconda chiesa costruita nel Foro ossia nei Tribus Fatis, avvegnachè già vi esistesse la basilica di Cosma e di Damiano.
Appiè del monte Palatino esistevano già allora parimenti due chiese, l’una di sant’Anastasia, l’altra di san Teodoro. Incerto è il tempo della loro costruzione. La prima appare nominata con dignità di Titolo nel Concilio di Simmaco (499); dell’altra è fatta menzione soltanto sotto il pontificato di Gregorio Magno con qualità di diaconìa.
Teodoro, un pro’ guerriero al pari di Sebastiano e di Giorgio, era stato martire della persecuzione che avea oppresso i Cristiani al tempo di Massimiano, ed era morto sul rogo in Amasea nel Ponto, dopo che, spinto da fervore religioso, aveva messo in fiamme il tempio di Cibele. I Romani gli consecravano una chiesa di forma rotonda sulla pendice del monte Palatino, in uno dei luoghi che andavano massimamente famosi per molte leggende della Roma antica. Ivi, dietro i santuarî [142] di Vesta, erano stati un tempo l’albero del fico Ruminale e il Lupercale antichissimo; e può forse essere che qualche Vescovo pio vi avesse eretto fino dai tempi primi una chiesa per cacciare i demonî del luogo o per bandirne colle invocate virtù di un guerriero cristiano le ostinate ricordanze dei Lupercali e di Marte e di Romolo. Non possiamo determinare con certezza se ciò avvenisse per opera di Felice IV; nè è precisato abbastanza il tempo cui possano appartenere i musaici esistenti nella tribuna della chiesa. L’ordine artistico del gruppo di quelle figure rammenta i musaici della chiesa dei santi Cosma e Damiano. Cristo siede sopra un globo seminato di stelle; la destra solleva in atto di benedire, nella sinistra sostiene il bastone colla croce; alla sua dritta è san Paolo che porta in mano un libro; a manca san Pietro colla chiave; a lui dappresso Teodoro vestito d’un manto trapunto d’oro, colla corona del martirio fra le mani; accosto a san Paolo sta una figura che tiene parimente questa corona. L’imagine di Teodoro, che è rappresentato con forme di giovanile bellezza, dev’essere opera condotta in un lavoro di rinnovazione assai posteriore, e forse è del tempo di Nicolò V che fece restaurare quella Rotonda, ma non fece demolire la tribuna antica.
Nel secolo decimosesto ivi dentro esisteva il celebre gruppo in bronzo della lupa che allatta i bimbi; quello stesso che oggidì è in Campidoglio. Questo fatto prestava una ragione di più a far credere che la chiesa di san Teodoro fosse stata anticamente un tempio, che affermavasi eretto a Romolo e a Remo, oppure al solo Romolo[157]. [143] Poichè, secondo le notizie degli Antichi, la lupa di bronzo era collocata entro un piccolo tempio che s’alzava sul Palatino, si diffuse credenza che quel monumento antico fosse a ravvisarsi nel gruppo che spacciavasi dissotterrato presso il san Teodoro; e parimenti si reputò doversi riconoscere in questa chiesa stessa il tempio di Romolo. Oltracciò, una tradizione pagana aveva messo radice in questo luogo e vi si era serbata attraverso il corso di tutti i secoli: siccome in Roma antica le madri avevano costume di condurre i loro fanciullini infermi al tempio dei due gemelli, così le donne cristiane recavano i loro bambini al santo Teodoro[158]. L’usanza continuata [144] di invocare a quest’uopo Romolo antico può ben avere indotto un qualche Papa a costruire quella chiesa; Romolo si converse di tal guisa in Teodoro, e le madri di Roma portano oggidì pure i loro figlioletti ammalati all’altare del Santo, dove il prete li benedice. E nel tardo medio evo, anche le balie romane celebravano la loro festività nel giorno di san Teodoro, in quel luogo stesso dove correva fama che la nutrice di Romolo e di Remo avesse avuta un tempo la sua tomba favolosa.
Sul monte Celio, dove già esisteva la chiesa rotonda di santo Stefano, era da Onorio edificata la celebre basilica dei Quattro Coronati, Sanctorum Quatuor Coronatorum. Fu però una ricostruzione, avvegnaddio del Titolo di essa sia fatta menzione già fin dal tempo di Gregorio Magno. Può darsi che essa fosse eretta in tempo ben più antico nel quartiere detto Caput Africae, sulle ruine di un edificio antico; e le splendide colonne corinzie del vestibolo, e il frammento, incatenato nella muratura, di un magnifico architrave di tempio, ci ammoniscono oggidì ancora che per edificarla si tolse profitto di monumenti antichi. Onorio la rinnovava da cima a fondo, così che egli la riconsecrò. I quattro Coronati, martiri del tempio di Diocleziano, erano stati Cornicularii romani, ossia officiali di minor conto; ed era scelto a loro sede il colle Celio, forse perchè ivi erano stati i Castra Peregrina, [145] gli accampamenti destinati da Augusto agli stranieri. Avevano avuto nome di Severo, di Severino, di Carpoforo e di Vittorino[159], ed in essi le reliquie miserande dell’esercito romano aveano trovato i loro Santi. L’edificio originale di Onorio sventuratamente sparve in mezzo ai ripetuti restauri. Le muraglie medioevali della bella chiesa torreggiano oggidì a foggia di quelle di una rocca robusta, e, insieme coi ruderi dell’Aqua Claudia e colla bella rotonda del santo Stefano, danno al grazioso monte Celio un aspetto vivamente rilevato.
Ad Onorio s’appartiene anche la chiesa di santa Lucia in Silice nelle Carine, così appellata da una via selciata di poligoni di basalto. La chiesa era detta anche in Orphea, forse dall’antica fontana appellata lacus Orphei, che Marziale mirava in quelle vicinanze[160]. Può darsi ad ogni modo che Onorio non facesse altro che rinnovellare la forma della basilica. V’hanno tre sante donne del nome di Lucia che furono martiri al tempo di Diocleziano; due furono romane, la terza siciliana di Siracusa.
Sono queste le chiese che Onorio edificò e restaurò nella Città, ma la operosità di lui si spinse anche fuori [146] di Roma. Innalzò una chiesa a santo Ciriaco sulla via di Ostia presso alla settima pietra miliare, un’altra a Severino presso Tivoli, e, nuova da capo a fondo, edificò anche la illustre basilica di santa Agnese fuor di porta Nomentana.
Narra la leggenda che Agnese, romana discesa di stirpe patrizia, fosse martire in giovanissima età; chè aveva appena tredici anni. Il figlio di Sinfronio prefetto della Città s’era invaghito della fanciulla, e l’amava senza speranza, onde lo incoglieva mestizia sì acerba che ne moriva. Il padre di lui supplicava Agnese di salvare il languente, ma ella gli svelava ch’era sua la fede di Cristo. E poichè ella rifiutava di sacrificare a Vesta, il Prefetto, mosso ad ira, la faceva trarre in una loggia del circo Agonale, nella quale, del pari che in tutti i luoghi di spettacoli publici in Roma, solevano assidersi sole cortigiane. Ma non veduti scendevano angeli del cielo a coprire la verginetta pudica col velo delle chiome lunghe di lei che mandavano sciolte e diffuse; e il fulgore di una luce celeste cacciava in fuga i famigliari fuor della stanza del giovane amante, e il figliuolo del Prefetto cadeva esanime sulla soglia. Alle preci del padre, la giovinetta lo richiamava alla vita, ed egli correva per le vie di Roma invocando con fervido grido il Dio dei Cristiani. Però i sacerdoti pagani condannavano Agnese alla morte quale maliarda rea; le fiamme per vero impietosite si separavano tutto d’intorno a lei senza offenderla, ma il carnefice ne troncava il capo. La leggenda racconta che ciò avvenisse nel dì 21 Gennaio 303[161].
[147]
La giovinetta Martire ebbe sepoltura nelle terre della sua famiglia fuor di porta Nomentana; e oggi ancora vuolsi ivi mostrare il suo sarcofago di marmo, adorno di disegni di Amori, di Oceano e di Gea, di Ero e di Psiche. La Santa saliva in tanta onoranza che le si innalzava una chiesa, massimamente dacchè in quel luogo erano state fondate catacombe di estensione considerevole, le quali si stendevano tutto intorno al sepolcro di santa Agnese, come intorno ad un centro. Una iscrizione antica tributa ad una Costantina, donna romana, il vanto d’avere costruito la chiesa originaria di quelle catacombe[162]; più tardi la restaurava il vescovo Simmaco, ma Onorio, appena cent’anni dopo, la trovava giunta a tale decadimento che la edificava a nuovo. Sebbene nel corso dei tempi vi sieno stati introdotti molti mutamenti, tuttavia nell’essenza sua la chiesa deve chiamarsi opera di questo Pontefice, e bellissimo di tutti i monumenti di lui. Al pari dell’antica chiesa edificata sulla tomba di san Lorenzo, anche quella di sant’Agnese [148] sta in luogo profondo, sul ciglio della vallata che si distende dalla via Nomentana fino alla Salaria, di guisa che vi si discende per una scala di quarantasette gradini. Breve di dimensione, ma di proporzioni corrette e gentili, l’edificio fa tenere in pregio l’architettura di quel tempo. Contiene due serie di colonne a stile arcuato romano, l’una sovrapposta all’altra, così che la più alta forma una chiesa elevata. Il bel lavoro e il prezioso marmo frigio dimostrano che queste colonne furono tolte a un monumento antico. Il grande tabernacolo di bronzo dorato che Onorio faceva erigere sopra la Confessione, non esiste più; ma i musaici della tribuna, condotti in fondo d’oro, rimangono a ricordanza di quel Papa e dell’arte loro già cadente. Contengono un gruppo di tre sole figure; non hanno spicco di persona e di vita, ma piacciono per una certa semplicità di forma. Nel mezzo è Agnese, figura secca che trae al bizantino; ha in capo l’aureola; il volto è privo di luce e di ombra; è vestita di abiti riccamente adorni a foggia orientale. La mano di Dio padre stende sopra il capo di lei la corona; ai suoi piedi è la spada del carnefice, dai due lati scoppiano le fiamme. A destra, Onorio le offre la sua basilica; a manca le sta un altro Vescovo, Simmaco oppure Silvestro; ambidue vestono la pianeta castano-bruna ed il pallio bianco; le loro teste, rase a modo monastico, non sono adorne di corona pontificia, nè di aureola. Al di sotto del musaico leggonsi tuttora i distici antichi, che appartengono ai migliori di quel tempo; e certo per pregio d’arte valgono più assai che il quadro onde celebrano le lodi:
[149]
Aurea concisis surgit pictura metallis,
Et complexa simul clauditur ipsa dies.
Fontibus e nixeis credas aurora subire,
Correptas nubes roribus arva rigans.
Vel qualem inter sidera lucem proferet Iris
Purpureusque pavo ipse colore nitens.
Qui potuit noctis, vel lucis reddere finem,
Martyrum e bustis hinc reppulit ille chaos.
Sursum versa nutu, quod cunctis cernitur usque
Praesul Honorius haec vota dicata dedit;
Vestibus et factis signatur illius ora
Excitat aspectu lucida corda gerens[163].
Quantunque il Libro Pontificale ne taccia, gli Scrittori ecclesiastici attribuiscono ad Onorio anche la prima costruzione della basilica dei santi Vincenzo ed Anastasio ad Aquas Salvias. Delle tre chiese isolate che col procedere del tempo ivi sorsero nel territorio che sta intorno alla basilica di san Paolo, quella dedicata ai due Santi fu la più antica ed è ancora la illustre. Non v’è altra chiesa in Roma da cui spiri un’aura d’antichità pari a quella ond’essa commove l’animo di chi la mira; eppure la chiesa che oggi esiste, è più recente del primo edificio di Onorio che è perito, posto sempre per vero che questo papa lo innalzasse. Il diacono Vincenzo, uno dei Santi maggiori di Spagna, aveva già ai [150] tempi di Diocleziano sofferto il martirio a Saragozza, ed era morto abbruciato sopra un’ardente graticola similmente a Lorenzo compaesano suo. Per lui e per Lorenzo la cattolica Spagna ebbe luogo onorifico nel culto romano della Città. Anastasio era invece persiano di nazione; fu mago nell’esercito del gran re Cosroe, indi abbandonò il vessillo del suo paese, fu in Gerusalemme ove si fece cristiano e monaco, e da missionario tornossene in Persia[164]. Narra la leggenda che Eraclio spedisse a Roma la testa del Santo, per la qual cosa l’altare qui eretto ad Anastasio fu monumento di onoranza delle spedizioni di guerra imprese da quell’Imperatore contro la Persia. Imperatori e Re, dei quali i Vescovi volevano conseguire la benevolenza, ottenevano in quei secoli onore di altari per i loro Santi che proponevano a proprî candidati, parimenti come nei tempi posteriori domandarono per loro favoriti la porpora cardinalizia. Le guerre di Eraclio furono vere crociate di quell’età; l’Imperatore vittorioso si faceva cedere dai Persiani anche quella croce che reputasi genuina ed originale, e che Cosroe nell’anno 614 aveva portato via di Gerusalemme da esso conquistata: a questa santa città Eraclio in persona or di bel nuovo la portava con processione solenne.
[151]
Onorio, vago di costruzioni, restaurava anche la basilica di san Pancrazio. Questo Santo era stato contemporaneo di Agnese, e al paro di lei avea sofferto martirio quand’era ancor giovinetto di soli quattordici anni. Venuto di Frigia a Roma con Dionisio zio suo, fu battezzato sul monte Celio, e tosto dopo, come confessore di Cristo, ebbe mozzo il capo nella via Aurelia. Ottavilla, pia donna romana, ivi compose a sepoltura la salma di lui deponendola in quelle cave di pozzolana; e ben presto il santo fanciullo fu uno degli eroi più celebrati di Roma cristiana. Già prima che Simmaco, intorno all’anno 500, gli avesse edificata una chiesa nelle catacombe, gente innumerevole peregrinava al suo sepolcro; il suo nome era imposto persino all’antica porta della Città, che era appellata Aureliana o Gianicolense, così che Procopio nelle Guerre de’ Goti già la denotava per Porta sancti Pancratii. I Romani dei tempi di Gregorio di Tours solevano accedere alla sua tomba per pronunciarvi il giuramento massimamente temuto; avvegnachè si reputasse che lo spergiuro, colpito dalla maledizione del cielo, ivi sarebbe caduto morto[165]. A questa credenza sembra anche associarsi la processione cui mosse Pelagio I, quando un tempo, accompagnato da [152] Narsete, era andato da san Pancrazio a san Pietro per purgarsi dell’accusa di aver cooperato all’uccisione di Vigilio; per certo egli avrà dovuto assidersi in prima sulla tomba del guardiano temuto dei giuramenti.
Presso alla chiesa di Simmaco, intorno al 594, Gregorio aveva fondato un convento. Onorio adesso trovava la basilica antica in pieno decadimento, e nell’anno 638 la riedificava. Un’iscrizione posta al di sotto del musaico antico dava notizia dell’opera di lui; ma quel quadro periva, e le trasformazioni che subì nel tempo posteriore la chiesa non concedono che si conosca esattamente quale si fosse la sua fattura primitiva.
Là dove il Libro Pontificale porge notizia di questo edificio, succede un passo per certo alterato nella dizione, il quale dice che Onorio collocava dei mulini in vicinanza al muro della Città ed a quell’acquedotto di Trajano che ricavava le acque dal lago Sabatino. Poichè dunque non è possibile cosa il credere che si piantassero dei mulini se la Trajana, che entrava per porta Pancrazia, non avesse versato l’acqua occorrente ad animarne il moto, quel passo può confermare la supposizione che Belisario avesse restaurato l’acquedotto di Trajano[166].
[153]
Onorio I passava di vita addì 12 Ottobre 638, e i Romani eleggevano a succedergli Severino loro concittadino, figlio di Labieno. Corsero un anno, sette mesi e sedici giorni perchè venisse la conferma dell’elezione, probabilmente dacchè l’eletto si rifiutava di aderire alla Ectesi di Sergio patriarca, che era una formula propensa alle dottrine del Monotelismo.
Prima ancora che Severino ricevesse la ordinazione, gli officiali imperiali mettevano a ruba il tesoro della Chiesa, usando violenza siffatta da ricordare le geste dei pascià turcheschi, ai quali massimamente i ministri bizantini potrebbero tenere adeguato riscontro. Le ricchezze della Chiesa romana erano custodite nel Vestiarium del [154] palazzo vescovile; nè soltanto vi si contenevano i preziosi doni votivi di imperatori, di consoli e di uomini privati, ma anche la moneta con cui, fra le altre spese consuete, si provvedeva al riscatto dei prigioni di guerra ed alle elemosine dei poverelli. Correva voce che Onorio vi avesse ammassato dovizie enormi, e i suoi splendidi edifizî davano a quest’opinione buon fondamento. L’Esarca di Ravenna trovavasi involto in istremo di denaro; la soldatesca imperiale chiedeva con violenza che le fossero pagati gli stipendî; laonde, poichè da lungo tempo mirava con cupido desiderio al tesoro della Chiesa, Isacco concepiva il disegno di insignorirsene. Il Libro Pontificale porge il racconto particolareggiato di questo avvenimento, e, poichè interrompe l’arido silenzio delle notizie storiche di Roma, esso lascia cadere un raggio di luce anche sulle condizioni della Città.
Trovavasi a quel tempo in Roma Maurizio cartulario, e forse faceva da maestro de’ militi e da capitano dell’esercito romano. Questo Exercitus romanus era costituito di soldati allo stipendio di Bisanzio, ma indubbiamente aveva organamento di milizia cittadina. Maurizio, d’intesa con alcuni ragguardevoli Romani, congregò la soldatesca mormoreggiante, disse essere ingiusta cosa che Onorio serrasse ingenti dovizie negli scrigni del palazzo patriarcale e che i soldati non ricevessero la mercede di lor fatiche, quando ivi erano trattenuti gli stipendî che l’Imperatore tratto tratto per loro mandava. A quei detti la popolaglia, avida di ruba, si sollevava in tutta la Città, e in armi irrompeva contro il Laterano. Qui dunque ci si para dinanzi una di quelle insurrezioni popolari, che nel medio evo sì spesso succedettero [155] alla morte dei Papi. I numerosi famigli del palazzo pontificio opponevano però robusta difesa, e Maurizio, repugnandogli di venire a spargimento di sangue, teneva assediato tre giorni il Laterano; indi convocava i Judices, ossiano tutti gli officiali cospicui e gli ottimati di Roma, e per deliberazione presa da quella assemblea faceva apporre il suggello imperiale al tesoro, e tosto dopo esortava l’Esarca affinchè venisse in persona e prendesse ciò che tanto in cuore vagheggiava. Venne infatti Isacco; con violenza despotica cacciò della città i Presbyteres, ossiano Cardinali, e nella sua dimora, che durò otto giorni, spogliò il tesoro lateranense a tale che lo pose al secco. Una parte delle ricchezze distribuì ai soldati; un’altra tenne per sè; la terza mandò ad Eraclio imperatore, il quale così diede il suo placito a quella ruberia esercitata a danno della Chiesa; può darsi che il resto lasciasse al Papa.
Sembra che l’Esarca venisse a Roma sotto il pretesto di approvare la elezione di Severino, e che egli con quella ladroneria si facesse pagare l’accordata confermazione, avvegnachè il Pontefice fosse tosto consecrato, e Isacco tornasse a Ravenna[167]. In mezzo a tanto avvilimento, Severino saliva addì 28 Maggio 640 alla cattedra di Pietro, che egli tenne per il breve periodo di due mesi e sei giorni. Fu uomo pio e liberale, e tale lo celebra il Libro dei Papi, il quale, come di unica opera di lui degna di nota, narra che restaurasse i musaici della tribuna del san Pietro; occorre perciò dire che il loro guasto fosse sfuggito all’occhio di Onorio.
[156]
Addì 24 Dicembre 640 era ordinato papa Giovanni IV dalmata, figlio dello scolastico Venanzio e già diacono della Chiesa romana. Il suo reggimento non durava che un anno e nove mesi, ed era turbato di lotta continua per ragione della Ectesi: durante esso avveniva poi anche la morte di Eraclio imperatore. Per conto nostro la Storia della Città sotto questo Papa si restringe a registrare la costruzione di un oratorio presso il battistero Lateranense, del quale or ci conviene discorrere con qualche diffusione.
Il battistero s. Johannis in Fonte presso il Laterano, era in origine la sola cappella di Roma dove i Vescovi solessero amministrare il battesimo nella vigilia di Pasqua. Esso servì di modello a tutti quegli antichi battisteri d’Italia che sono eretti in vicinanza delle chiese, ma sono da esse disgiunti. Correva leggenda che quel battistero fosse stato edificato col porfido tolto all’anticamera del palazzo, nella quale Silvestro aveva battezzato Costantino, e che fosse stato adorno di un bacino battesimale d’argento[168]. Certo si è che Sisto III vi avea fatto erigere le otto magnifiche colonne di porfido che esistono ancora, ed è probabile che da quel Papa derivi la sua costruzione ottagona attuale, poichè posteriormente altro non si fece che elevarlo di altezza[169]. [157] Più tardi Ilario aveva edificato nello stesso battistero i due oratorî, l’uno a Giovanni Battista, l’altro all’Evangelista, che tuttora esistono. Dei loro antichi musaici si è conservato un avanzo sul soffitto dell’oratorio dell’Evangelista: vi sono rappresentati vasi, frutta, uccelli e fregi di stile pagano, di cui qui si rinviene per l’ultima volta la traccia. Le porte di bronzo dell’oratorio del Battista sono ancora le originali[170]. Finalmente Ilario vi aveva consecrato un terzo oratorio ad onore della Croce, e, dall’altro lato del battistero, aveva edificata la cappella di santo Stefano[171].
Questa era la forma del battistero Lateranense allorchè Giovanni IV vi aggiungeva ancora un quarto oratorio dedicato a san Venanzio. Questo Santo, di cui il padre del Pontefice avea portato il nome, era stato vescovo in Dalmazia. S’aveva in questo tempo composto a pace lo scisma istriano, e il Pontefice coglieva opportunità di avvincere a Roma più strettamente quel paese, mediante [158] l’onoranza tributata ai suoi Santi nazionali. Con Venanzio dunque e col vescovo Domnio, otto santi guerrieri schiavoni conseguivano venerazione nella Città, che vedeva in pari tempo sorgere quest’oratorio: così il culto de’ Santi in Roma si faceva universale ognor più. I musaici ivi collocati da Giovanni IV, e si serbano ancora in vita, col loro rozzo stile dimostrano il decadimento irreparabile di quel genere di pittura. Nel secolo quinto e nel sesto l’arte cristiana esauriva le ultime ispirazioni del sentimento antico del bello; nel secolo settimo si spegneva il gusto del disegno e della forma: uno sguardo ai musaici di questo periodo e di quello che susseguì fa conoscere la barbarie che ognor più calava su Roma e sull’Occidente. In quell’oratorio, sopra l’arco di trionfo, si mirano i quadri apocalittici dei quattro Evangelisti disposti in ispazî quadrati, con quattro Santi per ogni lato dell’arco. Nella tribuna si nota un rozzo disegno del Cristo in mezza figura, che sorge tra le nubi in mezzo a due angeli ed alza la destra mano; più sotto è una serie di nove figure, nel mezzo delle quali sta la Vergine in manto azzurrino che solleva le braccia in atto di preghiera, secondo il fare dei dipinti delle catacombe. Ai fianchi le stanno Pietro e Paolo; questi non tiene peranco in mano la spada, ma un libro; quegli porta le due chiavi ed insieme il bastone di pellegrino che termina in croce; similmente lo impugna il vecchio Giovanni Battista che gli sta presso. Succedono dall’un lato e dall’altro i vescovi Venanzio e Domnio; da manca, nell’estremo del quadro, è l’edificatore dell’oratorio che ne solleva in mano il modello; dalla destra sta una figura, ed è forse quella [159] di Teodoro che compieva la costruzione. Al di sotto del musaico leggonsi tre distici, scritti tutti di seguito[172].
Roma del resto godeva pace continuata che i Longobardi non sorgevano a turbare; ed invero la guerra tra l’Esarca e il valente re Rotari si restringeva soltanto alle province settentrionali, e la stessa grande battaglia sulla Scultenna, in cui perivano ottomila Greci, non aveva alcun risultamento che influisse sulle sorti della Città. Tutti i mali che la minacciavano venivano da Bisanzio, perocchè le prolungate controversie teologiche colla Chiesa orientale alimentassero la fiamma ognor più gagliarda dell’odio scambievole di Costantinopoli e di Roma.
Morto Giovanni IV, il potere o l’influenza dell’Esarca facevano sì che l’elezione cadesse su di un Greco. Teodoro di Gerusalemme, figlio di un vescovo, era fatto papa ai 4 di Novembre 642; però egli non secondava gli intendimenti politici di Bisanzio; avvegnachè noi vedremo che tutti i Greci, i quali, anche ne’ tempi venturi, furono papi, sacrificarono ogni sentimento di nazione ai principî di Roma.
L’incominciamento del pontificato di Teodoro fu turbato da un avvenimento, le cui conseguenze avrebbero [160] potuto riuscire di rilevanza ben più grave. Quello stesso Maurizio cartulario, che abbiamo veduto depredare il tesoro della Chiesa, alzava in Roma lo stendardo della rivolta. Qui egli trovava il popolo, i nobili e l’esercito, tutti inacerbiti contro la dominazione bizantina, così che egli di quel malcontento ai suoi disegni si giovava. Sparse voce che Isacco intendesse a farsi re, s’accordò coi Romani faziosi, indusse tutte le soldatesche, che stavano a presidio delle castella nel territorio della Città, a negare obbedienza all’Esarca, e la ribellione fu dichiarata[173].
Non solo le milizie di Roma e della Campagna, ma i Judices stessi s’associavano a lui; la sollevazione assumeva già una tempra nazionale, quantunque il clero prudentemente se ne tenesse discosto. Il rivolgimento però falliva: Isacco mandava Dono maestro de’ militi; questi co’ suoi soldati entrava nella Città senza trovare impedimento che lo trattenesse, e Maurizio rifuggiva nella basilica di santa Maria Maggiore abbracciandone stretto l’altare. Ma di qui lo si strappava per trarlo prigione insieme ai suoi complici più illustri; indi per via, d’ordine dell’Esarca, era decapitato, e la sua testa era esposta nel circo di Ravenna perchè il terrore servisse di ammonizione. La morte di Isacco liberava dal carcere gli altri prigionieri[174].
[161]
Di questo Esarca, armeno di nascita, offre notizia oggidì ancora un’iscrizione greca sul sarcofago di lui. Nella bella chiesa di san Vitale la poneva Susanna, che «come tortore casta lamentava la perdita dello sposo.» Quell’epitaffio dice che Isacco per diciotto anni protesse da ogni male Roma e l’Occidente, e fu commilitone dell’Imperatore e guerriero d’Oriente e d’Occidente[175]. Teodoro Calliopa succedeva a lui nell’esarcato.
Frattanto il Papa era involto in nuove lotte contro la Chiesa orientale, e ad esse si associavano in pari tempo sommosse di palazzo in Bisanzio. Eraclio Costantino, che, morto Eraclio padre suo, era salito nell’anno [162] 641 al trono di Grecia, era bello e spacciato dopo soli quattro mesi di regno per veleno che gli propinavano Martina sua iniqua matrigna e Pirro patriarca monotelita. Eracleone, figlio di Martina, otteneva la porpora, ma egli e la madre sua cadevano presto vittime di una rivolta popolare, e, atrocemente mutilati, erano cacciati in esilio dove espiavano il loro delitto. Costante II, figlio di Eraclio Costantino, adesso era acclamato imperatore; il patriarca Pirro fuggiva in Africa, e Paolo, che professava più fervidamente ancora la dottrina di una sola volontà nel Cristo, subentrava nella sede di lui. La setta dei Monoteliti, allora numerosa, discendeva dalla scuola dell’abate Eutiche, che aveva insegnato, la natura (physis) del Cristo essere il risultamento della unione della natura divina e di quella umana. Infatti, dopo che era stata pronunciata la condanna dei Monofisiti, la dialettica sofistica dei Greci s’impadroniva della stessa questione producendola sotto forma mutata. Si ammetteva che le due nature nel Cristo fossero separate, ma le si riuniva nella energia unica e indistinta di una sola volontà, ossia del monon thelema. Sergio, patriarca di Bisanzio, Ciro di Alessandria e lo stesso imperatore Eraclio, s’erano alacremente dichiarati in favore di quel filosofema, ma il commovimento violento che se ne destava aveva indotto quest’ultimo a pubblicare nel 638 il suo editto «Ectesi», che era però respinto da papa Giovanni IV, come quello che ancora non lo talentava completamente. La Cristianità si divideva in due partiti, che si combattevano con acerba passione; mentre l’Oriente aderiva alla Ectesi, Africa e tutto l’Occidente si raffermava nella credenza [163] del dogma ortodosso di Roma, e Pirro stesso, fingendo che la eloquenza dell’abate Massimo in un Concilio africano lo avesse convinto, non soltanto abiurava il Monotelismo, ma in persona veniva a Roma per deporre a’ piedi dell’Apostolo la sua professione di fede.
Il pellegrinaggio di un Patriarca bizantino penitente alla tomba di san Pietro, non era una lieve vittoria per il Vescovo di Roma. Quantunque Pirro avesse abbandonata la sua sede di propria volontà, egli non ne era stato tuttavia deposto con forma canonica, e il Pontefice ripicchiava su ciò nelle lettere che indirizzava a quei Vescovi che avevano consecrato il nuovo patriarca Paolo. Con grandi segni di onoranza il Papa accoglieva Pirro nella basilica Vaticana, presenti il clero ed il popolo, e come a patriarca della regale città di Bisanzio gli faceva elevare un seggio vescovile presso il maggior altare. I tapini Romani, il cui orgoglio nazionale s’appagava adesso soltanto di sapere che il primato competeva al loro Pontefice ed alla loro Chiesa, si rallegravano a quello spettacolo come di un trionfo. Manifesto è che Pirro sperava nell’alleanza con Roma per riacquistare il patriarcato perduto e infingeva una fede che non aveva, finchè avvisava che avrebbe potuto giungere più presto al suo scopo riconciliandosi coll’Imperatore. Aderiva pertanto all’invito che gli era fatto di recarsi alla corte dell’Esarca, abbandonava Roma, e sollevava a indignazione la Chiesa romana facendo repentina ritrattazione e tornando a professare la credenza dei Monoteliti. Tosto che Teodoro ne ricevette notizia, convocò in san Pietro un concilio, e vi pronunciò la condanna dell’apostata con ceremonia terribile e strana. Venne alla tomba dell’Apostolo, tolse in mano [164] il calice consecrato, versò nell’inchiostro una goccia del «sangue di Cristo,» e intintovi lo stilo sottoscrisse il decreto che pronunciava l’anatema[176].
Può darsi che Pirro non tenesse del tutto in dispregio la maledizione che Roma gli scagliava, e forse talvolta essa avrà turbato di veglie paurose le sue notti, allorchè, morto Paolo, riebbe il seggio di patriarca di Bisanzio. Anche contro di Paolo Teodoro aveva pronunciato la scomunica, e, dopo di avere difeso con fermezza le dottrine romane, passava di vita nel dì 31 Maggio 649.
Alla Città lasciava soltanto pochi edificî; forse condusse a compimento quella cappella lateranense che il suo antecessore aveva fondato, ed eresse un oratorio dedicato a san Sebastiano nelle case patriarcali: oltracciò costrusse due nuove chiese fuor della Città, quella di san Valentino nel cimitero della via Flaminia, non lungi dal ponte Milvio, e l’altra di sant’Euplo fuori della porta Ostiense, in vicinanza della piramide di Cestio. Ambedue sono perite; il san Valentino andò affatto distrutto, e il sant’Euplo probabilmente fu trasformato nella chiesa del santo Salvatore in via Ostiensi[177].
[165]
Teodoro aveva lasciato la controversia del Monotelismo in gran fiamme, e il suo succeditore doveva cadere vittima dell’odio del patriarca di Bisanzio.
Martino I, nato a Tuderto città dell’Umbria, che è l’odierna Todi, antico nunzio a Bisanzio, saliva alla cattedra di san Pietro addì 5 di Luglio 649, e pertanto cinquantadue giorni dopo la morte del suo antecessore. Il clero di Roma audacemente lo aveva ordinato papa ancor prima che gli venisse la conferma di Bisanzio; così un Pontefice fornito di massima energia d’animo si erigeva contro alla Chiesa orientale. Egli convocava i Vescovi a concilio, e centocinquanta principi ecclesiastici delle città e delle isole d’Italia si raccoglievano nel giorno 5 di Ottobre nel Laterano[178]. Trattavasi di prender consiglio sul Typus, ossia editto promulgato da Costante II nell’anno 648, col quale era comandato a tutta la Cristianità di seppellire in un ragionevole silenzio la questione dell’unica o della duplice volontà del Cristo. L’Imperatore aveva chiesto l’adesione di Martino a quell’editto, che destava nel suo cuore sollecitudine più grave della recuperazione delle provincie che gli Arabi avevano svelto al suo impero. Egli [166] spediva pertanto Olimpio, novello esarca, coll’ordine di provvedere affinchè i Vescovi, i possessori, gli abitatori delle campagne e perfino gli stranieri accedessero a quella formola. Imperavagli che in Roma s’impadronisse del Papa, costringesse i Vescovi ad accettare lo editto, ma con avvedutezza scrutasse l’intendimento dell’esercito romano, e, se questo fosse di mente avversa al suo disegno, nulla operasse finchè non fosse sicuro di avere, così in Roma che in Ravenna, una soldatesca a’ suoi voleri devota[179]. Di qui scende un raggio di luce sui rapporti che intercedevano tra Roma e lo Esarca: questo ministro imperiale or non poteva più fare a fidanza di trattare la Città d’arbitrio suo, e, per la prima volta, compare in Roma chiara e manifesta l’esistenza di un esercito, che, in forma di milizia, era composto dei cittadini più ragguardevoli e dei possidenti della Città. Esso riceveva un mal sicuro stipendio da Bisanzio, ma era di nazione romano, e senza la sua adesione l’Esarca sembrava non poter raggiunger l’intento dei suoi disegni.
Olimpio veniva a Roma, trovava raccolto il Concilio nel Laterano, ove attendeva operoso al suo compito e già aveva pronunciato con solennità la condanna dell’Ectesi e del Typus, ed aveva bandito l’anatema contro Ciro d’Alessandria e contro i tre patriarchi di Bisanzio, Sergio, Pirro e Paolo. L’Esarca tentava di dare [167] eseguimento agli ordini dell’Imperatore, e coll’aiuto della gente che teneva al suo soldo o di quegli uomini dell’esercito romano che era riuscito a corrompere, e con altre arti di raggiro, intraprendeva a gettare la divisione nel seno del Concilio[180]. Roma era in balia di grave agitazione; l’Esarca vi dimorava lungo tempo, e certo aveva stanza nell’antico palazzo de’ Cesari. I suoi propositi però cadevano a vuoto, e falliva l’attentato indiritto contro la vita del Papa, di cui per lo meno lo accusa il Libro Pontificale. Fingeva pace con Martino, entrava nella chiesa di santa Maria Maggiore, si accostava all’altare per ricevere la comunione dalle mani del Papa, e, mentre la prendeva, s’aspettava di vederlo cadere sotto la pugnalata che gli aveva apparecchiato per mano di un soldato della sua guardia. Ma Iddio, dice il Cronista, che suol proteggere i suoi servi, colpì di cecità gli occhi dello Spatario, di guisa che egli non potè scorgere il Papa. E prosegue a narrare che Olimpio dal fondo dell’anima si riconciliasse con Martino, a lui si confessasse sinceramente contrito, e indi partisse per la Sicilia, dove già i Saraceni avevano posto stanza; colà subiva una sconfitta, e, mentre macchinava suoi progetti sediziosi, moriva d’infermità[181].
Nel suo officio di Ravenna succedevagli, nell’anno 652 oppure nel 653, Teodoro Calliopa, esarca per [168] la seconda volta, quivi spedito dall’Imperatore col fermo comando di vincere colla forza la resistenza ostinata di Martino[182]. Seguito dal camerario Pelario, l’Esarca entrava in Roma nel giorno 15 di Giugno 653 con suoi soldati. Come imponeva il costume officioso, Martino spediva il clero ad incontrarlo, ed egli, scusandosi per la podagra che lo affliggeva, restavasi nel palazzo Lateranense. L’Esarca accoglieva i legati nel palazzo dei Cesari dove era smontato[183], fingeva sentir duolo dell’infermità che aggravava il Pontefice, e diceva di voler egli stesso alla domane, che cadeva in domenica, andare a tributargli omaggio. Compreso di sospetto che il palazzo vescovile fosse pieno d’armi, lo faceva prima tutto frugare, e lo circondava colle sue milizie; i Romani spaventati non facevano mostra di opporre resistenza.
Il Pontefice stavasi disteso nel suo letto innanzi l’altare maggiore della basilica Lateranense, circondato da preti, alcuni animosi, altri per paura tremanti. L’Esarca entrava con suoi armigeri, e consegnava ai sacerdoti un decreto imperiale, che ordinava la deposizione di Martino; i preti vi rispondevano cogli anatemi. Tosto si alzava un gran tumulto; i Bizantini colle spade abbattevano dagli altari le torce; Martino, cui nulla difesa proteggeva, era strappato dal suo giaciglio e trascinato nel [169] palazzo dei Cesari. Nella notte del 18 di Giugno era messo in una barca che stava pronta sul Tevere e che faceva indi forza di remi verso Porto. Tutto il clero avrebbe voluto accompagnarlo nella sua prigionia, ma l’Esarca non gli concesse altro seguito che quello di sei giovanetti paggi o servi, e fece serrare le porte per timore che i Romani potessero liberare il loro Vescovo. Lo sventurato, dopo un lungo viaggio di mare, fu tradotto in prima all’isola di Nasso, indi a Costantinopoli, dove fu gettato in un carcere come reo di stato[184]. Fra le accuse che gli si movevano, questa pur era, che con Olimpio avesse congiurato e i Saraceni avesse chiamato in Sicilia. Non possiamo qui narrare dei tristi patimenti ch’ei sofferse in Bisanzio, nè della lunga inquisizione, e della difesa che seppe opporre con viril petto; ci ristringiamo a conchiudere la storia di questo Vescovo che al Papato recò altissima onoranza. Esiliato nell’antico Chersoneso, nella barbarica Crimea, egli vi moriva martire del primato di Roma addì 16 del Settembre 655, abbandonato dagli amici e dagli inimici, e lottando cogli stenti e colla fame[185]. [170] La salma di lui ebbe dapprima sepoltura in Bisanzio nella chiesa della Vergine di Blacherna, più tardi fu trasportata a Roma, ma nè il Libro Pontificale, nè i Martirologi di Beda e di Adone fanno cenno di questa traslazione. Secondo la tradizione romana, il suo corpo fu seppellito nella chiesa di san Silvestro e di san Martino di Tours; e questo antico titolo di Equizio soltanto nell’anno 844 fu da Sergio II dedicato ai due pontefici Silvestro e Martino. Oggidì ancora ai 12 di Novembre vi si celebra la festa di questo Papa, la cui santità ottenne reverenza anche nel calendario dei Greci.
Dopo l’imprigionamento di Martino l’Imperatore aveva comandato che gli si eleggesse un successore; e forse l’esiliato Martino accondiscendeva a questa novella elezione, o per lo meno era forzato ad acconciarvisi. Di tal modo, nell’estate dell’anno 654 fu consecrato papa Eugenio, figlio di Ruffiano, romano della prima Regione aventina. Qui tosto si palesava di qual fervente sollecitudine pei negozî ecclesiastici fosse compreso il popolo romano. Pietro, che di bel nuovo era stato messo nel seggio di patriarca di Bisanzio, s’affrettava di trasmettere al Vescovo romano la sua Sinodica, ossia professione di fede, avvegnachè fosse costume che i nuovi patriarchi eletti spedissero a Roma le loro formule di credenza religiosa, come da altra parte i Papi mandavano le loro a Bisanzio. Quella professione di fede di Pietro era concepita [171] con espressioni così dubbie, che i Romani, popolo e clero insieme, la ripudiarono; costrinsero Eugenio a condannare la formula, e mostrarono che la violenza fatta dagli eretici Greci a papa Martino, gli aveva offesi come di un’onta inflitta alla nazione.
Nel Giugno dell’anno 657 Eugenio moriva, e papa era fatto Vitaliano, un latino di Signia ossia Segni nella campagna di Roma. Costante imperatore, che forse aveva già accolto il disegno di porre sua residenza nell’Occidente e forse in Roma stessa, cercava adesso di avvincere a sè con relazioni di amicizia la Chiesa latina. Accoglieva con degnazione benevola i nunzî del novello Pontefice che erano latori della Sinodica, confermava i privilegî dell’episcopato romano e mandava in dono a Vitaliano un codice della Bibbia splendido di oro e di diamanti. Sei anni più tardi l’Imperatore veniva egli stesso a Roma, ma nulla sappiamo degli avvenimenti che ebbero riempiuto questo periodo della storia della Città.
La venuta in Roma di un Imperatore bizantino, che ancor sempre con valido diritto sè appellava imperatore de’ Romani, era l’avvenimento più meraviglioso di quell’età. Esso forzava le genti ad evocare [172] le memorie degli ultimi tempi dell’Impero, e le costringeva a valicare un periodo di dugento anni segnalato per tante e sì varie mutazioni di casi: la fine dell’Impero occidentale, la costituzione e la caduta di un reame germanico, la ruina di popoli e di città, il decadimento profondo di Roma antica, la origine della nuova. Dai tempi d’Odoacre in poi qui non s’erano più visti imperatori; qui in mezzo ai ruderi accumulati sedeva soltanto il Vescovo ossia il Pontefice, che era adesso l’incontestato rappresentante della nazione latina in tutta Italia. Costante lasciava la capitale d’Oriente nell’anno 662. Lo spettro di suo fratello Teodosio da lui trucidato e l’odio dei suoi sudditi ne lo cacciavano; e, al pari di Tiberio, abbandonava la sua residenza per soffocare i rimorsi in una peregrinazione faticosa, o per nasconderli in qualche luogo remoto. Imbarcatosi a Bisanzio, veniva per mare al Pireo di Atene. Questo nome risveglia fervido desiderio nel genere umano; ma Atene in sulla metà del secolo settimo non era altro che una santa ricordanza, reliquia preziosissima dell’Antichità, diserta e inonorata. Dopo di Giustiniano ivi s’era fatta muta anche l’ultima voce dei filosofi, e le ruine della più splendida magnificenza dell’uman genere circondavano l’Acropoli, destando in chi le mirava un senso di mestizia ancor maggiore di quella che risvegliassero i ruderi della signoria mondiale romana, che circondavano il Campidoglio di Giove. La mente nostra è indotta ad alta ammirazione se guarda alla Roma di quel tempo, ed invece si trasporta all’Atene di allora con devozione dolente, come di chi da un esiglio lungo pensa alla patria perduta; qui dal luogo tristamente seminato di templi [173] e di monumenti crollati non ci si fa innanzi che squallore di morte, e per verità morte eterna, avvegnadio da questo sepolcro dell’Ellade non risorgesse mai più una vita nuova come pur sorse dalla tomba di Roma[186].
Il nipote di Eraclio contemplava Atene con sguardo di grossa indifferenza, ma certo si è che da quel suolo profanato egli faceva svellere e caricar nelle sue navi quei tesori d’arte scolpiti nel metallo, che si erano potuti salvare dall’ingordigia dei Goti o dal furore di vendetta dei Cristiani. Nella primavera del 663 egli faceva vela per l’antica Taranto. Il viaggio dell’Imperatore da Costantinopoli ad Atene, indi a Taranto, a Roma, a Siracusa, moveva da ruine a ruine, come se le Furie avessero trascinato per mano questo tardo Augusto attraverso i luoghi più santi della civiltà, per mostrargli le tombe della grande antichità abbattuta dal despotismo dei Cesari.
[174]
Allorchè Costante ebbe toccato terra a Taranto determinò di imprendere una spedizione di guerra per liberare dalla signoria dei Longobardi le province meridionali d’Italia. Fin là infatti i Longobardi s’erano spinti, chè già Autari con sue ardite fazioni di guerra lungo tutta la penisola era giunto alla spiaggia del mare di Sicilia; e la leggenda narrava che egli entrasse col suo cavallo nell’onda del mare di Reggio, e percotendo colla lancia una colonna favolosa che ivi s’alzava, sclamasse: Sia qui il confine dei Longobardi[187]! Ma ai successori di lui non era riuscito di assoggettare quelle province; i Longobardi imperiti nella navigazione restavano popolo di terraferma, laonde nelle città marittime, che non riuscivano a sottomettere, a Napoli, ad Amalfi, a Sorrento, a Gaeta, a Taranto, continuavano a signoreggiare i duci greci, quali luogotenenti dell’Imperatore. Benevento invece era stata costituita in ducato da Alboino, e Zoto erane stato primo Duca. Da questo celebre Ducato, che comprendeva l’antico Samnio, le Puglie e una parte della Campania e della Lucania, i Longobardi del mezzodì movevano a loro scorrerie; e durante il regno di Arichi II, che aveva durato cinquant’anni (dal 591 al 641), il Ducato da una parte si estendeva fin verso Napoli, dall’altra per Siponto giungeva fino al monte Gargano[188]. Due anni prima che l’Imperatore venisse in Italia, Grimoaldo di Benevento s’era impadronito del trono longobardo di Pavia; [175] e a capo del ducato di Benevento aveva lasciato Romualdo suo giovinetto figliuolo. Costante or voleva dunque movere alla distruzione di quello, e, raccolte le soldatesche di Sicilia, di Napoli e di altre terre che ancora obbedivano ai Greci, giungeva innanzi a Benevento. Ma il giovine Romualdo lo batteva; e la sua strenua difesa fu il subbietto di uno dei migliori episodî nella Storia di Paolo Varnefredo. Come gli giungeva novella che re Grimoaldo discendeva contro di lui, l’Imperatore levava l’assedio, veniva a Napoli, lasciava a Formia, che è l’attuale Mola di Gaeta, un esercito di ventimila uomini affinchè proteggesse il suo cammino, e per la via Appia moveva a Roma.
Possiamo credere di leggieri che all’arrivo del padrone imperiale un’agitazione gravissima si destasse nella diserta Città. Sebbene Costante non fosse apertamente in guerra, tuttavolta ragione di acerbi rancori lo teneva diviso dalla Chiesa romana, che da lui aveva sofferto offesa atroce. Essa ne viveva in timore; e se l’Imperatore, soggiogato Benevento, fosse venuto colla baldanza del vittorioso, la Chiesa avrebbe provato di che peso ne sarebbero state per essa le conseguenze. Or fu dunque sua buona ventura che egli venisse senza trionfi, se non pure da vinto. Il Libro Pontificale ha conservato il racconto delle solenni accoglienze che furono fatte all’Imperatore bizantino; ed havvi questo fatto degno di altissima nota, che quelle pompe concordarono colle costumanze, le quali, durante tutto il medio evo, si adoperarono a ricevere gli Imperatori di Germania. Alla sesta pietra miliare fuori della Città, incontro a Costante movevano il Papa, il clero e i deputati di Roma con [176] croci, con vessilli e con cerei accesi in atto di vassallaggio devoto[189]. Vitaliano non aveva cuore di ergersi contro il greco Imperatore coll’animo intrepido del vescovo Ambrogio, che dagli scaglioni della chiesa di Milano aveva respinto il grande Teodosio, perocchè si fosse macchiato del sangue dei nemici. Eppure, quando il Papa vide l’odiato Costante, troppo bene dovette soccorrergli la ricordanza ch’egli era quel desso che aveva trucidato l’Imperatore fratello suo, che aveva condannato papa Martino a morire di fame, che avea ordinato il martirio di Massimo abate cattolico. Si condusse a Roma il padrone con pompa di processione: era il giorno 5 di Luglio del 663, un mercoledì. Poichè dobbiamo supporre che Costante venisse dalla via Appia, è mestieri che egli entrasse per porta Sebastiana; tosto dopo, come aveva fatto al tempo di suo ingresso re Teodorico, egli discendeva in san Pietro per orare sulla tomba dell’Apostolo e per offrirvi un dono votivo. Indi, nè possiamo accoglierne dubbio, egli poneva stanza nell’antico palazzo dei Cesari, la cui vastità deserta e ruinosa avrà di certo messo orrore e noia nei cortigiani bizantini. Ma per quanto pur fosse profondamente decaduto quello splendido castello imperiale, tuttavolta nel secolo settimo esso in qualche parte ancora si acconciava a dimora; chè il Duce dell’Impero, ossia governatore di Roma, vi aveva sua stanza. Il sabato successivo l’Imperatore andava a santa Maria [177] Maggiore, e qui pure lasciava un donativo; nella domenica, accompagnato dalla sua soldatesca, moveva con solenne corteo al san Pietro, incontrato dal clero e condotto dal Papa entro la basilica; dalle mani di Vitaliano riceveva la comunione, e deponeva sull’altare maggiore un pallio d’oro[190]. Il sabato dopo traeva al Laterano; ivi prendeva un bagno e teneva banchetto nella basilica di Giulio, che già abbiamo veduto essere stata un triclinio dell’antico palazzo.
La condizione miserevole cui Vitaliano era ridotto innanzi a quest’Imperatore al quale gli conveniva prestare omaggi adulatorî, induce a usargli commiserazione indulgente[191]. Certamente il suo cuore deve aver sofferto abbastanza dolore quando gli fu duopo contaminarsi di avvilimento innanzi al monotelita e all’assassino di Martino I; faceva ancor mestieri che corresse una serie di secoli prima che quest’esempio di sudditanza del Papa potesse trasformarsi nell’orgoglio di Canossa. La vista del loro sire imperiale che degnava di scendere dalla sua altezza fino a visitare la loro città, e l’arroganza dei cortigiani greci che li guardavano con disprezzo, dovevano destare ricordanze dolorosissime anche nei Romani caduti sì in basso di povertà e di ruina; e noi reputiamo probabile cosa che in quell’onta di [178] Roma allora si facesse udire questa bella voce di lamento:
Nobilibus fueras quondam constructa patronis,
Subdita nunc servis. Heu male, Roma, ruis!
Deseruere tui tanto te tempore reges:
Cessit et ad Graecos nomen honosque tuum,
In te nobilium Rectorum nemo remansit;
Ingenuique tui rura Pelasga colunt.
Vulgus ab extremis distractum partibus orbis,
Servorum servi nunc tibi sunt domini.
Constantinopolis florens nova Roma vocatur,
Moenibus et muris Roma vetusta cadis.
Hoc cantans prisco praedixit carmine vates:
Roma, tibi subito motibus ibit amor.
Non si te Petri meritum Paulique foveret,
Tempore jam longo Roma misella fores,
Mancipibus subjecta jacens macularis iniquis,
Inclyta quae fueras nobilitate nitens[192].
[179]
Ei sarebbe per noi di somma vaghezza se potessimo possedere qualche notizia dello stato in cui era allora il palazzo dei Cesari, se potessimo seguire lo Imperatore bizantino nelle feste che ivi gli furono date in mezzo alle ruine miserande del tempo passato, se potessimo discernere in che forme la nobiltà e la magistratura si atteggiavano nelle loro vesti di broccato d’oro dalle foggie orientali e in che modo il popolo dei Romani mendicava la vita. Un silenzio impenetrabile ravvolge invece quella età. Manca novella di giuochi e di largizioni di denaro o di pane che l’Imperatore distribuisse al popolo; nè sappiamo di restaurazioni ch’egli ordinasse. Ed è pur colpa dei Cronisti manchevoli se non sappiamo di che moneta emunta dal tesoro della Chiesa l’Imperatore si facesse pagare l’onore della sua visita. Costante non guardò Roma con quel senso di venerazione che un tempo ancora ebbe riempiuto l’animo dell’iniquo figliuolo di Costantino allorchè nell’anno 357 venne a Roma insieme col persiano Ormisda. Ci giova ricordare con quali parole Ammiano descriveva lo stupore ond’era colpito l’Imperatore vedendo la moltitudine del popolo e la magnificenza di Roma. Costanzio ammirava massimamente il tempio Capitolino, i bagni, l’anfiteatro di Tito, il Panteon, il tempio di Venere e di Roma, le colonne effigiate degli Imperatori, il foro della Pace, il teatro di Pompeo, l’Odeo e lo stadio di Domiziano e sopra ogni altra cosa il foro di Trajano. [180] Dopo trecento e sei anni di una storia piena di avvenimenti tetri ed in parte spaventosi, un Imperatore bizantino di bel nuovo stava innanzi a quei monumenti; la barbara ignoranza di lui avrà appena conosciuto alcuni di quei loro nomi divenuti signoria della leggenda, che gli antiquarî della Città di allora, seppure di questi lo accompagnavano, non erano più capaci di illustrare colla parola erudita di Cassiodoro. In tre secoli Roma s’era trasformata appieno come crisalide. In rovina già da lungo tempo giaceva il tempio di Giove capitolino; abbandonati e caduti erano i bagni; le fontane ingombre di rottami non gettavano più una goccia d’acqua; folta cresceva l’erba nell’anfiteatro di Tito, le cui muraglie dislogate crollavano. Una breve parte del palazzo imperiale serviva a dimora, ruina il resto; il foro della Pace e tutti gli altri, seminati di ruderi o deserti; soltanto la colonna del foro di Trajano si ergeva maestosamente tranquilla in mezzo a templi vacillanti e a biblioteche vuote, dove qua e colà contro la caduta e l’oblio pugnava ancora la statua annerita di qualche genio greco o romano, il cui nome s’era perduto in dimenticanza. Circo e teatri, da lungo tempo curvati sotto il flagello della età, erano in balia della decadenza; il grande tempio di Venere e di Roma, che soltanto di recente era stato scoperchiato del suo tetto, era precipitato a mezzo. E dovunque lo sguardo si posava in mezzo ai monumenti scrollati dalla decrepitezza, miravansi chiese edificate coi materiali di quelli, o conventi che si addossavano ad essi, oppure finalmente templi mutati in case della preghiera cristiana. Da ogni parte Roma era sopravvissuta alla trasformazione ed alla trasposizione dei suoi monumenti, avvegnachè qui si [181] vedessero templi cangiati in chiese, ivi marmi e colonne e architravi svelti dagli edifici per essere trascinati a ornare chiese vicine o remote.
Una duplice Roma pertanto si mostrava agli occhi di Costante; un’antica ed una nuova, come avviene ancora a’ dì nostri. E come oggi, così anche allora, l’anfiteatro di Tito era il punto di mezzo dell’antica Roma. Questo monumento gigantesco della potenza de’ Cesari già nella bocca del popolo aveva nome di Coliseo, non dal colosso di Nerone, ma da quello della sua propria grandezza. Il nome barbarico è usato per la prima volta sullo spirare del secolo settimo da Beda, monaco anglosassone, che lo adopera in quella celebre profezia che correva di Roma: «Finchè starà il Coliseo, starà anche Roma; quando il Coliseo cadrà, Roma pure cadrà; quando cadrà Roma, cadrà anche il mondo.» È probabile che Beda non sia mai stato a Roma; ben la profezia e il nome del Coliseo i pellegrini germanici avranno recato nel settentrione[193]. Nella Roma nuova erano [182] sorti due centri ecclesiastici, il palazzo Lateranense, che a poco a poco subentrò nel luogo del palazzo imperiale, e il Vaticano, Campidoglio cristiano. La Città antica durava tuttavia nelle sue grandi moli, nei suoi monumenti ed anche colle sue vie e colle sue stazioni; in mezzo di essa s’era spinta la Città cristiana, conosciuta soltanto per le sue chiese molte e in parte illustri, la cui storia parimenti (sì presto la vecchiezza logora le opere degli uomini) qua e colà s’era profondata entro il buio della leggenda.
Gli è difficile cosa che il greco Imperatore fosse indotto a meditare mestamente sulle sorti della capitale del mondo; e piuttosto, allorquando con vacua e rapida curiosità lasciava cadere lo sguardo sui ruderi di Roma, roba sua, egli trovava allegramente che ancora restavano degli oggetti da talentare la sua avarizia. Statue parecchie di bronzo duravano nelle vie e nelle piazze, come ivi le aveva già scorte Procopio, e può darsi che i Bizantini, i quali andavano in giro frugando, di esse cercassero avidamente anche entro ai templi chiusi. Il Pontefice mostrava al suo ospite il Panteon, dono imperiale fatto alla Chiesa; Costante ne vide il tetto di bronzo dorato sfavillare sotto i raggi del sole, e, senza che il rattenesse riguardo della Vergine e di tutti quanti i Martiri, ordinava che sul suo naviglio si caricassero quelle tegole preziosissime. A malincuore risparmiava i quadrelli dorati che coprivano il tetto [183] del san Pietro; chè a strapparneli lo impediva la santità della basilica, oppure la tema di commuovere a sollevamento i Romani. Dodici soli giorni dimorava Costante in Roma, e tanto tempo bastava perchè la Città fosse derubata de’ suoi ultimi tesori antichi di bronzo fino ai più piccoli avanzi[194]. Fu prodigio che la magnifica statua equestre di Marco Aurelio in bronzo dorato sfuggisse alla rapacità dei Bizantini. Essa in quel tempo non peranco portava il nome di statua di Costantino; incerto è il luogo dove prima stesse, ma è possibile che s’elevasse nella piazza presso l’arco di Severo. Se a quel tempo tuttavia presso quell’arco si conservava la statua equestre di Costantino, non v’è dubbio che Costante ne la faceva svellere e caricare su un bastimento. Che ciò avvenisse è probabile assai; e può darsi che ai Romani supplichevoli Costante facesse grazia di lasciar soltanto la statua in bronzo di Marco Aurelio, e che d’allora in poi il popolo ed il clero alla statua equestre di quell’Imperatore imponessero titolo di statua del grande Costantino: così infatti fu [184] appellata per tutto il medio evo[195]. Forse allora i Greci trafugavano alle loro navi anche gli avanzi delle biblioteche antiche.
Nel dì della sua partenza l’Imperatore udì ancora una volta la messa presso la tomba dell’Apostolo; indi, preso commiato dal Papa, veleggiò col suo bottino per Napoli. Ma nè egli nè Bisanzio dovevano esser lieti della depredazione di Roma. Nell’antica Siracusa, dove Costante aveva posto dimora nell’isola Ortigia, dove accumulava la moneta spremuta con balzelli dalla Sicilia, dalle Calabrie, dall’Africa e dalla Sardegna, e dove ammassava persino gli arredi d’altare delle chiese, quattro anni dopo era ucciso mentre trovavasi in bagno; uno schiavo gagliardo gli sbatteva sulla testa un vase di bronzo. I capolavori artistici di Roma, deposti nella città dell’isola, tosto dopo cadevano in mano dei Saraceni allorchè eglino conquistavano Siracusa. Anche questa illustre città di Gelone e di Gerone ebbe pari le sorti con quelle di Atene e di Roma; Achradina, Tyche, Neapolis ed Epipolae erano ancora soltanto [185] ruine della magnificenza antica, diserte di abitatori[196].
[187]
Il romano Deodato, figlio di Gioviniano, succedeva a Vitaliano nel pontificato, addì 11 dell’Aprile 672. Il suo reggimento, che durò quattro anni, è privo di valore per la storia di Roma[197]. Deodato era stato monaco nel convento di sant’Erasmo, e faceva restaurare quel chiostro celebre del monte Celio, che deve essere stato [188] fondato da san Benedetto nelle case di Placido[198]. Più tardi il chiostro fu congiunto all’abazia di Subiaco, indi, in tempo incerto, perì, ed ancora sul finire del secolo decimosesto vedevansi in vicinanza del santo Stefano le sue ruine con avanzi di pitture antiche[199].
A Deodato succedeva, nel dì 2 Novembre 676, Dono o Domno, figlio del romano Maurizio; egli resse la Chiesa per poco più di un anno. Il Libro Pontificale ci fa sapere che egli lastricava l’atrio del san Pietro con grandi mattoni di marmo bianco; e poichè è difficile che una sì larga copia di ricca pietra si ricavasse da miniere di marmo, per certo la si avrà ritratta da monumenti messi a sacco: e nel medio evo si pretendeva anzi di conoscere che vi si erano adoperati i marmi del così detto sepolcro di Scipione, che era una tomba antica eretta a foggia di piramide, in prossimità del castel sant’Angelo[200].
[189]
La storia di Roma in quel tempo fu sì oscura e manchevole di avvenimenti, che la sua cronaca contiene poco più che la serie dei Pontefici, gli anni di loro reggimento e la notizia degli edificî che innalzarono. Dono passava di vita nell’Aprile dell’anno 678, e Agatone, siciliano di Palermo, diventava suo successore. Questo Pontefice era sì avventurato da confermare il primato e le leggi della fede ortodossa di Roma nell’Occidente del pari che nell’Oriente. Già al tempo di Vitaliano, il primato era stato di bel nuovo combattuto da Mauro arcivescovo di Ravenna, avvegnachè il grave livore che esisteva tra Roma e Bisanzio, lo incorasse a rifiutare soggezione al Papa romano. Erane sorto uno scisma, e Costante, che in quel tempo viveva ancora in Siracusa, lo spalleggiava per guisa che Mauro e il successore di lui Reparato, mettevano in non cale gli anatemi di Roma[201].
Tuttavolta, già al tempo di Dono, l’Arcivescovo di Ravenna aveva dovuto piegarsi a sommessione, perocchè il novello imperatore Costantino Pogonato fosse favorevole [190] a Roma. Teodoro, succeduto a Reparato, veniva in Roma, quivi colla propria bocca rinunciava alla «autocefalia,» ossia all’autonomia che la Chiesa ravennate aveva preteso, e otteneva la consecrazione da Agatone: chè ornai da lungo tempo gli Arcivescovi di Ravenna, dopo la loro elezione, venivano in Roma per ricevervi dal Papa l’ordinazione. La vittoria riportata sopra Ravenna, che era la Chiesa maggiore d’Italia dopo quella di Roma, accresceva di altissimo valore l’autorità del Papa anche nelle relazioni sue con Bisanzio e coll’Esarcato[202]. La sua podestà, crescente ognor più, s’aggrandiva oltracciò pel trionfo che conseguiva sulla dottrina dei Monoteliti. Costantino Pogonato infatti, volendo porre un termine alla lunga controversia, indiceva un concilio ecumenico in Costantinopoli; e, ancor prima, addì 27 del Marzo 680, Agatone congregava un sinodo di Vescovi italiani, i quali eleggevano a loro deputati al concilio di Bisanzio, i Vescovi di Porto, di Reggio e di Paterno, ai quali il Pontefice aggiungeva tre Cardinali romani come legati. Nelle sue lettere commendatizie Agatone si scusava se i suoi inviati non erano nè eloquenti, nè eruditi; uomini erano che nella malvagità de’ tempi, in mezzo a’ Barbari, avevano dovuto guadagnarsi il pane col lavoro delle loro [191] mani[203]. Questa confessione onorevole fa supporre quali fossero in quel tempo le condizioni della scienza in Roma; quei preti ineruditi però avevano tanto valore da combattere vittoriosamente in Costantinopoli a pro della dottrina ortodossa. Il celebre sesto Concilio ecumenico si aperse addì 7 del Novembre 680 nel «Trullus,» ossia nella sala della cupola, nel palazzo di Bisanzio. Si affermò che i decreti di Roma erano veramente conformi ai canoni; i Monoteliti defunti e i viventi dovettero abbassare le armi, ossia furono dichiarati vinti dopo una resistenza ostinatamente sostenuta per molte sessioni, dappoichè questo dramma teologico, che ebbe diciotto atti ossia Actiones, come in istile officiale si appellarono, durò fino al 16 di Settembre 681. Giorgio, patriarca di Costantinopoli, confessò penitente il suo errore, ma l’audace Macario di Antiochia fu deposto e cacciato in bando: su quei confessori di una sola volontà del Cristo che erano già passati di vita, su Ciro di Alessandria, su Sergio e su Pirro di Bisanzio fu scagliato solenne anatema, e le loro imagini furono cancellate dai musaici delle chiese. Lo stesso Onorio papa espiò l’arrendevolezza che aveva dimostrata verso i Monoteliti, dacchè persino sulla sua tomba si fe’ cadere condanna[204]. Indi tosto si sbattè sulla turba del popolo una gran copia di nere regnatele, per dimostrare che la Chiesa s’era nettata dell’eresia. La Cristianità fu ammaestrata [192] oppure fu confermata nella fede delle due volontà, e la Chiesa romana ottenne reverenza quale capo dogmatico del mondo cristiano.
Nella state del 680, la peste vôtava Roma di abitatori. È probabile che il morbo infierisse anche nel resto d’Italia, avvegnaddio Paolo Diacono narri che Pavia quasi ne restasse deserta di popolo[205]. Egli racconta che per le strade della città si vedevano scorrazzare l’angelo del bene e quello del male; il primo additava con un cenno la porta delle case, l’altro con un’asta vi picchiava, e quanti colpi avventava, tanti uomini dentro morivano. Alla fine si aperse una rivelazione del cielo; cesserebbe la peste allora che nella chiesa di san Pietro ad vincula fosse eretto un altare a santo Sebastiano: tosto furono fatte venire di Roma reliquie di quel Martire, e il morbo sparve[206]. Paolo Diacono parla manifestamente di una chiesa di san Pietro ad vincula che esisteva in Pavia, ma i Romani più tardi s’impadronirono di questa leggenda e la riferirono alla loro propria chiesa di questo nome, dove il fatto è istoriato in un quadro del secolo decimoquinto[207].
Nella navata a sinistra di quella stessa basilica si [193] mira tuttora un antico quadro in musaico, rozzamente lavorato in istile bizantino, che deve risalire ai tempi di Agatone. Rappresenta santo Sebastiano coperto d’abito e in figura d’uomo canuto. Fu infatti assai più tardi che il Santo venne dipinto con forme giovanili, nudo legato ad un albero e trafitto a morte dai dardi[208].
Sebastiano, cui da grandissimo tempo Roma tributava suo culto, aveva sulle catacombe di Calisto una chiesa che già esisteva ai tempi di Gregorio Magno e fu più tardi una delle sette chiese maggiori di Roma. Il Santo, giovane tribuno militare, era nativo di Narbona; confessore di Cristo fu fatto segno alle frecce degli arcieri nel palazzo imperiale, e Lucina, pia matrona, gli compose il sepolcro nelle catacombe di Calisto[209].
A lui dappresso, un altro Tribuno militare aveva già ottenuto onore di altari in Roma, ed era Giorgio di Cappadocia, martire a’ tempi di Diocleziano. Egli era, così narra la leggenda, comite nella cavalleria; arditamente sincero, egli ammoniva l’imperatore Diocleziano acciocchè desistesse dal perseguitare i Cristiani, laonde, eroe tra’ martiri, sofferse i tormenti più atroci. Un’intiera notte resse sul petto un macigno enorme, indi con orrida lentezza ebbe strappate le carni dai ferrei denti della ruota. Mentre ei sosteneva quella [194] tortura con intrepidezza serena, scoppiavano tuoni, e i lampi squarciavano le nubi, ed una voce del cielo sclamava: «Non temere, Giorgio, io ti son presso,» e una forma bianco vestita s’avvicinava alla ruota e lo sventurato soavemente abbracciava. Quel portento scoteva l’animo dell’imperatrice Alessandra siffattamente, che ella si faceva cristiana. Tre giorni penò Giorgio posto entro un’ardente fossa di calce, ma nè quel tormento, nè gli stivaletti roventi, nè un magico veleno avevano forza di ucciderlo, chè anzi sotto gli occhi dell’Imperatore ei richiamava alla vita un morto, e una sola parola della sua bocca operava sì che nel tempio di Apollo tutti i simulacri di marmo precipitavano dai loro piedistalli. Alla perfine la sua testa cadde sotto la scure fatale del carnefice[210].
Sebastiano e Giorgio furono Santi prediletti della cavalleria, furono i Dioscuri guerrieri della mitologia cristiana[211]. L’ultimo desta la ricordanza del Perseo pagano; lo si dipingeva a cavallo, collo scudo e colla lancia, che lottava contro un dragone, dalle cui insidie [195] liberava una vergine piangente e bella[212]. La chiesa di lui in Roma, nel Velabro ossia Velum aureum, dev’essere edificio di papa Leone II eretto nell’anno 682[213]. Tuttavia, già ai tempi di Gregorio I, è fatto cenno di una basilica di san Giorgio coll’addiettivo Ad Sedem[214].
La denominazione Velum auri era venuta in uso a vece di quella antica di Velabrum[215]. Così precisamente [196] appellavasi quella valle che in origine divideva il Campidoglio dal Palatino, nei tempi remoti padule, più tardi resa terreno asciutto. Ivi era il Foro boario, come ce ne avvisa la iscrizione esistente sull’Arco degli Orefici. Quel luogo è massimamente uno dei più mirabili di Roma: ivi in profonda solitudine esistono alcuni monumenti ben conservati; il poderoso Janus Quadrifrons; rimpetto ad esso l’arco di trionfo che gli orefici di Roma ebbero eretto ad onore dell’imperatore Settimio Severo, dei suoi figli scelleratissimi Caracalla e Geta, e di quella Giulia Pia che fu la più sventurata delle madri; in vicinanza evvi pure la Cloaca massima; e tuttora di chiare e fresche acque ivi s’allieta l’antica fonte Juturna, ma oggi essa porta il nome cristiano di san Giorgio[216].
Se sia vero quanto afferma la iscrizione posta sulla porta d’ingresso della chiesa antica, questa sarebbe stata in origine costruita nel luogo ove a’ tempi antichi [197] si elevava la basilica di Tiberio Sempronio Gracco: ciò fu peraltro un’invenzione archeologica di età posteriore[217]. Entro la basilica fu compresa la porta trionfale dell’imperatore Settimio Severo, o piuttosto, in tempo più tardo, la torre della chiesa fu addossata a questo monumento.
L’edificio di Leone II (l’atrio è di costruzione più moderna) si conservò nel suo disegno fondamentale; è una piccola basilica a tre navate, con sedici colonne antiche, alcune di granito, altre di marmo. Difficilmente v’ha in Roma un’altra chiesa dove tutto spiri, al pari che in questa, un alito così ineffabile di antichissimo Cristianesimo. La sua forma originale di basilica, la sua leggiadra semplicità, i dipinti e le iscrizioni dei primi secoli, fra le quali si trovano puranco iscrizioni greche, il silenzio fantastico cui nulla quasi mai turba, il luogo di quella valle fra il Campidoglio e il Palatino, pieno di ricordanze dell’antichità romana, tutto ciò opera con fascino incantevole sull’animo di chi commosso a meraviglia la contempla. Fra tutte le basiliche romane, san Giorgio in Velabro è quella che può tenere riscontro ai piccoli templi antichi di Vesta e della Fortuna virilis. È cosa probabile che la tribuna della chiesa fosse adorna di musaici: ad essi più tardi furono sostituite pitture in colori; il Cristo siede sopra il globo terracqueo in mezzo a Pietro e a Paolo; a mano sinistra [198] è Sebastiano, alla destra Giorgio che impugna un vessillo tenendosi vicino il suo cavallo[218].
Il Santo greco però non ebbe in Roma favore di popolo, perocchè i Romani fatti cristiani non cancellassero dalla loro memoria alcun’altra divinità dei loro avi più profondamente di quello che cacciassero in oblianza il dio Marte. Il popolo dunque non tributò grandi onori neppure a Giorgio che subentrava nelle veci del Dio antico; il popolo non aveva indole guerriera nè cavalleresca; i Pontefici, che fondavano e alimentavano il culto del Santo, non furono romani ma greci; e le chiese che a san Giorgio furono edificate, perirono tutte fuori di quella eretta nel Velabro[219]. Per contrario, il Santo diventò il patrono delle corporazioni di cavalieri a Genova ed a Venezia, in Ispagna, in Inghilterra e nella terra cavalleresca dei Franchi[220].
[199]
Sette mesi dopo la morte di Agatone, fu eletto papa Leone II, nell’Agosto dell’anno 682. Il Libro Pontificale narra che egli ricevette l’ordinazione dai Vescovi di Ostia, di Porto e di Velletri; l’ultimo di questi fungeva le veci del Vescovo di Albano. Ne consegue che la consecrazione del Pontefice operata da quei tre Vescovi suburbani si era già costituita in costumanza canonica[221]. Leone II era greco di Sicilia. La lingua e la letteratura di Grecia erano a Roma allora cadute in tanta oblianza, che chi ne possedeva dottrina era reputato uomo d’ingegno meraviglioso; per la qual cosa il Pontefice che parlava greco e latino, rendeva tutti ammirati come se fosse stato un portento di erudizione. Egli trapassava di vita nell’estate dell’anno 683.
[200]
La lunga vacanza della santa Sede che or susseguiva, fa credere che Roma o Ravenna fossero commosse da agitazioni cittadine, avvegnachè Benedetto II, romano, fosse ordinato papa soltanto un anno dopo la morte del suo predecessore. Era legge consueta che la conferma dell’elezione di ogni Papa venisse dall’Esarca oppure direttamente dall’Imperatore; essa cagionava dispendî gravi e lunga perdita di tempo, ed oltracciò teneva il capo spirituale di Roma nella soggezione della corte imperiale. I Papi perciò da gran tempo avevano tentato di far cessare quel diritto imperiale della conferma, e di conseguire la independenza; ma ciò loro non era riuscito di ottenere, quantunque Benedetto II ricevesse un rescritto dall’Imperatore, che concedeva al clero, al popolo ed all’esercito di Roma, ossia ai tre ordini elettivi, di procedere tosto all’ordinazione del Papa che avevano scelto. Questa concessione importante non conferì però un diritto durevole; fu una larghezza che per quel breve tempo acconsentiva l’imperatore Costantino Pogonato, animato da sentimento di fede ortodossa: così infatti fu dai succeditori di lui dichiarato[222]. Può darsi che Costantino si tenesse con Benedetto II in relazioni di benevolenza personale, ma ciò alle nostre ricerche si [201] cela; certo è che l’Imperatore faceva adottare Giustiniano ed Eraclio figli suoi dal Papa, e, secondo lo stravagante costume di quell’età, gli mandava delle ciocche di capelli di quei principi: tali simboli dell’adozione erano posti con pompa solenne in una cappella del Laterano[223].
Egli è pur un fatto assai sorprendente, la rapidità con cui in questo tempo Papi succedevano a Papi. I pontificati della durata di tredici anni e più, quali furono quelli di Gregorio Magno, di Onorio I, di Vitaliano, costituiscono un’eccezione, avvegnachè il più gran numero dei Pontefici nel secolo sesto e nel settimo, tenesse il reggimento per uno, per due o per tre anni. Che quegli uomini fossero eletti in età tardissima? o che vi fossero altre cause di una durata così breve? Non cel sappiamo. Benedetto II cessava di vivere addì 7 del Maggio 685; e, dopo di lui, un siro di Antiochia, Giovanni V, ch’era stato dapprima nunzio a Bisanzio, saliva al santo seggio, ma moriva già nel dì 1 dell’Agosto 686. Con [202] lui incomincia una serie di Assiri o di Greci, che un dopo l’altro occuparono la sedia pontificia; nè ciò può essere stato effetto del caso, ma dimostra che l’Esarca oppure l’Imperatore dominavano adesso compiutamente la elezione dei Romani. Quando si venne a nominare il successore di Giovanni V, Roma fu divisa in due fazioni; il candidato del clero fu Pietro arciprete, quello dell’esercito Teodoro prete. Questo cosidetto esercito (Exercitus) radunossi nel santo Stefano sul Celio, e tenne in pari tempo presidiato il Laterano, affine di impedire che il clero potesse ivi condurre il suo eletto e lo facesse sedere sul trono vescovile. Dopo trattative lunghe fra le due parti, i chierici rinunciavano al loro candidato ed eleggevano Conone, la cui origine veniva di Tracia. I giudici (Judices) e gli ottimati dell’esercito vi si associavano, e bentosto l’esercito intiero vi aderiva; gli Atti della elezione erano sottoscritti dai tre ordini elettivi, indi erano spediti all’esarca Teodoro.
Da questa notizia particolareggiata, che il Libro Pontificale ci offre, si trae la conseguenza che la cittadinanza di Roma era costituita di tre grandi classi, che erano il clero, l’esercito, il popolo; e queste vedemmo specificate nel rescritto di Costantino a Benedetto II, quali ordini che avevano parte all’elezione del Pontefice. Al clero si attribuiva il predicato di venerabilis, all’esercito quello di felicissimus; non ne aveva il popolo: il clero e l’esercito massimamente erano le classi più potenti di Roma. Le aveva tratte in vita la Chiesa cristiana, che creava una casta di chierici numerosa oltre ogni proporzione e ben presto potentissima, per guisa che naturalmente tutta la popolazione dovevasi distinguere in chierici e in laici. [203] Allorchè erano spedite al Papa le ciocche di capelli dei principi greci, accanto al clero era fatta menzione soltanto dell’esercito. E questo, che toccava ancora stipendio dall’Imperatore, come rilevammo al tempo della rivolta di Maurizio, era composto di nobili che militavano a cavallo e di cittadini agiati che si aggregavano alle file delle fanterie. L’esercito rappresentava segnatamente la classe dei ricchi; ed anzi tutto la classe dei Romani ingenui era in generale compresa sotto quel concetto[224]. [204] Vedremo più tardi l’ordinamento particolare con cui nel secolo ottavo fu costituita la schola militiae ossia il florentissimus atque felicissimus Romanus exercitus. Per adesso teniamo come cosa certa, che tutta la corporazione delle milizie (Exercitus) procedeva a dare il suo voto nella elezione, distintamente dagli «ottimati dell’esercito»; perocchè questi ne formassero l’aristocrazia cavalleresca. Gli ottimati seguirono il clero acclamando a Conone; l’esercito cedette soltanto qualche giorno dopo. Accanto ai primati dell’esercito vediamo in generale anche i Judices, ossiano giudici civili, e cioè tanto gli officiali publici di grado maggiore, quanto principalmente gli uomini ragguardevoli della Città, i quali avevano diritto agli officî civili e militari, ed avevano talvolta titolo di console. I Judices e gli ottimati dell’esercito costituivano pertanto la nobiltà di Roma (Optimates o Axiomati), gerarchia di officiali nelle faccende civili e in quelle della milizia: e tenevano, rispetto alla generalità dell’esercito, lo stesso grado che i Proceres della Chiesa avevano rispetto alla generalità del clero[225].
[205]
Del resto i Judices de Militia, che formavano la nobiltà laicale, si distinguevano dai Judices de clero, i quali componevano il ceto di coloro che, insigniti di dignità ecclesiastiche, attendevano alla giurisdizione in un altro ordine di negozî. In questo periodo poi di tempo, una nobiltà novella aveva origine in Roma. Caduto il regno, le famiglie romane antiche s’erano, nella massima parte, estinte; avvegnachè nessuna Cronica del secolo settimo faccia più menzione dei nomi di quei patrizî che ancor s’udivano al tempo dei Goti. Sono scomparsi per sempre i Probi, i Festi, i Petronî, i Massimi, i Venanzi, gli Importuni; e invece dei loro, subentrano i nomi di nobili famiglie che hanno suono bizantino, dei Pasquali, dei Sergi, dei Giovanni, dei Costantini, dei Paoli, degli Stefani, dei Teodori, i quali durano in Roma da questa età fino al secolo nono: indubbiamente ne spiega l’origine la influenza dominante di Bisanzio. Se alcuni anche derivar potessero da battesimo, gli altri danno prova di una effettiva immigrazione di Greci, che indi in Roma ebbero assunto costume nazionale. Ed in Roma per fermo esistevano ancora dei discendenti di alcune stirpi antiche, ma formavano il numero minore; laddove nel corso dei tempi, in causa dei rapporti di proprietà, delle dignità dell’Impero e della Chiesa, e pur anche del nepotismo pontificio, nuove famiglie sorgevano: erano poi in Roma anche di quei discendenti di nobili Goti che avevano appreso le maniere della vita latina. Dalla nobiltà [206] sceglievansi i primi officiali della Chiesa e dello Stato, in qualità di Judices.
Gli Atti della elezione papale di Conone furono «secondo usanza» trasmessi all’Esarca perchè ne prendesse notizia e li confermasse. Questo è prova che la concessione dell’imperatore Costantino Pogonato, di diritto non esisteva più; e per fermo Giustiniano II, che gli era succeduto nel trono bizantino, la aveva revocata. Il fatto che ora narriamo pone fuor d’ogni dubbio che gravissima influenza l’Esarca esercitava allora massimamente sulla elezione del Pontefice. Conone cadeva colpito d’infermità; da un momento all’altro aspettavasi che egli ne morisse, e l’ambizioso suo arcidiacono Pasquale con gran fretta si adoperava e brigava presso lo Esarca affine di ottenerne la successione al pontificato; e perciò offrivagli un donativo di denaro. Giovanni Platina vi assentiva, ed ai giudici «che egli nominava a Roma per amministrare la Città,» dava incarico che, come il Papa fosse morto, facessero eleggere Pasquale[226].
Morto Conone addì 21 del Settembre 687, il popolo romano di nuovo si divideva in due partiti; l’uno eleggeva l’arciprete Teodoro, l’altro sceglieva l’arcidiacono Pasquale. Amendue i competitori e le loro fazioni avevano posto sede nel palazzo Lateranense. Non abbiamo precisa contezza delle classi alle quali questa volta in particolare appartenessero le fazioni contendenti. Ma anche adesso i giudici e i primati dell’esercito si misero d’accordo coi dignitarî della Chiesa; la nobiltà temporale [207] andò d’intesa colla nobiltà spirituale[227]. Convenivano nel voto di eleggere Sergio cardinal prete, che colla forza collocavano nel Laterano. Teodoro di buon grado gli prestava omaggio; Pasquale dava rinuncia soltanto perchè v’era astretto, ma secretamente spediva suoi messi a Ravenna e chiedeva l’aiuto dell’Esarca.
Giovanni Platina s’affrettò di venire a Roma dove capitò inaspettato[228]. Egli vi attingeva persuasione che la elezione di Sergio era avvenuta secondo il rito dei canoni e che il numero maggiore si manifestava in favore di lui, ma esigeva che l’eletto gli pagasse cento libbre d’oro, di cui aveva avuto da Pasquale promessa. Sergio, quantunque renitente, fu costretto a numerargli quella moneta, e, ottenuta in tal modo la conferma dall’Esarca, fu consecrato addì 15 del Dicembre 687. Il suo avversario Pasquale fu deposto e chiuso in un convento, ove finì i suoi giorni.
[208]
Anche Sergio I era siro di nazione, sebbene nato a Palermo dove il padre suo Tiberio, partito di Antiochia, aveva posto stanza. Giovinetto, era venuto in Roma a’ tempi di papa Deodato e vi si era fatto ammirare per la cultura dell’ingegno; poco a poco aveva tocco le più alte dignità e avea finalmente conseguito il titolo di cardinal prete. Egli pure imitò la fermezza energica dei suoi predecessori e si oppose alle dottrine di Bisanzio; chè tutti i Pontefici erano animati di un solo e pari intendimento, ch’era il genio di dominazione ognor sempre operoso, retaggio de’ Romani antichi trapiantato nella Chiesa[229]. L’irrequieto ingegno sofistico dei Greci era inesauribile a foggiare novelle dottrine teologiche, le quali, per quanto lieve profitto recassero di gloria o di utilità all’uman genere, tenevano tuttavia desta una vita scientifica, e ponevano le fondamenta della teologia dogmatica della Chiesa: ma i Greci mettevano inutilmente in moto tutte le loro armi per iscrollare la sede di san Pietro. Eglino s’infrangevano di contro all’intelletto di Roma, prosaico quanto pur vogliasi, ma grande; e giovavano anzi all’opera dei Papi, rivolta a costituire l’accentramento dell’Occidente.
[209]
La Città stessa ora non coltivava altro intento fuor di quello delle faccende di chiesa, e si educava a riverire nel Pontefice il capo suo. Ed invero qual era l’uomo cui questo popolo sventurato dei Romani potesse alzare il suo sguardo, se non era il Vescovo santo, che per ragione di sua autorità era il sire più potente ed anche massimamente nazionale di tutta Italia? E in breve per fermo doveva aversi manifesto indicio che egli poteva contare sull’ajuto dei Romani. Pochi anni dopo che Sergio era stato elevato al seggio pontificio tenevasi in Costantinopoli il concilio Trullano. I teologi bizantini infatti traevano fuori che il quinto ed il sesto Sinodo non avevano costituito un vero canone nelle cose di disciplina, laonde si congregava un Concilio, perchè ne ponesse il fondamento[230].
Cento e due leggi vi furono promulgate ed approvate, e vi si sottoscrivevano anche i nunzî del Papa. Ma l’occhio acuto di Sergio, cui quegli articoli erano trasmessi a Roma acciò li confermasse, vi discerse dottrine pericolose, come erano la condanna del celibato dei preti e dei diaconi, la proibizione dei digiuni del sabato, ed altre statuizioni a quel tempo tenute di grave importanza. Egli rifiutava di accedervi e vietava che gli articoli si publicassero. Allora l’Imperatore spediva un suo officiale ragguardevole a Roma, affinchè conducesse [210] a Bisanzio due dei più illustri prelati, che furono il Vescovo di Porto e il Consiliario pontificio.
Poichè i Romani avevano tollerato quel fatto senza resistenza, credeva Giustiniano di poter osare di più; laonde spediva a Roma il suo protospatario Zaccaria, col comando di trarre prigione il Pontefice stesso. Ma i tempi di Martino erano passati per sempre; la dominazione bizantina toccava una sconfitta morale non soltanto a Roma ma in tutta Italia, e ciò dimostrava che essa qui non avrebbe potuto più lungamente tener alta la sua podestà. Appena il legato imperiale era partito per Roma affine di dare eseguimento al comando del signor suo, tosto l’esercito tutto di Ravenna sorgeva, e con esso quello del Ducato della Pentapoli e di tutte le altre terre che stavano fra Ravenna e Roma: nè già per assecondare i disegni di Bisanzio, ma sì per difendere il Papa. È questa la prima volta che vien fatta particolarmente menzione dell’esercito di Ravenna; nè lo troviamo più costituito di mercenarî greci, ma milizia cittadina animata di spiriti italiani d’independenza: ed è pure la prima volta che si parla del Ducato della Pentapoli, ossia del territorio delle cinque città marittime di Ancona, di Sinigaglia, di Fano, di Pesaro e di Rimini.
Le milizie di que’ paesi giungevano dunque su Roma, dove era già arrivato il Protospatario; costui dava ridicolmente comando che si serrassero le porte della Città, indi riparava nella camera da letto del Papa cercandovi asilo. Entrati in Roma, i Ravennati cingevano il Laterano, e con gran clamore di grida chiedevano di vedere il Papa, perocchè corresse voce che nottetempo [211] fosse stato rapito e messo su di una nave. Il palazzo era chiuso; dentro v’era il Papa, e il Bizantino appiattato sotto il letto di lui. Può essere che a quello spettacolo miserevole tornasse al pensiero di Sergio la ricordanza del suo antecessore Martino I, la cui sorte infelice ora ne riceveva vendetta. Il Papa confortò lo Spatario dandogli fede che non gli sarebbe pur torto un capello, indi si fe’ vedere al popolo ed all’esercito che erano innanzi al Laterano e che l’accolsero con voci di gioia[231]. Benedisse ai suoi liberatori e ne acchetò le ire; e il Legato imperiale abbandonò Roma fra le fischiate e i lazzi del popolo.
Il giorno in cui quell’avvenimento si compiè, fu uno dei più memorandi nella storia de’ Papi che fino a questo punto abbiamo percorso; d’un tratto significava a che grado di potenza e di favore nazionale fosse giunta la loro autorità. Quella potenza era il risultamento di un’opera lavorata alla cheta e nel silenzio; era il frutto dell’energia con cui i Pontefici, ausiliati da’ vescovi e da’ monaci, avevano riunito le province d’Italia in un accentramento ecclesiastico, e le avevano assoggettate alla Sede santa di Roma; era la conseguenza della lunga lotta dogmatica che aveva armato Occidente contro Oriente, e delle ingerenze violente degli Imperatori bizantini nelle cose della Chiesa romana. La spedizione dei Ravennati a Roma non si spiegherebbe però tanto facilmente, se a cagionarla non avessero cooperato [212] alcune ragioni tutt’affatto speciali. Ed invero, sotto di Leone II, fra i due Vescovi di Ravenna e di Roma era avvenuta riconciliazione sincera, e allorchè poi quei fatti accaddero (nell’anno 692 o nel 694) era arcivescovo Damiano, uomo tutto fervido dell’amore di pace. Oltracciò, il popolo di Ravenna era acerbamente irato contro la signoria bizantina, e già meditava rivolta.
Sembra che un Ravennate illustre, di nome Giovanniccio, fosse allora primo fra i cospiratori. Il vasto sapere di lui, segnatamente nella lingua greca, avevalo raccomandato al riguardo di Teodoro esarca; ne era divenuto secretario, e più tardi era stato chiamato ad un officio nella corte di Bisanzio. Giovanniccio, onorato come un portento di dottrina ed ammirato anche come poeta, tornava a Ravenna forse perchè era caduto in disgrazia: ben presto vedremo che Giorgio figlio di lui si poneva alla testa dei Ravennati sollevati. Un rivolgimento a Bisanzio precedette questa ribellione dell’Esarcato, avvegnachè il crudele Giustiniano fosse balzato dal trono da Leonzio nell’anno 695: lo si strascinò nell’ippodromo, dove con brutalità tutta bizantina gli si mozzarono il naso e le orecchie. A quella sollevazione militare si erano associati anche dei cittadini di Ravenna, nè Giustiniano sel dimenticò[232].
[213]
Cresceva frattanto nell’Occidente la reverenza a Roma dacchè stava a capo della Chiesa, e s’aumentava la venerazione all’apostolo Pietro ed a’ succeditori suoi nella sedia apostolica. La mitica tomba del povero pescatore di Galilea, collocata entro la basilica splendente d’oro, s’era fatta poco a poco santuario di tutto l’Occidente. Al tempo di Prudenzio i Barbari non avevano incominciato ancora a muovere d’oltralpe e d’oltremare alle tombe di Roma, ma dopo la metà del secolo settimo la Città era visitata da migliaia di pellegrini che venivano di contrade remote, di Gallia, di Spagna e di Bretagna. Roma di bel nuovo era divenuta la meta e la ansiosa brama di tutti i popoli; sennonchè il bisogno che qui li traeva era ben differente da quello che gli animava in antico. Se Seneca, che ebbe descritto [214] facondamente la forza magnetica che attirava a Roma tutti gli uomini, avesse potuto nel secolo settimo o nell’ottavo levare il capo dal suo sepolcro, la parola sarebbe venuta meno al suo labbro per grave meraviglia[233]. Il fervore dei popoli per venire a Roma durava, ma di desiderio terreno s’era tramutato in desiderio celeste. Reliquie della morte erano la pietra calamita che fra disagi e stenti indicibili qui traeva pellegrini di terre lontane, lontane; loro meta era un sepolcro, loro ricompensa una preghiera che innanzi a quello recitavano, una reliquia, una speranza di paradiso venturo. Allorchè quei pellegrini scorgevano in vista Roma cadevano ginocchioni come innanzi ad un eden di tutte le felicità; e col canto degli inni scendevano alla Città sospirata per cercare le case dove trovavano ricovero, e sacerdoti e uomini del loro paese che la lingua loro parlavano e che li guidavano a visitare le chiese e le catacombe. Reduci alle terre natie, eglino erano altrettanti missionarî di Roma, diffondevano racconti meravigliosi delle bellezze della santa Città, infiammavano altrui del desiderio di vederla, procacciavano la unione dell’Occidente e del Settentrione con Roma, e, più efficacemente che le relazioni politiche, giovavano a incatenare i popoli alla «madre dell’uman genere.»
Più specialmente, erano gli Angli di fresco convertiti, che l’ardore della fede strascinava a Roma. Ammirazione caldissima quivi destava, nell’anno 680, Caduallo, re dei Sassoni occidentali. Dopo guerre sanguinose che egli aveva combattuto contro gli Scoti, quel giovine [215] eroe rimetteva mestamente la sua spada nel fodero e s’imbarcava per la remota Roma affine di ricevervi il battesimo di mano del Pontefice. Un tempo i Romani erano stati avvezzi a vedersi innanzi i Re delle terre estreme di Asia tratti in trionfo come pantere colte al guinzaglio, o a vederseli comparire a giudizio in atto di vassalli supplichevoli; adesso i loro nepoti miravano di bel nuovo per la prima volta un barbaro Re straniero nella loro Città, ma questi era condotto dal Papa con pompa di trionfo al battistero del Laterano. Ivi, nel sabato santo, il chiomato Caduallo entrò avvolto in bianche vestimenta, col cereo acceso nella mano, e dal mitico bacino in porfido di Costantino ricevette battesimo e nome di Pietro. Sia che lo scotesse di terrore la ceremonia inusata, sia che pel clima nuovo infermasse, il mansueto eroe sassone moriva tosto dopo, addì 20 di Aprile, ch’era la domenica in albis. I Romani gli composero sepoltura nell’atrio del san Pietro, e vi posero un’iscrizione magniloquente che ancor ci è conservata. Essa dice: Caduallo, dagli estremi confini della Bretagna, per mare e per genti e per terre varie venne alla città di Romolo ed al venerando tempio di Pietro ad offrirvi suoi mistici doni; abbandonò dovizie e trono e reame possente e i suoi figli e i trionfi e le ricche prede; e gli avi, le città, le castella, i patri lari lasciò per amore di Dio, per mirare, ospite regale, Pietro e la sede di Pietro: e alla fine il terrestre regno cambiò con quello de’ cieli[234].
[216]
Il pellegrinaggio di Caduallo rivelava per Roma tutto intero l’avvenire, l’assoggettamento dell’Occidente germanico alla podestà spirituale del Pontefice. Il pio esempio trovò imitatori, chè solo vent’anni dopo due altri Re anglosassoni venivano a Roma, Corrado di Mercia e Offa di Essex. Spogliandosi con isdegno degli onori e delle ricchezze, al paro dei primi confessori di Cristo, questi due giovani Principi venivano a Roma non per ricevervi il battesimo, chè cristiani già erano, ma per [217] cambiare la porpora nella tonaca monacale. Per la prima volta Roma vedeva dei Re prostrati a’ piedi di san Pietro per chiedere un saio da frate. Le loro chiome copiose e lunghe cadevano recise sotto le forbici, e dedicavansi all’Apostolo; la loro giovinezza regale si seppelliva per sempre sotto la bianca cocolla monastica, e i Principi dell’isola eroica di Arturo si reputavano felici di confondersi in mezzo alla turba de’ frati oscuri che vivevano in un convento presso la chiesa di san Pietro; felici erano di trovare nell’atrio della basilica una tomba, e nel cielo un seggio fra i beati[235]. Di tal guisa la Chiesa accoglieva in sè il fervore giovanile del Settentrione, e magnificava l’abnegazione di quei Re, portandola in esempio ad altri Principi; e Roma a poco a poco raccoglieva nelle vicinanze del Vaticano una colonia di Sassoni.
Quei Re penitenti non venivano a mani vuote, ma, oltre al sacrificio dell’anima loro, offerivano a san Pietro anche buona copia d’oro: i donativi dei pellegrini, dei penitenti e dei fedeli dell’Occidente affluivano ogni anno più abbondevolmente a Roma, e i Papi se ne giovavano per adornare le loro chiese di splendore magnifico ognor più. Sergio dotava la maggior parte delle basiliche di preziosi arredi. L’arte, per lo meno quella dei mosaicisti e dei lavoratori di metalli, non posava mai della sua operosità, e la accuratezza faticosa di questi artisti romani gareggiava con quella dei bizantini. Perfino gli aurei incensieri (thymiamateria) adornavansi di colonne; e ai ciborî, ossiano tabernacoli degli altari dove si riponeva [218] il calice, davasi forma di piccoli tempietti con colonne di porfido o di marmo, che sostenevano una cupola coperta d’oro e seminata di gemme[236]. Sergio edificava a papa Leone I un sepolcro, di cui conserviamo l’iscrizione[237]; e quella tomba era la prima che dentro la soglia del san Pietro si collocasse. Infatti, innanzi a questo tempo, i Pontefici avevano avuto sepoltura o nei cimiteri fuor delle porte, oppure anche nell’atrio della basilica Vaticana; ma dopo che Sergio, nell’anno 688, deponeva nella croce della navata la salma di Leone Magno e sulla tomba di lui erigeva un altare, i Papi più venerati ebbero sepolcro e culto nella chiesa di san Pietro: nel tempo stesso si abbandonò la norma originale e conforme allo spirito del Cristianesimo, secondo cui le chiese avevano avuto un solo altare.
[219]
Dopo una vacanza di due mesi appena a papa Sergio succedeva nel pontificato Giovanni VI, addì 30 dell’Ottobre 701. Imperatore era allora Tiberio Apsimaro, che quattro anni prima aveva precipitato dal trono l’usurpatore Leonzio. Non conosciamo quali ragioni lo inducessero ad ostilità contro Roma; fatto è, e questo solo sappiamo, che egli vi spediva di Sicilia l’esarca Teofilatto, e che tosto le milizie delle province italiane si avanzavano fin sotto la Città[238]. Nei Latini s’era svegliato il sentimento di nazione, e la signoria de’ Bizantini volgeva al suo termine. Le soldatesche ponevano campo fuor delle mura di Roma, di dentro il popolo si commoveva a tumulto, ma il Papa salvava l’Esarca, dava comando che si serrassero le porte, e i legati di lui inducevano gli Italiani a ritirarsi di Roma[239]. Il comportamento [220] del Pontefice dimostra a manifeste note quanta era la previdenza con cui operava. I Papi di quel tempo non avevano ancora podestà temporale, sebbene già esercitassero sulle cose d’Italia un’influenza maggiore di quella che possedevano gli Esarchi. Del continuo protestavano sè essere sudditi dell’Imperatore, e con prudente mediazione s’interponevano in ogni rivolgimento, pur tenendo ferma l’autorità legittima dello Stato: avvegnaddio, se troppo si fosse affrettata Italia ad affrancarsi da Bisanzio, dove era adesso la sede di autorità dell’Impero romano, ne avrebbero fatto unicamente loro pro i Longobardi, i quali giusto allora minacciavano di bel nuovo Roma.
Sotto l’influenza della mitezza e della cultura d’Italia, si era gradatamente mansuefatta la rozzezza selvaggia di quel popolo: convertiti dall’Arianesimo alla fede cattolica, i suoi principi, i suoi ottimati, i suoi vescovi erano divenuti zelatori fervidissimi del culto romano. Edificavano chiese e conventi molti, entro i quali monaci longobardi davano opera allo studio delle scienze. Sullo spirare del secolo settimo la pietà longobarda restaurava anche il celebre convento di Farfa, che un tempo aveva subìto pari sorte di quello di Monte Cassino. Faroaldo, duca di Spoleto, era il più operoso a promuovere la riedificazione di questa abazia, la quale, quantunque situata nella Sabina romana, tuttavolta apparteneva al Ducato longobardo di Spoleto[240], i cui Duchi per vero erano a Roma meno pericolosi di quelli di Benevento.
[221]
Ci sono ignote le cause che inducevano il possente Gisulfo II, duca di Benevento, ad entrare violentemente nella Campagna: correva allora il secondo oppure il terzo anno del pontificato di Giovanni VI. Ivi occupava Sora, Arpino e Arce; devastava, mettendolo a ferro e a fuoco, tutto il territorio che il Liri bagna, e poneva campo nel luogo detto Horrea, finchè Giovanni con ricca moneta di riscatto inducevalo a ritirarsi. Il possesso delle nominate città era controverso, come suole avvenire di luoghi posti ai confini; sembra che neppure più tardi si reputassero appartenenti al Ducato di Benevento; e quando Gisulfo le conquistava, molto probabilmente erano comprese entro i limiti del territorio bizantino, sia che stessero sotto il reggimento del Ducato romano, sia che, al pari di Terracina e di Gaeta, obbedissero al patrizio di Sicilia[241]. Paolo Diacono denota Sora assolutamente qual città dei Romani; e sotto il nome di questi, Paolo, al pari di Procopio, intende sempre i Greci[242]. Il Lazio antico dalla sponda [222] sinistra del Tevere, giungeva entro terra ferma fino al fiume Liri, e oltr’esso fino alle città finitime anzidette; dalla parte di mare poi si stendeva fino a Terracina.
Anche in questa occasione ci è dato di scorgere che non si fa pur motto nè di Duce imperiale, nè di Senatori che in Roma fossero; ma è ancor sempre il Pontefice che opera in vece di un comandante greco, che col mezzo dei preti suoi tratta della pace, che col tesoro della Chiesa la ricompra. Giovanni VI passava di vita nel Gennaio dell’anno 705, e lasciava la sedia di Pietro al figlio di un greco Platone, che fu ordinato papa addì 1 di Marzo, sotto nome di Giovanni VII.
Durante il reggimento di questo Pontefice si affermarono relazioni di pace coi Longobardi. Re Ariberto giungeva perfino a restituire alla Chiesa romana con solennità di documento i beni nelle Alpi Cozie, dei quali i predecessori di lui avevano preso possedimento[243]. Il documento di donazione scritto in caratteri d’oro, ed è uno dei più antichi di quella maniera, era spedito a Roma. Minacciose di pericolo invece si facevano le relazioni con Bisanzio, perocchè qui nell’autunno dell’anno 705 avvenisse al detronizzato imperatore Giustiniano II di ricuperare lo impero. Dal Chersoneso, ove era [223] vissuto nell’esiglio, egli rompeva il confino impostogli, e coll’aiuto dei Bulgari s’impadroniva di Costantinopoli. E qui ora si dissetava nel sangue dei suoi nemici, che a migliaia faceva impalare, decapitare o accecare. Il terribile Rinotmeto (così l’appellarono i Greci dacchè gli era stato mozzo il naso)[244] aveva appena recuperato il trono, che gli sovveniva ricordanza dei decreti del concilio Trullano, e per mezzo di due Vescovi metropolitani gli spediva a Roma, chiedendo che il Papa li sottoscrivesse. Giovanni per fermo niegava di farlo, ma la censura degli uomini ortodossi lo colpiva, perocchè non avesse avuto coraggio di condannare quegli articoli che erano contrarî ai canoni. E il Biografo di lui scorgeva in ciò perfino la causa della sua rapida morte, che avveniva nell’Ottobre del 707.
A Giovanni VII si dà vanto di avere eretto in Roma alcuni edificî, che in parte si associano a meravigliose leggende della Città. Una cappella erigeva nel san Pietro, e la faceva tutta coprire di musaici[245], i quali, sebbene fossero di rozzo e barbarico lavoro, riuscirono allora oggetto di grande ammirazione: ebbero fama del più bel decoro della cattedrale, ed invero sono la più egregia opera dell’arte in quell’età. Nel mezzo era la imagine della Vergine di stile prettamente bizantino[246]; [224] alla sua destra stava la figura del Papa; aveva il capo racchiuso nella cornice quadrangolare, e teneva nelle mani il disegno della cappella: oggidì ancora nelle Grotte del Vaticano si vede l’avanzo di quella figura e se ne legge la iscrizione antica[247]. Anche le pareti dell’oratorio erano adorne di musaici; v’era istoriata la predicazione di Pietro in Gerusalemme, in Antiochia e in Roma, la caduta di Simon Mago, la morte dei santi Pietro e Paolo, e v’era inoltre rappresentato tutto il ciclo della storia del Redentore dalla nascita fino alla sua discesa nel Limbo. La fattura di quei musaici già accennava ad un profondo decadimento, ma l’idea di adornare di musaici un’intera cappella, e di istoriare il dramma del Cristianesimo in una serie di figure e di quadri, per quel tempo barbarico era sì ardita, che per ciò solo è meritevole dell’attenzione nostra. Ci rimangono ancora delle reliquie di questi musaici di Giovanni VII, un tempo sì celebri. Quando nell’anno 1639 la cappella di lui, dopo la durata nientemeno che di novecent’anni, fu atterrata, un quadro in musaico ne fu levato e trasferito a santa Maria in Cosmedin, dove quel monumento venerando, che conta più di undici secoli di vita, fu infisso nel muro della sacrestia. Quantunque rozzi ne siano il disegno e il lavoro, tuttavia esso reca i tratti di una pia semplicità e della fede fanciullesca di un’età, di cui noi a mala pena riusciamo a comprendere l’indole[248].
[225]
È voce che Giovanni VII deponesse nella sua cappella il così detto sudario della Veronica. Nel secolo decimo ivi si venerava quella reliquia favolosa, e certo già da gran tempo[249]. Oggidì ancora nelle Grotte del Vaticano si legge un’iscrizione di Giovanni VII, che alla Veronica si riferisce; e poichè nel medio evo quella pezzuola era stimata gioiello della Città sopra ogni altro prezioso, ci è duopo qui narrarne la leggenda[250].
Tiberio, infermo di lebbra insanabile, chiamava a sè un giorno i Senatori, diceva voler cercare suo rifugio nella virtù del cielo, perocchè vana gli fosse l’arte degli [226] uomini; soggiungeva aver udito che era in Gerusalemme un mago divino nominato Gesù; volere che questi a Roma gli si adducesse. Laonde comandava a Volusiano patrizio, di recarsi a Gerusalemme e di supplicare con forme orrevoli il gran medico Gesù affinchè lo seguisse a Roma alla corte dell’Imperatore. Stagioni tempestose ritardavano di un anno l’arrivo del legato a Gerusalemme, e quando ei finalmente vi giungeva, Pilato gli diceva che deplorava di non essere stato ammonito per tempo degli intendimenti dell’Imperatore, avvegnachè gli Ebrei avessero già fatto morire sulla croce l’incantatore. Volusiano con grande sbigottimento dell’animo si persuase della impossibilità di condurre a buon risultamento l’incarico del suo signore, ma fu lieto di poter avere almeno un’imagine di Gesù, chè una pia donna Veronica aveva colla sua pezzuola asciugato il sudore che inondava il volto del Redentore curvo sotto il peso della croce, e il Salvatore, in gratitudine della pietosa cura, aveva impresso sul lino l’effigie del suo volto[251]. Volusiano condusse a Roma Veronica colla imagine, e sulla stessa nave trasse anche Pilato carico di [227] catene. Come fu giunto innanzi a Tiberio, questi condannò Pilato ad esiglio perpetuo nella città di Ameria, indi fece recare innanzi a sè il sudario, e, appena l’ebbe rimirato, scoppiò in pianto, e vi si prostrò innanzi orando, e tosto la lebbra scomparve. Fornì Veronica di ricchezze, e il sudario contornò d’oro e di gemme e nel suo palazzo conservò. Tiberio visse nove mesi ancora, con preci continue onorando Cristo e l’imagine di lui.
Questa celebre leggenda è nel numero di quelle che associano al Cristianesimo i fatti degli Imperatori pagani di Roma. Ad Augusto, sotto il cui reggimento il Salvatore era nato, si collegava una delle più belle leggende della Città, di cui in appresso discorreremo; e Tiberio, crudele succeditore di lui, nell’età del quale Gesù fu crocifisso, diventò così parimenti soggetto di una leggenda. Questa per origine fu all’altra anteriore, poichè nei suoi tratti principali esisteva già al tempo di Eusebio e di Tertulliano. È poi incerto il tempo in cui si inventò il racconto che Tiberio, dopochè ebbe ottenuto guarigione portentosa da quel sudario, ordinasse che Cristo fosse venerato fra gli Dei di Roma. Il Senato, narra quella leggenda, rifiutava obbedienza all’Imperatore, ed anzi promulgava un decreto solenne con cui bandiva della Città tutti i Cristiani; alla qual cosa Tiberio montava in furore e faceva mettere a morte molti Senatori. Può essere che la leggenda appartenga al secolo duodecimo; però già in sugli anni primi del secolo quinto, Orosio vescovo, al quale non era giunta ancora contezza della storia del sudario, scriveva che Tiberio s’irritava siffattamente dell’audacia con cui il Senato rifiutava di proclamare Cristo un nume, che [228] di principe mitissimo si tramutava in tiranno efferato[252].
La leggenda romana aggiungeva qualche appendice alla storia del sudario. Ed invero Veronica, dopo la morte di Tiberio, recuperava il possedimento del suo tesoro, e quando moriva, dopo aver campato i suoi cento anni, ne lasciava erede il vescovo Clemente. I succeditori di questo custodirono con gran cura quella santa reliquia, finchè Bonifacio IV la deponeva nel Panteon[253], e finalmente Giovanni VII la trasportava nella sua cappella di san Pietro, ove fu conservata in un tabernacolo di marmo. Tale è il racconto che correva in Roma del sudario della Veronica.
Giovanni VII ad ogni modo fu benemerito della Chiesa assai più, in grazia della sua restaurazione di un celebre convento nella Campagna. Anche l’abazia dei Benedettini di Subiaco, fondazione antichissima di Benedetto, aveva avuto la sorte istessa della sua colonia di Monte Cassino. Essa era stata distrutta dai Longobardi nell’anno 601, e i suoi monaci s’erano trasferiti nel convento di sant’Erasmo sul monte Celio. Per più di [229] cento anni Subiaco restava deserto, finchè Giovanni VII rinnovellava quell’abazia[254].
Sisinnio, siro di nascita, succedeva a Giovanni nel pontificato, ma per il breve giro di venti giorni. Morte gli impediva di dar eseguimento al glorioso disegno che volgeva in mente di restaurare le mura della Città, le quali erano nel massimo decadimento.
Costantino, succeditore di lui e come lui siro di nazione, uomo destro nelle faccende e fornito di energia robusta, fu consecrato addì 25 del Marzo 708. Avvenimenti di notevole gravità illustrarono il suo pontificato che ebbe la durata di sette anni. Nel 709 un’orribile sventura colpiva Ravenna; chè l’Imperatore compieva allora sue vendette contro quella città che aveva giurato di punire. Veniva di Sicilia a quel porto il patrizio Teodoro con un’armata; i nobili ravennati e i più illustri del clero erano tosto strascinati sulle navi e carichi di catene, indi i Greci scendevano a terra. Con ira di barbarie furibonda mettevano a sacco e a fuoco [230] Ravenna; un gran numero di cittadini trucidavano; i più ragguardevoli il Patrizio traeva prigionieri a Bisanzio innanzi al trono dell’Imperatore, e Giustiniano comandava che fossero messi a supplizio. Fra queste vittime dell’ira sua fu pure Giovanniccio, condannato ad esser seppellito vivo in un muro; il celebre Ravennate era tratto per le vie di Costantinopoli, e il boia lo precedeva proclamando la pena crudele che doveva espiare[255]. Il suo compagno di prigionia, l’arcivescovo Felice, era accecato, indi esiliato nel Ponto[256].
L’orrenda sorte di Ravenna metteva in grave trepidanza le province d’Italia e cresceva odio contro Bisanzio. Già fin d’allora le città avrebbero potuto scuotere il giogo dei Greci, se fossero state fra sè unite, e se la paura dei Longobardi non le avesse poste in sospetto. [231] Roma stessa si commosse a dolore per la ruina della sua rivale, ma il Papa ne trasse qualche profitto, e l’Imperatore stesso si vide costretto a guadagnarselo con amichevoli cortesie. Giustiniano anzi lo invitava ad andare a Costantinopoli per definire la controversia tuttavia pendente sugli articoli del sinodo Trullano. Ancor sotto il terrore destato dal castigo inflitto a Ravenna, il capo della Chiesa romana obbediva al cenno dell’Imperatore; rimpiangendo il suo amaro destino, Costantino s’imbarcava in Porto addì 5 dell’Ottobre 710, e con sè conduceva alcuni dei più illustri ottimati della Chiesa, Niceta vescovo di Silva Candida, Giorgio vescovo di Porto e parecchi cardinali e officiali del palazzo pontificio. È prezzo dell’opera di accompagnarlo nel suo viaggio, per conoscere la via che allora si seguiva per andare da Roma a Costantinopoli. Il Papa col suo corteo per Napoli moveva a Sicilia, forse a Messina, indi a Reggio, a Cortona e a Gallipoli. In Otranto svernava; poi, nella primavera, il Papa riprendeva il suo cammino percorrendo le coste di Grecia, quindi veleggiava all’isola di Ceo, e di là a Bisanzio. In tutti i luoghi percorsi nel viaggio il magistrato aveva ordine di accogliere con onoranza il Vescovo romano; dalla città capitale uscivano a dargli il benvenuto Tiberio figlio dell’Imperatore alla testa del Senato e Ciro patriarca a capo del clero. L’ultimo Pontefice che Bisanzio vide entro le sue mura tenne il suo ingresso a cavallo, coperto il capo della mitra; e fu albergato nel palazzo di Placidia[257].
[232]
L’Imperatore trovavasi allora a Nicea in Bitinia, e Costantino ossequiente, senza frapporre dimora, era costretto a lasciare la città capitale, e a partirsi per Nicomedia, dove con lui s’incontrava Rinotmeto, mostro di crudeltà tutto grondante di sangue, agli occhi del popolo si purificava dei suoi delitti con abbracciamenti del Papa, colla confessione e colla comunione; ma ciò di cui nelle loro conferenze si trattasse non si racconta[258]. Sembra tuttavia che finissero a intendersela bellamente; chè l’accorto Costantino tornava di Oriente nell’autunno del 711 colla conferma di tutti i privilegî della Chiesa romana. Allorquando, simile a Gionata riuscito a salvamento, toccò terra a Gaeta, trovò ivi molti sacerdoti e ottimati romani che s’erano affrettati d’irgli incontro a salutarlo. E giubilanti lo ricondussero a Roma, dove fece il suo ingresso addì 23 di Ottobre, dopo un’assenza che s’era prolungata un anno intero.
Allora gli diedero contezza dei fatti spaventosi che erano occorsi durante la sua lontananza. Chè, tosto dopo la partita di lui, era venuto a Roma Giovanni Rizocopo esarca, aveva incarcerato alcuni degli officiali più illustri della Chiesa, e senza inquisizione gli aveva mandati al supplizio. Qual fosse il motivo della persecuzione non penetriamo; poichè però l’Esarca, appena avvenute quelle esecuzioni, partivasi per Ravenna dove moriva, [233] ci sembra che la cosa dovesse aver qualche legame colla ribellione di Ravenna.
Questa città sventurata, indotta dalla disperazione delle sue sorti, s’era alzata a rivolta, e aveva scosso il giogo dei Bizantini. Quello di Ravenna era un popolo fervido di passioni focose e di costume fanatico; e pare che in esso gli spiriti fieri del medio evo, causa forse le strette relazioni in cui era con Bisanzio, si manifestassero più presto che nelle altre città d’Italia. Ne offre una prova ciò che Agnello, cronista suo, racconta dei giuochi che erano sollazzo di quei terrazzani. Ogni domenica, così egli narra, nobili e popolo minuto, grandi e piccoli, uomini e donne, solevano uscire delle porte, per contendere gli uni contro gli altri nella lotta. Divisi erano in due fazioni, quella di Porta Tiguriense e quella della Postierla o Summus Vicus; pugnavano con fionde, i fanciulli giocavano ai dischi[259]. I giuochi partorivano battaglia a vita e a morte. Una domenica che quelli della Postierla più deboli lasciavano il terreno coperto di loro morti e di loro feriti, i vinti concepirono un disegno infernale di vendetta; finsero di volersi rappacificare con gran solennità, e invitarono i Tiguriensi a celebrare la novella amicizia nella basilica Ursiana. Ogni uomo quindi adduceva ospite alle sue case uno dei rivali, ivi lo pugnalava e con gran segreto trasportava via il cadavere. Ciascun si chiedeva dove fossero iti tanti cittadini scomparsi; si serravano i bagni [234] e le botteghe, si sospendevano gli spettacoli pubblici; le vedove e gli orfani correvano per le vie con gemiti e pianti, si strappavano il crine e gli abiti, e si percotevano il viso. Trascorse una settimana intera in quel duolo; Damiano vescovo ordinò che tutto il popolo vestito di sacco e asperso di cenere movesse a litane solenni[260]; e lo Storico ravennate racconta che allora la terra si spalancò e furon visti i cadaveri dei traditi. Gli assassini furono trucidati; la rabbia della vendetta li colpì fin nelle loro donne e nei bimbi; il quartiere della Postierla fu distrutto, e a vitupero eterno gli fu imposto nome di quartiere dei malandrini.
Questi casi avvenivano in sullo scorcio del secolo settimo; e gli abbiamo narrati soltanto affine di mostrare con un esempio, che già fin d’allora era scoppiata quell’ira di parti cittadine che fu carattere proprio del medio evo in Italia[261].
Ravenna insorgeva nell’anno 710. La ribellata città [235] eleggeva a capo suo Giorgio, l’ardimentoso figlio di quel Giovanniccio che era stato fra supplizî ucciso a Bisanzio; e già con linguaggio dell’età di mezzo lo si può chiamare «capitano del popolo.» Divise egli tutta Ravenna in dodici gonfaloni o bandi, dai vessilli sotto i quali si riunivano le milizie della città, e vi diè questi nomi: Ravenna, Bando Primo, Bando Secondo, Vessillo Nuovo, Invitto, Costantinopolitano, Fermo, Lieto, Milanese, Veronese, Vessillo di Classe, e la schiera dell’Arcivescovo col clero e coi servi della Chiesa. Questa partizione militare ivi continuò ancora ad esistere nel secolo nono, nè v’ha dubbio che una di simile si costituisse anche a Roma, in corrispondenza alla divisione della Città per regioni[262]. Giorgio in pari tempo riusciva a formare la prima federazione di città di cui abbiamo notizia; chè a Ravenna si unirono con giuramento di alleanza, Sarsina [236] (Sarxena), Cervia, Cesena, Forlimpopoli (Forum popilii), Forlì (Forum Livii), Faenza (Faventia), Imola (Forum Cornelii) e Bologna (Bononia), e cioè quasi tutto il territorio dell’Esarcato. Questo avvenimento notevole di una prima lega delle città latine, dalle quali i Longobardi non avevano potuto massimamente sradicare l’indole di nazione, nè in particolare avevano potuto bandire il giure romano e la costituzione municipale romana, diventa quasi l’inizio del medio evo d’Italia; certo fu questo il primo passo all’independenza comunale di republica. Sventuratamente qui difettiamo di notizie da parte dei Cronisti di quell’età; la mozza Istoria di Agnello non fa verbo di più su questa federazione di città e sulla guerra che essa sostenne contro a’ Greci. Non v’ha dubbio che quella Storia, se avesse parlato, avrebbe posto in rilievo il grande ingegno politico di Giorgio, ed avrebbe narrato che l’esarca Rizocopo fu trucidato nella rivolta. È incerto financo l’anno di questa sollevazione con cui si chiude un intiero periodo storico; forse Ravenna si alzava a rivolgimento soltanto allora che giungevale la nuova della morte di Giustiniano imperatore; e questa avveniva, come dice il Libro Pontificale, tre mesi dopo che il Papa aveva fatto ritorno a Roma. Filippico Bardane infatti, verso la fine dell’anno 711, si era impadronito del trono di Bisanzio; per ordine di lui il tronco capo del tiranno Giustiniano era mandato in Occidente perchè di quella vista si allietasse lo sguardo dei Romani[263]; ed è probabile che il popolo corresse a [237] mirarlo colla stessa curiosità ottusa con cui, tempo prima, aveva accolto l’effigie coronata d’alloro di quella testa medesima: così in quegli orribili tempi il teschio sanguinoso di un Imperatore peregrinava per le province dianzi oppresse dal suo despotismo, in quello forse che stavasi aguzzando il filo della mannaia pronta a colpire il capo di colui che erane stato assassino e succeditore.
Appena che il novello Imperatore, monotelita ed eretico, aveva indossato la porpora, annullava i decreti del sesto Concilio, e dalle pareti del palazzo imperiale faceva tor via il quadro che vi era stato collocato a ricordarne la storia. La teologia dogmatica era tenuta in quella età d’importanza sì grave e s’ingeriva in tutte cose profondamente così, che ogni Imperatore novello, tosto dopo il suo avvenimento al trono, soleva spedire a’ più illustri vescovi dell’Impero la sua professione di fede ossia i Sacra: anche Filippico pertanto la sua mandava a Roma, ma il Papa e il clero la riprovavano come ereticale, e su di una parete del san Pietro facevano dipingere un ampio quadro in cui erano istoriati tutti i sei Concilî ecumenici. Di questa maniera efficace d’esprimere proteste politiche, anche in altre condizioni di cose, si usò in Roma nel più tardo medio evo[264]. Tutto il popolo romano s’animava a spiriti di aperta ribellione contro un Imperatore che aveva osato di negare le due volontà ossia la duplice natura del Cristo; così esso di bel [238] nuovo sorgeva con dignità di antico Populus Romanus, e decretava di negare omaggio all’Imperatore, di respingere il suo simulacro e i suoi rescritti, e perfino di escludere dal commercio la moneta dei solidi coniati della sua effigie, e di bandire dalle preghiere il nome di lui. Il fervore teologico dava a Roma un sembiante nuovo. Questo popolo, che finora era parso operoso soltanto allora che trattavasi di eleggere il Papa, sorgeva adesso da cittadinanza che statuiva di cose politiche[265]. I nobili, l’esercito e i cittadini divisi in maestranze, si riunivano a consiglio, e concordi deliberavano di opporre resistenza al capo dell’Impero. Fino al Libro Pontificale scappa qui per la prima volta la appellazione di «Ducato della città di Roma», donde abbiamo a noi dinanzi delineato tutto il territorio della Città, a destra e a sinistra del Tevere, che comprendeva la Tuscia romana e la Campagna. E per la prima volta con questo Ducato appare menzione anche del Duce che ne attendeva al reggimento[266].
Cristoforo, duce di Roma, vi era stato eletto sotto il reggimento precedente; il potere gli era adesso tolto dallo Esarca oppure dall’Imperatore novello, e Pietro era di Ravenna spedito a Roma nell’officio di lui, affinchè [239] reggesse la cosa pubblica secondo l’intendimento del nuovo governo. Ma il numero maggiore del popolo romano protestava di non volere starsi soggetto al Duce dello Imperatore eretico; la Città si divideva in due fazioni; l’una sotto il nome di «Cristiani», teneva la parte di Cristoforo, l’altra, che comprendeva il numero minore ed era condotta da Agatone, aderiva a Pietro. E qui in mezzo alla tenebra fitta di quell’età occorre di seguire con intensa attenzione questo tumulto, cui il Libro dei Papi con parola ampollosa dà il nome antico di guerra civile (bellum civile), perocchè sia un avvenimento importante, nuncio di tempi nuovi. Tornano in vita memorie dell’antichità già coperte d’obblianza; le fazioni contendenti vengono alla pugna nella via Sacra, innanzi al palazzo dei Cesari, e l’antico selciato di quella strada si colora del sangue degli uccisi: perciò ne è dato di conchiudere che al principio del secolo settimo esistevano ancora la via Sacra e il Palazzo, ed anzi dal luogo del combattimento abbiamo buon argomento di credere che nelle case imperiali fosse la dimora del Duce, avvegnachè senza dubbio la fazione di Pietro ivi assalisse Cristoforo nella residenza del governo di Roma per discacciarnelo[267]. Nel palazzo dei Cesari del resto s’erano compiuti pochi anni prima dei restauri; e, ancora sullo scorcio del secolo settimo, esisteva la Cura Palatii Urbis Romae, ossia un officiale che doveva provvederne alla conservazione. Quel ministero, sì altamente apprezzato da Cassiodoro, avea tenuto Platone padre di Giovanni VII, perocchè a lui ed a Blatta moglie sua [240] vadano riferite due iscrizioni degli anni 686 e 688, che Giovanni, allora rettore del patrimonio Appio, poneva a memoria de’ suoi genitori nella chiesa di santa Anastasia. La prima iscrizione dice che Platone, dopo che ebbe nel suo officio di preposito dell’antico palazzo di Roma, restaurata di quello la lunga scalea, era salito alle magioni celesti del Re sempiterno[268]. La residenza di dominio [241] di tanti Imperatori, il luogo cui s’erano conversi, come raggi al centro, i destini del mondo; donde pel corso di alcuni secoli l’umanità intera era stata retta con sapiente ragione di governo oppure oppressa con giogo vituperevole, doveva or tosto decadere in oblio profondo: chè già ai tempi di Carlomagno per le stanze di Augusto e di Trajano vuote di abitatori, batteva la tarda ala il gufo, come oggi avviene, e, come al dì d’oggi, in mezzo a quei ruderi il monaco piantava alberi d’olivo.
Sopravveniva una processione di preti tenenti in mano gli evangelî e i crocifissi, e separava i combattenti. La prudente arte politica dei Papi prendeva a legge di non mescolarsi nelle fazioni, ed anche adesso il Papa non s’ingeriva che al solo scopo di mettere la pace; e quantunque il partito dei «Cristiani» avesse potuto schiacciare senza fatica i suoi avversarî, ei gli comandava di ritirarsi: così tacitamente si conchiudeva una tregua, finchè pochi giorni appresso veniva di Sicilia la novella che Filippico Bardane era stato precipitato dal trono e orbato degli occhi.
Anastasio II, segretario di palazzo, aveva compiuto prosperamente quel rivolgimento nel dì 4 del Giugno 713, e s’era fatto gridare imperatore. Ne discende pertanto che i torbidi di Roma avevano durato quasi un anno e mezzo. Ora erano del tutto composti a quiete; il nuovo Imperatore qualche tempo dopo mandava il patrizio Scolastico da esarca in Italia, e gli affidava la sua professione [242] di fede ortodossa affinchè la consegnasse al Vescovo romano. Il nuovo Vicerè la recapitava al Papa in Roma, ed i Romani, forse perchè Cristoforo era morto o s’era palesato inetto all’officio, si acconciavano a tenersi per duce Pietro, dopo che egli aveva promesso di non prender vendetta di alcuno dei suoi avversarî[269].
A questo tempo il Libro dei Papi pone fine alla biografia di Costantino. Egli passava all’altra vita nel dì 8 dell’Aprile 715: combattè con buona fortuna per la fede ortodossa di Roma, e fu valente predecessore di Pontefici maggiori, sotto ai quali Roma si liberò del giogo dei Bizantini.
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[245]
Dopo la successione di sette Papi di origine greca o assira, Gregorio II fu il primo dei Romani che salisse alla cattedra di Pietro. Il vecchio nome romano di Marcello padre di lui, desta la ricordanza del tempo antico, e ci fa credere ch’egli discendesse di illustre stirpe patrizia. Manifesto è che il popolo eleggeva a pontefice un uomo di nazione romano, per muovere opposizione a Bisanzio. Gregorio, da diacono, era stato col suo predecessore Costantino a quella corte, dove, nelle disputazioni sugli articoli del sinodo Trullano, s’era conquistato gloria di erudizione, di eloquenza e di animo coraggioso. Fu fatto papa addì 19 Maggio 716, nel terzo anno dell’impero di Anastasio.
Il popolo longobardo era governato in quel tempo da re Liutprando, principe fornito di molta energia e di [246] saviezza grande, che nella mente nutriva altissimi disegni. Poichè egli si rifiutava di confermare la donazione di Ariberto II, Gregorio II si dava ogni cura d’impedire che ne avvenisse una rottura. I suoi nunzî riescivano in quest’intento, ma il Papa reputava necessario di restaurare quelle cadenti mura di Aureliano, che erano i baluardi dell’independenza nazionale di Roma. Aperte fornaci di calce, s’imprese a riedificare le mura incominciando dalla porta di san Lorenzo, ma presto insorsero ostacoli a impedire la prosecuzione del lavoro[270]. Il Tevere inondava colle sue acque la Città, e gravi danneggiamenti recava nel campo di Marte[271].
Non abbiamo contezza di altri fatti riguardanti propriamente la città di Roma, che siano avvenuti duranti i primi anni del pontificato di Gregorio II; si fu massimamente la mancanza di Cronisti contemporanei che ebbe in parte seppellito nella tenebra la grande operosità di questo Pontefice. Ei ci fa ricordare Gregorio I. La sua autorità di comando si estendeva fin sull’Italia meridionale, dove i Longobardi di Benevento avevano conquistato il castello di Cuma, che a quel tempo ancora continuava ad essere un forte arnese di guerra. A [247] Giovanni, duce di Napoli, il Papa statuiva il modo di condurne il reggimento[272]; e quando la fortezza fu di bel nuovo tolta ai Longobardi, egli pagò del tesoro della Chiesa settanta libbre d’oro come prezzo di cessione. Al pari del magno Gregorio, che alla Chiesa aveva conquistato province remote, anche Gregorio II conseguì trionfi, e furono ancor più avventurati. Gli Anglosassoni che il primo aveva convertito, diventavano adesso i missionarî dell’Allemagna; Gregorio II elevava a dignità di vescovo tedesco il celebre Vinfredo ossia Bonifacio, e lo mandava da legato apostolico in quelle contrade ancor incolte e coperte di selvagge foreste, dove quel servo ossequiente del Papato poneva il fondamento alla dominazione della Chiesa romana. Di tal guisa, dopo secoli lunghi di una vita oscura delle sue stirpi guerriere. Germania tornava ad associarsi con fervidi vincoli a Roma; nè lungo tempo doveva trascorrere perchè esercitasse influenza poderosa sui destini della Chiesa e su quelli di tutto Occidente.
L’età onde discorriamo, era massimamente affaticata da forze operose di svolgimento di una vita nuova. Dopo che nel secolo settimo s’era compiuta la caduta del mondo romano, incominciava da quell’immensa vastità di diluvio a sollevarsi un continente novello; e già la Chiesa romana lo aveva tutto trascinato e chiuso entro la sua orbita. Infatti era la religione cristiana che in una legge ed in un culto comune aveva riunito fra essi e colle reliquie della nazione latina i popoli germanici, [248] quanti di loro nell’Inghilterra, nelle Gallie, nelle Spagne e in Italia per mezzo di essa erano stati accolti entro il giure civile romano; di tal maniera per opera della Chiesa s’era costituito un dominio occidentale di popoli, che in processo di tempo doveva assumere ragione e sembianza di romano Impero. Peraltro, contro questo regno unito dei Germani e dei Latini, allora da Oriente moveva minaccia di grave pericolo. Nel bel fiore della sua potenza, l’Oriente arabo insorgeva alla pugna contro l’Occidente; già i Maomettani assalivano Costantinopoli, i Saraceni dominavano il mar Mediterraneo, minacciavano Italia e Roma, e dalle Spagne conquistate scendevano nelle province meridionali delle Gallie per abbattere il reame dei Franchi e, insieme con esso, il baluardo della Chiesa romana in Occidente. E in mezzo a quel turbinio avveniva d’altra parte un fatto che a Roma e ad Italia doveva dare una forma nuova.
Dopo che s’erano compiute due rivolte militari, che aveano precipitato del trono gli imperatori Anastasio e Teodosio, vi si era assiso Leone l’Isaurico addì 25 del Marzo 717. Quest’uomo valoroso aveva respinto gli Arabi dalle mura di Costantinopoli ed aveva ispirata vigoria di vita novella al greco Impero. Insieme col suo tempo si perdette la rinomanza gloriosa di sue geste guerriere, ma l’acerba lotta per l’uso o per l’abuso delle imagini nella Chiesa, lotta che egli con un suo editto revocava in vita, ebbe reso immortale il nome di Leone. Il passionato fervore dei Bizantini per le cose di teologia s’impadroniva anche dell’animo soldatesco e semplice di questo Imperatore: e quantunque per fermo egli non fosse atto a comprendere le sottigliezze delle cose dogmatiche, tuttavia, impetuoso [249] e ardito, ei concepiva il disegno di voler purificare dalla servilità idolatrica il culto cristiano; il guerriero isaurico credeva che a compiere quella fatica di Ercole gli bastasse di promulgare un editto imperiale. Le grida chiassose di scherno dei Maomettani che nelle conquistate città di Palestina e di Siria avevano fatto vitupero alle imbelli imagini dei santi, e i maligni epigrammi degli Ebrei della sua corte, erano cagione che egli si rodesse per l’onta e pel dispetto. I Cristiani, dicevano quei miscredenti, che se la pretendono di adorare il Dio vero, hanno riempiuto il mondo di una torma d’idoli più numerosa di quella che eglino, dopo i tempi di Costantino, trovassero da distruggere nei templi pagani; nè i confessori dell’Evangelo hanno a schivo di volgere in publico loro preci a de’ bambocci di metallo, di pietra e di legno, e a de’ musi dipinti in tela, e alle brutte imagini di stregoni innumerevoli. Il mondo romano s’è rifatto in paganesimo come prima era, nè il Cristianesimo altro è che un culto d’idolatri, laddove le moschee e le sinagoghe nostre, pure e monde di simulacri, non sieno adorne altro che dello spirito di Dio uno e vero, e della legge del Profeta.
Oltracciò, quei Vescovi greci nei quali metteva cruccio l’abuso introdotto nel culto delle imagini, comparavano a quell’età loro il costume dei primi secoli cristiani, nei quali non s’erano visti simulacri. Anticamente erano stati i gentili a rovesciare lo scherno sui Cristiani, perocchè nella povertà di loro religione plebea non possedessero templi, nè altari, nè statue splendide, ed allora i Cristiani così avevano loro risposto: «Credete forse che noi celiamo l’oggetto della onoranza nostra [250] perchè non abbiamo templi, nè altari? A che dovrei farmi un simulacro d’Iddio, se in verità l’uomo di Dio è simulacro? perchè dovrei edificare un tempio, se il mondo universo, opera delle sue mani, nol può comprendere? io uomo avrei nel mondo tanto spazio di dimora, e la onnipotenza di Dio dovrebbe essere racchiusa in una cella angusta? Non è forse meglio che noi consecriamo a Dio un albergo nel nostro spirito e nel profondo del cuor nostro?»[273]. Ma i tempi di Minucio Felice non erano più, ed ora gli infedeli con acerbo dileggio ritorcevano quelle domande. Il sinodo di Illiberis, ancora in sui primi anni del secolo quarto, aveva divietato l’uso delle imagini nelle Chiese, perchè si temeva che ne venisse pericolo alla fede; ma nel secolo sesto non sarebbe più stato possibile di promulgare un pari decreto[274].
Non è mestieri di dire che in sull’incominciamento del secolo ottavo tutti i paesi cristiani di Oriente e dell’Occidente erano pieni di imagini e di simulacri del Cristo, della Vergine e dei Santi. Fino al quinto secolo il culto ne era stato immune; l’imagine stessa della Croce era venuta in costume universale gran tempo [251] dopo di Costantino[275]; ma, dappoi, la fantasia dei popoli orientali primamente, indi quella degli occidentali, nella rappresentanza delle imagini dei Santi, s’era sospinta al di là di ogni limite. Simulacri miracolosi, effigie del Cristo Salvatore e di Maria Vergine «non fatte da mani umane (ἀχειροποίητος)», ma tratte con mistiche impronte dalle fattezze degli originali, oppure opere di angeli o dell’apostolo Luca, nel secolo sesto sbucavano fuori da parecchie città di Asia e di Europa; e turbe numerose di pellegrini traevano a quelle chiese che si gloriavano di possedere di quei ritratti genuini, e, per vero dire, profittevoli di lucro.
L’esempio di Oriente trovava imitazione in Occidente, e nel secolo sesto s’erano approvigionate le chiese di quei ritratti dei Santi, condotti in pittura ed in iscultura, dai quali occorre peraltro distinguere le imagini effigiate del Cristo e dei Santi, che ancora anticamente erano disegnate nelle catacombe, negli archi di trionfo e nelle tribune delle chiese. Soltanto le storie di martirio [252] s’evitava di rappresentare nelle chiese di Roma, per modo che in quelle onde fin qui abbiamo discorso, non si trova neppure una storia dei tormenti di un confessore; diversamente invece avvenne nei tempi assai posteriori, allorchè sembrarono necessarie forme sì rudi a risvegliare il sentimento religioso omai affievolito[276]. Non una delle pitture delle catacombe di Roma, non una delle sculture degli antichi sarcofaghi cristiani, attingono il loro soggetto dalla passione di Cristo o dal martirio di qualche Santo. Esse raffigurano soltanto il Cristo che ammaestra i suoi discepoli, che risana gli infermi o che opera miracoli. Può darsi che il possedimento, onde Roma così grandemente s’allietava delle salme dei Santi più illustri, tenesse ivi per lungo tempo remota od almeno ristretta la venerazione di imagini portentose; ma allorquando Edessa e Panea, quando Gerusalemme od altre città di Asia menarono altissimo vanto di possedere ritratti e simulacri genuini del Cristo, neppure Roma volle starsi lor dietro; ed è possibile cosa che il sudario della Veronica già nel secolo settimo all’universale onoranza si [253] esponesse[277]. Ai tempi di Gregorio I, Roma affermava di possedere la vera imagine del Cristo, della Vergine e dei due principi degli Apostoli, avvegnachè quel Papa ne spedisse delle copie al vescovo Secondino, ma avesse argomento di ammonirlo che quelle imagini, e ben sel doveva egli sapere, eran fatte perchè gli servissero non come oggetto di adorazione, ma soltanto di ricordanza. Alcuni Vescovi delle Gallie forniti di colto ingegno, vedevano a malincuore quegli abusi idolatri, e con ragione temevano che la moltitudine superstiziosa novellamente tramutasse il Cristianesimo in culto pagano. Sereno di Marsiglia un giorno deliberava di abbattere nella sua chiesa alcune imagini di Santi, ma Gregorio scriveva a quel Vescovo: «Lodevole è lo zelo che tu rivolgi a impedire che si adori l’opera delle mani dell’uomo, ma è mio giudizio che mal festi a porre in pezzi quelle immagini. Avvegnaddio la pittura sia usata nelle Chiese acciò coloro che di lettere non sanno, almeno legger possano collo sguardo nei quadri che pendono dalle pareti[278].» Questa era l’opinione di Gregorio [254] sull’uso cui servir dovevano le imagini nelle chiese, ed i Papi che combatterono a loro difesa avrebbero dovuto appoggiarsi su quell’autorità. La moltitudine però non comprendeva, nè partecipava a quel principio composto a temperanza, e la venerazione cieca assumeva indole di adorazione, indiritta a chi nell’imagine era effigiato. Artisti in gran numero, e massimamente monaci nei conventi, davano opera, con vera industria di fabbrica, a colorire di quelle imagini di Santi; e le chiese, che in particolare possedevano di quei simulacri portentosi, ne ritraevano ragguardevoli redditi. Ai dipinti succedevano le sculture, perocchè, parte in causa dell’abborrimento nutrito dai primi Cristiani contro le statue, parte per altri motivi, la statuaria fosse rimasta assai dietro alla pittura. Se pure in Roma, al principio del secolo ottavo, non si era peranco stabilita la consuetudine di trarre in processione simulacri scolpiti in legno, tuttavia v’era nelle chiese buona copia di statue del Redentore, della Vergine, dei Santi, modellate in oro, in argento, in bronzo; e, posteriormente al secolo quinto, la celebre statua in bronzo del san Pietro, dall’alto del suo trono torreggiava nell’atrio della sua basilica, e già fin d’allora sporgeva il piede al bacio degli adoratori, simile al celebre Ercole di bronzo del tempio di Agrigento, di cui si legge in Cicerone, che a furia di baci dei devoti aveva il mento levigato e rilucente[279].
[255]
Della celebre statua dell’Apostolo abbiamo già discorso a proposito della storia di Leone I, e qui la richiamiamo alla ricordanza, perocchè l’Imperatore, avverso alle imagini, segnatamente la togliesse di mira quale oggetto dell’ira sua, e papa Gregorio II la dichiarasse oggetto dell’amore fervidissimo di tutta Roma. Quel simulacro di bronzo aveva dai Romani venerazione di palladio, ed eglino vi nutrivano affetto pari a quello con cui i loro antenati pagani avevano difeso la statua della Vittoria. Il simulacro rappresenta l’Apostolo seduto, che alza la destra in atto di benedire, e nella sinistra tiene le chiavi. L’origine è incerta, ma antica; energiche ne sono le forme, belli i panneggiamenti. Se pure non meriti fede quanto si narra che questa statua sia stata fusa col bronzo del Giove Capitolino, o se pure v’abbia quasi la certezza che essa sia soltanto una statua trasformata di qualche imperatore o di qualche console, tuttavolta il suo stile non è bizantino, ma antico e bello, al pari di quello delle sculture dei migliori sarcofaghi cristiani o della statua di marmo del santo Ippolito che oggi si mira nel Museo cristiano del Laterano. L’Apostolo di bronzo allora s’ergeva nel convento di san Martino, presso la basilica di san Pietro.
[256]
La foggia ond’è per consueto rappresentato il principe degli Apostoli, colle chiavi nella mano, colla chioma breve e crespa a mo’ di lana, colla barba tagliata in tondo, a differenza del san Paolo, al quale si diede chioma liscia e lunga barba, potrebbe farsi derivare da questa statua del Vaticano, il cui tipo fu ognor conservato nell’arte[280].
Si era nell’anno 726 che Leone l’Isaurico promulgava il celebre editto, in cui ordinava che dalle chiese del suo Impero si bandissero tutte le imagini dei Santi[281]. Un’agitazione violenta scoppiava allora come turbine nell’Oriente e nell’Occidente. La moltitudine, che le forme materiali della figura scambiava con Dio stesso, si commoveva ad ira fanatica, e i preti innumerevoli [257] comprendevano che la podestà loro sovra il popolo in gran parte si raccomandava all’apparato del culto che operava sui sensi. L’Oriente e alcune province dell’Occidente si coprivano delle ruine di statue e di musaici fatti in pezzi, e le ombre degli ultimi gentili di Roma avrebbero potuto con maligno compiacimento contemplare tanta mutazione di cose. Però il Papa difendeva la mitologia cristiana, sorta dopo il tempo pagano, con fervore più vivo ancora di quello con cui Simmaco aveva combattuto contro gli Imperatori cristiani in favore degli idoli antichi e dell’altare della Vittoria. Anche a Roma Leone spediva il suo editto, e Gregorio con una bolla protestava che l’Imperatore non aveva autorità di comando in cose di fede, e che a lui lecito non era di contraddire ai decreti antichi della Chiesa. A quel diniego risoluto del Papa, Leone rispondeva emanando nuovi decreti, coi quali minacciava di deporre Gregorio, se ricusasse obbedienza. Ma Gregorio non cedeva; ammoniva con lettere i Vescovi e le città d’Italia a resistere contro gli intendimenti ereticali dell’Imperatore, e, per usar le parole del Libro Pontificale, s’armava contro lo Imperatore come contro un nemico. Le sue lettere pastorali operarono dappertutto effetti gravissimi. La Pentapoli e l’esercito dei Veneziani impugnarono l’armi e proclamarono di voler difendere il Papa. Gregorio vide destarsi in Italia la fiamma del sentimento di nazione; un cenno solo di lui avrebbe bastato a muovere tutto il paese a rivolgimento, ma motivi rilevanti lo inducevano ad impedire un’aperta sollevazione contro l’Impero. È cosa incerta se il Ducato romano veramente negasse di pagare il tributo all’Imperatore; sembra però che in [258] fatto Gregorio si opponesse a una nuova imposizione che vi ordinavano i Bizantini[282].
Roma e le province, dalle bocche del Po fino alle Calabrie, erano tutte in commovimento, e si schieravano intorno al Papa loro proteggitore e interprete de’ loro sentimenti di contro a Bisanzio. Alla notizia di quei fatti, l’Imperatore armava un naviglio, ma, prima ancora che questo mettesse alla vela per la foce del Tevere, volle liberarsi di Gregorio secondo la costumanza bizantina. Il duce Basilio, Giordano cartulario e Lurione suddiacono, insieme con Marino, che l’Imperatore in quello aveva mandato da Duce a Roma, tramavano di uccidere Gregorio, ma la repentina cacciata dell’ultimo di questi officiali mandava a vuoto l’attentato. Giordano e Giovanni furono fatti in pezzi dal popolo, e Basilio riuscì a salvarsi ricoverando in un convento. Frattanto Paolo, novello Esarca, veniva a Ravenna con ordine assoluto di soffocare a qualunque costo la sollevazione dei Romani. Egli spediva un esercito contro Roma, ma perfino i Longobardi di Spoleto e di Tuscia, indotti senza dubbio dal Pontefice a farsi alleati suoi, si levavano, proteggevano le frontiere del Ducato romano, e, uniti ai Romani, impedivano all’oste che s’avanzava di passare oltre ponte Salaro. I Greci tornavano indietro, e l’Esarca, contro cui il Papa scagliava la scomunica, era minacciato di pericolo dentro alle mura stesse di Ravenna. La Pentapoli apertamente gli negava obbedienza, le città tutte [259] del mezzo d’Italia cacciavano gli officiali bizantini, eleggevansi Duci loro proprî, e minacciavano di acclamare un novello Imperatore e di condurlo a Bisanzio[283]. Questo disegno è invero meritevole di nota, avvegnachè significhi che gli Italiani sollevati neppure remotamente pensavano a restaurare l’impero romano di Occidente, e nemmeno a dividere lo Stato. Gregorio però si opponeva a quel proposito, non tanto perchè sperasse nella conversione dell’Imperatore, quanto perchè temeva che una rivoluzione tanto violenta di cose desse Italia e Roma in balia dei Re longobardi. Ragione di utilità loro propria imponeva ai Papi di impedire che in Italia sorgesse una monarchia, e di tenere da sè lontana la sede della podestà civile. L’Imperatore che sedeva a Bisanzio, loro per certo era men pericoloso di quello che sarebbe stato un Re che avesse ridotto Italia a unità sotto il suo scettro e indi per necessità avesse preteso a Roma come a sua città capitale. Oltracciò, il Papa doveva schivare tutto quello che avesse potuto dargli sembianza di ribellione alla autorità legittima dell’Impero; laonde con prudente moderazione temperava la foga degl’Italiani, e gli ammoniva a non rompere la sudditanza all’Imperatore[284]. Per questo motivo tollerava in Roma la presenza [260] di Pietro, duce imperiale, sebbene lasciasse che i Romani nel palazzo dei Cesari l’assediassero, e indi lo cacciassero oppure lo trucidassero[285]. Può darsi che i Romani allora si eleggessero un Duce loro proprio, come le altre città italiane avevano fatto, ma non può certo darsi la prova che Roma solennemente proclamassero a republica, e che a loro capo temporale elevassero il Papa; ciò d’altronde sarebbe stato contrario all’arte politica di Gregorio[286]. Nel frattempo, Esilarato duce di Napoli, era entrato con sue soldatesche nella Campagna, e quivi dalle milizie romane era battuto e ucciso. La signoria bizantina si vedeva ben tosto ristretta al solo possedimento di Napoli, la quale, essendo città animata dal commercio che vi facevano i Greci, gli Ebrei e le genti del Levante, sarebbe stata a mal punto condotta se avesse perduto le sue relazioni coll’Oriente. Di qui l’antico esarca Eutichio tentava indarno di promuovere in Roma moti di reazione; un suo ministro ivi era colto; e se salvava la vita, dovevane gratitudine soltanto alla intercessione del Pontefice, la cui prudenza anche a questa occasione lo rivela statista perfetto. L’Imperatore istizzito incamerava adesso i redditi della Chiesa nell’Italia meridionale, e questo era il solo modo, ma fiacco [261] assai, con cui riusciva a vendicarsi del Papa. In Roma la sua influenza era spenta affatto; appena v’era chi parteggiasse pei Bizantini, e Gregorio II poteva reggersi da vero principe della Città, quantunque ei facesse le viste di non volerne essere altro che vescovo. Il rivolgimento contro gli officiali dell’Impero aveva qui operato un novello ordinamento di cose, e aveva dato vita a un reggimento cittadino, a capo del quale stavano i Judices de Militia. Roma ricomparisce adesso per la prima volta nell’aspetto di città independente da Bisanzio, con forme di republica aristocratica; oscuro ci rimane qualmente si attuassero, ma è probabile che la Città fosse retta da magistrati con nome di Console e di Duce, sopra i quali il Papa esercitava tacitamente la sua autorità. I Romani, che non volevano più star soggetti al reggimento di satrapi bizantini, riverivano invero pur sempre la podestà dell’Impero, ma si ponevano sotto la protezione del loro Vescovo potente, che difendevano con coraggio animoso contro l’Imperatore. Il Papa era capo naturale della nazione romana; di tal guisa, durante la controversia delle imagini, che nelle sue origini è coperta di un velame, in Roma e nel Ducato sorgeva quella podestà temporale del Pontefice, la quale col procedere del tempo assumeva vita e forme istoriche.
La controversia tuttavia continuava anche dal lato dommatico, e proseguivasi colla penna acerbamente. Abbiamo due lettere che Gregorio scriveva all’imperatore Leone nel tempo in cui fervevano i rivolgimenti di Roma. La lingua vi è zeppa di barbarismi, la forma rozza e acre per passione; l’ingegno colto di Gregorio I non avrebbe per certo scritto così. Ma quelle lettere di spiriti [262] ribelli, che il Vescovo romano indirizzava al sire dell’Impero, esprimono omai altamente il valore della legge gerarchica ond’erano poste le fondamenta; e la consapevolezza che ha il Papa della sua supremazia di capo della Cristianità, vi parla con ardimento sì risoluto, che i Pontefici dei tempi avvenire poterono torne i concetti a esemplare[287]; già vi si svela nei suoi primi tratti l’idea che informò il pontificato dei tempi posteriori, all’età di Gregorio VII e di Innocenzo III.
«A scriverti», dice Gregorio nella sua prima lettera, «dobbiamo usare di stile incolto e rozzo, perocchè tu sia uomo incolto e rozzo;» indi al demolitore delle imagini rammenta le tavole di Mosè, i Cherubini dell’arca dell’alleanza, e il dipinto originale del volto di Cristo, che il Redentore con un suo scritto autografo aveva mandato a re Abgaro di Edessa[288]; e gli dice, molte essere di quelle imagini alle quali accorrevano pie torme di pellegrini. Quei simulacri, soggiunge, non sono divinità, e neppure i Santi vanno come tali considerati; si invocano soltanto affinchè s’adoprino a intercedere presso di Cristo. «Redimi», così parla all’Imperatore, «l’anima tua dalle imprecazioni onde il mondo ti copre, perocchè perfino i bimbi irridano a te. Entra in una scuola di quelli [263] che sono ammaestrati dell’abbiccì, e di’ loro: io sono colui che abbatte e perseguita le imagini, e d’un tratto ti scaglieranno sul capo le loro tavolette da scrivere. Noi, che abbiamo da san Pietro potenza e autorità, volevamo infliggerti castigo, ma poichè tu stesso di maledizione ti sei coperto, basti essa sola per te e pei consiglieri tuoi». Nei tempi avvenire il Papa non avrebbe esitato di scagliare contro l’Imperatore l’anatema, ma in quell’età non osava ancora di far uso di quest’arme, che più tardi divenne tanto terribile: erano ancora lontani e di molto i tempi in cui si lanciava la scomunica contro Re possenti e contro Imperatori. Gregorio per altro, con sentimento della sua dignità, accennava alla ribellione delle province, e con sarcasmo diceva all’Imperatore che i popoli d’Italia irritati calpestavano con oltraggio i simulacri di lui; che, cacciati i ministri suoi, altri in vece di loro avevano eletto, e che erano venuti al punto di dare a Roma ciò che Bisanzio non aveva potenza di conservare. Indi proseguiva: «Tu tenti di metterci indosso paura, e dici: io manderò a Roma e farò abbattere la statua di san Pietro; anzi io mi voglio trarre in ceppi papa Gregorio, come un tempo Costante fece incarcerare Martino. Sappi peraltro, che se con audace tracotanza e con minacce a noi ti appressassi di troppo, noi non avremmo pur bisogno di scendere a siffatta pugna, perocchè, se il Papa si dilungasse da Roma e s’inoltrasse di soli ventiquattro stadi nella Campagna, ti gioverebbe badare donde spira il vento[289]». Indi Gregorio torna a parlare [264] della celebre statua del principe degli Apostoli, che l’Imperatore riguardava come l’idolo principale dell’Occidente, e s’accende a tale fervore da contraddire a sè medesimo. «Tutti i popoli d’Occidente», esclama, «mirano con venerazione e con fede a quello di cui tu, millantatore, ci minacci di distruggere il simulacro; mirano, dico, a Pietro santo, che tutti i reami occidentali onorano quale Dio in terra[290]. Desisti dai tuoi propositi; la tua violenza e la tua rabbia nulla possono operare contro Roma, nè contro la città sola, nè contro le sue marine, o contro i vascelli suoi. Tutto Occidente tributa venerazione al santo principe degli Apostoli; protestiamo che se tu manderai gente per atterrare l’imagine di lui, noi saremo innocenti del sangue che si spargerà e che ricaderà sul capo tuo. Noi riceviamo in questo momento dalle terre più remote dell’Occidente supplicazioni del così nomato Septeto, il quale, in nome della grazia di Dio, anela a mirare la faccia nostra, e chiede che a lui moviamo per amministrargli il santo battesimo: e noi vogliamo cingere i nostri lombi affine di non essere indotti a opere di negligenza.»
Non sappiamo a quale sconosciuto Re barbaro di Germania il Papa con quel nome accennasse; manifesto si è qualmente egli volesse significare all’Imperatore, [265] che la influenza della Chiesa si estendeva fino all’estremo Occidente, e che di qui stavano preparati tutti i popoli a difendere il Papa. E sembra che egli a quel battesimo associasse singolare importanza, perocchè egli ne discorra anche nella seconda lettera. Ai Franchi, che il succeditore di lui pochi anni dopo chiamava a proteggere Roma, Gregorio per fermo non pensava.
In una seconda scrittura, con migliore nesso logico di discorso, egli spiega la differenza che esiste tra la podestà spirituale e la temporale, o, come egli si esprime, tra il Palazzo e la Chiesa; e traccia i limiti dell’autorità del Giudice supremo che decide colla spada delle cose del mondo e punisce nel corpo gli uomini con carcere e con morte, e determina i limiti dell’autorità del Vescovo supremo che «inerme e indifeso» punisce coll’anatema l’anima peccatrice, non per ucciderla senza misericordia, ma per ricondurla alla vita divina. Qui si paiono per la prima volta nella storia dell’era cristiana queste memorande definizioni di Gregorio II, e determinano il momento in cui la podestà temporale si separò affatto dalla podestà spirituale, la Chiesa si distinse dallo Stato, e, quai due autorità disgiunte e diverse, si ersero l’una contro l’altra armate. Questo dualismo influente nella storia del mondo, che empiè la vita di tutto il medio evo e veramente dura anche ai tempi odierni, era stato ignoto all’Antichità; chè la Chiesa pagana, causa il politeismo ond’era frastagliata, null’altro fu che una forma di culto, allo Stato ossequiosa e da esso dominata. Quel dualismo era stato puranco ignoto a Costantino ed ai suoi succeditori, avvegnaddio, dopo che il Cristianesimo era divenuto religione dello Stato, andasse da sè che gli Imperatori [266] si reputassero, per natura delle cose, capi della Chiesa imperiale. Era questa una massima di diritto publico, e ravvisavasi così evidente che Leone l’Isaurico, non per soverchianza di despotismo, ma nella calma consapevolezza della maestà del suo impero, aveva scritto al Papa: «Io sono imperatore e sacerdote»[291]. Ed era questo motto che dava occasione a quelle gravissime dichiarazioni di Gregorio, e, quasi due mondi diversi, l’uno dall’altro separava l’ordine religioso dal politico, la Chiesa dallo Stato: così tutt’a un tratto si rivelava che nel lavorio di centocinquant’anni, appena avvertito nel mondo, la Chiesa romana coll’organamento gerarchico suo proprio, colla separazione da Bisanzio che aveva lasciato Roma in abbandono, coll’operosità teologica che si manifestava nelle lotte contro la Chiesa greca, coll’amor di nazione che si destava fra le genti latine, s’era elevata a podestà independente, nella quale adesso s’accentrava la vita di tutto l’Occidente.
Dell’acerba lotta che ferveva tra i due contendenti, tra l’Imperatore romano e il romano Vescovo, un terzo [267] in quel tempo avrebbe potuto ricavare grandissimo giovamento, se energia e genio gli avessero soccorso. Questi era Liutprando, re dei Longobardi. La meta elevata, a raggiunger la quale s’adoperavano i Principi di questo popolo germanico in cui già si iniziavano vita e costumanze romane, si era la conquista di Ravenna e di Roma. Se pur Liutprando non ravvolgeva in mente il disegno ardito di impadronirsi della corona imperiale, tuttavia gli sorrideva la speranza di restaurare il trono di Teodorico e di riunire sotto il suo scettro Italia tutta. Questo paese manifestamente si era scisso dall’Oriente greco, ai cui Imperatori omai mancava la possa di dominarlo. La nazione latina, che ormai cresceva robusta, dava presagio della possibile restaurazione di un reame nazionale romano, siccome aveva avuto esistenza fino ai tempi di Odoacre. Ma poteva il Papa volgere il suo sguardo ad un Re che era alle porte di Roma? Liutprando aveva bastante accorgimento per respingere le proposte seducenti di un’alleanza con Bisanzio, ed anzi con gioia vedeva agitarsi a sollevazione le province greche, e di certo in quella egli aveva avuto sua parte. Come dunque, nell’anno 727, Paolo esarca era stato trucidato dai Ravennati ribellatisi, il Re moveva contro Ravenna, e finalmente per via di tradimento entrava in quella celebre città ch’era la capitale dell’Italia greca[292]. S’impadroniva [268] tosto dopo delle città dell’Emilia e della Pentapoli, e penetrava anche nel Ducato romano, dove prendeva Narni e Sutri. Un suo movimento ardito su Roma avrebbe messo la Città nel più grave pericolo, ma con donativi, con lettere supplichevoli e con destre rimostranze diplomatiche Gregorio sapeva indurre il Re a ritornar sui suoi passi. Liutprando, principe cattolico, ispirato a sensi di pietà e inchinevole a subir l’influenza dei preti, non aveva animo adatto alla grande impresa, di cui le più favorevoli opportunità di tempo sembravano schiudergli l’agio. Nè soltanto dal Ducato si ritirava, ma perfino, operando per diritto di conquista, faceva donazione della città di Sutri al Pontefice, il quale in nome dell’apostolo Pietro levava sue pretese su quella legittima proprietà dell’Imperatore greco. Era questa la prima città che la Chiesa ricevesse in dono, laonde può dirsi che con Sutri fu posto il fondamento primo degli Stati della Chiesa[293].
L’astuto Gregorio avvinceva a sè dunque Liutprando per via di un trattato, nel tempo stesso in cui macchinava di torgli al più presto la Romagna. Ciò che un principe potente non osava di compiere, or tentava il Papa di conseguire; chè egli stesso aveva già agognato di fare dell’Esarcato il retaggio della Chiesa. Ormai i Vescovi romani palesavano in forme manifeste e chiare [269] quel disegno di ottenere il dominio d’Italia, che forse Gregorio Magno aveva presagito nella sua mente, seppure concepito per sè non l’aveva. L’intelletto politico di un Papa era più acuto di quello di un Re; il Papa la vinceva di furberia. Gregorio II si volgeva alla Republica di Venezia, che allora cresceva in bel fiore, e la eccitava a liberare Ravenna: i legati pontificî s’incontravano nella città delle lagune con quelli del greco Imperatore che v’erano venuti collo stesso intendimento. Il timore della potenza di Liutprando faceva che il Papa si ravvicinasse perfino all’Imperatore; e nelle lettere che indirizzava al Doge Gregorio non si vergognava di segnare con marchio di vitupero i Longobardi, appellando «gente infame» quegli alleati suoi, che erano cattolici fervidissimi e zelatori del culto delle imagini, laddove ai suoi nemici, all’Imperatore ed al figliuol di questo, Costantino Copronimo, dava nome di «signori e figli suoi»[294]: nè per fermo gli si fa oltraggio se si afferma che secretamente egli abbia eccitato i Duchi di Spoleto e di Benevento a ribellarsi contro Liutprando. Per tal maniera, da Gregorio II incomincia la storia di quell’arte [270] diplomatica dei Papi, che con lunga tradizione di scuola, divenne loro retaggio, e per destri accorgimenti superò le ragione politica di tutti i principi e di tutte le corti. Una flotta veneziana veniva innanzi a Ravenna, ne cacciava i Longobardi, e vi installava l’esarca Eutichio. Liutprando abbandonava allora le città marittime e le Romagne, ma, con opera pari ricambiando il Papa della fede mancata, conchiudeva con Bisanzio non soltanto la pace, ma un trattato d’alleanza; e tosto si univa all’Esarca primamente per punire i Duchi di Spoleto e di Benevento, indi per riconquistare Roma alla soggezione dell’Imperatore.
I due Duchi fecero sottomissione in Spoleto, ed il Re, spirante vendetta e seguìto dall’Esarca, comparve innanzi Roma e s’attendò nel campo di Nerone. Se ora la Città fosse divenuta conquista di Liutprando, è cosa probabile che le sorti di essa e quelle d’Italia e dei Papi avrebbero assunto indirizzo e forme differenti da quelle che ebbero. Ma sembrava che una forza arcana e fatale ravvolgesse Roma entro suoi scongiuri, e vietasse ai conquistatori germanici d’impadronirsi di quest’unica città, e di cancellarne i caratteri della storia universa del mondo che portava in fronte scritti. La fortuna e lo ingegno dei Papi furono in vero maggiori della fortuna e dell’ingegno di Cesare. In mezzo a quelle aspre difficoltà Gregorio moveva inerme e animoso al campo di Liutprando, e, non appena gli avea rivolto un discorso nello stile di Leone Magno, il Re, che pur era sdegnato per la grave offesa, era visto cadere sulle sue ginocchia; il fattucchiero sacerdotale adduceva tosto il nemico disarmato alla tomba dell’Apostolo, e il Re deponeva il [271] suo manto di porpora, e la sua spada, e la sua corona e tutti i suoi propositi arditi ai piedi del morto Santo. I preti esultanti di gioia inneggiavano col loro Te Deum al trionfo del Papa, si conchiudeva pace, si celebrava la riconciliazione, e, ai preghi di Liutprando, il Papa assolveva anche l’Esarca dall’anatema. Di tal guisa una brevissima ora decise dell’avvenire del Papato dominatore del mondo, e forse nella storia dei Pontefici quell’ora risplende ancor più vivamente che il leggendario pellegrinaggio di Leone ad Attila: di tal guisa, trecento anni prima del celebre avvenimento di Canossa, si svelava al mondo l’altezza cui era pervenuta la potenza misteriosa del Vescovo di Roma. La gente umana, smarrita in oscuri deliramenti, si prostrava davanti al sacerdozio della Chiesa, nella quale venerava la sola podestà divina che fosse sulla terra; e il capo venerato della Chiesa, nelle cui mani credeva che si accogliessero le benedizioni del cielo e i suoi anatemi mortali, le appariva come un essere santo, di natura sovraumana.
Liutprando, ammaliato e scosso nel profondo dell’animo, non entrò pure in Roma; umilemente sciolse il campo e partì per la via Flaminia. Di tal guisa la corona di Roma e d’Italia, che per un istante s’era librata sul capo di lui, sfuggì per sempre a quel Principe che non possedette il valore ardito ch’era necessario per conseguirla; e forse fu sventura di questo paese, di cui egli avrebbe potuto riunire le membra sparte. La genuflessione di Liutprando espiavano ben presto i successori e il popolo di lui, colla tragedia della loro caduta.
I conati di un usurpatore cagionarono a Liutprando [272] un’onta novella, avvegnaddio in tale travaglio fossero allora tutte cose, che invaghivano ogni uomo di spiriti audaci a strapparsi un bocconcello di signoria. Tiberio Petasio, duce di una città della Tuscia romana, aveva raccolto aderenti, e nell’anno 730 di repente si proclamava Imperatore. Il Papa tosto facea muovere l’esercito romano sotto la capitananza dell’Esarca, che tuttavia trovavasi in Roma, e la mozza testa del ribelle era mandata a Bisanzio. Gregorio pertanto si confessava ognor sempre soggetto alla podestà suprema dell’Imperatore; ei s’era rappacificato coll’Esarca, nè meglio vagheggiava che di ristabilire relazioni amichevoli con Bisanzio. Fra i motivi che ciò gli rendevano desiderato, non era soltanto la tema della crescente potenza dei Saraceni nelle Spagne, ma v’era per certo eziandio una cura più grave; perocchè pensasse, che ove caduta fosse la legittima autorità di governo, tosto o tardi egli stesso avrebbe dovuto entrare in lotta coi Romani. La Chiesa a quel tempo comprendeva che condizione essenziale della sua esistenza si era la conservazione della podestà dello Stato.
Gregorio II nel frattanto moriva addì 11 del Febbraio 731, dopo un reggimento di quindici anni, per grandi fatti memorando. Il clero ed il popolo con voto concorde eleggevano adesso un prete di origine assiro, che salì al santo seggio sotto nome di Gregorio III, nel giorno 18 del Marzo 731. Ciò che più ne aveva raccomandato la scelta, era forse la cognizione profonda del greco idioma, che per un Papa, nelle condizioni di quel tempo, aveva altissimo valore: tuttavolta, anche senza di ciò, Gregorio III era fornito di qualità eccellenti che [273] lo rendevano degno successore del secondo Gregorio. Questi gli trasmetteva, incarco gravissimo, il retaggio della controversia sulle imagini, la quale altro non era che un simbolo della lotta che s’agitava tra la Chiesa e il principio dello Stato despotico. Il primo ardore, fervido di passione, in quella controversia memorabile era ormai sbollito, e da una parte e dall’altra era sottentrata una specie di tregua, senza però che v’entrasse arrendevolezza. Non sì tosto però Gregorio III fu salito alla sedia di Pietro, si affrettò egli a indirizzare sue lettere all’Imperatore, professandovi le dottrine alle quali s’era ispirato il suo predecessore. Il nunzio che doveva recarle alla corte dell’Imperatore, tremando dell’ira di Leone, non osò di adempiere all’incarico, e, tornato a Roma, gettossi piangendo ai piedi del Papa. Ci vollero i preghi di un sinodo e della nobiltà romana perchè il Papa tramutasse in una penitenza ecclesiastica la deposizione del messaggero codardo, che aveva mostrato sì poca vaghezza di sostenere il martirio per la causa delle imagini sante. Il Cardinale fu costretto a partire di bel nuovo colle lettere pontificie per Bisanzio, ma, per buona sorte di lui, il Patrizio imperiale lo arrestò in Sicilia, dove un anno intero fu sostenuto prigione.
Addì 1 del Novembre 731, Gregorio III apriva un concilio; novantatre Vescovi d’Italia, il clero romano e i rappresentanti del popolo e della nobiltà, ai quali il Libro Pontificale a questo luogo dà appellazione di «Consoli,» si radunavano in san Pietro[295]. Il Concilio [274] pronunciava scomunica contro gli Iconoclasti. Le decretazioni del sinodo e nuove lettere del Papa furono affidate a Costantino defensore, affinchè le recasse a Bisanzio; ma anch’egli era incarcerato in Sicilia. Ivi furono trattenute puranco le suppliche colle quali le città del Ducato romano chiedevano che si tollerasse il culto delle imagini; e i latori di quelle istanze languirono per otto lunghi mesi nelle angustie dei carceri di Sicilia, donde furono poi cacciati con vitupero. L’Imperatore non voleva più accogliere da Roma legati, nè lettere. Peraltro la discordia con Bisanzio si restringeva alle cose di dogma religioso; il rivolgimento d’Italia s’era spento in sè stesso; l’autorità dell’Imperatore era dappertutto riverita, e il Pontefice stavasi con l’esarca Eutichio in relazioni ottime, sì che questi gli faceva un presente di sei preziose colonne di onice, che derivavano da qualche monumento romano anzichè da Ravenna[296]. Gregorio le adoperò ad abbellirne la Confessione del san Pietro: vi sovrappose delle travi cerchiate d’argento, sulle quali alcune imagini in cesello rappresentavano il Salvatore, gli Apostoli ed altri Santi. Ciò era fatto evidentemente a disfida contro gli Iconoclasti. E con quell’intendimento, a bella posta il Papa forniva le chiese di Roma [275] di simulacri di Santi e di reliquie, chè a Costantino Copronimo, figlio di Leone l’Isaurico, non bastava più la persecuzione delle imagini; egli osteggiava vivamente anche l’onoranza delle reliquie e il culto dei Santi.
Contrariamente agli editti di Bisanzio, l’arte or trovava in Roma novello alimento, e gli artisti con gratitudine dedicavano il loro ingegno al servizio della Chiesa che li proteggeva. Chi ragiona con calmo intelletto si dichiara senza dubbio dalla parte degli Iconoclasti di Bisanzio, che intendevano a purificare il culto della religione dello spirito, da tutto quello che vi si era introdotto di pagano; peraltro a più mite sentenza induce il pensiero che le arti sono pur sempre un bisogno dell’umanità. Presso i Greci antichi, del paro che presso i popoli cristiani, l’arte derivò dal culto dei templi e dalla religione. Per quanta repugnanza destino i subbietti ai quali l’arte s’ispirava in quei secoli barbarici del Cristianesimo, per quanto la sua forma appaia difettosa a noi che viviamo oggidì, tuttavolta essa ebbe altissimo valore per la cultura dei tempi suoi. Dalla rozza materialità della fede essa sollevò l’uomo alle spere dell’idea, ed eresse al di sopra di lui un regno del bello, in cui ogni tenebra si diradò e si ampliò nel senso arcano dei simboli; l’arte sola rimase conforto della immiserita gente umana, e, forma assisa sopra un raggio di luce, discese a temperare la notte della superstizione. La lotta dei Papi contro Bisanzio salvò l’arte nell’Occidente; e Italia, che serbò il politeismo insieme col culto delle imagini, ebbe tarda ma splendida scusa innanzi alla ragione offesa, allorchè diede al mondo le meraviglie del genio di Giotto, di Leonardo [276] e di Raffaello[297]. Nel tempo in cui durava la persecuzione delle imagini, molti artisti orientali venivano in Italia e a Roma, dove erano certi che loro si preparavano accoglienze ospitali. Eglino forse contribuirono a diffondere in Italia la secchezza dello stile dogmatico della pittura bizantina, e forse, colla confermazione di tipi tradizionali, impedirono il più libero svolgimento dell’arte occidentale. Gli Storici però tacciono delle scuole di pittura fuggitive d’Oriente[298].
Con pari alacrità, dal Levante si trafugavano anche molte imagini di Santi per salvarle in Occidente. Può darsi che molti di quei quadri antichissimi, anneriti e rozzi, effigiati del Cristo o della Vergine, che oggi miransi allogati nelle chiese di Roma, quivi al tempo della persecuzione trovassero rifugio; nè è inverosimile che fra essi pur fosse quell’effigie del Cristo «non fatta di mano d’uomo», che si serba nella cappella Sancta Sanctorum. È più facile che qualche Bizantino fuggente la recasse con seco, di quello che il quadro, sfuggendo in Costantinopoli di mano allo sventurato vescovo Germano, venisse a Roma sull’ala dei venti; fatto sta che qui esso venne, come vennero molti altri bozzetti dell’apostolo Luca, che dicevansi dipinti dal pennello invisibile degli angeli.
[277]
Gregorio III erigeva alcune chiese ed alcuni oratorî. Nel san Pietro edificò una cappella, che fece tutta coprire di pitture[299]. Fondò il convento di san Crisogono nel Transtevere, ed alzò dalle fondamenta la chiesa diaconale di santa Maria in Aquiro nel campo di Marte[300]. Ed una gran parte delle mura di Aureliano, al riparo delle quali il suo predecessore aveva appena posto mano, fe’ restaurare, provvedendo al dispendio del lavoro col tesoro della Chiesa[301]. Anche Centumcella cinse di nuove mura, per temenza dei Saraceni che già avevano invaso la Sardegna, e per sospetto eziandio di uno sbarco dei Bizantini. Si scorge chiaro che nel Ducato romano egli la faceva da principe.
[278]
L’imperatore Leone non aveva rinunciato al suo disegno di punire Roma e le altre province ribelli. Nell’anno 733, egli spediva una flotta sotto il comando dell’ammiraglio Mane, ma nel mare Adriatico essa si sommergeva sventuratamente. Allora l’Imperatore apprendeva tutti i patrimonî che la Chiesa romana possedeva nelle Calabrie e nell’isola di Sicilia, e dai quali ricavava un reddito annuo di trentacinque mila pezzi d’oro[302]. Numerosi beni teneva la Chiesa in Sicilia, e san Pietro possedeva puranco molti latifondi in quel di Napoli, a Sorrento e a Miseno, a Capua e a Napoli, e persino nell’isola di Capri[303]. La perdita della Chiesa fu di grave rilevanza; [279] essa però cercò di indennizzarsene in altre parti, e precisamente in quel tempo acquistò Castel Gallese nella Tuscia romana, di cui s’era impadronito il longobardo Duca di Spoleto e che or Trasimondo rendeva a Gregorio: il Libro dei Papi con singolarità di frase dice che egli congiunse Gallese alla Republica santa ed all’Esercito romano[304]. Quantunque il Pontefice di nuovo riunisse quella città al Ducato di Roma, che pur sempre apparteneva allo Stato (Respublica), tuttavolta egli volle assolutamente tenerla in conto di possedimento pertinente al territorio romano, ossia al più stretto circondario della Città. Quella ambigua espressione di Sancta Respublica può applicarsi parimenti al Ducato, su cui il Papa incominciava a muovere pretesa come a patrimonio di san Pietro, ed al Sacrum Romanum Imperium. I Papi con grande accortezza lasciavano che le forme dell’Impero romano continuassero in vita; laonde l’accrescimento della loro signoria sopra di Roma è ravvolto nella mezza luce di un’astuta arte diplomatica. [280] Eglino andavano debitori di quella podestà loro, alle condizioni di disordine tenebroso ond’era involta Italia, alla debolezza impotente di Bisanzio, ed all’arditezza e alla forza loro proprie. Liberarono Italia dal giogo dei Greci, e questa contrada riposero in alto luogo nella storia del mondo. Rialzarono la nazione latina dal suo decadimento, e Roma sede della Chiesa salvarono dalla sorte che divenisse città capitale dei Longobardi. L’incominciamento della podestà temporale del Papato s’associa al primo risorgimento nazionale d’Italia, e la storia di tutti i secoli successivi ci ammaestra che i Papi in Italia furono all’apogeo della potenza ogni qual volta alzarono il vessillo della nazione; debolissimi furono, quando lasciarono cadere a terra quella bandiera.
La cessione di Gallese fu conseguenza di un trattato segreto che s’era conchiuso tra Gregorio e il Duca di Spoleto. Trasimondo e Godescalco di Benevento cercavano loro prò nella confusione delle cose d’Italia, per rendersi independenti dal Re dei Longobardi: Gregorio dava loro mano, e gli eccitava a ribellione contro Liutprando di cui mirava a fiaccare la potenza. Come dunque il Re mosse contro Spoleto, Trasimondo, nell’anno 739, si ricoverò a Roma, dove cercò e ottenne la protezione del Papa. Liutprando entrò in Spoleto, e chiese che gli fosse consegnato il ribelle, ma il Papa e l’esercito romano, a capo di cui trovavasi l’ex-patrizio Stefano col grado di Duce di Roma, negarono di farlo. La menzione che si fa di questo Duce associato al Papa ed all’esercito romano, dimostra pertanto che in Roma anche allora trovavasi un officiale dell’Impero che teneva il reggimento del Ducato; e ci apprende inoltre che Gregorio operava [281] d’accordo coll’Esarca di Ravenna[305]. Conseguenza del diniego si fu che Liutprando invadesse il Ducato; prese Amelia, Orta, Polimarzio e Bleda; lasciò soldatesche a presidio di queste città; indi, nell’Agosto 739, tornossene a Pavia: nè è vero che assediasse Roma, e meno ancora, come fu asserito, che mettesse a sacco il san Pietro. Ed allora il Pontefice concesse al bandito Trasimondo il soccorso dell’esercito romano affinchè le sue terre nuovamente conquistasse; ed infatti nel mese di Dicembre, il Duca ebbe ricuperato Spoleto.
Dopo che Trasimondo coll’aiuto dei Romani e dei Beneventani fu rientrato nei suoi dominî, egli rifiutò di servire più oltre ai disegni del Papa, e massime di dargli aiuto a riconquistare le quattro città. Liutprando nel frattempo s’apprestava a nuova spedizione di guerra contro Spoleto e contro Roma, per la qual cosa il Papa era minacciato di pericolo gravissimo. Comprendeva egli che l’alleanza italica e bizantina non bastava a proteggerlo dalla giusta vendetta del Re Longobardo, e perciò si volgeva a Carlo Martello, che allora era il più potente uomo di tutto Occidente. L’illustre figliuolo di Pipino d’Eristallo, l’eroe di Poitiers, dal cui campo sanguinoso di battaglia egli aveva per sempre liberato dai Saraceni le terre dei Franchi, era il vero reggitore [282] di quel regno, quantunque avesse apparenza di ministro del Re fantoccio. Già da gran tempo i Papi avevano intento loro sguardi ai Franchi; ancor nell’anno 726, l’antecessore di Gregorio III aveva chiesto soccorso a Carlo Martello[306], ed ora Gregorio ne seguiva l’esempio. Ci rimangono due delle lettere che il Papa indirizzava al Principe franco[307]. Nella prima ei si lagna che Carlo non lo ajuti, che porga ascolto a false rimostranze di Liutprando o di Ildebrando nipote di lui, e che tolleri i movimenti ostili dei Longobardi, i quali con ischerno andavano vociando: «Venga pur Carlo, cui rifuggiste; ben venga coi suoi eserciti franchi; e, se valgono, vi salvino dalle nostre mani.» Di tal guisa si accenna a supplicazioni che ancor prima aveva fatto il Pontefice, ed a qualche messaggio di Liutprando. La prima lettera di Gregorio, che andò perduta, dev’essere stata scritta precisamente [283] nel tempo in cui il Re moveva guerra a cagione della lega coi ribelli di Spoleto e di Benevento; e le due lettere che si conservano, appartengono all’anno 739 oppure al 740, prima cioè che Liutprando prendesse le quattro città onde dicemmo, avvegnachè della loro conquista quelle lettere non facciano motto. Certo è che il Papa avrebbe alzato un gran gridio della perdita loro, laddove adesso non lamentava che la devastazione dei beni della Chiesa nel territorio di Ravenna, e il saccheggio del Ducato romano[308].
«Oh qual dolore sconsolato», sclama Gregorio nella prima lettera, «ci accora a cosiffatte accuse, dacchè sì illustri figli non ardiscono di soccorrere alla loro madre spirituale, alla Chiesa santa e al popolo che le appartiene[309]! Il principe degli Apostoli, colla potenza che Iddio gli concede, ben potrebbe, o diletto figlio, difendere da sè stesso la sua casa e il popolo suo, ma ei vuol mettere a prova il cuore dei suoi fedeli. Non prestare fede alle arti e alle suggestioni di quei Re, perocchè sia falso tutto quello che ti scrivono. Danno a pretesto che i Duchi di Spoleto e di Benevento sono ribelli, ma è menzogna: li perseguitano non per altro motivo fuor di questo, che nell’anno decorso eglino non vollero muovere in danno nostro, nè si indussero a [284] devastare le proprietà del santo Apostolo e a derubare il popolo suo; avvegnaddio quei Duchi dicessero: noi non pugniamo contro la Chiesa di Dio e contro il popolo che le appartiene; siam legati ad esso con un patto, e dalla Chiesa ricevemmo fede giurata. I Duchi sono presti ad obbedire secondo il costume antico ai Re, ma questi usano contro di essi persecuzione per cacciarli, per porre in loro vece dei Duci nella violenza maestri, per opprimere ogni dì più la Chiesa, per mettere a ruba la proprietà del principe degli Apostoli, e per condurre in cattività il popolo suo.»
Così scriveva il Papa per dare sembianze oneste alla sua alleanza coi ribelli, chè il fatto negare non poteva. Già appellava Roma e il Ducato col nome di popolo «pertinente» a san Pietro; di tal guisa, audacemente scaltro, introduceva nel linguaggio del diritto quel concetto nuovo. Pregava Carlo Martello di mandare un suo legato in Italia, affinchè delle necessità della Chiesa si convincesse; e lo supplicava che all’amore del principe degli Apostoli non preferisse l’amicizia del Re longobardo, ma imprendesse a difendere Roma. In pari tempo, per mezzo di Anchardo, latore della lettera, spedivagli il donativo pregevole onde da lungo tempo solevansi presentare i Principi cattolici, e che ora aveva significazione il doppio più importante; mandavagli cioè delle chiavi d’oro della tomba dell’Apostolo, a simboleggiare che di quel sacrario voleva farlo custode[310]. [285] Carlo Martello però non volle mischiarsi nelle cose di Italia, che era impresa rischiosa; e ciò anche per un senso di devozione al Re longobardo, cui legavanlo rapporti di personale amicizia; ed invero Liutprando non soltanto aveva fatto accoglienze paterne in Pavia al giovane Pipino, ma nell’anno 739 lo aveva ajutato a cacciare i Saraceni dalle Gallie meridionali.
Una seconda lettera inviava il Papa a Carlo Martello, ma indarno anche stavolta. Nè più nè meno di ciò contenevano quelle lettere di Gregorio III, soli documenti autentici di quelle pratiche del Papa, che più tardi dovevano recare conseguenze gravi sì, che occhio a mala pena poteva scernere. Vi si chiedeva solamente che il Principe franco prendesse a difendere la Chiesa di Roma contro Liutprando[311]; nè vi era fatto cenno di alcun dritto fuor dell’ordine comune, che il Papa venisse offerendogli sopra di Roma. Tuttavolta si affermò che Gregorio III avesse proposto di dare a Carlo Martello podestà efficace su Roma col titolo di Patrizio o di Console dei Romani; e questa opinione si raccomandò soltanto alla fede di un Cronista, che racconta, qualmente Gregorio, nell’anno 741, mandasse una seconda ambasceria a Carlo colle chiavi della tomba, colle catene di Pietro e con donativi cospicui, e che gli offerisse il consolato romano, cioè a dire, la assoluta giurisdizione [286] su Roma; avvegnacchè egli non volesse più prestar ossequio all’Imperatore[312]. Sennonchè una sì grave determinazione di cedere il patronato e l’autorità temporale su Roma ad un Franco, che sebbene possente e celebrato, non era dappiù che il ministro del suo Re, non è a reputarsi conforme all’arte politica di Gregorio, nè all’indole di quel suo tempo. Non sappiamo che cosa rispondesse Carlo Martello al Pontefice; dubbio non v’è che per mezzo di suoi legati ricambiasse l’ambasceria di lui, e si protestasse disposto a intraprendere officî di paciere fra Liutprando e Roma. Per altro il Re longobardo [287] proseguiva nel suo cammino contro di Spoleto e di Roma. In quello, passava di vita Gregorio III, addì 27 di Novembre dell’anno 741. Poco prima di lui, nel dì 22 di Ottobre, era morto Carlo Martello, e ai 18 di Giugno aveva finito di vivere Leone l’Isaurico: così la morte aveva rapidamente spazzato via un dopo l’altro i tre uomini maggiori di quell’età.
[289]
Morto Gregorio, la cattedra di san Pietro restò vacante quattro soli giorni; tutti i voti concordi si unirono ad eleggere Zaccaria, figlio di Policromio, ultimo siro o greco che abbia portato la corona pontificia. Sebbene all’Esarca si desse annunzio della sua elevazione al papato, nè di questo può dubitarsi, non si reputò più, ad ogni modo, necessario di attenderne la conferma. Il Libro Pontificale celebrò Zaccaria con lodi grandissime; e quantunque esso proemizzi la biografia di ciascun succeditore di Pietro con elogi gettati in una forma officiale, tuttavia l’onoranza tributata a Zaccaria è bene meritata, se si guardi ai benefizî che la Chiesa s’ebbe da lui; perocchè questo Papa abbia avuto un reggimento pacifico e fortunato di dieci anni, in gran parte dovuto alla energia della sua volontà, alla saggezza ed [290] alla facondia sua. Per i suoi tempi, Zaccaria dev’essere stato uomo di vasta erudizione; fu egli che tradusse in greco i Dialoghi di Gregorio.
Liutprando s’era proposto di riconquistare Spoleto e di punire Roma; laonde pel novello Papa era còmpito urgentissimo di allontanare questo pericolo. La morte di Carlo Martello e il disordine delle cose dei Franchi, il cui governo adesso era venuto in mano dei tre discordi figli di lui, Carlomanno, Pipino e Grifone, toglievano a Zaccaria qualsiasi speranza di ottenere ajuto da quel lato; nel tempo stesso non poteva egli neppur pensare di conseguire soccorso dalla parte di Bisanzio, e pertanto deliberava di entrare in accordi amichevoli con Liutprando. Fu conchiuso un patto; promise il Re di restituire le quattro città, ed il Pontefice abbandonò Trasimondo ed anzi associò l’esercito romano ai Longobardi per ajutarli a ridurre quel Duca a soggezione. Siffatto esito ebbe il trattato che la Chiesa aveva conchiuso con Trasimondo; quello stesso Duca che Gregorio già prima aveva fervidamente difeso dall’accusa di fellonia, adesso era dal succeditore di lui proclamato ribelle, era senz’altro sacrificato ad una ragione di interesse, ed anzi la forza delle armi romane adoperavasi per atterrarlo[313].
Come Trasimondo ebbe compreso d’esser perduto, si gettò a’ piedi del Re, e n’ebbe grazia, purchè, raso il capo, lo nascondesse sotto un cappuccio monacale. [291] Tosto dopo, anche Benevento cadeva sotto la spada di Liutprando, il quale, vincitore, tornava a Toscana, ma non faceva neppur mostra di voler restituire le quattro città. Zaccaria perciò partiva di Roma, e andava al Re per ammonirlo colla forza della sua parola affinchè adempiesse il trattato. Allorchè Liutprando seppe che a lui veniva il Pontefice, gli mandò incontro suoi legati affinchè lo accompagnassero a Narni; indi, con comitiva solenne di Duchi e con pompa guerriera, lo fe’ condurre a Terni (Interamnium) in quello di Spoleto, ove egli stesso stette ad accoglierlo presso la basilica di san Valentino. La eloquenza ammaliatrice del Papa otteneva pronta vittoria sull’animo pio del Re; Liutprando d’altronde era già fiacco per vecchiezza; restituiva Orta, Almeria, Polimarzio e Bleda, ma non già all’Imperatore greco loro legittimo principe, sibbene alla Chiesa, e confermava quella donazione con una scrittura che fu deposta nel san Pietro[314]. Questa fu la terza donazione che i Longobardi, per loro diritto di conquista, facevano al Pontefice. Zaccaria peraltro sapeva cavare al vecchio Re qualche cosa di più, e cioè il patrimonio della Sabina, che già da trent’anni era posseduto dai Longobardi, e i beni ecclesiastici di Narni, di Osimo, di Ancona, di Numana e di Valle magna presso Sutri, dei quali Liutprando s’era insignorito. E il Re suggellava la generosità fino a confermare una tregua di quarant’anni col [292] Ducato di Roma, e, ad instanza del Papa, dimetteva in libertà tutti i prigioni romani ossiano greci. Così grande era la arrendevolezza del Re, così grande il genio dei preti di Roma! Ogni morsello di cibo che Liutprando metteva in bocca alle mense del Papa, gli costava di scotto un tratto di territorio, ma almeno il vecchio Re, alzandosi di tavola, poteva sclamare con un gioviale sorriso: non ricordarsi di aver mai pranzato più lautamente[315]. Nel lunedì il Papa ripartiva, accompagnato da Agiprando, duca di Chiusi e da alcuni gastaldi che gli facevano la consegna delle quattro città. Zaccaria «colla palma della vittoria», rientrava nella Città, dove le acclamazioni del popolo plaudente gli significavano che Roma era proprietà del Pontefice. Nel san Pietro disse un sermone ai congregati Romani, i quali all’indomane tennero una processione solenne; movendo dal Panteon e attraversando il campo di Marte, vennero alla basilica del principe degli Apostoli, e quivi offrirono preci e grazie del risultamento grandissimo ond’era stata coronata l’opera del Papa.
Nel successivo anno 742, Zaccaria ripeteva il suo [293] viaggio, avvegnachè lo esigesse la gravezza degli avvenimenti. Infatti Liutprando, il quale aveva conchiuso una tregua speciale col solo Ducato romano (e ciò dimostra che egli lo teneva in conto di territorio independente), moveva adesso assalimento contro Ravenna, contro l’Emilia e la Pentapoli. Eutichio esarca invocava i buoni officî del Papa, e alle lettere di lui facevano seguito quelle di Giovanni arcivescovo di Ravenna, e i messaggi delle altre città minacciate. Zaccaria innanzi tutto tentava di cattivarsi l’animo di Liutprando per mezzo di suoi legati e di donativi, ma poichè ciò a nulla giovava, decise di andare egli stesso; e lasciato il governo della Città a Stefano patrizio e duce, si partì[316]. Il Re faceva di tutto per evitare l’incontro dell’ospite impetuoso, che già l’Esarca aveva accolto con ogni maniera di onori; ma nessun impedimento terreno poteva trattenere un Santo, cui per via una nuvoletta aveva protetto dagli ardori del sole, cui nel cielo precedeva ad annunciarlo una schiera di guerrieri di fuoco[317]. Giunto a Pavia addì 28 del mese di Giugno, il Papa entrava arditamente [294] in quella città capitale dei Longobardi. Dopo un lungo dibattersi, alla fine il Re era ghermito dall’arte del Pontefice, la cui facondia lo circuiva come per forza d’incantesimo; egli restituiva all’Impero di Grecia le fatte conquiste, e di Cesena e del suo territorio, onde trattavasi, riteneva in pegno soltanto una terza parte, obbligandosi di restituire anche questa alla Republica, tosto che di Bisanzio fossero tornati i legati ivi spediti per la pace[318].
Poco tempo era trascorso dacchè Zaccaria aveva fatto ritorno a Roma da questa spedizione gloriosa, quando morte il liberava dal suo nemico. Il magnanimo Principe longobardo trapassava di vita dopo trentadue lunghi anni di regno, e con lui tramontava per sempre la splendida stella del suo popolo. Pochi mesi dopo, la gioia di Roma crebbe ancor più, avvegnachè Ildebrando, nipote e succeditore di Liutprando, fosse cacciato del trono, e vi salisse Rachi, duca di Friuli. Zaccaria mandava auguri e gratulazioni al novello Re, di cui gli era ben noto il fervore per la fede cattolica, e da lui otteneva la conferma di una tregua di vent’anni per tutta Italia. Così nella caduta di Ildebrando, come nell’avvenimento al trono di Rachi, l’arte politica del Pontefice aveva avuto sua parte[319].
[295]
Le sorti d’Italia stavano omai strette in pugno del più fortunato dei Papi. Restaurata era la pace, più amichevoli che dianzi erano le relazioni con Bisanzio. Sebbene di fatto fosse independente, il Vescovo romano tuttavolta riveriva il potere legittimo dello Stato, che pur sempre era rappresentato in Ravenna dall’Esarca, in Roma dal Duce: e per fermo soltanto alle sollecitudini del Papa, l’Imperatore doveva esser grato se la sua autorità perdurava in quelle province d’Italia[320]. Nelle Bolle e negli Atti dei Sinodi si inserivano pur sempre i nomi degli Imperatori iconoclasti, e financo nel tempo posteriore, allorchè i Franchi ebbero assunto durevolmente il patrocinio della Chiesa, i Papi continuarono a render ossequio alla maestà e alla signoria suprema degli Imperatori[321]. Con vigilata prudenza eglino celavano alla cheta i loro disegni di signoria temporale, e i diritti o i possedimenti che acquistavano, ricevevano tuttora valida [296] conferma di esistenza giuridica per via dell’autorità dello Stato; Zaccaria anzi riceveva dall’Impero delle donazioni per diritto efficaci. Costantino V Copronimo, che or soltanto otteneva vittoria dell’usurpatore Artabasdo, di cui il Papa romano, senza prendersi cura del giure legittimo di successione, aveva inserito il nome negli Atti del Concilio avvenuto nell’anno 743, era fervente iconoclasta pari al padre suo; eppure ei si vedeva costretto a mostrarsi amico del Pontefice; e, a richiesta di lui, facevagli dono del territorio di due città, di Ninfa e di Norma nel Lazio[322].
La fortuna concedeva oltracciò a Zaccaria due trionfi ancor maggiori che accrescevano splendore alla Chiesa. Gli antecessori di lui, dall’alto della scalea del san Pietro, avevano fatto vedere ai Romani alcuni Re di Bretagna coperti della tonaca di novizî; adesso Zaccaria loro mostrava gli effetti che la forza mistica della Chiesa operava sopra due Principi possenti ancor più, che vestivano l’abito monacale.
[297]
Carlomanno, maggiore dei figli di Carlo Martello, nell’anno 747 deliberava di rinunciare alla possanza ed allo splendore della signoria principesca, e volle farsi frate. Bonifacio, l’apostolo della Germania, era stato una delle molle che avevano dato origine a questo dramma di pietismo, per effetto del quale Pipino diventava solo erede del padre, e Roma conseguiva preziosissima ventura. Carlomanno venne a Roma, gittossi ai piedi del Papa, e implorò in grazia che gli fosse concesso di recidere le chiome, di chiudersi nella cocolla monastica e di poter morire in qualche romitaggio romano. Zaccaria di buon grado a tutto questo consentiva, e quel Principe d’inferma fantasia recavasi in un eremo incantevole della Tuscia romana. Vent’otto miglia discosto da Roma, s’eleva solitario il monte Soratte, e domina la via Flaminia e il prossimo Tevere. Cancellate s’erano le classiche ricordanze che i pastori arpinati avevano serbato di quel monte, sacro al dio del Sole; appena v’era un Romano che alla vista di esso avesse saputo sovvenirsi dei versi che Orazio e Virgilio gli avevano dedicato[323], e più facilmente avrebbe saputo ripetere ciò che la leggenda narrava, che Silvestro vescovo, fuggendo prima che Costantino confessasse il Cristianesimo, s’era ricoverato colà da anacoreta, nascondendosi nelle grotte del monte[324]. Il luogo solingo, la [298] splendida bellezza della natura erano fatti apposta per la vita romita; ed ivi perciò fin dapprincipio sorgeva uno degli antichissimi conventi della Campania[325].
Quel sito selvaggio Carlomanno eleggeva a sepolcro della sua vita. Egli vi edificava un convento intitolandolo a san Silvestro, od altrimenti ampliava quello che già esisteva. Altri tre chiostri ei deve avervi fondato; quello di san Silvestro dura sul monte Soratte oggidì ancora[326]. Ma la positura del monte, prossimo alla via Flaminia, esponeva il monaco principe alle curiose visite dei nobili Franchi che peregrinavano a Roma, per la [299] qual cosa, alcuni anni dopo, egli si ricoverava tra i Benedettini di Monte Cassino.
L’età di allora tornava ad essere malata di fantasticherie mistiche. In tutti i luoghi si edificavano conventi, dappertutto si consecravano alla Chiesa e beni, e doni, e anime (pro salute o mercede animae). Nella potenza della Chiesa, che operava su tutte cose con forza d’incantesimo, siedeva lo spirito che animava il mondo a quel tempo.
Peraltro, se destava meraviglia l’intendimento di un Principe franco che si faceva monaco, quel fatto ricadeva nell’ombra innanzi a un altro tratto di abnegazione, mirabile ancor più. Infatti, anche Rachi si spogliava della porpora e la cambiava nel saio di san Benedetto. Quel Re, nell’anno 749, aveva rotto la pace; aveva minacciato la Pentapoli e stretto d’assedio Perugia. Zaccaria, rimesse in movimento sue arti, andò a lui come era ito a Liutprando e non appena il pellegrino, cui nulla resisteva, ebbe soggiornato alcuni dì nel campo di Rachi, questi che era uomo pio altrettanto che inetto principe, protestò di voler dimettere la corona.
Rachi, Tasia moglie sua di nazione romana, e Rotrude figliuola di lui, deponevano sulla tomba di Pietro le loro vestimenta regali, e dalle mani del Papa ricevevano mantello e velo monastico. Eglino pure andavano a Monte Cassino, dove il Principe dei Longobardi, trattando la marra in un vigneto del chiostro, si confortava alla vista del franco Carlomanno, allorchè lo scorgeva attendere umilmente a vili officî di servo: le donne regali scomparivano dietro la soglia di un vicino convento di monache[327]. Ma il pentimento che più [300] tardi incoglieva Rachi di quel suo proposito, significa manifestamente che egli di sua libera volontà non aveva operato; e forse l’orgoglio di nazione dei Longobardi s’era sollevato contro la fiacchezza di lui e contro i sentimenti propensi ai Romani che egli coltivava nell’animo: era avvenuto precisamente come allora che il popolo goto s’era ribellato agli Amalî, favoreggiatori di Roma. La nazione longobarda intendeva a romperla con Roma, ed a fondare un reame italico sotto lo scettro dei suoi Re[328]; laonde il popolo fu ben lieto di porre nel luogo di un uomo imbelle un guerriero ardito, che era pronto a mettere in opera quei gagliardi disegni.
Astolfo, fratello di Rachi, saliva al trono di Pavia col fermo proposito di raggiungere quella meta donde il Papa, col terrore di sue minacce, aveva rimosso l’animo mite del suo antecessore; pertanto i suoi intendimenti ostili costringevano il Pontefice a riannodare tosto relazioni coi Franchi. Dopo la morte di Carlo Martello, il Papa non le aveva più coltivate, ed anzi avea smesso ogni pensiero di una intervenzione franca[329]. Un avvenimento [301] importante mutava adesso d’un tratto la faccia delle cose, e su Roma e su Italia operava conseguenze gravissime.
Pipino, che serrava in mano tutta la potenza del reame dei Franchi, dopo di aver messo da banda i suoi fratelli, era divenuto unico erede dei possedimenti e delle mire dell’illustre padre suo; ed ora vedeva giunto il tempo in cui gli era concesso di impadronirsi della corona regale. L’antica stirpe dei Merovingi era precipitata in decadimento profondo; e Childerico III, ultima ombra di re, vana fuorchè nell’aspetto, non era altro che un fantoccio dispregiato nel reame. Una mutazione palese dinastica che Pipino da lungo tempo andava preparando, stava ora per compiersi audacemente; ma conveniva che l’usurpazione fosse giustificata dalla sentenza favorevole del Pontefice, oracolo del volere di Dio. Un popolo libero aveva buon diritto di torre la corona del suo paese dal capo di un uomo inetto per darla al valoroso figliuolo di un eroe, senza badare alla lunga serie di antenati e di ombre che se l’avevano tramandata; ma la coscienza dei grandi e dei piccoli si travagliava nel dubbio se un giuramento potesse infrangersi, e Pipino aveva bisogno di acchetare gli scrupoli popolari. Nell’anno 751, egli mandava a Roma Burcardo vescovo di Virzburgo e Folrado abate di san Dionigi, per chiedere al Papa, se il popolo dei Franchi, volendo deporre dal trono l’inetto Childerico e gridar re il suo glorioso Duca, potesse essere sciolto del [302] giuramento. Zaccaria comprese tosto l’alta importanza di quella domanda, e rispose affermando; ammise che l’origine di ogni potere, anche di quello regio, siede nel popolo, ma subordinò quel diritto alla conferma pontificia. Non era soltanto il timore di Astolfo che lo induceva a riverire come re un usurpatore del trono; ei coglieva anzi tutto quella opportunità per pronunciare che a lui di diritto si spettava l’officio altissimo di giudice supremo fra re e popoli; per lo meno quell’officio ei si prendeva, dal momento che offerto gli era. Di tal guisa, la necessità che era imposta all’ambizione di un usurpatore, innalzò al di sopra d’ogni limite la potenza del Vescovo romano; quel breve istante fu uno dei momenti più importanti nella storia del papato; lo sgraziato esempio operò per lunghi secoli effetti grandissimi, e diede agio ai Pontefici di bandire il principio, che per la grazia di Dio loro si competeva l’autorità di dare e di togliere corone[330].
È cosa probabile che Zaccaria continuasse a vivere ancor dopo l’incoronazione di Pipino a re dei Franchi. Il Papa moriva addì 14 di Marzo dell’anno 752: sembra che, poco tempo innanzi nella assemblea di Soissons, Pipino fosse consecrato re dal vescovo Bonifacio legato del Pontefice, e cingesse il capo del diadema di Childerico, dopo di aver chiuso fra le mura di un convento quell’ultimo discendente di Clodoveo[331].
[303]
Quantunque il governo di Zaccaria durasse dieci anni lieti di pace, tuttavia egli lasciava in Roma pochi monumenti che del suo pontificato facessero ricordanza. Massima cura egli dedicava al palazzo Lateranense, sede del Patriarcato; chè la dimora dei Papi meritavasi di essere adorna con maggiore splendidezza, adesso che la loro potenza era cresciuta così tanto. I palazzi Lateranensi, che si appoggiavano con istretta aderenza alla basilica di Costantino, erano stati costante dimora dei Papi, da Silvestro in poi. Essi costituivano il vero punto di mezzo del loro governo così spirituale che temporale, laddove il Vaticano era centro del culto, ossia era sede del principe degli Apostoli. Il palazzo patriarcale conteneva gli archivî e gli scrigni della Chiesa, ed era stanza dei Papi e della loro corte. Ampliato poco a poco, oltre alla grande basilica comprendeva in sè parecchie chiese minori, molti oratorî e triclinî o refettorî, parecchie cappelle, tra le quali quella celebre del palazzo papale, di san Lorenzo, detta più tardi Sancta Sanctorum. In vicinanza assai prossima erano il battisterio, i conventi di Giovanni Battista e dell’Evangelista, quelli dei santi [304] Andrea e Bartolomeo, e probabilmente ancora un terzo dedicato a santo Stefano ed un quarto consecrato ai santi Sergio e Bacco. Di tal guisa, tutti questi edifizî, come oggidì il Vaticano, formavano per sè soli una piccola città, che aveva aspetto di un labirinto[332].
Zaccaria aggrandì le case patriarcali e le rese più magnificamente ornate. Fabbricò un portico guernito di una torre innanzi alla fronte del palazzo, e l’edificio più tardi fu di preferenza appellato palazzo di papa Zaccaria, e, nel linguaggio popolare, «casa maggiore»[333]. Il portico fu adorno di pitture; da esso si saliva alla torre, dove trovavasi un triclinio in cui erano dipinti a colori i paesi della terra[334].
Nuove chiese Zaccaria non edificò, ed occorre principalmente osservare che l’architettura in Roma da qualche tempo in poi non creava più nulla di grande. S’era continuato fino al secolo settimo a riempiere la Città di chiese; laonde s’aveva adesso bel fare soltanto a conservare quelle esistenti. Zaccaria restaurava santo Eusebio sull’Esquilino, e altre basiliche forniva di arazzi di seta, [305] che servivano da copertura degli altari o da cortina negli intercolunnî delle navate. Con quelle drapperie si iniziava un lusso sontuoso; la loro opera pesante di arte bizantina si conformava al gusto della età dei musaici. Sovra di esse si rappresentavano fatti biblici, e il Libro dei Papi con minuta particolarità ci racconta che sul pallio d’altare, che Zaccaria facea intessere per il san Pietro, era istoriata in ricamo d’oro la nascita di Cristo[335].
Zaccaria ebbe merito di fervide cure rivolte alla coltivazione della campagna di Roma, omai insalvatichita. Dappoichè la Città da gran tempo aveva perduto i modi di trarre derrate dall’Africa, ed era stata adesso rapita dei suoi granai di Calabria e di Sicilia, doveva star molto a cuore dei Pontefici di accrescere i suoi redditi agricoli. Gli sparsi possedimenti della Chiesa fornivano provvisioni, che ricavavansi di Toscana e del Lazio; ma il bisogno cresceva, chè la popolazione di Roma si faceva più numerosa, e molti abitatori delle campagne ricoveravano nella Città, messi in fuga dai Longobardi. La Campagna non era allora in istato così deserto e brullo come è oggidì; tuttavia con immensa rapidità crescevane la desolazione, perocchè le proprietà libere mancassero. La Chiesa per fermo, con sue compre e colle donazioni che riceveva, allargava ognor più il suo possedimento di terre, eppure essa non poteva sopperire a quanto era necessario, poichè non provvedeva in grandi proporzioni alla fondazione di colonie; e ciò che fecero [306] a questo riguardo Zaccaria e, più tardi, Adriano I, fu opera particolare di loro, e non s’ebbe imitatori[336]. Zaccaria fondò cinque così appellate Domus cultae, ossiano masserie, nelle quali avevano albergo i coloni che lavoravano le campagne circostanti. La prima colonia fu Laurentum, colla Massa Fontejana: denominata Paonaria, era situata nel territorio dei Laurentini, che si estendeva dalla foce del Tevere fino ad Anzio; ciò fa supporre che l’antica Laurento fosse spopolata, e che il Papa s’industriasse di rianimarla a vita con una colonia[337]. La seconda di queste, era detta di santa Cecilia da un oratorio esistente in quel borghetto, ch’era situato presso alla quinta pietra miliare, lungo la via Tiburtina.
Quattordici miglia discosto da Roma, nel patrimonio di Tuscia, Zaccaria impiantò una terza colonia che non fu denotata con nome speciale; finalmente egli acquistò Anzio e Formia, che stavano, non v’ha dubbio, nel territorio delle antiche città di questo nome.
A succeditore di Zaccaria era scelto Stefano prete, ma questi passava ad altra vita tre soli giorni dopo la [307] sua elezione; ed allora alla cattedra santa saliva Stefano II, romano di nascita[338].
Col reggimento di questo Pontefice, che ebbe animo adatto alle grandi faccende, incominciò per Roma un periodo nuovo. Poco tempo innanzi re Astolfo aveva conseguito quello cui i predecessori di lui vanamente avevano inteso i loro sforzi. La sede del reggimento bizantino in Italia era caduta in suo potere, e già addì 4 del Luglio 751 egli avea potuto promulgare un regio editto dal palazzo della conquistata Ravenna[339]. Eutichio, ultimo degli Esarchi, era scomparso, e l’imbecille governo dei greci eunuchi finiva per sempre, dopo due secoli di esistenza. Di qui derivarono conseguenze importantissime; perocchè or fosse a risolvere la questione, se il Re dei Longobardi dovesse o no diventare il padrone d’Italia tutta. Conquistata Ravenna, Astolfo tosto moveva verso il mezzogiorno per impadronirsi di Roma, del Ducato e di tutte le province che ancora restavano ai Bizantini, sulle quali ei vantava pretesa, quale succeditore dell’Esarca o dell’Imperatore. Ma Stefano, per mezzo di suoi legati, riusciva a rattenere il cammino dell’esercito (nel Giugno dell’anno 752); [308] il Re infatti cedeva, e financo giurava una tregua di quarant’anni col Ducato romano. Ma quattro soli mesi dopo ei si pentiva di sua debolezza, e chiedeva un tributo annuo di un soldo d’oro per ciascuna testa di Romano, e protestava di voler riunire al regno suo la Città[340].
A rimuovere il pericolo di quella minaccia Stefano inviava a lui gli abati di Monte Cassino e di san Vincenzo sul Volturno, nel ducato di Benevento, che erano i due conventi più illustri di Benedettini che fossero in quel tempo in Italia. Il Re non gli accoglieva, ma li rimandava ai loro chiostri con divieto di vedere il Papa[341].
Nel frattempo l’Imperatore bizantino, atterrito della caduta di Ravenna, domandava che gli fosse restituito l’Esarcato tolto al suo Stato, ma ciò non chiedeva con forza d’armi, sibbene per lettere, di cui Giovanni silenziario veniva latore al Papa ed al Re longobardo. Stefano inviava quel legato ad Astolfo insieme a Paolo fratello suo, ma, com’era a prevedersi, la ambasceria non otteneva risultamento di sorta. Grave ognor più si faceva il [309] pericolo; il Papa esortava l’impotente Imperatore, suo signore supremo, a mandare un esercito che salvasse Roma, e colle armi togliesse Italia alle mani dell’inimico[342]; chè Astolfo con impetuosa violenza esigeva dedizione senza patti, e minacciava di trucidare tutti i Romani, se fosse costretto a prendere d’assalto la Città.
Premuto da difficoltà sì angosciose, Stefano congregava il popolo, e, come il magno Gregorio aveva fatto in condizioni pari, lo ammoniva con prediche; nei Romani ridestava sentimenti di pietà e di amore di patria; bandiva letanie che movevano in pellegrinaggio a santa Maria Maggiore, e il Pontefice in persona le guidava, portando sugli omeri l’imagine del Redentore «non fatta di mano d’uomo»[343]. Alla croce che la processione alzava in vessillo era attaccata la scritta con cui Astolfo avea promesso pace; e ciò per prendere [310] Dio e il popolo a testimonio dello spergiuro di quel Re. Ma Stefano non si contentava di sole processioni; prima ancora che Costantino avesse dato risposta al legato suo chiedente soccorso, egli avea compreso che l’Imperatore non era in condizioni da mandare in Italia un esercito, e da imprendere di nuovo la conquista che Giustiniano in altri tempi avea fatto. La storia d’Europa avviava oggimai le sue correnti verso Occidente, a que’ popoli germanici ch’erano poderosi di forza e di vita; furono lasciati i Bizantini a lambiccarsi il cervello in loro sofisticherie dogmatiche, e a combattere loro lotte coi Maomettani; e Roma, partendosi dai Greci, si gettò in braccio ai Franchi.
A Stefano sovveniva ricordanza delle relazioni che il suo antecessore aveva stretto col reame di Francia, la cui corona Pipino di recente s’era posta in capo coll’adesione del Pontefice. Il pericolo che incalzava lo costringeva a compiere un fatto i cui splendidi risultamenti egli allora divinar non poteva. Per mezzo di un pellegrino mandava secretamente sue lettere a Pipino richiedendolo di ajuto ed esprimendo il desiderio di aver con lui un abboccamento: questa prima lettera, che fu scritta nell’anno 753, malauguratamente ci andò perduta. Il nuovo Re dei Franchi, cupido d’imprese, colse con gioia una proposta che gli dava l’opportunità di annodare importanti associazioni coi paesi esterni, e che poteva essere d’immenso vantaggio allo svolgimento della potenza del suo regno. Egli inviava pertanto di Gorizia a Roma l’abate Drottegango perchè trattasse col Pontefice, e tosto dopo gli spediva Autari duca e Crodegango vescovo di Metz, affinchè facessero scorta [311] sicura al Pontefice fino in Francia[344]. L’usurpatore del trono di Childerico sentiva bisogno di ottenere consecrazione solenne dalle mani proprie del Papa, affine di acchetare il mormorio di querela, che continuamente serpeggiava in mezzo ai Franchi. Da una parte e dall’altra s’intrecciavano fra loro ragioni di necessità e di gratitudine di quei due uomini, del Papa da un lato che si faceva ribelle alla autorità legittima dell’Imperatore, e di Pipino dall’altro che aveva usurpato la corona legittima del suo Re. Quelle ragioni mettevano capo a plasmare omai con forme nuove la storia dei popoli, e, a successione di quei rapporti d’alleanza che si costituivano fra Roma bisognosa di soccorso e la giovane dinastia dei Carlovingi, facevasi innanzi l’Impero germanico romano, che ben presto doveva derivarne come risultato. Il progressivo svolgimento di questo sistema ecclesiastico politico, sorto da umili inizî e da necessità temporanee, forma una delle pagine feconde di massimo ammaestramento nella vita pratica della storia del mondo.
Roma era in balia di una trepidanza profonda. Trattavasi nientemeno che di dar formalmente al Re dei Franchi un’autorità di patrocinio sulla Città con titolo di Patrizio, e di sgombrare così a quel Principe straniero una via di potenza in Italia ed in Roma. Troppo grave era quel fatto perchè il Papa potesse compierlo di suo arbitrio e sotto la sua sola malleveria. Non v’ha dubbio che ei ne sottopose le proposte alla deliberazione del popolo [312] romano, dell’esercito e della nobiltà, congregati a parlamento; e da essi ottenne l’incarico di conchiudere un trattato con Pipino, dopochè i Romani lui avevano eletto a loro patrizio. Il viaggio del Papa nella terra dei Franchi era un avvenimento che non avea riscontro d’esempli; ben è vero che i suoi predecessori erano iti a Bisanzio allorchè l’Imperatore colà gli avea chiamati, ma non peranco mai un Vescovo romano aveva valicato le Alpi per andarsene ad un popolo germanico dell’Occidente. Nell’autunno dell’anno 752 Stefano stava preparandosi al viaggio, quando, coi suoi legati, giungeva di Bisanzio il silenziario Giovanni, ed, invece di ajuto di armi, egli recava da parte dell’Imperatore comando al Pontefice affinchè questi in persona si recasse alla corte di Astolfo e lo inducesse a restituire l’Esarcato[345]. Non è facile che Stefano desse al greco ambasciatore contezza di ciò che stava negoziando con Pipino, i messi del quale, Autari e Crodegango, or dovevano accompagnarlo nel viaggio che verso di lui imprendeva. Il Papa toglieva con sè quei legati, il ministro imperiale, parecchi illustri officiali della Chiesa ed alcuni maggiorenti della milizia romana per andarsene anzi tutto ad Astolfo; partiva infatti di Roma, addì 14 di Ottobre, munito di un salvacondotto del Re longobardo. Allorquando il predecessore di lui era mosso a Liutprando, aveva affidato a un Duce il reggimento della Città; adesso Stefano raccomandava «tutto il popolo del Signore alla guardia del Salvatore e di Pietro principe degli Apostoli»[346]. Non [313] v’ha dubbio ch’egli affidava il governo delle cose ecclesiastiche a un Vicario, nel tempo stesso che un Duce od un Console eletto dai Romani assumeva il reggimento temporale.
Prima che Stefano, camminando attraverso le soldatesche longobarde che tenevano occupato il Ducato, giungesse a Pavia, il Re con suoi comandamenti lo ammoniva che non s’avvisasse di fargli motto di restituzione dell’Esarcato e delle altre città dell’Impero; rispondevagli il Papa, essere infruttuosa cosa il tentare d’intimorirlo. Egli colmava il Re di donativi e di preghiere, e queste con mesto aspetto il Silenziario imperiale raccomandava. Astolfo faceva il sordo ai loro detti, e neppure voleva concedere al Papa che passasse in Francia, ma i legati di Pipino con risolutezza chiedevano che il consentisse. Il Re presentiva le conseguenze che sarebbero derivate da quel viaggio, eppure impedirlo non potè. Stefano partì di Pavia, addì 15 di Novembre dell’anno 752, con accompagnatura di vescovi e di cardinali, e certo anche di maggiorenti romani che andavano da plenipotenziarî della nobiltà e del popolo. Con rapido cammino giungeva il Papa ai passi delle Alpi; al chiostro di san Maurizio, dove trovarsi dovea con Pipino, gli venivano incontro soltanto, legati di lui, Folrado abate e Rotardo duca, e lo invitavano a proseguire la via in Francia, dove avrebbe raggiunto il Re al castello di Pontigon (Pons Hugonis)[347]. Ivi infatti egli era accolto con [314] ogni sorta di onori dall’intiera famiglia regale, addì 6 del Gennaio 754, ed era condotto a Parigi, dove prendeva stanza nel convento di san Dionigi. Del nome di Parigi a quest’occasione per la prima volta fa cenno il Libro dei Papi, e ci è duopo trascorrere un periodo di più che mille anni per rilevare di bel nuovo i tardi effetti del viaggio di Stefano: gli è al tempo in cui papa Pio VII se ne va a Napoleone usurpatore, e sono quasi identici gli scopi che a questo viaggio altresì davano la ragione.
Stefano consecrò il re Pipino, la donna sua Bertrada e Carlo e Carlomanno figliuoli di lui, e sotto pena di anatema proibì al popolo franco di eleggersi mai a suo re uomo che fosse di stirpe diversa dalla famiglia dei Carlovingi, di cui adesso la Chiesa proclamava legittimo l’impero. L’animo riconoscente di Pipino non si restrinse a vane parole di grazie. Nel castello Carisiaco, ossia di Kiersy, si pattuì ciò che avrebbesi fatto dell’Esarcato e della Pentapoli, non appena queste province greche fossero state colla forza delle armi strappate ai Longobardi[348]. Pipino conchiuse una specie di trattato [315] colla Chiesa romana e col capo suo; per sè e pei successori suoi fece sacramento solenne di provvedere alla difesa ed all’incremento della potenza della Chiesa; il Papa d’altra parte promise che nè egli, nè i suoi successori abbandonerebbero mai la novella dinastia: fu conchiuso così un patto reciproco offensivo e difensivo[349]. L’autorità suprema dell’Imperatore bizantino era, come norma di principio, ammessa tacitamente, ma non pertanto Stefano eleggeva il Re dei Franchi a difensore della Chiesa e delle sue proprietà temporali. Di tal guisa ei si arrogava audacemente i diritti dell’Imperatore, e insigniva Pipino ed i suoi figli di quel titolo di Patrizio dei Romani, che fino a quel tempo aveva appartenuto all’Esarca. Ma per questo s’era già innanzi raccolto il voto dei Romani; la proclamazione di Pipino a patrizio non poteva essere un atto che dipendesse dalla volontà sola del Papa, sibbene il risultamento della deliberazione di tutto il popolo romano; Stefano recava quel voto con sè in Francia, ove lo accompagnavano alcuni ottimati di Roma, e Pipino senza titubanza accettava la sua elezione a patrizio dei Romani. Indi in poi, per un corso di secoli, il titolo di «Patrizio» fu per Roma di [316] somma importanza. In origine quel predicato non aveva significato propriamente un officio; soltanto dopo di Costantino era stato una dignità ragguardevole che durava a vita, e che si largiva anche a Re barbari. Sembra che, dalla erezione dell’Esarcato in poi, quel titolo gli Esarchi a preferenza assumessero; ad esso più tardi si aggiunse il concetto che fosse còmpito del Patrizio di sopravvegliare all’elezione pontificia e di avere l’avvocazia della Chiesa. Le relazioni in cui il Principe dei Franchi trovavasi con Roma, col Ducato e coll’Esarcato, furono perciò espresse con quel titolo romano, ma cosa meravigliosa si è che le Lettere Pontificie ad esso non associno mai il concetto di «Difensore.» Infatti non vi si fa mai cenno che il Re abbia obbligo di difendere Roma per suo ufficio di patrizio dei Romani; la ragione politica dei Papi derivò invece quest’obbligo soltanto dalla missione che Dio avea imposto al Re, e di cui era simbolo la consecrazione; perlomeno fe’ discendere quell’obbligo indeterminatamente dal trattato conchiuso con Stefano; e sembra che avvisatamente i Papi intendessero ad escludere la vera significazione del Patriziato, poichè volevano che questo fosse riguardato non già come un diritto politico, ma come un titolo onorifico, precisamente nel modo stesso con cui altra volta Clodoveo, Odoacre e Sigismondo principe de’ Burgundi lo avevano tenuto, in segno dell’onoranza loro conceduta dagli Imperatori[350]. Primo fu Carlo [317] magno ad appellarsi nei documenti Patricius Romanorum, Defensor ecclesiae; ed un formulario dei tempi posteriori esprime manifestamente la connessione dei due concetti. Lo si trova nella «Graphia dell’aurea città di Roma», che è una scrittura la quale risale alla seconda metà del secolo decimo, e contiene le discipline ceremoniali con cui l’Imperatore dà l’investitura ad un Patrizio. Allorchè questi è eletto, bacia in prima i piedi, le ginocchia e la bocca all’Imperatore, indi dà il bacio a tutti i Romani, i quali tutti sclamano: «Benvenuto sii!» E l’Imperatore gli dice: «Troppo grave fatica ci sembrò di dover adempiere da soli all’officio che Dio ci affidò. Te perciò togliamo in aiuto nostro, e ti impartiamo questo onore, acciocchè tu faccia giustizia alle chiese del Signore ed ai poverelli, di che indi dovrai rendere ragione al giudice supremo;» indi lo veste del manto, gli pone l’anello nel dito indice della destra, e di propria mano gli porge una pergamena su cui sta scritto: «Sii Patrizio pietoso e giusto.» Poi gli [318] impone sul capo un cerchio d’oro e lo congeda[351]. Dobbiamo credere che Pipino non sarà stato investito del patriziato con formula simigliante; però un pari concetto di costituire un proteggitore alla Chiesa producevasi alla mente di papa Stefano, sebbene ei cercasse di impedire che al patriziato dei Franchi si congiungesse quella diretta podestà su di Roma, che gli Esarchi avevano posseduto. Ma poteva forse avvenire che Pipino si stesse contento ad un titolo vano, che a lui costava molto, senza ch’ei pretendesse alla podestà che quel titolo in sè racchiudeva? Per lo meno quell’autorità consisteva nella giurisdizione sull’Esarcato e su Roma, che s’esercitava in nome dell’Imperatore e dello Stato, e nel diritto di conferma della elezione pontificia. Pipino otteneva di essere consecrato su quel trono che egli aveva usurpato ai Merovingi, e questo per fermo era un’alta ricompensa per le guerre che egli prometteva d’intraprendere in Italia a benefizio del Papa. Egli assumeva degli obblighi, ma tosto a lui ne conseguivano effettivamente anche dei diritti, e il patriziato dei Principi franchi, da un’avvocazia armata che era, si elevò ad una podestà di giurisdizione [319] suprema. Peraltro, soltanto dopo lunghi indugi i Papi accondiscesero ad accordarla.
Re Astolfo mirava con grande ira i maneggi del Papa e dei Romani; lui avevano essi respinto, e l’autorità di tutela su Roma avevano dato in mano al lontano Pipino. Prima dunque che questi coi suoi Franchi, mal volenterosi di quella impresa, scendesse in Italia, Astolfo cercava presso la corte Franca di porre impedimento ai disegni del Papa. Egli costringeva il monaco Carlomanno ad abbandonare Monte Cassino, e ad andare ambasciatore longobardo al fratel suo, per distoglierlo dai trattati con Roma. Lo sventurato espiava la pena di quell’incarico pericoloso, chè veniva chiuso nel chiostro di Vienna, dove in breve tempo moriva. Pipino, patrizio, or ammoniva il Re de’ Longobardi, affinchè i paesi conquistati restituisse; gli offriva persino una considerevole moneta di riscatto, se egli volesse restituire «ai proprietarî la proprietà,» ma, per buona ventura della Chiesa, Astolfo rimaneva fermo nel suo diniego. Nè il Papa, nè i Franchi pensavano che la valorosa nazione dei Longobardi fosse affralita dalle divisioni interne, dai raggiri sacerdotali e dall’influenza del clima d’Italia, nè credevano [320] che il reame d’Alboino altro adesso non fosse che una larva temuta.
Stefano partiva con una comitiva di Franchi, ed era accolto in Roma con voci di giubilo che lo acclamavano salvatore e liberatore. Pipino poi col suo esercito entrava, per le chiuse delle Alpi, da Val di Susa, rinchiudeva i Longobardi entro Pavia, e nell’estate cingeva questa città di assedio. Astolfo, messo alle strette più disperate, accettava la pace che gli si profferiva, e giurava di cedere Ravenna ed altre città[352]. In questi termini generali si esprime il Libro Pontificale, il quale pertanto dimostra non essergli pervenuta contezza di donazioni che fossero allora fatte al Pontefice; tuttavolta da due lettere di Stefano, che appartengono alla fine dell’anno 754, si pare che Pipino, dopo la conchiusione della pace, nell’autunno del 754, effettivamente gli rilasciasse una scrittura di donazione. Soltanto non se ne può determinare, se la restituzione onde si trattava si riferisse ai beni della Chiesa, oppure alle province greche; nè si fa pur un sol motto di Ravenna e dell’Esarcato. Lo stile della curia pontificia tiene il concetto di Respublica in una diplomatica indeterminatezza, mentre sotto il titolo di «Republica dei Romani» si poteva ad arbitrio intendere il concetto astratto dell’Impero od altrimenti il crescente Stato di san Pietro, che era precisamente il Ducato romano[353]. La frase [321] officiale usata allora dal Papa per significare la cessione delle province occupate dai Longobardi, fu quella «di reddizione o restituzione» alla Republica dei Romani. Or sotto il nome di Republica nella sua universalità, intendevasi un tempo tutto l’Impero, di cui era capo legittimo l’Imperatore, e perciò si potrebbe credere che il Papa, parlando di «restituzione», riferisse quella cessione all’Imperatore; ma la posteriore donazione fatta da Pipino ci ammaestra, che il Papa coll’appellazione di Republica romana denotava veramente Roma, capo e sede del romano Impero, per virtù del quale la Città aveva dominato Italia e il mondo[354].
Pipino aveva appena lasciato Pavia, che re Astolfo, quasi svegliandosi di un sogno, era tratto a infrangere il patto. Egli chiamava in arme tutto l’eribanno dei Longobardi, e, ancor sulla fine dell’anno 754, assaliva il Ducato romano, e moveva contro Roma per castigarvi la volpe che osava di strappare la preda dalla bocca [322] del leone. Stefano vedevasi ora abbandonato senza soccorso a pericolo estremo. Tosto dopo che Astolfo aveva rotto sua fede, il Papa indirizzava ai Franchi lettere di doglianza. Il latino di quelle scritture, come di tutte le altre della collezione Carolina, è cosa barbara; tronfio ne è lo stile, e le esagerazioni dei predicati di «Vostra grazia melliflua,» di «sguardo e di volto dolci al paro di mele,» dimostrano quanto fossero nauseanti le formule cortigianesche di quel tempo, in cui alle ampollosità di stile della cancelleria bizantina andavasi ancora associando espressioni bibliche[355]. A quel mele peraltro Stefano mesceva anche degli amari rimbrotti contro la credulità leggera di Pipino; gli rammentava che aveva intrapreso un viaggio in mezzo a mille pericoli per andare a lui; che lo aveva consecrato re; che, in mezzo a tutti i Principi della terra, Pietro lui aveva eletto a proteggitore della Chiesa: e lo scongiurava a provvedere prestamente affinchè l’Apostolo ottenesse ciò che per diritto gli spettava[356]. Le lettere partivano per Francia, ma già i Longobardi stavano innanzi le mura di Roma.
Due secoli erano trascorsi dacchè Roma aveva sofferto l’ultimo duro assedio onde Totila l’aveva cinta; [323] chè tutti gli assalimenti successivi dei Longobardi non avevano avuto soverchia gravità, oppure erano stati evitati col pronto pagamento di un riscatto. Ora invece Astolfo veniva con tutto il suo esercito poderoso per conquistare la Città, e, nel giorno 1 del Gennaio 755, i Romani scorgevano avanzarsi le prime schiere dell’oste nemica: procedeva questa divisa in tre battaglie, i Longobardi di Toscana venivano per la via Trionfale, il corpo maggiore dell’esercito condotto dal Re per la via Salara, i Beneventani per la via Latina[357]. Per circuire tutt’intera la città Astolfo poneva campo innanzi a porta Salara; i Toscani si attendavano fuori della porta Portuense, i Beneventani si distendevano dal Laterano fino al san Paolo.
I Longobardi beffavano con grida di scherno quelli ch’erano a guardia delle mura, e: «Andate a prendervi i vostri Franchi,» sclamavano, «che vi liberino dalle nostre spade.» Ma i Romani rispondevano con una difesa risoluta; la milizia cittadina, già provata nell’arme in alcune pugne, dava pegno onorevole del suo amore di patria. Non si fa cenno peraltro di alcun Duce, nè di alcun Tribuno, e neppure del nome di qualsiasi capitano romano, ma il Papa, con lusinghiere adulazioni, nella sua lettera a Pipino, celebrava il franco abate Vernerio, che essendo da legato nella Città, correva lungo le mura di Roma, vigilando dì e notte, e faceva la [324] parte da Belisario[358]. Possiamo accogliere per vero che Vernerio fosse venuto a Roma con accompagnatura di un drappello di guerrieri franchi, e che questi ora prestassero buoni officî nella difesa.
Le mura antichissime di Roma, che per buona ventura Gregorio III aveva restaurato, resistettero all’urto delle macchine guerresche dei Longobardi, ma di dentro la Città era tratta ogni dì più allo stremo. La Campagna era devastata senza pietà da un nemico sitibondo di vendetta, e le scarse colonie della Chiesa erano da capo a fondo distrutte. Astolfo per verità, mosso da reverenza religiosa, proibiva che si toccasse alle basiliche di san Pietro e di san Paolo, che stavano nella cerchia del territorio da lui occupato, ma tutte le altre chiese e i conventi che stavano fuori della Città abbandonava al saccheggio, e i frati e le monache erano sottoposti ai più duri maltrattamenti. Sembrava che i Longobardi tornassero memori dell’arianesimo dei loro padri, perocchè vituperassero con aperto dileggio tutto ciò che si aveva veneranza di santo; ed Iconoclasti, che erano forse greci assoldati nell’esercito, trafiggevano a punta di spada le imagini dei Santi, e in gran falò le davano alle fiamme. In pari tempo, nè v’ha contrasto che sia più spiccato di questo e che denoti meglio la tempra di quel secolo, i Longobardi frugavano nei cimiteri dei Martiri, e, ve li inducesse fervore pio o sete di guadagno, si caricavano di ossa dei Santi. Il desiderio di possedere reliquie (un secolo dopo diventava [325] una vera mania di quell’età) s’era già da gran tempo impadronito dei Longobardi: Liutprando, nell’anno 722, aveva comperato a peso d’oro dai Saraceni di Sardegna la salma di santo Agostino, e, fra il giubilo delle genti, l’aveva deposta in Pavia, nella basilica di san Pietro in coelo aureo. Ed ora Astolfo profittava dell’assedio di Roma per raccattare dalle catacombe quante ossa venerate di santità gli veniva fatto di trovare, e tante ne facea trasportare in Lombardia. Quelle città sotterranee dei morti, cui fin allora la profanazione non aveva mai offeso, erano di tal guisa, adesso per la prima volta, date in balìa della devastazione[359].
Al giorno 23 di Febbraio erano già corsi cinquantacinque giorni dacchè aveva principiato l’assedio; allora Stefano, per affrettare il soccorso che con grande ansietà aspettava dai Franchi, spacciava a Pipino l’abate Vernerio e due legati romani. Le sue lettere, scritte fra le angustie degli assalimenti inimici, dipingono con vivi colori le condizioni disperate in cui Roma si trovava. [326] La prima lettera indiritta a tutto il popolo Franco è scritta in nome del Papa, di tutto il clero, di tutti i duci, dei cartularî, dei comiti, dei tribuni, del popolo e dell’esercito dei Romani; la seconda è scritta da Stefano in nome proprio. Egli vi esorta i Re a mandare prestamente soccorsi che rechino a Roma salvezza, e in pari tempo gli ammonisce di adempiere il dovere loro, perocchè «egli insieme con Dio abbia affidato alle loro mani la protezione della Chiesa santa e della Republica romana.» E il Papa rafforzava il valore di quegli ammonimenti nuovamente con una terza lettera, la quale con istrana fantasia ei faceva che gli dettasse la voce di Pietro, principe degli Apostoli. Non l’eresia di Ario, non quella di Nestorio, nè altre che avevano minacciato la fede cattolica nel suo fondamento più vitale, avevano mai indotto san Pietro a scrivere lettere; e persino allora che Leone imperatore aveva minacciato di distruggere il suo simulacro che era a Roma, l’Apostolo non aveva pur dato segno di sua collera. Ma ora che grave pericolo si addensava sulla sua città, o piuttosto sui suoi patrimonî, il Santo si scoteva, e indirizzava una lettera di fuoco al Re dei Franchi, suoi «figli adottivi.» Questa epistola meravigliosa è una delle più efficaci testimonianze dello spirito grosso che animava non soltanto quel secolo, ma anche la Chiesa di allora, perocchè questa non avesse più riserbo «di servirsi delle ragioni più sante della religione, in pro dei negozî di Stato[360].» [327] Il latino della lettera era così zeppo di barbarismi, che lo stesso san Pietro, il quale non sapeva scrivere che l’ebraico od il greco, ne avrebbe arrossito di vergogna, e l’avrebbe ripudiato; e le gonfie esagerazioni dello stile avrebbero messo nausea a lui e a tutti gli Apostoli.
Vedasi a che meschina figura si era rimpicciolito nel secolo ottavo il grande Apostolo, se il suo succeditore romano poteva mettergli in bocca parole come queste: «Anche la nostra Signora, Maria madre di Dio sempre vergine, associa le sue più officiose instanze alle nostre; protesta, esorta e comanda; e a lei si uniscono i Troni, le Dominazioni, e tutto l’Esercito della celestiale milizia; nè si stanno indietro i Martiri e i Confessori di Cristo e tutti coloro che stanno in grazia di Dio: eglino con noi esortano, scongiurano, protestano: se vi prenda cura di questa città di Roma, che Dio ci affidò in custodia, e del gregge del Signore che in essa dimora, e della Chiesa santa che Dio mi confidò, affrettatevi; liberatela dalle mani dei Longobardi persecutori, affinchè, Dio nol permetta! il mio corpo che per amore del Signor Gesù Cristo sofferse, e la mia tomba dov’esso per comando di Dio riposa, non ricevano da coloro contaminazione; affinchè il popolo che mi appartiene non sia [328] disperso e trucidato da questi Longobardi, rei di turpi spergiuri, e trasgressori delle scritture divine.» E dopo che l’Apostolo s’è abbassato a queste supplicazioni, in sulla conchiusione si erige con fiero cipiglio, minacciando scomunicazione: «Se voi, che nol vogliamo credere, vi farete colpevoli di pigri indugi o di vigliacca diserzione, e non obbedirete tosto all’esortazione nostra, e non libererete questa città mia di Roma, e il popolo che in essa alberga, e la Chiesa apostolica che Dio mi affidò, e il suo sacerdote supremo, per autorità della Trinità santa, per la grazia dell’officio apostolico che Cristo Signore mi die’, voi sarete giudicati indegni del regno di Dio e della vita eterna, colpa la inobbedienza alle ammonizioni nostre[361].»
[329]
La lettera dell’Apostolo fu una ciurmeria che riuscì allo scopo avvisato; ed infatti Pipino potè giovarsene a strascinare ad una seconda spedizione in Italia i suoi Franchi, i quali mormoravano senza che rispetto alcuno li rattenesse. Può darsi che la stravaganza di quel trovato inducesse al riso financo un Re di quell’età, ma Pipino non poteva far comparire in fallo san Pietro innanzi la moltitudine, se anche egli non sentiva paura «di perdere corpo ed anima in mezzo alle inestinguibili fiamme tartaree, in compagnia del diavolo e dei suoi angeli pestiferi[362].» I suoi trattati col Papa imponevano a lui, patrizio di Roma e difensore della Chiesa, il dovere di difenderla colle armi; laonde ei s’apprestava alla guerra. La fama sola della sua impresa bastava perchè Astolfo levasse da Roma l’assedio; ed egli moveva subito in gran furia al settentrione per respingere i Franchi dalle frontiere. Nel tempo istesso in cui Pipino s’avvicinava alle chiuse delle Alpi tre legati bizantini venivano a Roma; [330] il povero imperatore Costantino fervidamente raccoglieva concilî sopra concilî per distruggere imagini e reliquie, ma egli non aveva la forza di riconquistare Italia perduta, nè soprattutto aveva l’intelletto della vera condizione delle cose. Non conosceva ciò che nel trattato fra Pipino e il Papa si conteneva, reputava che la restituzione dell’Esarcato dovesse effettivamente andare a profitto dell’«Impero romano,» e perciò mandava suoi ministri primamente a Roma, affinchè vi chiedessero raccomandazione del Papa presso il Re dei Franchi.
L’Imperatore sperava nientemeno che di poter adoperare i Franchi in servizio suo contro i Longobardi, come un tempo Zenone s’era servito degli Ostrogoti a danno di Odacre: certo è che pensava di indurre Pipino ad una spedizione di guerra contro Astolfo per averne egli vantaggio. Ma appena giunti in Roma, i suoi legati aveano ragione di essere atterriti, dacchè loro giungesse notizia che Pipino moveva per la seconda volta contro le frontiere d’Italia; i diplomatici presi di stupore a quell’annunzio, si gittavano in una nave, e Stefano aggiungeva loro un suo messo, sotto pretesto di volerli raccomandare a Pipino. Arrivati con rapido viaggio a Massilia, ivi udirono che il Re era già entrato in Italia. Poichè loro dunque si manifestava chiaramente come stessero le cose, ne furono profondamente turbati[363], cercarono di lasciarsi addietro il [331] nunzio apostolico, e Gregorio, uno dei ministri imperiali, con veloci cavalli gli precorse innanzi. Egli raggiunse l’esercito franco che moveva su Pavia, e con profferte munificenti della riconoscenza dell’Imperatore, scongiurò il Re affinchè l’Esarcato e le altre città restituisse al legittimo loro signore. Ma Pipino, senza ambagi protestava, che alle due imprese non era disceso in pro di uomo alcuno, ma per amore di Pietro santo (qui torna in moto l’opera delle lettere celestiali), e per la salute dell’anima sua; affermava che tutti i tesori della terra non l’avrebbero indotto a infrangere la parola data all’Apostolo, e diceva anzi che quelle città non volea restituire all’Imperatore, ma dare tutte a san Pietro, alla Chiesa romana ed al Pontefice. Il Bizantino, attonito per lo stupore, correva allora a Roma, vedeva il Papa, e protestava, ma vanamente, contro quella lesione dei diritti dell’Impero[364].
Frattanto Astolfo, chiuso per la seconda volta dentro di Pavia, abbassava le armi nell’autunno dell’anno 755. Fu fatto tributario al Re dei Franchi, e fu costretto ad adempiere nella sua interezza il primo trattato, e ad aggiungere alle città restituite anche Comacchio (Comiaclum). Il Biografo di papa Stefano, a questo punto narra per la prima volta, che Pipino distendesse una scrittura di donazione, nella quale alla Chiesa romana ed a tutti i Papi, per tutti i tempi venturi, s’attribuiva [332] il possedimento delle città; e aggiunge che questo documento conservavasi ancora all’età sua (egli viveva nel secolo nono) nell’archivio della Chiesa romana. Questo celebre documento sparve di Roma, senza lasciar traccia di sè, nè ciò avvenne senza buone ragioni: nessun erudito potè conoscere quai limiti geografici e politici fossero statuiti in quella donazione, nè uomo alcuno seppe mai contare precisamente quali e quante fossero le città donate, e ancor meno definire se al Papa fosse dato su quei territorî soltanto il Dominium utile, od altrimenti diritto effettivo di signoria assoluta[365]. Resta avvolta nel buio la condizione vera in cui si trovavano Roma e il Ducato, del quale neppure si fa cenno; e poichè Pipino questa provincia non ebbe conquistato, si arguisce che la donazione non poteva estendersi ad essa, nè tampoco a Napoli, ch’era greco, nè a Gaeta. Questo peraltro negarsi non può, che Pipino facesse una donazione scritta, e che egli, nel suo diritto di conquista, cedesse alla Chiesa romana l’Esarcato e la Pentapoli, ch’erano terre sulle quali la Chiesa non possedeva titolo [333] giuridico di sorta. Quelle greche province Pipino toglieva all’Imperatore, che era divenuto incapace di strapparle di mano ai Longobardi e di guardarle più a lungo; egli le cedeva al Vescovo di Roma, non perchè questi era Principe spirituale, nè perchè Pipino lo avesse in conto di Sovrano che stesse fuori della soggezione allo Stato, sibbene perchè il Papa era capo effettivo della città di Roma, colui che rappresentava la Republica romana nel significato dell’Impero occidentale, dominatore d’Italia. Ma siccome il Papa questa autorità di rappresentante dello Stato assumeva per ciò soltanto che egli era capo supremo della Chiesa, la quale da sola teneva alta in Occidente l’idea dell’Impero, così il Papa quelle terre riceveva nel nome della Chiesa romana e di san Pietro capo invisibile di essa; così egli stesso celava la sua usurpazione sotto la apparenza del titolo di un pretendente santo, del principe degli Apostoli. Se però un tanto pretendente era quello che più acconciamente si poteva opporre contro alle reclamazioni di Bisanzio, tuttavolta astuzia di arte politica esigeva che si prestasse ognora omaggio alla suprema autorità civile dello Imperatore; laonde il Papa in quei paesi aveva sembianza di vicario dell’Imperatore ossia di succeditore dell’Esarca, patrizio di Ravenna. Ad ogni modo la podestà imperiale nel fatto s’era estinta; quelle province non volevano più obbedire a’ satrapi bizantini, nè esser suddite al Re dei Longobardi; esse accettavano l’autorità di dominio territoriale del Papa, ch’era l’uomo più possente d’Italia, omai riverito con onoranze idolatre, e capo della nazione latina[366].
[334]
Se anche Pipino non abbia voluto, con un conscio intendimento, costituire uno Stato della Chiesa nel senso che vogliono sostenere i campioni della sovranità pontificia, è tuttavia un fatto che egli investiva il Papa del giure di principe territoriale sopra alcune delle province [335] più belle d’Italia; laonde egli fu fondatore dello Stato della Chiesa, che ebbe più tardi svolgimento, e da cui per lungo ordine di secoli fu impedita la unità d’Italia. A questo punto poi si elevano considerazioni di diversa natura, perocchè siamo qui giunti ad una nuova epoca della Storia della Chiesa. Questo sacro istituto, congregazione dei fedeli, visibile sì, ma d’indole puramente spirituale, s’era venuta costituendo coi principî fondamentali del Cesarismo romano, e, a modo dell’organamento dello Stato, s’era elevata ad un proprio imperio, in mezzo al quale il Vescovo di Roma esercitava nelle cose religiose un’autorità cesarea. I canoni dell’arte politica e del sistema imperiale antico, erano penetrati nella Chiesa e nella sua gerarchia. La potestà del Papa era riverita negli argomenti di dogma; il primato della sua sede apostolica s’era venuto fondando dai tempi di Leone I e di Gregorio magno in poi; nelle lotte contro gli Iconoclasti avea ottenuto affrancamento dall’Oriente, e l’independenza della Chiesa aveva trovato la sua espressione politica anche nei moti con cui Italia avea proclamata la independenza sua. L’Occidente si separava dall’Oriente; la Chiesa, distogliendosi dall’Imperatore, si collegava alla grande monarchia cattolica dei Franchi, la cui nuova dinastia regale essa aveva consecrato colla sua autorità. Ormai essa aveva il presentimento che questa monarchia compirebbe la restaurazione dell’Impero occidentale; e la esistenza del reame franco fu ad ogni modo buona ventura per l’Europa, avvegnachè sia stato esso che impedì il sorgimento di un califfato europeo in Roma. Sebbene i Pontefici romani di quell’età non potessero [336] ancora sollevarsi ad intendimenti più arditi, tuttavolta, dopo il secondo e il terzo Gregorio, eglino concepirono in mente l’idea di porre sopra un fondamento di vita pratica la loro supremazia religiosa, e di farsi signori d’una parte di Italia. La caduta dell’Impero d’Occidente, che aveva ridotto Roma a città essenzialmente ecclesiastica, la lontananza e la impotenza di Bisanzio, finalmente il frastagliamento d’Italia, avevano dato buon giuoco ai Vescovi di Roma; e la energia continuata di Pontefici sagaci seppe raggiungere lo scopo di dare solidità di esistenza politica alla loro Chiesa, e di costituirsi per sempre uno Stato ecclesiastico. Colla fondazione di esso cessò il periodo della storia puramente vescovile e sacerdotale, e si chiuse l’epoca più bella e più gloriosa della Chiesa romana. Essa diventò cosa mondana; i Pontefici, che contro la legge del Vangelo e contro le dottrine di Cristo associarono il sacerdozio al principato, non poterono dappoi serbarsi più alla pura missione di Vescovi apostolici. La loro duplice natura, contraddizione in sè medesima, li strascinò ognor più al basso in mezzo all’agitazione delle ambiziose arti politiche; laonde eglino per necessità furono tratti a lotte depravatrici, affine di mantenersi nel possedimento dei loro titoli temporali; furono costretti a discendere a guerre civili interne contro la città di Roma, e a lotte continue contro le podestà politiche. E l’avvenimento per cui si compieva la fondazione di uno Stato della Chiesa romana, risvegliava in tutte le altre Chiese avida sete di possedimenti; nel corso del tempo non vi fu abbazia, nè vescovato, che non la pretendesse ad essere uno Stato sacerdotale independente. L’esempio di Roma ebbe cupidi [337] imitatori, e dalla notte del medio evo le scritture di donazioni emersero a migliaia[367].
Il Re dei Franchi dava incarico all’abate Folrado di provvedere alla esecuzione del trattato: Folrado andava nelle città della Pentapoli, dell’Emilia e dell’Esarcato, toglievane statichi, riceveva le chiavi delle loro porte, e queste, insieme al documento che n’era stato scritto deponeva innanzi la Confessione del san Pietro. Tali erano gli avvenimenti che tutto d’un tratto davano alle condizioni del Papato un fondamento affatto nuovo e temporale, ed esercitavano una possente influenza sulla storia d’Italia, ed in particolarità su quella della città di Roma. Coll’anno 755 incomincia un periodo novello nei rapporti interni ed esterni di Roma; il loro ordinamento fornirà un argomento da approfondirsi in un Capitolo successivo; ciò soltanto per ora possiamo stabilire, che, alla fine dell’anno 755, il Papa conseguiva anche la signoria della città di Roma, senza che neppur adesso il suo affrancamento dall’Impero greco fosse proclamato da alcuna delle parti che avevano mano in quei negozî.
Il reggimento papale in Roma, non era per guisa alcuna di ordine monarchico. La città stessa, già nel tempo della prima origine del Dominium Temporale dei Pontefici, manteneva il suo giure comunale. Essa riveriva il Papa da signor suo (Dominus), ma serbava a sè medesima i diritti del Senato e del Popolo; e questi trovavano la loro miglior guarentia nella scelta del [338] capo supremo, perocchè la elezione pontificia procedesse da tutto il popolo riunito. Nelle tenebre della storia andò perduto perfino il fatto della cessione della podestà temporale, che i Romani facessero al loro Vescovo. Non v’ha alcuno che parli di un patto scritto che intervenisse tra la Città ed il Papa; nè alcuno v’ha che discorra del più meraviglioso di tutti i parlamenti del popolo romano, che nel foro, per vecchiezza cadente, nei tribus fatis, possa aver preso una deliberazione di tanto rilievo, quale si era quella di trasferire nel Vescovo di Roma l’autorità di Doge della Republica: e neppur sappiamo se questa autorità del Papa massimamente sia derivata da un trattato di questa fatta, che sia stato conchiuso al tempo di Pipino. L’origine misteriosa di questa signoria pontificia è uno degli avvenimenti più meravigliosi nella storia, e l’assoggettamento di Roma, compiuto dai succeditori di san Pietro alla chetichella, sotto gli occhi degli impossenti successori di Costantino, fu un capolavoro di arti lungamente coltivate e di accorte astuzie dei preti. Quel possedimento prezioso era degno della grandezza dei Papi; ma i successori di Stefano II ebbero compreso assai tosto che esso aveva la natura del dono di Pandora. Ed invero, dopochè si fu costituito lo Stato della Chiesa, vennero tra essi a cozzo continuo i tre diritti che avevano radice in Roma; l’antichissimo diritto municipale del popolo, il diritto antico della monarchia imperiale, e il diritto recentissimo usurpato dai Papi. Pertanto la storia della città di Roma, per lungo ordine di secoli, altro non è che lo svolgimento del conflitto che questi tre principî sostennero fra sè, l’uno contro dell’altro.
[339]
Re Astolfo non sopravvisse lungamente alle umiliazioni sofferte. Già in sull’incominciamento dell’anno 756, Stefano poteva dare al Re dei Franchi la novella che quell’acerbo inimico suo era morto; e il Papa facevalo con feroci parole di odio: «Quel tiranno, socio del diavolo,» esclamava, «quell’Astolfo che suggè il sangue dei Cristiani e distrusse le chiese di Dio, fu trafitto dalla spada del Signore; piombò nella voragine dell’inferno, proprio nei giorni in cui, or fa un anno, egli si apprestava a distruggere la città di Roma[368].» Eppure lo sventurato Principe, che morì di una caduta alla caccia, spirava l’anima tra le braccia di monaci pii[369]. L’ira del Papa perseguitava quel morto anche entro la tomba, perocchè egli non avesse ancora reso parecchie città, e quindi Folrado non avesse potuto di tutte raccogliere le chiavi, e deporle innanzi il sepolcro dell’Apostolo.
L’esercito dei Longobardi di Tuscia imprendeva ora a disporre del trono vacante di Pavia, cui non v’era alcun erede che pretendesse, e gridava re Desiderio duca. Ma appena ne giungeva novella a Rachi, che già [340] s’era separato dal mondo, egli infrangeva i voti che lo incatenavano a Monte Cassino in eterna abnegazione di sè. Egli gettava la tonaca monacale, radunava gli aderenti della sua famiglia, e ponevasi alla testa di un esercito. Desiderio non sapeva ricorrere per sua difesa ad un alleato che fosse più potente del Papa; gli offeriva considerevole moneta e la cessione delle città che Astolfo s’era trattenuto, purchè lo conoscesse per re, e lo affermasse sul trono longobardo. Il patto fu sottoscritto in Toscana dai legati di Stefano, che furono Paolo fratel suo, Folrado e Cristoforo; e Rachi, atterrito da minacce apostoliche, con sospiri e con lacrime si nascose di bel nuovo sotto il saio monastico. La sua fazione era più debole di quella di Desiderio, la quale, ove necessità l’avesse chiesto, sarebbesi accresciuta di forze coll’aggiunta dell’esercito romano e di un drappello di Franchi, che erano con Folrado. Questo consigliere di Pipino, che soggiornava ancora in Roma come Missus, ossia legato, aveva pertanto accompagnatura di alquanti guerrieri Franchi; chè per quel drappello non può certo intendersi la «Scuola di Franchi» che risiedeva in Roma[370]. Desiderio si ebbe il trono di Pavia col favore della Chiesa, ed il Papa non frappose ritardo ad occupare le città cedutegli, Faenza col castello Tiberiano, Gabello, e tutto il Ducato di Ferrara: così egli «ampliò lo Stato della Republica»[371]. Tosto dopo, [341] quand’era giunto all’apogeo della sua fortuna, Stefano II passava di vita, addì 24 di Aprile dell’anno 757. Fosse caso o gloriosa coscienza di sè, la Chiesa non coronò il capo di questo prete accorto coll’aureola dei Santi, che essa avea concesso a Zaccaria predecessore di lui; peraltro Stefano era riuscito a cingere la sua mitra del serto d’oro, meno etereo ma potente più, di principe della terra.
[343]
In Laterano, Stefano posava ancora sul guanciale la sua testa morente, e i Romani impazienti procedevano diggià all’elezione del suo succeditore. Una fazione favoriva l’arcidiacono Teofilatto, l’altra il diacono Paolo, fratello del Pontefice. S’atteggiava quella, così crediamo, a spiriti bizantini; a franchi questa; la prima voleva riannodare relazioni colla legittima potestà dell’Impero, la seconda intendeva a proseguire la ragione politica di Stefano II, aderente ai Franchi: di questa faceva parte il maggior numero dei nobili romani da cui discendevano i due fratelli. L’uomo del tempo nuovo la vinceva sul conservatore dell’antico, avvegnaddio, dopo resistenza breve del partito opposto, si compiesse la elezione di Paolo. Questi saliva alla cattedra di san Pietro [344] addì 29 di Maggio dell’anno 757. Due fratelli si succedevano nel Pontificato; il pericolo ond’era perciò minacciata la natura democratica della elezione papale, era passeggiero, ma si ripetè però più tardi, nei tempi in cui Roma fu dominata dai Baroni della Campagna.
Paolo I fu anche primo di tutti i Vescovi romani che si adagiasse da principe temporale nel seggio sacerdotale di Roma, perocchè egli, quale pontefice, assunse la podestà dello Stato della Chiesa che era omai costituito: e con essa gli venne puranco la contrarietà dei Romani, i quali, come se si destassero da un torpido abbattimento, incominciarono a scorgere nel loro Vescovo il loro dominatore, a odiarlo, e fra non molto a combatterlo. Paolo, ancor prima della sua consecrazione, significava l’avvenimento della sua elezione al benefattore e al difensore della Chiesa, «al Mosè, al David nuovo;» e facevalo con quelle istesse formule di ossequiosa cortigianeria che i suoi predecessori avevano avuto costume di indirizzare all’Esarca, annunciandogli la elezione loro. Così per la prima volta si fece manifesto che il Re dei Franchi, in rapporto alle cose di Roma, era subentrato nelle veci dell’Esarca. Era necessità inevitabile delle condizioni nelle quali trovavasi il neoeletto Papa, che egli tributasse onoranza al potente Pipino, patrizio dei Romani; tutta volta ciò non ci autorizza di conchiudere che al Re franco fosse concesso un diritto immediato di conferma della elezione pontificia. Paolo scriveva a Pipino con trepidante prudenza: sebbene eletto da tutto il popolo, diceva, gli era parso buona cosa di fare che rimanesse nella Città, fino al tempo della sua consecrazione, Immo legato franco, acciocchè questi potesse persuadersi [345] che nè a lui pontefice, nè a chicchessia, poteasi muover censura, e ch’erano tutti amici dei Franchi; ed accertava il Re, che egli e il suo popolo, coll’anima e col corpo, e fino alla morte, gli sarebbero stati fidamente devoti[372]. Rispondeva Pipino con gratulazioni, e tosto dopo chiedeva a Paolo che volesse esser padrino a Gisela figliuola sua. Le forme degli officî cortesi in quell’età, rozze erano e stravaganti; una ciocca recisa di capelli valeva come simbolo dell’adozione; e quando uno mandava altrui dei pannilini d’un bimbo battezzato, esprimeva con molto onorifico segno che nomava suo compadre cui li spediva. Il Papa accolse con grande reverenza quel pegno del regale favore, e lo depose nella Confessione della chiesa di santa Petronilla[373].
Fra gli scritti, che, tosto dopo la elevazione di Paolo al trono papale, furono indiritti al Re dei Franchi, havvene uno di gravissima rilevanza. Pipino aveva spedito una lettera alla nobiltà ed al popolo di Roma per ammonirli d’essere fedeli a san Pietro, alla Chiesa ed al Papa: così per la prima volta nella storia, il popolo romano apparisce atteggiato di sudditanza al suo Vescovo. L’esortazione di Pipino non va considerata come una semplice cosa di forma, ma fa supporre che fra i Romani s’agitasse un moto di opposizione, il quale forse s’associava alla elezione divisa ch’era avvenuta dopo la morte di Stefano. Oltracciò, nella Città e nelle sue vicinanze, [346] s’erano già costituite delle potenti fazioni di nobili; e i Longobardi e i Bizantini mantenevano in Roma loro aderenti.
I Romani risposero al Re con una lettera, la cui unzione religiosa ne rivela manifestamente la fattura. I rozzi Duci o Comiti di quell’età, in cui quasi tutte le faccende diplomatiche erano trattate da cherici, ben dovettero aver incaricato un qualche notaio pontificio di distendere la protesta dei loro sentimenti officiali. Eglino dicevano a Pipino, od erano costretti a dirgli: «Per verità, signor Re, lo spirito di Dio ha posto albergo nel vostro cuore da cui stilla dolcezza di mele, perocchè voi vi siate adoprato ad incorare i nostri buoni intendimenti con consigli sì salutari. Così è, o eccellentissimo dei Re, noi siamo servi fedeli della Chiesa santa, e del vostro padre spirituale tre volte beato e coangelico, del signor nostro Paolo, pontefice altissimo e papa universale, avvegnaddio padre nostro egli sia e pastore ottimo, e non cessi di combattere ogni giorno a pro’ nostro, come il fratello suo di avventurata memoria, ed egli adoperi ogni cura per noi, e salutarmente ci governi qual gregge spirituale che Dio gli ha affidato[374].» Neppur una voce di contrarietà alla devozione pel Papa dominante si eleva in questa lettera; i Romani manifestamente il riverivano quale signor loro, ed il Re salutavano come proteggitore di lui. V’ha poi qualche altra cosa che [347] rende questa scrittura degna di attenzione: il suo indirizzo è concepito così: «All’eccellentissimo ed illustrissimo signore, trionfator grande istituito da Dio; a Pipino re dei Franchi e patrizio dei Romani, tutto il Senato e la universa moltitudine del popolo della città romana vigilata da Dio[375].» Il nome del Senato torna adesso a galla dopo il silenzio lungo della storia; tuttavia ci è duopo avvisare che per esso non deva intendersi più l’antica curia dello Stato, ma soltanto la nobiltà.
I rapporti di Paolo con Pipino erano d’indole amichevole; eravi un continuo va e torna di messaggi e di lettere, e usavansi scambievolezze di cortesie molte[376]. Sotto il reggimento di Paolo può ravvisarsi financo l’avvenimento di un primo Cardinale, che fosse eletto ad instanza [348] di un Principe straniero. Pipino pregava che il prete Marino fosse investito del titolo di san Crisogono, e Paolo accondiscendeva alla domanda[377].
Il Re de’ Longobardi frattanto teneva a bada il Papa con promesse di cedergli Bologna, Imola, Osimo ed Ancona; ma sul serio ei non pensava di darvi adempimento. Del resto, aveva egli buone ragioni d’essere irritato, chè già Stefano aveva eccitato i Duchi di Spoleto e di Benevento a romper fede al loro signore legittimo, e gli avea indotti a porsi sotto l’autorità suprema del Re dei Franchi[378].
Come dunque Desiderio, nell’anno 758, scese in campo a punire quei Duchi ribelli, egli prese sua via per la Pentapoli, dove mise a sacco città e campagne; e il Papa ne indirizzava amara doglianza a Pipino. Alboino di Spoleto finiva frattanto in carcere; Desiderio proseguiva il suo cammino contro Benevento, e quel duca Liutprando fuggiva all’estrema delle sue città, a Otranto (Hydruntum) posta in riva al mare Jonio[379]. Dopocchè il Re ebbe posto Arichi, suo vassallo, a duca di Benevento, egli di Napoli chiamò a sè Giorgio legato imperiale, e a lui propose un trattato di alleanza; spedisse [349] l’Imperatore un esercito in Italia; tutto l’eribanno dei Longobardi ad esso si unirebbe per conquistare Ravenna, e in pari tempo una flotta, venendo di Sicilia, assedierebbe Otranto.
Ad onta di queste trattative, tosto dopo Desiderio veniva a Roma; ve lo aveva invitato Paolo stesso che volea pacificarlo dell’ira che s’era desta in lui per l’affare dei due Ducati; ed il Papa voleva oltracciò indurlo a cedere le quattro città. Il Re gli dava soltanto risposte vaghe, ambigue; e chiedeva anzi tutto la restituzione degli ostaggi che Astolfo era stato costretto a mandare in Francia. Il Papa fingeva ipocritamente di aderire; affidava ai suoi legati lettere dissuggellate per Pipino, nelle quali, in mezzo alle più larghe adulazioni che tributava all’«eccellente figliuol suo» Desiderio, supplicava fervidamente affinchè fossero dimessi in libertà gli statichi[380]. Ma in una seconda lettera secreta spiegava il vero intendimento della prima, si lagnava delle devastazioni della Pentapoli, dava notizia dei negoziati che si andavano tessendo con Bisanzio, e scongiurava Pipino a non restituire gli ostaggi[381]. Le aperte confessioni di Paolo devono per fermo porre in grave perplessità il giudizio dei Cristiani di severa coscienza, allorchè loro si chieda se era lecita al Papa la menzogna, qualunque pur fossero le condizioni delle [350] cose nelle quali ei si trovava: l’elevata morale degli Apostoli a siffatta domanda avrebbe dato per fermo un responso negativo. E così fu posto massimamente in luce chiarissima il contrasto pericoloso, nel quale il Vescovo romano era messo colla sua missione religiosa, causa la sua podestà temporale.
Desiderio continuò a tenersi le città, e financo a conservarsi i patrimonî della Chiesa; continuò Paolo a farne lamento presso la corte di Pipino, finchè nel Marzo dell’anno 760 venne fatto di conchiudere un trattato, onde furono mediatori Remigio e Auchari legati franchi. Prometteva il Re longobardo di restituire tutti i patrimonî e tutte le città della Republica romana; alcuni in fatto cedeva, ma teneva Imola[382]. Rimase un fomite di conflitti, ma i rapporti coi Longobardi furono resi più tollerabili. All’opposto, il Papa entrava in istrane relazioni cogli imperatori Costantino e Leone: egli mandava nunzi a Bisanzio per esortarli a restaurare il culto delle imagini; e non si fa neppur motto che per l’Esarcato o per Roma sorgesse contesa; anzi, in una lettera indiritta a Pipino, il Papa afferma: «Non per altro motivo ci perseguitano i Greci, se non a causa della fede ortodossa e della pia tradizione dei padri, che coloro fervidamente desiderano di distruggere[383].» Ciò dà ragione [351] di dubitare che all’Imperatore fosse stata tolta effettivamente la signoria di Roma; se il Papa avesse qui avuto la podestà assoluta, sarebbe stata stravagante cosa che egli la ragione dell’ira imperiale non avesse attribuito al rapimento del Ducato e dell’Esarcato[384]. I Papi continuavano nei diplomi a prestar omaggio all’alta sovranità dell’Imperatore, ma per il fatto nè questi percepiva più tributo dalla provincia romana, nè v’erano più nella Città ministri bizantini che vi esercitassero autorità. Roma, al paro di Ravenna, s’era liberata dell’Imperatore, e questi doveva pensare a riconquistarla, quando avessene opportunità di tempo. Ma Roma lontana era, e dagli assalimenti che le si movessero di Napoli, la proteggeva Benevento ad essa alleata; laddove Ravenna, luogo per positura più importante, era più prossima, ed alla conquista offeriva agio migliore. Nell’anno 761 si spargeva con qualche gravità la fama di apparati ostili. Perciò il Papa esortava Pipino ad adoperarsi presso Desiderio, affinchè questi, in caso di bisogno, lo aiutasse, ed ai Duchi di Spoleto e di Benevento ordinasse di assisterlo con soccorso di buon vicinanto: tutto ciò dimostra che Paolo temeva anche per Roma; che stavasi in pace con Desiderio; e che quei Duchi obbedivano all’autorità del [352] Re longobardo. Indarno l’Imperatore tentava di guadagnare alla sua parte l’Arcivescovo di Ravenna; Sergio, ch’era stato altra volta sostenuto in custodia da papa Stefano, ma che Paolo aveva indi restituito nel suo officio, s’affrettava a spedire a Roma quelle lettere imperiali[385]. I Bizantini sospesero i loro armamenti; nè più disacconcio per una impresa in Italia avrebbe potuto essere quel tempo, dacchè vi durava la pace coi Longobardi.
Passato quell’istante di pericolo, Paolo I non ebbe più occasioni di temenza da parte dei Bizantini. Una sol volta ancora ei fa cenno particolare dei Greci, allorchè scrive a Pipino essergli giunta novella che sei patrizî con trecento navi e coll’armata di Sicilia erano in via, da Costantinopoli per Roma; ignorare peraltro quale fosse il motivo di loro spedizione; questo solo essergli annunciato che eglino avevano comando di veleggiare per Roma, indi per Francia[386]. La leggerezza noncurante con cui il Papa dava avviso di questa impresa, desterebbe meraviglia, anche se Roma si fosse trovata in istrettissimi vincoli di amicizia con Bisanzio; ma è manifesto che Paolo ridevasi di quella notizia come di una fiaba; ed invero così i sei patrizî, che il numero stragrande dei vascelli paiono una fola. I Greci non s’accingevano più al tentativo di riconquistare Italia colla [353] forza delle armi, e il Papa avrebbe potuto dormire sonni tranquilli nel suo palazzo Lateranense, se Desiderio di quando in quando non avesse sturbata nuovamente la pace. Pipino era importunato di doglianze sempre nuove; lunghe trattative avvenivano per mezzo di rappresentanti dei tre Stati, all’uopo di risolvere tutte le questioni che s’agitavano per ragione dei patrimonî, delle pretese vicendevoli, degli indennizzamenti e della determinazione dei confini: finalmente, nell’anno 764 o nel 765, dopo che le fu resa anche la città di Imola, la Chiesa s’ebbe assicurata per qualche tempo la pace.
Poichè abbiamo fin qui discorso della operosità di Paolo nelle cose politiche, dedicheremo ora questo paragrafo a parlare delle edificazioni che egli e il fratello suo ebbero compiuto in Roma.
Stefano II restaurò la basilica di san Lorenzo, e fondò, in numero non iscarso, alberghi pei pellegrini. Sopra tutto egli diede opera a edificare nel Vaticano, che era già cresciuto ad un proprio e vero sobborgo. La basilica del principe degli Apostoli era tutto attorniata di cappelle e di chiese minori, di episcopî, di case pei pellegrini, di mausolei e di conventi; e intorno vi siedeva una colonia composta di tutti quegli uomini che ivi trovavano lavoro e modo di vivere. A’ tempi [354] di Gregorio III ivi esistevano già tre conventi, dei santi Giovanni e Paolo, di san Martino, e quello del più antico Stefano, coll’appellazione di Cata-Galla-Patritia[387]. Un quarto vi aggiunse Stefano II, probabilmente quello detto di santa Tecla o di Gerusalemme. Egli edificò anche un campanile presso l’atrio della basilica, e lo coprì d’oro e di argento; esso ebbe massimamente il vanto d’essere il primo campanile che in Roma sorgesse[388]. Sembra che [355] soltanto nel secolo ottavo, accosto alle basiliche s’incominciasse a fabbricare delle torri di forma quadrangolare, non assottigliate in cima, a finestre arcuate ed a piccole colonne; erano torri simili a quelle costruite più tardi, e che in gran numero oggidì ancora si conservano in Roma. Colla edificazione delle torri si abbandonò il sistema di forma delle basiliche antiche, e si progredì rapidamente verso lo stile romanesco del periodo feudale, cui a preferenza d’ogni altro appartengono le torri. S’elevarono presso a conventi ed a chiese, anche per necessità di renderli fortemente muniti[389].
Papa Stefano erigeva la cappella di santa Petronilla, che è presso il san Pietro. Questa Santa era figlia dell’apostolo Pietro, il quale era stato ammogliato con legittime nozze[390]. Credevasi che la salma di lei avesse avuto sepoltura presso la via Ardeatica, fuor della porta Latina, nel cimitero ov’erano sepolti Nereo ed Achilleo, i battezzati del principe degli Apostoli: e quelle catacombe da Petronilla ebbero il nome[391]. Stefano II consecrò [356] alla Santa una magnifica cappella presso alla basilica del padre di lei, ed ivi voleva deporne il sarcofago; dacchè anche Andrea, fratello di Pietro, in quel luogo aveva diggià una cappella, si intendeva di riunire ivi insieme tutte le persone di quella santa famiglia. La cappella fu innalzata là dove anticamente Onorio aveva edificato il mausoleo per sè e per le sue donne Maria e Termanzia[392]; laonde Stefano altro non fece che tramutare quel sepolcro nella cappella della nuova Santa, e compierne l’ornato. Paolo I compiè l’ordinamento interno dell’edificio[393]. La cappella della figlia di Pietro fu fondata ad onoranza di Pipino, che era figlio adottivo della Chiesa ossia di san Pietro; di guisa che ancor nelle età posteriori n’ebbero il patronato i Re di Francia. La salma della Santa ivi fu composta a sepoltura nel tempo in cui Paolo restaurò le catacombe, che erano state devastate dai Longobardi. Da esse egli trasse innumerevoli reliquie di morti, e le trasportò nella Città per ripartirle fra chiese e conventi. Questo fatto, e il continuo saccheggio con cui si spogliarono le catacombe, rende chiara la ragione per cui questi mirabili cimiteri del tempo antichissimo cristiano, allorchè [357] in essi novellamente si operarono escavi, furono trovati quasi vuoti. La traslazione dei morti romani destò gran chiasso nel mondo; il possedimento di quegli avanzi di morti era allora considerato cosa di immensurabile valore, e come, sul cadere del secolo decimottavo, ogni museo si procacciava mummie dall’Egitto, così in quel tempo tutte le città e tutte le chiese della Cristianità volevano possedere ossa di Martiri, tratte dalle catacombe di Roma. Angli, Franchi e Germani mandavano messaggi, supplicando che loro si donasse di quei tesori. I miserandi avanzi di Romani d’ogni ceto, di ogni età, d’ogni origine, peregrinarono nei più remoti paesi di Germania, e furono deposti con gran devozione sotto gli altari dei conventi, che s’alzavano in mezzo a quelle regioni selvose, dove un tempo s’erano putrefatti i cadaveri dei guerrieri di Varo e di Druso.
Nell’anno 761 Paolo I fondava nella quarta Regione di Roma il convento di san Silvestro in capite, che esiste oggidì ancora. Questo quartiere della Città in antico aveva appartenuto alla settima Regione detta della via Lata; i giardini di Lucullo ne comprendevano una parte, e in mezzo ad esso passava l’acquedotto dell’Aqua Virgo[394]. Ivi erano le case avite di Paolo; e [358] narrasi che già il fratel suo avesse eretto in esse un convento in onore di Dionigi, santo dei Franchi, certo per esprimere la gratitudine dell’animo suo verso Pipino; chè il Papa, quand’era stato a Parigi, aveva albergato nel convento di san Dionigi. Peraltro il creduto Apostolo di Parigi o di Francia funne cacciato da un Papa del nome di Stefano; infatti Paolo compieva l’edificio del fratello, e indi lo dedicava ai Papi Stefano e Silvestro: nel convento egli collocava monaci greci[395].
Soltanto dopo il secolo decimoterzo, il convento fu appellato in capite; chè ivi finalmente pose sede riposata il teschio di Giovanni Battista, dopochè con lunghe peregrinazioni ebbe scorso i paesi della terra, in tutti i quali liberalmente lasciò frammenti di sè[396].
[359]
Paolo I moriva, addì 28 di Giugno dell’anno 767, in san Paolo fuor delle mura; nè sembra che la sua dipartita dal mondo fosse accompagnata dal duolo e dall’affetto dei Romani, perocchè egli, prete, fosse loro principe nelle cose del mondo. Morente, fu abbandonato da tutti quelli della sua corte, e il solo Stefano, prete ossia cardinale, restò presso a lui; chè tutta Roma era agitata da fiero tumulto[397].
Gli avvenimenti tempestosi che succedevano alla morte di Paolo dimostravano ormai le conseguenze delle condizioni mutate del Papato e della Città medesima. Allorchè il Papato ebbe assunto forma di podestà temporale, [360] e la Città ebbe infranto ogni vincolo efficace con Bisanzio, le gare politiche e municipali si ridestarono nei Romani, come se questi si fossero svegliati da un lungo sonno. L’esercizio delle armi impugnate a difesa contro i Longobardi ed i Greci aveva tornato i Romani alla coscienza della forza loro, e il bisogno dell’autonomia politica incominciava con prepotenza a farsi vivo. Da questo tempo in poi v’ebbe una storia propria dell’aristocrazia sorta nella Republica di Roma; di qui in poi le dissensioni interne della Città e le lotte del Pontificato contro la nobiltà ebbero incominciamento; e i Papi furono ben presto astretti a dare un novello Imperatore a Roma reluttante, che essi erano incapaci di dominare con mano robusta. Il valore del Papato s’era accresciuto agli occhi dei maggiorenti romani, tostochè vi si ebbe congiunto il principato temporale; e gli ottimati, che nella elezione pontificia esercitavano una influenza decisiva, si diedero con ogni lor possa a scegliere i Papi dal seno delle loro famiglie.
S’era sparsa appena la voce che Paolo papa era venuto in fin di vita, e già una potente famiglia di nobiluomini si affrettava di mandare a compimento i disegni che ravvolgeva in mente per insignorirsi di Roma e della sedia di san Pietro. Capo di quella gente era Toto o Teodoro, duce, così ei sembra, di Nepi; colà e nelle terre di Tuscia egli aveva possedimenti estesissimi e coloni molti, ed in Roma teneva un palazzo. Può darsi che molti dei palazzi della Città avessero avuto loro origine nell’antichità e fossero monumenti delle età trascorse; la ricordanza dei loro vecchi abitatori, dei Cetegi, dei Decî, dei Probi, dei Simmachi, dei Massimi, era forse divenuta [361] leggenda associata a quelle case, ed era forse congiunta ad antiche imagini di marmo; ma i palazzi avevano sopravvissuto alle sorti mutate di Roma, e qua e colà s’erano tramutati in conventi ed in ospitali, oppure in abitazioni fortificate a mo’ di rocche munite, entro cui qualche feroce famiglia di dubbia stirpe s’appiattava.
Prima ancora che Paolo esalasse l’ultimo fiato il duce Toto con popolo armato e co’ fratelli suoi Costantino, Passivo e Pasquale, veniva in gran furia di Nepi, penetrava per porta san Pancrazio in Roma, ed ivi si gettava entro il suo palazzo. In esso, addì 29 di Giugno, faceva eleggere papa il fratello suo Costantino, e in mezzo allo strepito delle armi lo conduceva al Laterano. Quella elezione tumultuaria poteva compiersi soltanto perchè quegli ottimati s’avevano formato un partito in mezzo al clero romano. I loro nomi sanno di bizantino. L’audacia dell’usurpazione era accresciuta dal fatto che Costantino era laico; ma Toto, fatto catturare Giorgio, vescovo di Preneste, lo costringeva a trasformare suo fratello in prete, e ad amministrargli, un dopo l’altro tutti in fila, gli ordini del suddiaconato e del diaconato. Non mai con maggiore prestezza s’era compiuta una metamorfosi di quella fatta: l’eletto Pontefice, in mezzo al terrore delle armi di suo fratello, faceva che i Romani gli prestassero giuramento di fedeltà, e nel dì 5 di Luglio, che cadeva in domenica, trasse al san Pietro, dove lo stesso Giorgio, coi vescovi Eustrazio di Albano e Citonato di Porto, lo ordinava papa.
Di tal guisa, un tonsurato posseditore di terre saliva alla sedia di Pietro, sulla quale poteva sostenersi per un anno ed un mese. Niuno v’era che osasse di opporsi [362] a quella sua violenta elevazione; e non s’ha neppur contezza che un qualche legato franco ne movesse protesta. Il fatto poi che un ambasciatore dei Franchi, il quale a quel momento era in Roma, chetamente si partiva per Francia colle prime lettere di Costantino, ed inoltre la considerazione che quei legati solo di quando in quando venivano a Roma, spesse fiate chiamativi per desiderio stesso del Papa, dimostrano che il Re dei Franchi, patrizio dei Romani, non esercitava ancora un’azione diretta di autorità suprema sulla Città. Finchè dura la usurpazione, non s’ode che Pipino s’immischiasse in quelle faccende, e neppure che spedisse a Roma un suo ministro; sono soltanto le fazioni romane e, sopra tutti, gli officiali maggiori del palazzo pontificio che vedonsi intenti all’opera[398].
Appena però l’intruso Costantino s’era messo nel seggio pontificio, ei capiva che gli era necessario di guadagnarsi il favore di Pipino. Lo riverì qualmente si conveniva al patrizio dei Romani, e, come aveva fatto il suo antecessore, gli diè annunzio del suo avvenimento al soglio; lo pregò che continuasse a proteggere Roma, e lo rese certo che egli sarebbe fedelmente devoto al difensore della Chiesa. Dicevagli che, dopo la morte di Paolo, il popolo dei Romani e delle città circonvicine lo aveva scelto [363] a succeditore di quel Papa: peraltro degli avvenimenti della sua elezione taceva. Pipino non rispose, e Costantino allora spedì una seconda lettera. Lo sciagurato versava dal petto dolorosi sospiri; era un fantoccio in mano del fratello, che gli aveva fatto amministrare la tonsura per poter egli regnare su Roma. Ei diceva a mezzo la verità, e parlava col presentimento della sua fine, allorchè scriveva «che, con violenza impetuosa, quasi strappato da un uragano, era stato da innumerevole turba di popolo concorde, portato alla tremenda altezza del Pontificato»[399]. Rinnovava pertanto le officiose proteste, e i saluti ossequiosi, e supplicava il Re che non porgesse ascolto a coloro che di lui dicessero malvage cose. Quelle lettere furono recapitate da due legati suoi, ma non si udì che Pipino desse risposta.
Furono gli officiali più illustri della Chiesa che mossero opposizione contro quei fatti violenti. Ancor durante il reggimento di Paolo, Cristoforo era stato Primicerio dei notai e consigliere, il cui ministero, in istile moderno, equivarrebbe a quello di primo Cancelliere ossia di Secretario di Stato: Cristoforo s’era adoperato invano contro l’usurpazione, indi co’ suoi figli s’era ricoverato presso l’altare maggiore del san Pietro, dove Costantino gli aveva giurato di lasciargli la vita, e gli aveva concesso libertà di dimorare nelle sue case fino alla Pasqua[400]. [364] Cristoforo era il supremo officiale di Roma, cui si spettava di governare la Chiesa nella vacanza della sedia pontificia, e Sergio, figliuolo di lui, teneva l’importante ministero di Sacellario, ossia di sagrestano. Ambedue, con altri Romani, cospirarono alla caduta dell’usurpatore. Finsero desiderio di farsi monaci; e Costantino, sia che fosse lieto di porli in libertà, sia che nel loro giuramento fidasse, concedeva che partissero di Roma, e si ritirassero, come chiedevano, nel convento del santo Salvatore, in vicinanza di Rieti. Ma i due uomini con gran celerità se ne andavano a Teodicio, duca di Spoleto, indi con lui correvano a Pavia.
Desiderio con gran gioia porgeva ascolto alle doglianze ed ai preghi dei due profughi; protestò ch’era pronto a prestare loro armi affinchè movessero ad invadere Roma, ma al suo soccorso impose delle condizioni alle quali i due anche assentirono. Diede loro a compagno Valdiperto prete, col secreto intendimento che questi, dopo la cacciata di Costantino, s’adoprerebbe a seconda de’ suoi progetti. Con soldatesche longobarde, Sergio e Valdiperto mossero contro Roma; addì 28 di Luglio 768 s’insignorivano di ponte Salaro, nel dì seguente passavano da ponte Milvio e si presentavano innanzi a porta san Pancrazio, dove la guardia, che era stata guadagnata alla parte dei congiurati, li mise dentro alla città. Tuttavia i Longobardi procedevano con trepidanza nel loro cammino, nè osavano di salire sul Gianicolo[401]. Al [365] clamore che annunciava, nemici essere penetrati nella Città, Toto e Passivo tosto correvano verso quella porta, e, con essi, Demetrio secondicerio e Grazioso cartulario, che erano congiurati e traditori. Un Longobardo di forme gigantesche, appellato Rachimperto, si scagliava contro Toto, ma cadeva sotto un poderoso colpo che il Duca gli avventava, e i Longobardi che lo vedevano atterrato, già prendevano la fuga, quando i due traditori colle loro lance trafiggevano Toto. Allora Passivo correva al palazzo Lateranense per salvare il fratel suo, chè la loro causa era perduta. Costantino tremante si ricoverava con lui e col vescovo Teodoro, vicedomino suo, nella basilica del Laterano; si chiudevano nell’oratorio di san Cesario, dove per ore lunghe sedevano presso l’altare, mentre il palazzo risonava di strepito d’armi e delle grida di coloro che andavano frugandolo; alla fine erano colti e gettati in carcere.
In mezzo al tumulto, Valdiperto, senza che Sergio il sapesse, raccoglieva intorno a sè la fazione longobarda che era in mezzo a’ Romani, e che riscoteva stipendio da Desiderio: per opera di essa, Valdiperto sperava di far eleggere un papa longobardo. Egli se ne andava al convento di san Vito sull’Esquilino, ne traeva fuori il prete Filippo, e i Romani stupefatti vedevano accompagnare un novello Pontefice al Laterano tra le grida dei Longobardi: «Filippo Papa! lui elesse san Pietro.» Nel Laterano trovavasi un Vescovo che benediceva [366] a Filippo col consueto rito di preci; il neo-eletto si sedette sulla cattedra pontificia, impartì la benedizione al popolo, e, secondo costumanza, tenne banchetto solenne, e officiali ragguardevoli della Chiesa e ottimati della milizia furono visti a prendervi parte. Per sua sventura però, ora giungeva su Roma Cristoforo primicerio; il quale, non sappiamo perchè, aveva perso tempo per via. Allora il partito romano impugnava tosto le armi, e Grazioso cartulario, capitano suo, costringeva l’usurpatore Filippo a tornare di bel nuovo tra le mura del suo chiostro.
Nel dì seguente, era il giorno primo di Agosto, Cristoforo, colla autorità per cui fungeva le veci del Papa a sede vacante, congregava il clero e il popolo: l’adunanza nuovamente avvenne nel luogo dell’antico foro ch’era detto in tribus fatis, al quale talvolta, negli ultimi tempi dell’Impero, le tornate popolari avevano ispirato movimento di vita[402]. Il Primicerio proponeva a candidato Stefano prete. Questo cardinale, figlio di Olivo siciliano, era stato uno dei più fervidi aderenti di Paolo I; ei solo gli si era tenuto vicino allorchè quel Pontefice era morto nel convento di san Paolo. Concordi tutti, fu eletto; lo si tolse dalla chiesa di santa Cecilia in Trastevere, ch’era il suo Titolo, e, sotto nome di Stefano III, lo si proclamò papa in Laterano[403].
[367]
La barbarie in cui Roma era decaduta, si manifestava adesso con feroci opere di vendetta, d’ira, di fanatismo. Ai Vescovi ed ai Cardinali imprigionati si strappavano gli occhi e la lingua; l’usurpatore Costantino, fatto segno di vitupero, era trascinato per le vie di Roma, indi lo si serrava nel convento di Cellanova sull’Aventino[404]. Addì 6 di Agosto, un sinodo che si teneva in Laterano ne indiceva la deposizione; dappoi Stefano III era ordinato papa.
Grazioso, assassino di Toto, fatto poi in ricompensa Duce nell’esercito o in qualche città, conduceva la milizia da lui capitanata a rabida caccia contro tutti i partigiani della fazione caduta[405]. Gracile, tribuno di Anagni (nelle città del territorio v’erano Tribuni militari) teneva ancora fermo in quella città munita di antichissime mura ciclopiche, ma finalmente la terra era presa di assalto[406].
[368]
Gli abitatori delle campagne di quella regione montuosa latina (era detta Latium ferox), movevano in furia a Roma; traevano il Tribuno del carcere e gli svellevano gli occhi[407]. Tosto dopo, Gregorio penetrava nel convento di Cellanova, ed ivi, con pari ferocia, faceva mutilare Costantino a foggia bizantina.
L’ira dei Romani ora si volgeva contro il longobardo Valdiperto, il quale bensì aveva prestato aiuto a [369] gettar abbasso Costantino, ma aveva messo Filippo nel seggio pontificio. Si sparse voce che egli avesse voluto dar Roma in mano al duca di Spoleto: indarno Valdiperto stringevasi abbracciato ad una santa imagine nel Panteon, dove aveva cercato un asilo; lo si gettava dentro di un carcere orrendo, e con feroce crudeltà lo si uccideva[408].
In mezzo a questi orrori, che egli non si diè cura di impedire, Stefano III incominciò il suo breve pontificato. Diventato papa contro gli intendimenti di Desiderio, venne in completa rotta con lui. Pertanto ai Principi franchi egli si rivolgeva, chiedendo che mandassero Vescovi delle loro terre a Roma, dove gli conveniva raccogliere un concilio. Sergio stesso, che ora era divenuto secondicerio, portava in Francia le lettere pontificie, ma non trovava più tra i viventi Pipino, chè la morte aveva rapito il celebre Re, addì 24 di Settembre dell’anno 768, e il suo reame era stato diviso fra i suoi due figliuoli. Carlo e Carlomanno accoglievano i messaggi di Stefano, e mandavano indi a Roma dodici Vescovi, tra’ quali trovossi anche Tulpino o Turpino di Reims.
Addì 12 di Aprile dell’anno 769, Stefano III aperse il sinodo Lateranense; esso diè opera a condannare Costantino, [370] a muovere inquisizione sulle ordinazioni che erano avvenute sotto di lui, e finalmente a stabilire la norma futura delle elezioni pontificie[409]. Costantino, orbato degli occhi, fu tratto innanzi al Concilio nella prima sessione, e fugli chiesto come avesse osato, egli laico, di salire alla cattedra di Pietro. Il popolo romano, rispondeva lo sciagurato, mi vi innalzò usandomi violenza, e ne furono causa tutte le concussioni che un tempo esso ebbe sofferto da papa Paolo I: indi protendeva le braccia, e cadendo ginocchione, chiedeva mercè[410]. Quel giorno fu rimandato senza che si pronunciasse sentenza; il dì addietro fu proseguita l’inquisizione. L’accusato destramente riparavasi sotto l’esempio di alcuni Vescovi, quali erano stati Sergio di Ravenna e Stefano di Napoli, i quali parimenti dallo stato di laici erano senza più ascesi al seggio pontificio[411]. Quelle parole di verità [371] facevano traboccare l’ira dei giudici; i preti si scagliavano sopra Costantino, lo atterravano a forza di percosse, e lo gittavano fuor della soglia della chiesa. È oscuro com’ei finisse.
Indi il Sinodo fece abbruciare gli Atti del falso Papa; e deliberò che niun uomo potesse per lo avvenire essere innalzato al pontificato, se prima non fosse pervenuto dagli officî minori della Chiesa alla dignità di diacono o di prete cardinale. Quanto ai Vescovi che avevano ricevuto la ordinazione da Costantino, fu statuito che coloro i quali fossero stati prima preti o diaconi, dovessero ridiscendere a questi gradi; che però, se eglino avessero saputo cattivarsi l’affetto dei loro parrocchiani, rinnovata la elezione loro, in Roma avrebbero potuto ottenere la consecrazione. Il Concilio conchiuse le sue sessioni con un decreto che confermava il culto delle imagini. Dopocchè gli Atti del Sinodo furono sottoscritti, si mosse con processione solenne al san Pietro, dove dal pergamo furono letti i decreti del Concilio. Di tal guisa Stefano III mondò la Chiesa dall’usurpazione, ma non diede maggiore saldezza alla sua podestà pontificia sopra di Roma.
[373]
Caduta la fazione di Toto, e rintuzzata la forza del partito longobardo, Cristoforo e Sergio diventarono gli uomini più potenti che fossero in Roma. Per opera di loro avea trionfato la reazione, ed era stato creato il novello Pontefice; eglino appartenevano ad una famiglia di ottimati e comandavano ad una gran moltitudine di clienti in Roma e nel territorio.
Ambidue impedivano con grandi contrarietà i disegni di papa Stefano e di re Desiderio. Volevano dominare il Pontefice, la cui elezione era stata vincolata a concessioni parecchie in loro riguardo; il Re poi avevano [374] irritato, perocchè si fossero a lui ribellati, ed avessero represso la fazione longobarda, favorito la parte franca, e conchiuso uno stretto patto d’alleanza con Carlomanno. Al Re chiedevano beni e redditi, ma rifiutavano di adempiere a quegli obblighi che gli avvincevano per promesse, fattegli allora che avevano ottenuto il soccorso di lui affine di abbattere Toto e Costantino. Anche Stefano III comprendeva che la morte di Pipino aveva indebolito il rapporto della protezione che i Franchi esercitavano su Roma; ed infatti i figliuoli di quel Principe vivevano in discordia fra loro, e facevano temere anche per Roma le conseguenze della scissura del reame. Il Papa trovavasi pertanto in condizioni assai difficili; non aveva autorità vera ed efficace in Roma, dove imperavano Cristoforo e Sergio, non nell’Esarcato dove ogni potestà era in mano dell’Arcivescovo di Ravenna; perciò egli si raccostava al Re dei Longobardi[412]. Quei due nemici naturali contrassero fra loro un patto, il cui preciso intendimento si era quello di abbattere Cristoforo e Sergio e la loro fazione franca.
Il Re ed il Papa tolsero a strumento di loro causa comune Paolo Afiarta camerario, il quale stava a capo della parte longobarda. Secondo gli accordi presi, Desiderio veniva a Roma sotto pretesto di un pellegrinaggio, ma veniva con un esercito. Alla nuova che il Re s’avanzava, [375] Cristoforo e Sergio riunivano nella Città le milizie di Toscana, della Campania e di Perugia; facevano serrare tutte le porte e si tenevano in guardia di un assalimento: ciò dimostra che in mano di loro, non del Pontefice, stava in Roma il potere[413]. Allato di essi era coi Franchi suoi Dodone, conte e legato di Carlomanno, che certamente non per mero caso trovavasi in Roma. Lo ambasciatore franco faceva soltanto il vantaggio del signor suo, or che combatteva il Pontefice collegato al Re de’ Longobardi, ed aiutava Cristoforo e Sergio che sostenevano l’alleanza, ormai legittima, della Santa Sede colla monarchia franca[414].
Come dunque Desiderio, nell’estate dell’anno 769, fu giunto innanzi al san Pietro, fece dire al Papa che volesse venirsene a lui; nè quelli lo impedirono[415]. Stefano e il Re convennero sul modo di disfarsi degli aristocratici, e nel tempo stesso Desiderio promise di far paghe tutte le esigenze rispetto alla restituzione dei beni ecclesiastici, che erano stati sempre tenuti dai Longobardi. Tosto che il Papa fosse tornato nella Città, l’Afiarta doveva operare una rivolta popolare, per uccidervi Cristoforo e Sergio: ei si pare che anche in quel tempo [376] si conoscesse l’arte di eccitare le sollevazioni. Ma i minacciati seppero prevenire il turbine; con Dodone si impadronirono del Laterano; e il Papa fu costretto a ricoverarsi presso un altare nella basilica di Teodoro. Con le spade ignude eglino lo raggiunsero penetrando in quella cappella, ma Stefano riusciva ad acchetarne il furore, poichè l’astuto Siciliano faceva la parte sua con sì maestrevole destrezza, che eglino non potevano comprendere quale fosse il suo animo, ed anzi nel dì successivo concedevano che ei tornasse a re Desiderio. A fine di apparenza, il Papa fu chiuso coi seguaci suoi entro il san Pietro, imperocchè si volesse far credere che il sacrificio dei due potenti, i quali lo avevano elevato al sommo grado, fosse imposto da Desiderio: e dovevasi spargere, per far breccia nel popolo, la voce, che il Papa era cattivo de’ Longobardi, e che non sarebbe riposto in libertà, se prima non si fossero deposte le armi e non fossero consegnati i suoi due avversarî. A questo scopo Stefano mandava due Vescovi fuor della porta del san Pietro, presso il ponte dove quelli con genti armate accampavano, per esortarli a ritirarsi di buon animo entro un chiostro, o a comparire dinanzi a lui in Vaticano. Il popolo incostante abbandonava pauroso i suoi condottieri, e si disperdeva; succedeva un subito rivolgimento di cose, e i due erano perduti. Perfino Gregorio, cognato di Sergio, abbandonava la loro causa, e fuggiva in san Pietro presso il Papa; allora Sergio stesso scendeva delle mura per gittarsi appiedi di Stefano[416]; le scolte longobarde [377] s’impadronivano di lui e del padre suo, ed il Re ambidue dava in mano al Pontefice.
Avrebbe impresa assai difficile chi volesse giustificare Stefano della colpa di aver tradito e abbandonato all’ira dei Longobardi, ossia di Paolo Afiarta, quegli uomini, che avevano liberato Roma dalla tirannide di Toto, ed ai quali egli doveva la corona di pontefice. Se effettivamente egli avesse voluto salvarli coprendoli col saio di frati, come afferma il suo Biografo e come dice egli stesso in una sua lettera, perchè non li condusse tosto a Roma sotto il riparo della sua protezione, allorquando egli tornovvi uscendo del san Pietro? Diedesi a credere che egli li lasciasse nella basilica per farli con miglior sicurezza accompagnare a Roma appena che fossero scese le ombre della notte[417]; ma l’Afiarta in sulla sera entrava nella chiesa, dove la guardia longobarda per ordine del Re lo lasciava penetrare, e, presso il ponte di Adriano, i due sventurati subivano la sorte stessa di quel Valdiperto che era caduto vittima di loro: Cristoforo moriva nel convento di sant’Agata tre giorni dopo che gli erano stati strappati gli occhi; Sergio [378] ne guariva sì, ma, fino a che Stefano durò in vita, languì nell’orrore di una prigione nel Laterano. Furono queste le arti colle quali il Papa fece cadere i suoi avversarî.
Nelle lettere che egli indirizzò a Carlo e a Berta, madre di lui, egli per vero affermò di non aver avuto consapevolezza delle sevizie crudeli che quegli uomini ebbero sofferto; ma, in un’ora di debolezza, egli stesso confessò ad un suo famigliare, «che ad istigazione di re Desiderio entrambi avea sacrificato[418].» Stefano scriveva quella lettera quand’era restituito pienamente in libertà, forse dopo che s’erano ritirati i Longobardi; in essa esagerava il racconto di quanto era avvenuto; Cristoforo e Sergio appellava socî del diavolo, i quali, coll’ajuto di Dodone cui accusava con singolare acerbità, avrebbero voluto assassinarlo; ed affermava che della propria salvezza doveva rendere grazie a Desiderio, il quale precisamente era venuto a Roma per adempiere ai doveri che lo legavano a san Pietro. Per verità la narrazione del Papa concorda benissimo col racconto che ne dà il suo Biografo, ma non con altre lettere sue[419]. [379] L’aperta confessione che egli faceva ad Adriano, futuro papa, lo sentenzia colpevole. A quale testimonianza vorrebbesi infatti ricorrere, circa l’accordo che intervenne tra Stefano e Desiderio, più chiaramente di quella che offrono le parole di Adriano? «Il mio predecessore,» diceva questi ai legati longobardi, «narrommi un dì che egli ebbe dappoi spedito al Re, come legati suoi, Anastasio primo defensore e Gemmulo suddiacono, per chiedergli che alla perfine volesse adempiere a quanto di sua bocca aveva promesso a Pietro santo. Ma il Re facevagli rispondere: basti a papa Stefano che io lo abbia sbarazzato di Cristoforo e di Sergio che lo dominavano, e lasci un po’ stare de’ suoi diritti; chè, in verità, se io non assistessi il Papa, gran malanno gli incorrebbe, avvegnaddio Carlomanno re dei Franchi fosse amico di Cristoforo e di Sergio, e pronto sia a mandare un esercito su Roma per tor vendetta della uccisione loro, e per impadronirsi dello stesso Padre Santo[420].»
Desiderio non restituiva i beni ecclesiastici, cui Stefano pretendeva; il Papa cercava di riappiccare relazioni di naturale alleanza coi Re dei Franchi gravemente offesi, e pertanto con doglianze si volgeva ad [380] essi, nel tempo stesso che loro augurava ogni bene, dacchè fosse cessata fra loro ogni ragione di disaccordo[421]. Infatti Berta aveva composto pace tra i suoi figliuoli; nell’anno 770 era venuta in Italia, ed anzi aveva fatto un pellegrinaggio a Roma[422]. L’andata di lei aveva rianimato le speranze del Papa, ma tosto questi apprendeva che la regina Berta se ne era ita a Desiderio per trattare della conchiusione di un duplice maritaggio che alleasse le due dinastie. S’accordavano infatti di sposare il principe Adelchi con Gisela, di dare Desiderata (Ermengarda) in moglie a re Carlo, e a Carlomanno, fratello di lui, un’altra figlia del Re dei Longobardi. Questo disegno induceva il Pontefice a sbigottimento; egli capiva che i figli di Pipino non s’ispiravano in verun modo ai sentimenti onde era già stato animato il padre loro, e comprendeva che eglino anzi guardavano con gran freddezza alle necessità temporali della Chiesa romana. Scriveva loro una lettera in cui gli ammoniva di guardarsi da quegli sponsali, e tentava di seminare fra i Re ragioni di discordia[423]. «M’è giunto a contezza,» ei vi diceva, «ed è cosa che affligge acerbamente il mio animo, che Desiderio, re de’ Longobardi, cerchi di persuadere la Eccellenza Vostra, acciocchè uno di voi fratelli prenda in moglie la figlia di lui: se così fosse, in verità suggestione diabolica sarebbe; nè già congiunzione di matrimonio, ma concubinato. Le storie [381] della Scrittura sacra ammaestrano che parecchi Principi, a causa di colpevoli accoppiamenti con genti straniere, divennero ribelli ai comandi di Dio, e caddero in peccato grave. Che stoltezza sarebbe se il vostro popolo glorioso dei Franchi sovra tutti gli altri popoli eccelso, se una così splendida discendenza della vostra schiatta regale si contaminasse in accoppiamenti colla spregiata gente di Longobardi, che neppur si conta nel numero delle genti, e dalla cui nazione ha origine la stirpe dei lebbrosi! E già voi, per consiglio del Signore e per comando del padre vostro, congiunti siete in legittimi maritaggi; voi, siccome a Re illustri si conviene, dalla vostra stessa patria e cioè dal nobilissimo popolo dei Franchi, traeste mogli bellissime, all’amore delle quali dovete serbarvi fedeli[424].» Il Papa affermava che i due Re avessero già contratto matrimonio, ma soltanto di Carlomanno si sa che aveva condotto in moglie Gilberga, laddove non è fatto mai cenno di un legittimo connubio di Carlo[425]. Stefano non risparmiava [382] nemmanco alcune considerazioni sarcastiche sull’indole delle donne in generale; rammentava il peccato di Eva che aveva fatto perdere all’uman genere il paradiso; e ammoniva i Re, ricordando loro tutto ciò di cui, giovinetti, avevano fatto promessa all’Apostolo; amicizia agli amici dei Papi, odio ai loro nemici. E per trasfondere nelle sue lettere una magica virtù, egli le distendeva sulla tomba di Pietro, e su di esse prendeva la comunione. Conchiudeva poi con questa minaccia: «se alcuno osasse di operare contro il senso di queste esortazioni nostre, sappia che per l’autorità del signor mio Pietro, principe degli Apostoli, sarà avvinto dai lacci dell’anatema, cacciato dai regni di Dio e condannato ad ardere nel fuoco eterno col diavolo, e colle orribili sue pompe infernali, e cogli altri empî[426].» Per verità, i tempi in cui accadeva che il prete maggiore della Cristianità scrivesse [383] di tali lettere, oscuri erano della più fitta tenebra di barbarie, e la religione di Cristo in quell’età ha veramente sembianza di un’arte di sortilegî.
Può darsi che Carlomanno, atterrito a quelle minacce, non osasse separarsi da Gilberga, e non isposasse la figlia di Desiderio; ma Carlo conduceva in donna la principessa Desiderata, senza impensierirsi dell’anatema del Papa[427].
Le condizioni di Stefano frattanto si facevano ognor più difficili, anche per altre ragioni. Dal tempo della donazione di Pipino in poi, i Papi avevano mandato loro ministri, e duci, e maestri de’ militi, e tribuni nelle province anticamente greche, ma non ne erano per questo divenuti signori e dominatori. Nei Ravennati durava vivissima ricordanza dell’antico valore della loro città, che per lunga età aveva imperato su Roma; e l’Arcivescovo incominciava ben presto ad estendere la sua influenza sull’Esarcato, dove la Chiesa metropolitana di Ravenna possedeva beni e coloni molti. Sergio, che Paolo I aveva riposto nell’officio, agiva a suo piacimento senza che riguardo di Roma il rattenesse, e, dopo la morte di lui avvenuta nel 770, per un anno intiero un usurpatore sfidava i fulmini del Pontefice. Una gran parte del clero aveva ivi elevato al seggio arcivescovile l’arcidiacono Leone, ma Michele, bibliotecario di quella Chiesa, col consenso di re Desiderio e coll’ajuto di Maurizio duce di Rimini, s’era impadronito della città maggiore della Pentapoli, la quale allora non istava [384] sotto la soggezione del Papa[428]. Leone fu tratto a Rimini e incarcerato, e Michele fu investito del possedimento dell’Arcivescovato: indi con Maurizio e coi giudici di Ravenna spediva legati a Roma per indurre con donativi magnifici il Papa a dare la sua conferma all’usurpatore. Stefano invece comandavagli di scendere del trono vescovile, ma l’intruso adoperava i tesori della Chiesa per sostenervisi, finchè ne era precipitato verso lo spirare dell’anno 771. I legati franchi e romani si unirono per restaurare l’ordine; il popolo die’ Michele in mano ai legati pontificî perchè lo conducessero a Roma; e qui veniva anche Leone per ottenervi l’ordinazione[429].
Frattanto occorreva in Francia un fortunato avvenimento a prò del Papa; Carlo ripudiava Desiderata, e Carlomanno moriva addì 3 del Dicembre 771. La causa che induceva Carlo a cacciare la sua donna, sembra essere derivata non tanto da instabilità di animo, quanto da proposito astuto[430]. Egli rompeva il nodo di giuste [385] nozze, senza dubbio per suggestione del Papa, e s’ammogliava con Ildegarde di Svevia; ma i Franchi non cessavano di lamentare la sorte di Desiderata, come di moglie legittima di lui; nè la regina Berta sapeva darsene pace, e continuava a versare lacrime pie sul vitupero di quella rejetta[431].
Di tal guisa le arti maligne del Papa infrangevano ogni legame fra i Longobardi e i Franchi; la Chiesa romana riannodava relazioni strettissime con Carlo, e Desiderio era condannato alla estrema ruina. Stefano III non sopravviveva tanto tempo da poterne essere testimone; questo Siciliano senza coscienza, accorto a tutte le furberie e a tutti i raggiri dell’arte politica mondana, trapassava di vita nel Febbraio dell’anno 772.
[386]
Alla sedia pontificia saliva adesso Adriano I, per tenervi un illustre reggimento di quasi ventiquattro anni. Di nascita romano, Adriano discendeva d’illustre famiglia patrizia, che aveva un palazzo nella via Lata, in vicinanza al san Marco. Lo zio di lui, Teodoto, aveva avuto titolo di console e di duce, ed oltracciò era stato primicerio dei notai[432]. Rimasto il giovinetto privo di padre, la madre di lui ne commetteva l’educazione al clero del san Marco, sotto la cui giurisdizione eran poste le case di lei. Tenuto in gran pregio per natali, per bellezza, per ingegno, Adriano era giunto sotto di papa Paolo agli officî ecclesiastici maggiori; ai tempi di Stefano aveva ottenuto il diaconato, e, dopo la morte di questo Papa, era con elezione concorde elevato al pontificato[433]. Egli rese notabile la prima ora del suo reggimento, [387] togliendo il bando alla fazione di Cristoforo, ossia di tutti quei giudici che Paolo Afiarta, poco prima ancora della morte di Stefano, avea condannato all’esilio[434]. Così il Papa dava a divedere di voler abbattere quella fazione longobarda, che quel Paolo ancor sosteneva in Roma, e di volersi avvincere ai Franchi. Gli intendimenti politici di Roma assunsero per tal modo un indirizzo ben determinato.
Fu prima cura di Adriano di voler recuperare ciò che pur sempre Desiderio avea mancato di restituire a san Pietro. Gli ambasciatori del Re venivano a porgere augurî al novello Pontefice ed a chiederne un patto di amicizia, ma Adriano rispondeva dolendosi per l’inadempimento del trattato ch’era stato conchiuso col suo antecessore; e non sì tosto che l’ambasceria longobarda, in mezzo a dichiarazioni cortesi, era tornata a Pavia troncavasi ogni buona relazione con Desiderio. Molte cause contribuivano a ciò; i suoi legati gli annunciavano la restaurazione del partito di Cristoforo e di Sergio; quindi avveniva la stretta alleanza di Roma coi Franchi, e in pari tempo accadeva, nella primavera dell’anno 772, che Gilberga vedova di Carlomanno, coi suoi figli e col duca Auchari, veniva a chiedere soccorso alla corte di [388] Pavia. Carlo infatti aveva tolto ai suoi nipoti i loro territorî, e s’era fatto gridare re universale dei Franchi. Desiderio, cui pesava sul cuore la grave offesa ricevuta, chiudeva la sua rejetta figliuola nel palazzo di Pavia, ed accoglieva a braccia aperte i nipoti di Carlo, sperando di accendere in Francia per mezzo di loro la guerra civile. Egli chiedeva ad Adriano che desse ragione ai loro diritti, e quali re li consecrasse; e poichè a tale domanda il Papa dava un rifiuto, ei si proponeva di costringervelo. Sulla fine del Marzo, Desiderio s’impadroniva di Faenza e del ducato di Ferrara, e minacciava anche Ravenna. I Ravennati mandavano allora messaggi al Papa per chiederlo di soccorsi, e Adriano spacciava al Re con fervide esortazioni Stefano sacellario e Paolo Afiarta. Desiderio chiedeva con insistenza un abboccamento col Pontefice per poterlo indurre a incoronare i figliuoli di Carlomanno, ma Adriano con fermezza lo negava.
A questi avvenimenti si aggiungeva la caduta di quell’Afiarta, che un tempo aveva avuto grandissima potenza; e la fine di lui forma un episodio che non è privo di importanza nella storia della Città. Caduti Cristoforo e Sergio, egli era stato il più influente uomo di Roma, a capo della parte longobarda e agli stipendî del Re; occorreva dunque togliergli ogni potere di nuocere. Con astuta arte diplomatica si concepì il disegno della sua ruina, e lo si condusse a compimento. Senza che lo prendesse alcun sospetto, il Camerario s’indusse a partire di Roma, e ad andarsene in ambasceria al suo amico Desiderio; e mentre alla corte di questo Re ei menava vanto che saprebbe trargli colà il Papa, fosse anche in catene, altri nel silenzio e nell’ombra [389] torceva il canape destinato a serrargli il collo. Soltanto adesso ch’egli era assente, si aveva in Roma coraggio di sapere e di dire che Paolo, otto giorni innanzi la morte di Stefano, s’era fatto reo di un nuovo assassinio. Lo sventurato Sergio, cieco, traeva la vita sepolto in una volta del Laterano; ma l’odio di Paolo mal sofferiva che ancor durasse quella vita miserrima, e lo crucciava siffattamente, che durante l’infermità di Stefano volle liberarsi del suo nemico. Affidò a due abitatori di Anagni l’incarico di ucciderlo, e alcuni alti officiali della Chiesa e il duce Giovanni, fratello di papa Stefano, vi prestarono ajuto[435]. Una notte quegli uomini trascinarono Sergio nella via Merulana, che oggidì ancora dal Laterano conduce a santa Maria Maggiore; ed ivi, uccisolo a colpi di pugnale, lo sotterrarono[436].
Gli assassini, che Adriano faceva tradurre di Anagni a Roma, confessarono il luogo del loro delitto; gli ottimati della Chiesa, i giudici della milizia, e il popolo tutto chiedeva con fremito di tumulto che si desse punizione ai rei; e il Papa li poneva in mano ai tribunali ordinarî. Gli è a questa occasione che tutto a un tratto torna a comparire il Prefetto della Città. L’officio [390] suo aveva continuato ad esistere ancor dopo l’età di Gregorio, ed egli amministrava in Roma la giustizia criminale[437]. I rei furono condannati all’esilio a Costantinopoli[438]. E qui ci occorrono due considerazioni; primamente che in Roma, ancora a questa età come al tempo di Scipione e di Seneca, l’esilio valeva da pena capitale; in secondo luogo che Roma non cessava tuttavia di mandare a Costantinopoli coloro che essa bandiva, parimenti come per lungo tempo, e forse ancora nel secolo ottavo, Bisanzio mandava i rei in esilio a Roma: il Pontefice pertanto riveriva ancor sempre la podestà suprema dell’Imperatore.
In conseguenza di questa inquisizione, Cristoforo e Sergio ebbero onorevole sepoltura in san Pietro, e il loro nome riebbe publicamente decoro. Prima poi che s’incominciasse in Roma il procedimento, Adriano dava incarico a Leone arcivescovo di Ravenna, che s’impadronisse della persona dell’Afiarta, se mai questi, tornando dalla corte longobarda, giungesse in Ravenna o in qualche altra città dell’Esarcato. Ciò, poco tempo dopo, avveniva, e Adriano spediva i documenti dell’inquisizione a Leone, per guisa che questi dava l’accusato in mano [391] del magistrato criminale di Ravenna[439]: di tal modo, contro ogni dritto, un cittadino romano, un officiale del palazzo pontificio, era tratto innanzi al tribunale municipale di una città straniera. Peraltro, è difficile cosa che in questo l’Arcivescovo operasse di suo arbitrio; era il Papa, il quale aveva buone ragioni di far sì che il procedimento lungi di Roma si compiesse[440]. E poichè desiderava di lasciare in vita l’assassino di Sergio, il Papa chiedeva agli imperatori Costantino e Leone che il reo espiasse la pena dell’esilio in qualche luogo di Grecia[441]; ma alla domanda che l’Afiarta fosse mandato a Bisanzio per la via di Venezia, rispondeva l’Arcivescovo essere impossibile cosa, avvegnaddio i Veneziani lo cambierebbero col figlio del loro doge Maurizio, che trovavasi in prigionia di Desiderio. Or dunque Paolo avrebbe dovuto esser condotto a Roma, ma allorchè il legato pontificio veniva a Ravenna per torlo seco, l’Afiarta era già stato condannato e messo a morte: Adriano non poteva far altro che dar una buona sgridata all’Arcivescovo per quella sua fretta, la quale per [392] altro gli riusciva gradita[442]. Così la parte longobarda perdeva il suo capo; il Papa si liberava di un nobiluomo potente, e Desiderio perdeva le ultime reliquie di sua influenza in Roma.
Il Re si commoveva a gran collera come udiva del precipitoso modo ond’era stato tolto di mezzo l’amico suo; egli s’insignoriva tosto di Sinigaglia, di Montefeltro, di Urbino e di Gubbio (Eugubium), ed entrava in Toscana. I Longobardi, nel mese di Luglio, assalivano la città di Bleda, passavano a fil di spada molti di quei cittadini più ragguardevoli, e tosto dopo movevano contro Utriculum, città posta a quarantaquattro miglia da Roma, lungo la via Flaminia[443]. Adriano allora spediva l’Abate di Farfa con venti monaci a Desiderio; piangendo quei frati si gittavano a’ piedi del Re e lo scongiuravano di non recar danno a Pietro santo. Il Re longobardo li congedava senza dar loro ascolto, e chiedeva di abboccarsi col Pontefice. Rispondeva questi che sarebbe venuto a Desiderio, tosto che egli avesse restituito [393] le città usurpate, e mandava alcuni cherici per riceverne la consegna: ma il Re non volle saperne, ed anzi fece nuova minaccia mettendosi in marcia su Roma.
Volgevasi allora il Papa a Carlo, chiedendo che il salvasse; per la memoria del padre suo Pipino, lo scongiurava che intraprendesse una spedizione di guerra in Italia, e Roma liberasse dal Re dei Longobardi, al quale egli con tanta energia aveva pur negato di consecrare i figliuoli di Carlomanno. Nel tempo stesso in cui i messi pontificî partivano colle lettere di Adriano (esse non giunsero fino a noi), Desiderio in persona lasciava Pavia per muovere alla conquista di Roma. Lo accompagnavano Adelchi, Auchari duca franco, Gilberga e i figli di lei, che il Re voleva far incoronare dal Papa in san Pietro. Adriano s’apprestava intrepidamente alla difesa; e, dopo di aver raccolto in Roma genti di guerra dalla Toscana, dal Lazio e dal ducato di Perugia ed anche milizie armate della Pentapoli e soldatesca fornita da Stefano duce di Napoli amico suo, faceva chiudere le porte della Città, ed alcune faceva murare[444]. Dalle basiliche di san Pietro e di san Paolo faceva trasportare entro la Città i sacri arredi, e le chiese stesse per di dentro faceva asserragliare, affinchè il Re non vi potesse penetrare che con sacrilegio, da predone di templi. Indi Adriano spediva incontro a lui i Vescovi di Albano, di Preneste e di Tivoli, affinchè proibissero al Re ed [394] ai Franchi che lo seguivano, di oltrepassare i confini del Ducato romano, minacciando altrimenti i fulmini della Chiesa. I Vescovi s’imbattevano nel Re a Viterbo; e per il fatto il timore delle maledizioni del Papa, e più ancora la paura di Carlo operavano rapidamente i loro effetti; chè Desiderio faceva far alto, ed anzi volgeva in ritirata[445]. Per tal guisa, tutte le imprese di questi Re longobardi difettavano di arditezza e di genio, laonde certamente nulla v’ha che desti tedio maggiore della storia guerresca dei Longobardi in un periodo di duecento anni.
Tosto dopo la partenza di Desiderio, venivano a Roma, legati di Carlo, il vescovo Giorgio, l’abate Gulfardo e Albino consigliere del Re, per sincerarsi se effettivamente erano state restituite alla santa Sede le città, siccome Desiderio aveva fatto credere in Francia. Adriano loro dimostrava come stessero veramente le cose; i legati tosto andavano a Pavia, ma il Re li congedava con isprezzo, per la qual cosa se ne tornavano a Carlo, dicendogli che nulla potevasi conseguire senza forza di armi.
[395]
Dopo che Carlo ebbe un’altra volta offerto pace a re Desiderio ed ebbe proposto di pagargli una somma di denaro affinchè rinunciasse alle città, nel Settembre dell’anno 763 scese in Italia col suo esercito[446]. Moveva per la via di Ginevra affine di valicare indi il Moncenisio, ma le chiuse delle Alpi erano state robustamente munite dai Longobardi, così che erano rese insormontabili; laonde la difficoltà di penetrarvi e ben anche il malcontento che quella impresa destava nei suoi Franchi, costringevano Carlo a mandare ancora una volta un messaggio a Desiderio, per dirgli che egli si starebbe contento di ricevere tre illustri ostaggi, i quali dessero guarentia della promessa cessione delle città. Il Re longobardo respingeva anche questa proposta; ma la repentina fuga di suo figlio Adelchi, che era colto di timor panico, e il passaggio dell’oste franca per le Alpi, cui il tradimento aveva agevolato la via, costringevano anche Desiderio ad abbandonare il suo campo, e a chiudersi in [396] Pavia[447]. Adelchi ed Auchari, smarriti d’animo, si gettavano colla vedova e coi figli di Carlomanno entro Verona, che era un forte arnese di guerra, e il popolo di Alboino cadeva dopo fiacca resistenza, che la divisione interna e precisamente le arti dei preti rendevano ancor più corta[448]. Per fermo, Carlo non si meritò nome di grande perchè ebbe vinto i Longobardi; chè anzi la Storia a mala pena registra la memoria di un’altra conquista che abbia costato minor fatica di questa, e che abbia indi recato sì grandi risultamenti, duraturi per lungo ordine di secoli.
Nulla rattenne Carlo nel suo cammino contro Pavia; egli cinse d’assedio questa città, e poichè previde che la cosa avrebbe tratto assai in lungo, fe’ venire al campo Ildegarde, sua donna, e i suoi figliuoli. Un altro esercito franco circuì Verona; Auchari e la vedova di Carlomanno ne fuggirono, e si diedero tosto coi piccoli Principi in mano del vincitore. Pavia reggeva robusta difesa da ben sei mesi; frattanto si avvicinava la Pasqua, e Carlo deliberava di andare a Roma per celebrarvela. Alla credenza degli uomini di quell’età, il pellegrinaggio in cui movevano alle tombe dei Martiri nel tempo di Pasqua, era il viatico più sicuro che conducesse al Paradiso; già da due secoli, in quel tempo dell’anno [397] accorrevano a Roma torme numerose di pellegrini, e, quant’è lungo il medio evo, noi vedremo Imperatori e Re celebrarvi spesso le feste pasquali. Coll’andata dei Re dei Franchi incomincia massimamente la lunga storia dei pellegrinaggi di Principi tedeschi a Roma[449].
Carlo mosse dal suo campo di Pavia con una parte dell’esercito e con grande accompagnatura di Vescovi, di Duchi e di Conti. Veniva con rapido cammino per la via di Toscana, perocchè volesse essere in Roma nel sabato santo, che cadeva nel giorno 2 dell’Aprile 774. Magnifiche furono le accoglienze e fu degna d’imperatore la pompa con cui si ricevette il possente proteggitore della Chiesa che ora entrava in Roma per la prima volta e in mezzo a tanta gravità di avvenimenti. Alla distanza di ventiquattro miglia dalla Città, gli davano il benvenuto tutti i giudici e i gonfaloni della milizia mandati dal Papa; lo salutavano presso la stazione appellata Novas al di sotto del lago di Bracciano, e quindi lo accompagnavano alla Città[450]. Appiè di monte Mario erano ad incontrarlo tutte le schiere della milizia coi loro patroni, le scuole dei fanciulli recanti in mano rami di palma e di olivo, e moltitudine innumerevole di popolo, [398] che alla vista di Carlo alzò grida di plauso, festevolmente gridando: Salute al Re dei Franchi ed al difensore della Chiesa[451]! Questi onori Carlo riceveva non come principe straniero, ma da patrizio dei Romani, ed il Cronista espressamente dice che gli erano spediti incontro le croci e i vessilli delle basiliche di Roma, come era costumanza quando si usciva a salutare l’Esarca o il Patrizio[452]. Appena Carlo discerse in vista Roma, smontò di sella, e, circondato da quelli del suo corteo, umilmente trasse a piedi al san Pietro. Era il sabato santo, nelle prime ore del mattino; il Papa aspettava il suo ospite sull’alto dei gradini del portico; intorno a sè avea il clero; la piazza era gremita di popolo senza numero. Carlo si prostrò al basso della scalea, la salì ginocchioni, baciando in meditazione ogni gradino, finchè giunse al Pontefice. Quest’era il modo con cui già fin d’allora i Principi più potenti del mondo s’accostavano al santuario di Roma: non doveva forse venire il tempo in cui i Re massimamente sarebbero discesi a farsi vassalli e [399] valletti dei Papi? in cui questi audacemente avrebbero imposto il piede sulle loro spalle? Carlo e Adriano si abbracciavano; il Re prendeva il Papa per la destra mano, e tenendosi al suo fianco dalla dritta, entrava con lui nella basilica[453]. Mentre facevano loro ingresso, i preti intonavano il canto: Benedictus qui venit in nomine Domini; e Carlo e i suoi Franchi si gettavano a ginocchi innanzi la tomba dell’Apostolo. Dopo che ebbe finito di meditare e di orare, il Re con reverenza chiese permissione di entrare in Roma e di poter visitare le altre chiese maggiori: tutti primieramente discesero nella cripta dell’Apostolo; e il Re e il Papa, e i giudici dei Romani e quelli dei Franchi si ricambiarono giuramento di sicurtà[454].
Senza dubbio Carlo piantava il campo delle sue soldatesche nella pianura di Nerone; egli poi per il ponte [400] di Adriano entrava nella Città, la quale allora non presagiva che il primo Re dei Franchi cui faceva accoglimento, sarebbe stato il suo primo Imperatore di stirpe germanica. Il futuro erede di Augusto e di Traiano mirava le classiche ruine, attraverso cui passava, con isguardi di stupore ignorante, poichè, quantunque lo prendesse diletto di udire le storie degli antichi, ei conosceva le geste dei Santi di Roma meglio di quelle dei suoi eroi. Nella Roma di quell’età prevaleva ancora un’impronta di antico, ad onta dell’oltraggio che vi avevano inflitto tre secoli; era ancora la città dei Romani quella in cui Carlo entrava, era un mondo immensurato di ruine magnifiche, innanzi alla grandezza delle quali scompariva tutto quello che sapeva di cristiano.
I Romani conducevano il Re al Laterano; eglino guardavano con meraviglia la taglia eroica e quasi gigantesca del protettore della Chiesa, e i suoi paladini barbarici tutto chiusi nelle armature d’acciaio. Nel battistero Carlo assisteva al sacramento del battesimo che il Papa amministrava; indi umilmente a piedi tornava al san Pietro. Non prendeva dimora entro la città; del palazzo dei Cesari non si fa pur cenno; ne erano caduti anche i suoi ultimi quartieri abitabili, dopo che più non era stato in Roma il Duce greco. Ove Carlo non abbia passata la notte in una delle case vescovili che erano presso al san Pietro, certo è che egli si ricondusse al campo delle sue soldatesche. Nel giorno di Pasqua gli ottimati e le scuole della milizia lo accompagnarono a santa Maria Maggiore, dove il Pontefice celebrò la messa; indi Carlo pranzò alle mense di lui nel Laterano. [401] Al lunedì assistè agli officî sacri nel san Pietro, al martedì nel san Paolo, e così ebbero fine le ceremonie delle feste pasquali. La forma antichissima di queste funzioni sacre era allora meno pomposa di quello che sia oggidì, e più si conveniva alla ragione di chiesa, ma, per quanto si pare dai Libri rituali antichi, non era di molto più semplice[455].
Nel mercoledì 6 di Aprile, Carlo fu invitato ad una conferenza nella chiesa di san Pietro, dove trovossi il Papa con tutti i giudici del clero e della milizia. Innanzi a quella assemblea, Adriano rivolse un discorso al Re dei Franchi; ed invero per istrappare a Carlo una donazione, luogo più acconcio di quello non v’era, chè ivi presso sorgeva la tomba dell’Apostolo, e quella era la basilica di lui, ancora olezzante degli incensi bruciati nelle feste pasquali. Poichè già reputava prossima la caduta del reame dei Longobardi il Papa si atteggiava come uno dei maggiori pretendenti all’eredità di quello, e però rammentava a Carlo gli antichi trattati e le promesse, e lo esortava a donare a Pietro santo alcune determinate città e alcune province d’Italia, e faceva indi leggere la scritta, fatta a Carisiaco, della donazione di Pipino. Il Biografo di Adriano afferma che a Carlo ed ai [402] suoi Judices non bastò di confermarne il tenore; volle il Re che il suo notaio Eterio ne trascrivesse di bel nuovo il documento; e questo fu sottoscritto da lui e dai maggiorenti della sua comitiva, indi fu posto dentro l’urna di san Pietro e ne fu promesso l’adempimento con terribile giuramento.
Anche questa così detta donazione di Carlo magno, confermazione di quella di Pipino, sparve dall’archivio del Laterano, nè mai si rinvenne in Germania o in Francia la copia che fu detto Carlo avere recato con sè. Secondo la fama di quella donazione, il pio e magnanimo Carlo donava al Papa quasi intiera l’Italia, e da un capo all’altro tali province che egli non ebbe mai conquistato, com’erano Corsica, la Venezia, Istria e il ducato di Benevento[456]. Ma il giudizio incorrotto della critica, da lunghissimo tempo ricacciò il racconto di questa donazione fra le storielle da fiaba, ed è possibile che al tempo in cui viveva il Biografo di Adriano, questi [403] abbia consultato un qualche documento falsato (seppure uno ne abbia avuto sott’occhio), oppure che egli stesso abbia falsato i concetti che in quella scritta avessero potuto contenersi. Manifestamente Carlo ebbe confermato quella donazione di Pipino che nella sua vera essenza ci è ignota, ma pur sempre serbò a sè il supremo dominio delle province cui essa si riferiva; nel corso degli anni poi l’ebbe accresciuta con patrimonî e con redditi[457]. La condizione di lui rispetto a Roma fu in pari tempo definita con un trattato: Carlo pretese a tutti i diritti di patrizio, e il diritto onorifico di Defensor ottenne nell’anno 774 un valore più ampio; al Patrizio dei Romani fu data la giurisdizione suprema su Roma, sul Ducato e sulle province dell’Esarcato. Il Pontefice, che in quei paesi non aveva che l’amministrazione del governo, diventò suddito al Re dei Franchi[458].
[404]
Dopo che furono così ordinate le relazioni di Carlo con Roma, il Re ne partì; e nel tempo stesso il Papa bandì preghiere in tutte le chiese di Roma affinchè si affrettasse a prospero risultamento l’assedio di Pavia[459]. Tornato al campo, il Re dei Franchi ne spingeva l’opera con energia; nella premuta città la peste congiurava col tradimento, e l’ultimo Re dei Longobardi, espiando le ripetute sue inavvedutezze colla caduta della sua dinastia e del suo reame, davasi prigioniero senza patteggiare. Desiderio finì la sua vita nel convento di Corbeia; la spese in opere di pietà, e corse fama che operasse miracoli. Ma Carlo si prese la corona di ferro e, a principare dall’anno 774, si nomò re dei Franchi e dei Longobardi e patrizio dei Romani, mentre Adelchi figlio di Desiderio si ricoverava alla corte di Bisanzio, dove traeva la triste vita di pretendente a un trono[460].
[405]
Con grave dolore del Papa, Carlo frapponeva adesso indugi alla cessione di quei patrimonî che i Longobardi avevano tolto alla Chiesa: sembrava che il Re non badasse di molto a quel titolo onorifico con cui Adriano lo adulava, appellandolo Costantino novello, come se fosse risorto quell’Imperatore «per cui Dio s’era degnato di largire ogni bene alla Chiesa santa di Pietro, principe degli Apostoli»[461]. Queste parole di Adriano sono notevoli [406] assai; avvegnachè si scorga che con esse cominciava a porsi per la prima volta in lavorio uno dei più mostruosi ordigni onde i Papi successivi, per il corso di secoli, si servirono a sostenere, quasi sopra un fondamento autentico, le loro pretensioni di signoria universale, la quale per tempo non meno lungo s’ebbe credula accoglienza dalla moltitudine che non ragiona, e perfino dai dottori di legge. La famosa «donazione di Costantino» non soltanto avrebbe concesso al Vescovo di Roma onorificenze e insegne imperatorie, ed attribuito privilegio di senato al clero romano, ma avrebbe dato Roma e Italia in proprietà al Pontefice. Infatti Costantino, dicevasi, come fu guarito della lebbra per virtù del battesimo amministratogli da Silvestro, compreso di reverenza verso il principe degli Apostoli, abbandonava Roma, e umilmente si riduceva in un angolo del Bosforo, e al successore di Pietro lasciava in dono la città capitale dell’universo e l’Italia. Questa fola, che per la prima volta era tratta in campo da un Papa nell’anno 777, fu invenzione di un prete romano, e fu coniata in un tempo nel quale crollava in Italia il reggimento greco, in cui il reame dei Longobardi minava per dissensioni interne e per l’urto potente dei Franchi, in un tempo in cui il Papa poteva concepire l’ardito disegno di dominare da vero padrone una gran parte d’Italia. Il trovato di un siffatto documento dimostra la fittezza della barbarie che avvolgeva il mondo durante il medio evo, e lo dimostra forse ancor più efficacemente di molti concepimenti della fantasia religiosa. Se la invenzione della donazione di Costantino rivela la ingorda brama di dominazione che agitava il clericato romano [407] oltre ogni fine, essa è d’altra parte documento storico dei concetti che, al tempo della prossima rinnovazione dell’Impero occidentale, si erano venuti formando riguardo alle relazioni della Chiesa e dello Stato. La Chiesa è tenuta precisamente in conto di un impero religioso con un Cesare pontefice alla testa; a lui sono soggetti tutti i Metropoliti e tutti i Vescovi d’Oriente e di Occidente. La sua costituzione gerarchica, sorta sul fondamento dell’antico organamento dello Stato, è considerata independente dallo stesso Imperatore, ordinatore supremo di tutte le cose politiche; a suo esemplare essa prende l’Impero e la corte imperiale. Al Papa è conceduta dignità imperatoria, al clero romano grado senatorio; ma questa prerogativa, al paro della cessione di Roma e dell’Italia, discende da un privilegio accordato dallo Imperatore; esso quindi deve costituire per tutti i tempi il fondamento giuridico alla grandezza temporale del Papato. Mentre dunque l’Impero continua ad essere il concetto massimo di ogni maestà temporale e di ogni signoria, da cui soltanto la Chiesa deriva la sua forma civile e la sua potenza, la Chiesa stessa è in pari tempo riverita dall’Imperatore quale reame religioso il quale sta di per sè, di cui è monarca Cristo fondatore suo, che ha per vicario il Papa. Di tal guisa la donazione di Costantino statuisce la separazione delle due podestà, della podestà temporale e di quella spirituale, e nei tratti fondamentali determina quel dualismo, che in tutto il corso del medio evo tenne armati un contro l’altro, la Chiesa e lo Stato, il Papa e l’Imperatore[462].
[408]
Per lungo tempo Carlo fu molestato di ammonimenti del Papa, il quale non cessava di ricordargli con amara doglianza il patto dell’anno 774. Gli è pertanto mestieri di esaminare più attentamente quali fossero i singoli territorî cui quella donazione carolina riguardava, avvegnaddio la loro storia non possa ben separarsi da quella della città di Roma. Se ciò che narra il Biografo di Adriano sia esatto, allorchè i Franchi mossero in Italia, gli Spoletini si svincolarono dalla signoria dei Longobardi, come già parecchie volte avevano tentato di fare. Illustri cittadini di Spoleto e di Reate vennero a Roma, giurarono fede al Papa, e acquistarono la cittadinanza romana usando a simbolo la recisione della barba e dei capelli. Quando poi Desiderio si fu ricoverato dentro di Pavia, vennero ad Adriano legati di quel medesimo ducato di Spoleto, gli prestarono giuramento di fedeltà, e da lui ottennero la confermazione di Ildeprando, che già prima avevano eletto a loro duca: il loro esempio imitavano gli abitatori di Fermo, di Osimo, di Ancona [409] e di Città di Castello (Castellum Felicitatis)[463]. Ma tutti questi racconti sono incerti, laddove non si eleva alcun dubbio che Spoleto costantemente abbia appartenuto al reame franco[464].
Non era fatta contestazione per maggiori pretensioni che san Pietro sollevava nella Tuscia romana. L’Apostolo agognava di ottener possedimenti anche in questo paese; e sostiensi che già nell’anno 774 Carlo al Papa donasse Soana, Tuscana, Viterbo, Bagnorea (Balneum Regis), insieme ad altri luoghi non citati per nome. Adriano ne parla espressamente in una lettera da cui si pare che per il fatto gli fossero state consegnate quelle terre. Più tardi avvenne che gli furono anche promesse le due città di Roselle e di Populonia nella Tuscia Ducale, [410] che Carlo però indugiava a cedergli[465]. La Chiesa, non v’ha dubbio, aveva nelle terre di Tuscia possedimenti antichi, che i Longobardi le avevano usurpato, e Carlo vi aggiungeva la donazione di novelli patrimonî.
Parimenti avveniva nella Sabina. Qui pure da tempo antico la Chiesa possedeva dei beni, che Carlo (così almeno sembra) nell’anno 781 attribuiva di bel nuovo in proprietà a san Pietro, grandemente accrescendoli. Quelle terre portavano nome or di Territorium, or di Patrimonium Savinense, ma non comprendevano l’intiera provincia della Sabina, di cui la parte maggiore spettava al Duca di Spoleto. Ignoriamo di che estensione fossero i dominî della Chiesa nella Sabina, del cui reddito si mantenevano le lampade del san Pietro, e si provvedeva alla elemosina pei poverelli. I legati di Carlo e del Papa andavano colà per operarne la tradizione del possesso, ma, al momento di fissarne i confini, si elevavano fra la Chiesa e quei di Rieti delle contese che non si conchiusero a vantaggio della Chiesa, sebbene dei vecchiardi, che avevano ben cent’anni di età, attestassero che le terre controverse avevano appartenuto da tempo antichissimo alla Chiesa[466]. Ne consegue che questa, sullo [411] spirare del secolo ottavo, possedeva soltanto la parte minore della Sabina, e, soltanto posteriormente all’anno 939, potevano prodursi documenti ond’era dimostrato che questa provincia era stata tolta al Ducato spoletino, e se ne era costituito uno speciale Comitato sotto l’autorità suprema della Chiesa, che vi mandava suoi Rettori con titolo di Marchio o di Comes[467].
Se il Papa trovava delle difficoltà nei paesi or detti, ancor più gravi erano quelle che gli impedivano di farsi signore dell’Esarcato. Santo Apollinare di Ravenna, come san Pietro di Roma, possedeva una gran quantità di dominî, e, al paro dell’altro Santo, poteva trar fuori dei suoi archivî un numero infinito di scritte di donazione. Perfino di Sicilia, nel secolo settimo, la Chiesa ravennate traeva redditi così pingui, che i Rettori di quei beni, ad ogni anno, caricavano le loro navi onerarie di venticinquemila staia di grano, e di prodotti di frutta, di legumi, di pelli tinte in colore di porpora, di tessuti di seta colorati [412] in azzurro di giacinto, e di drapperie di lana; oltracciò portavano a casa vasellami preziosi, e non meno di trentunmila solidi d’oro, dei quali quindicimila affluivano al tesoro di Costantinopoli, e sedicimila entravano negli scrigni della Chiesa vescovile[468]. Al pari del Papa, gli Arcivescovi s’industriavano di conseguire signoria temporale nel loro bel paese, ma, fino dal tempo della donazione di Pipino, i Papi vi avevano esercitato loro pretensioni, e Stefano II aveva mandato suoi Comites e suoi Duces nelle città di quel territorio. Anche a Ravenna, Stefano aveva inviato due Judices, Filippo prete per le bisogne religiose, ed Eustachio duce per le faccende temporali[469]. Peraltro, dopo che Carlo nell’anno 774 fu partito d’Italia, Leone, arcivescovo, occupò parecchie città dell’Emilia, il ducato di Ferrara, Imola e Bologna, e ne cacciò i ministri pontificî. Affermava egli che quelle città non erano state donate al Papa, sibbene a lui; ed eccitava la Pentapoli a ribellarsi, e, per opporre resistenza alle incalzanti reclamazioni che Adriano moveva a Carlo, Leone andava egli stesso alla corte del Re. Ne tornava con più baldanza di prima, e proibiva ai Ravennati ed agli abitatori [413] dell’Emilia di andarsene a Roma per cose di governo. Indarno spediva Adriano suoi messi in quella provincia per riceverne giuramento di fedeltà e per chiedervi ostaggi; l’Arcivescovo con forza d’armi cacciava i legati. In pari tempo, Reginaldo, ch’era stato anticamente gastaldo longobardo nel Castellum Felicitatis ed era allora duce di Chiusi, s’impossessava di parecchi beni che Carlo aveva donato alla Chiesa, e perfino assaliva quel castello che apparteneva alla Chiesa nella Tuscia longobarda[470]. Il Papa rinnovava sue doglianze a Carlo; le lettere che vi hanno argomento, come la parte maggiore di quelle che sono comprese nel Codice Carolino, inducono a dispetto il leggitore: ed invero vi si svela con isfacciata nudità la cupidigia di beni terreni e la paura ansiosa di perderli; l’accrescimento della potestà temporale furbescamente si appella esaltazione della Chiesa, e si promette la salute dell’anima in premio di donazioni di terre e di vassalli, e si associa la beatitudine celeste al sacrificio dei beni terreni. Le brame mondane insaziate si celavano dietro alla tomba di un morto, la quale si tappezzava tutta di scritte di donazioni, di lettere, di anatemi, di giuramenti; l’avarizia si appiattava a riparo dietro alla persona di un santo Apostolo, che in vita sua non aveva posseduto neppur un minuzzolo di beni terreni, e che dopo morte non aveva più saputo di cose mondane, e non ne aveva avuto desiderio.
[414]
Non prima dell’anno 783 riusciva al Papa di mettersi in possesso dei suoi titoli su Ravenna, ma dopo che coll’aiuto di Carlo ebbe domata la resistenza dell’Arcivescovo, lo atterrirono le pretensioni che lo stesso Re dei Franchi elevava riguardo al supremo dominio territoriale. Al Papa non era concessa in veruna guisa la sovranità; e se ciò è dimostrato per Ravenna, lo è ancor più per la città di Roma, di cui Carlo era il patrizio, e dove ben presto avremo prove evidenti della giurisdizione sovrana ch’ei vi teneva. I Ravennati ricorrevano al Re contro le sentenze pontificie, come a giudice di supremo appello, nè il Papa loro impediva di cercare giustizia in Francia; solo lamentava che loro fosse dato ascolto anche se non erano muniti di lettere papali[471]. Nell’anno 783, due possenti Ravennati, Eleuterio e Gregorio, s’erano fatti rei di gravi maleficî e perfino di assassinio; sottraendosi ai tribunali pontificî ricorrevano alla corte di Carlo, ed il Papa pregava il Re che non prestasse loro orecchio, ma li mandasse a Roma, dove, coll’intervenzione di Messi franchi, si sarebbe proceduto alla loro inquisizione: se ne rivela il timore che Carlo recasse offesa a quella giurisdizione che al Pontefice per autorità di trattati spettava nei territorî[472]. Un altro avvenimento, di tempo ancora anteriore, gli aveva mostrato che il suo regale amico non era per nulla propenso a lasciarlo operare di suo arbitrio e senza [415] limiti, avvegnachè per la sola ragione di discorsi imprudenti, Carlo aveva fatto incarcerare Anastasio, che era nunzio pontificio alla corte di lui. Di tal guisa, il Re aveva leso il diritto delle genti contro un ambasciatore, e aveva operato con talento despotico non meno di quello che aveva fatto un tempo Leone l’Isaurico. Il Papa ne strillava come se l’imprigionamento di un suo nunzio forse un fatto inaudito a mente d’uomo, e chiedeva a Carlo che gli consegnasse il suo legato, affinchè fosse sottoposto in Roma a giudizio. E nel tempo stesso rimproverava il Re, perocchè egli con gran favore desse ricetto nella sua corte a Pasquale e a Saracino, che erano due ribelli fuggiti di Roma, e lo scongiurava di abbandonare quei malfattori al giudizio dei tribunali romani[473].
Il Re, tosto dopo, usciva con nuove e più gravi richieste che sbigottivano l’animo del Papa. Nell’anno 788 o nel 789, Carlo pretendeva al diritto di confermare la elezione dell’Arcivescovo di Ravenna; ed infatti, dopo la morte dell’arcivescovo Sergio, legati franchi s’erano opposti all’elezione di Leone succeditor suo. Se potessimo ancor leggere le lettere memoriali di Carlo, per certo vi troveremmo che egli invocava i diritti del suo patriziato anche in riguardo a Ravenna. Il predicato di Patrizio, col volger del tempo, aveva assunto una significazione differente da quella di un tempo: laddove Pipino lo aveva ancor portato nel senso di un semplice titolo di onore, esso di per sè era invece diventato un vero diritto per il conquistatore d’Italia, pel novello re dei Longobardi. [416] Non era infatti naturale, che sovvenisse a Carlo memoria della podestà che avevano avuto l’Esarca ed il Patrizio, di cui egli teneva le veci, senza che pur riverisse nell’Imperatore greco un’autorità maggiore della sua? Egli scriveva al Papa che la dignità di Patrizio si ridurrebbe a un bel nulla, se gli Arcivescovi di Ravenna salissero al seggio vescovile senza il suo beneplacito[474]. Appena aveva egli significato la sua consapevolezza dei diritti di Patrizio, il Papa con astuta accortezza diplomatica gli obbiettava, che anche Pietro santo vestiva manto di porpora; così, altresì da parte sua, il Pontefice si erigeva da patrizio contro a Carlo patrizio. S’avrà posto mente che era arte politica dei Papi di celarsi sempre colla persona e colle ambizioni di dominio temporale dietro alla figura del santo Apostolo; se quei preti bramavano acquisto di terre, non era per loro proprietà, ma per quella dell’Apostolo; era in nome di Pietro santo che ai Re scrivevano lettere minacciose: lo abbiamo veduto. Ogni qual volta dovevano lottare contro a’ Principi, era sempre il santo Apostolo che eglino contrapponevano a questi da competitore; chi toccava a qualcuno dei loro diritti, per ciò soltanto era un predone sacrilego di chiese. Nel sistema del Papato temporale, composto con artificio sottile, la mitica persona di questo [417] Apostolo continuava pur sempre ad essere la leva più poderosa; ed il terrore superstizioso di questo morto, che credevasi sepolto nella Confessione della sua chiesa, era propriamente ciò che formava il fondamento della podestà temporale dei Papi. Adriano con solenne serietà veniva adesso affermando che un patriziato spettava a san Pietro, e ne traeva l’origine dalla prima donazione di Pipino. «Infatti,» scriveva, «come abbiamo detto, la dignità del patriziato vostro noi serberemo immune da violazione, ed anzi ad onoranza ancor maggiore solleveremo, ma in pari guisa deve rimanersi immune da violazione e nella pienezza del diritto anche il patriziato di Pietro santo, protettor vostro, che il gran re Pipino, vostro padre, con iscritture concesse intero, e che voi a maggiore ampiezza confermaste»[475]. Mirabile infatti era l’accorgimento del sacerdozio romano. Se san Pietro la pretendeva da antagonista o da socio all’impero, poteva Carlo rifiutargli questo titolo? Egli cedeva o piuttosto tralasciava, per adesso, di discutere su quella pretensione; chè se egli fosse penetrato più addentro nel senso arcano di essa, egli avrebbe probabilmente compreso che il monarca spirituale teneva lui, monarca [418] temporale, in conto di socio nell’impero, oppure di console secondo nella signoria di Roma e dell’Occidente[476].
I sostenitori della sovranità pontificia, per affermare che essa s’era costituita fin da quel tempo, si appigliano ad una prova che del vero non ha se non l’apparenza: essi pretendono che al Papa appartenesse la città di Ravenna con tutti i suoi edificî publici. Per il fatto, nell’anno 784, Carlo chiedeva ad Adriano licenza di trasportare da Ravenna ad Acquisgrana alcuni capi d’arte; ed il Papa davane consentimento. Il palazzo del gran Teodorico, ch’era indi stato residenza degli Esarchi, era precipitato in gran decadimento; pur tuttavia splendido era di colonne magnifiche, di pavimenti di musaico e di tavole di bei marmi che ne aveano rivestito le pareti. Quei tesori erano tolti al loro luogo ed emigravano in Alemagna, ove erano adoperati ad ornare la novella cattedrale di Acquisgrana; molti marmi preziosi vi fornivano anche i monumenti di Roma[477]. Peraltro, se anche il Papa era [419] signore del territorio in Ravenna, non ne consegue perciò che egli in altro ordine di cose non riverisse l’autorità suprema del Re. Nell’anno 785, Carlo statuiva che fossero cacciati di Ravenna e della Pentapoli tutti i mercanti veneziani, ed il Papa dava immediato eseguimento a quel comando, quantunque o, piuttosto, perocchè il duce Garamano legato franco, giusto in quello avesse sequestrato parecchi possedimenti nel territorio ravennate, affermando che alla Chiesa non appartenevano[478].
Ei sembra che la cacciata violenta dei Veneziani si associasse al mercato che eglino facevano di schiavi e di eunuchi. Già fin dal tempo di papa Zaccaria, si rileva che i mercanti veneziani comperavano schiavi in Roma[479], e che gareggiavano coi Greci in quel commercio lucroso. Carlo dava cura sollecita a impedire quel traffico di uomini, e scriveva anche al Papa di avere udito che i Romani avevano commesso il delitto di vendere [420] schiavi ai Saraceni: ma Adriano protestava, di quei turpi mercati in Roma non esistere, essere gli empî Greci che comperavano schiavi lungo la costiera longobarda; e narrava che uomini longobardi, messi a disperazione per gli stenti e per la fame, si erano condotti eglino medesimi alle navi di mercanti greci, per avere nella servitù di che nutrirsi. Quei Greci, al paro dei Veneziani, navigavano rasente le spiagge del mare Adriatico e del mar Tosco; Venezia, Ravenna, Napoli, Amalfi, Centumcelle, Pisa, erano i porti nei quali negoziavano; ivi vendevano loro mercanzie, e nel tempo stesso vi acquistavano schiavi o fanciulli evirati. Adriano aveva esortato Allo, duce di Lucca, ad armare un naviglio per isnidare i Greci dal mare di Toscana, ma quegli vi si era rifiutato, ed il Papa lamentava di non possedere navi di suo. Non v’era marineria romana che animasse Porto a vita, e rade volte appena vi gettavano l’ancora navi mercantili, chè a questo tempo i traffichi s’erano trasferiti a Centumcelle, che è l’odierna Civitavecchia. Rutilio celebra questo porto di Trajano come grande e bene munito, e la città, ossia il suo castello, è menzionata nelle Guerre Gotiche. Al tempo di Gregorio magno, Centumcelle era governata da un Comes, e le sue mura erano state restaurate da Gregorio III, perocchè lo richiedessero l’importanza del luogo e la necessità di presidiarla dai predoni di mare, da cui era minacciata. In quel porto Adriano faceva mettere in fiamme le navi greche e cacciarne in prigione i marinaî; così operava da signore di quella terra, nè s’impensieriva della collera dell’Imperatore greco[480].
[421]
Di tutti i Ducati longobardi, quello di Benevento era il solo dai Franchi non conquistato; Arichi, che ne era duca, aveva per moglie Adelberga, figlia dello sventurato Desiderio: era un Principe d’animo intraprendente e magnifico, che imperava su tutte le province che oggi compongono il reame di Napoli, ad eccezione delle città greche di Napoli, di Gaeta, di Amalfi, di Sorrento e di altre poche delle Calabrie. Quel florido paese colla sua capitale Benevento, che era la più bella e possente città dell’Italia meridionale, era difeso dalla lontananza, dalla sua grandezza ed anche [422] dalla sua alleanza coi Greci e dalla flotta di questi. Dopo che il reame longobardo fu distrutto nell’Italia settentrionale e nell’Italia centrale, il duca di Benevento diventò l’avversario naturale dei Papi, che fervidamente si adoperarono a distruggerlo.
Non appena era caduta Pavia, Arichi assumeva titolo di Princeps, e per tal modo proclamava la sua independenza: ei si faceva consecrare con gran solennità dai Vescovi del suo Ducato, vestiva la porpora, e promulgava indi editti dal suo «sacro Palazzo»[482]. Tutto così dava a divedere il suo intendimento di fondare nell’Italia meridionale una monarchia longobarda. Alla corte di lui mettevano capo tutti i disegni con cui l’esule Adelchi si proponeva di restaurare il suo regno, di cacciare i Franchi e di fiaccare l’orgoglio del Papa. Si conchiudeva alleanza fra lui, Arichi, Radagaiso duca di Friuli, Ildebrando di Spoleto e Reginaldo di Chiusi, e vi si iniziava anche Leone arcivescovo di Ravenna. Nel Marzo dell’anno 776 volevasi far d’ogni parte irruzione; ma ne giungeva contezza al Papa, e questi scriveva a Carlo che venisse a salvare Roma dal pericolo gravissimo che la minacciava[483]. Il Re si accontentava di muovere rapidamente contro Treviso e il Friuli, e di distruggervi Radagaiso; così ogni pericolo da quel lato [423] per sempre era impedito, ma con alacrità maggiore a Benevento rinfocolavano i tentativi di restaurazione[484]. Dalla parte di terra, questo Ducato confinava colla Campagna romana, ed erano città di frontiera, Sora, Arpino, Arce ed Aquino; da mare il Ducato si stendeva fino a Gaeta, che, al paro di Terracina, apparteneva allora ai Greci, e stava sotto il reggimento del Patrizio di Sicilia. Di qui Adriano si vedeva ad ogni istante minacciato; i Beneventani conchiudevano lega con Terracina e con Gaeta, dove si trovava il Patrizio, allo scopo di invadere con loro forze associate la Campagna; rifiutavano la pace che il Papa offeriva; laonde questi univa allora la soldatesca della Chiesa agli armigeri di alcuni Conti franchi, e con prospero risultamento difendeva la Campagna[485]. Così per la prima volta fu visto il Papa far guerra da principe temporale, e muovere anzi a conquiste, chè la greca Terracina prendeva con forza d’arme. Questa [424] città, che talvolta al tempo del goto Teodorico è ancor nomata come illustre, doveva già a quest’età essere decaduta profondamente; Adriano ne parla con disprezzo, ma è difficile che egli così sul serio pensasse[486]. Il Papa offeriva Terracina ai Napoletani in cambio del patrimonio della Chiesa nella Campania, che era stato confiscato da Leone l’Isaurico, ma eglino preferivano di prender con forza la città, e ciò loro anche perfettamente riusciva[487].
Adriano esortava adesso il Re affinchè raccogliesse in arme l’eribanno di Toscana e di Spoleto, ed anche gli «empi» Beneventani, ed acciocchè, sotto la capitananza di Wulfrino, li facesse muovere a Roma, al più tardi in sull’incominciamento del mese di Agosto, non soltanto per conquistare di bel nuovo Terracina ma per assoggettare altresì Gaeta e Napoli[488]. Egli si doleva amaramente delle mene di Arichi duca, il quale aveva coltivato [425] trattative con Napoli, ed ogni giorno riceveva messaggi dal Patrizio di Sicilia, e non aspettava che lo sbarco di Adelchi con navi bizantine per rompere guerra. Le paure di Adriano avevano buon fondamento, chè il figlio di Desiderio si maneggiava con grande operosità a Bisanzio per allestire contro Italia un’impresa che avrebbe trovato ajuto in Sicilia e nel Ducato di suo cognato.
Per tal guisa le condizioni d’Italia inducevano Carlo a scendere per la terza volta in questo paese. Nel Natale dell’anno 780 venne a Pavia colla moglie Ildegarda e coi suoi figliuoli Carlomanno e Luigi, e nella Pasqua dell’anno successivo (addì 15 dell’Aprile 781) venne nuovamente a Roma. Qui, nella cappella di Petronilla, il Papa battezzò Carlomanno, dandogli il nome di Pipino avolo suo; laonde Adriano indi appellossi compadre di Carlo. Nel giorno di Pasqua, Adriano consecrò re i due Principi; Luigi assunse titolo di re d’Aquitania, Pipino ebbe quello di re d’Italia: così Carlo significò che aveva deliberato di costituire novellamente in un solo reame tutta questa contrada, sotto lo scettro suo o sotto quello del suo figliuolo[489]. La proclamazione di un Re proprio d’Italia distruggeva pertanto le ambiziose speranze dei [426] Papi, a favore dei quali indarno era stato inventato il racconto della donazione di Costantino.
Carlo non intraprese spedizioni di guerra contro Benevento, ma tornossene a Pavia; ed Arichi, il quale ora riveriva, in forma di principio, l’autorità suprema dei Franchi, continuò ad essere effettivamente re della sua terra, ed a inquietare il Papa coll’associazione che lo legava ad Adelchi ed ai Greci. Scorsero dappoi cinque anni, e sono ravvolte nel bujo le relazioni che duranti essi corsero tra Roma e Benevento: finalmente Carlo nell’autunno dell’anno 786 per la quarta volta calava in Italia. Dopo di aver celebrato a Firenze le feste di Natale, veniva nella primavera dell’anno 787, per la terza volta, a Roma. Le instanze di Adriano e la podestà sua di signore d’Italia, lo inducevano adesso ad intraprendere una guerra contro Benevento. Arichi, che allora combatteva con Napoli, tentava di dissuadernelo, mandando a lui in Roma il figliuol suo Romualdo con ricchi donativi. Ma era indarno; Carlo tratteneva il Principe presso di sè, i Franchi s’avanzavano fino a Capua, ed Arichi allora si gettava dentro a Salerno, che in gran fretta muniva di mura e di torri. Ma non essendogli possibile di resistere lungo tempo contro la potenza di Carlo, gli conveniva presto sottomettersi; colla interposizione dei suoi Vescovi conchiudeva pace con lui, ed obligavasi di pagargli un tributo annuo di settemila solidi d’oro, di cedergli il suo tesoro e di dargli in ostaggio Grimoaldo suo figlio. A queste condizioni i Franchi si ritiravano di Capua[490].
[427]
Carlo celebrava per la terza volta la Pasqua in Roma; era questa una buona occasione per offrire «a salvezza dell’anima sua» una novella donazione al principe degli Apostoli, cupido sempre di possedimenti, o più veramente per regalarne il Papa. Dante, che falsamente disse, Costantino aver fondato lo Stato della Chiesa, quantunque non credesse nè alla esistenza giuridica, nè alla verità della donazione, avrebbe assai più acconciamente dovuto biasimare Carlo Magno, avvegnachè sia stato questo Principe che alla Chiesa concesse, per isventura di essa, tanta ampiezza di territorî[491]. Di contro alle lettere di Adriano non è pur lecito di dubitare che allora parecchie città del territorio beneventano fossero date in dono alla Chiesa[492]. Il Papa dice espressamente di essere stato regalato della celebre e antica città di Capua; le altre erano Teano, Sora, Arce, [428] Aquino e Arpino, patria di Cicerone e di Mario[493]. Ma ciò nonostante, non può provarsi che col loro effettivo possedimento il Papa ampliasse il suo dominio romano; per confessione di lui i messi di Carlo gli consegnavano soltanto i conventi, gli edificî vescovili e le corti appartenenti allo Stato (curtes publicae); gli facevano, è vero, tradizione delle chiavi delle città, ma gli vietavano di trattare da sudditi i loro abitatori.
Questa donazione si riduceva a un bel nulla, allorchè Arichi, dopo la partenza di Carlo, rompeva il suo giuramento di vassallaggio. Il Duca riannodava trattative con Adelchi, e chiedeva valido aiuto a Costantino imperatore. Costantino VI era figlio di Leone IV e nipote di Costantino Copronimo, ch’era morto nell’anno 775. Il padre di lui aveva regnato da fervido iconoclasta fino all’anno 780, e, morendo, aveva lasciato il regno, ossia la tutela del figlio, ad Irene sposa sua. Questa donna greca, bella, astuta, gran maestra d’intrighi, aveva portato di Atene sua patria un occulto affetto all’onoranza delle imagini, lo avea nutrito sul trono di Bisanzio, e, durante la età minore di suo figlio, aveva trovato modo di ricomporlo di bel nuovo ad onoranza in Oriente. Nell’autunno dell’anno 788, Roma poteva celebrare il gran trionfo del secondo concilio ecclesiastico di Nicea, in cui con grande solennità era riposto in venerazione il culto delle imagini. L’Oriente implorava dalla Chiesa romana la remissione dei suoi errori; l’Imperatore [429] e l’Imperatrice di Bisanzio confessavano che i loro predecessori avevano peccato, quando aveano indotto i popoli del Levante a ribellarsi alla reverenza delle imagini; eglino mandavano con molto ossequio messaggi al Papa, che aveva rotto ogni legame di sè e dell’Italia con Bisanzio e che s’era dato in braccio ai Franchi, e lo invitavano ad andarne a Costantinopoli[494]. Per ben mezzo secolo gli Imperatori greci avevano lottato contro la venerazione delle imagini dei Santi; ma, poco a poco, s’era andata affievolendo quella lotta gloriosa che l’intelletto avea combattuta contro una età intenebrata dalla superstizione, finchè la furberia di una femmina spigolistra e avida di dominio, conseguiva vittoria. Irene trovò un cantuccio nel calendario dei Santi, ma in verità ella comparve innanzi al tribunale di Dio, sozza dei sangue del suo figliuolo, che era stato da lei trucidato.
Così si acchetò l’acerba lotta a cagione di cui i Greci avevano perduto Roma; ma Italia rimase possedimento del Re dei Franchi, e Irene perfino vagheggiò di conchiudere col più possente Principe d’Occidente [430] un’alleanza di parentela, da cui il suo trono potesse avere un puntello. Nell’anno 781, per mezzo di legati bizantini spediti a Roma, Costantino VI, figlio di lei, si fidanzava a Rotrude, figlia di Carlo; ma questo legame doveva sciogliersi tosto che Arichi di Benevento richiedeva d’alleanza l’imperatore Costantino. Era il Papa che ne dava contezza al Re dei Franchi; e lo ammoniva che Arichi aveva chiesto a Bisanzio il titolo di patrizio e la duchea di Napoli, promettendo di prestare reverenza all’autorità suprema dell’Imperatore, e di vestire, e di acconciare il capo alla foggia dei Greci; e aggiungeva che l’Imperatore aveva già mandato in Sicilia due spatarî per crearlo patrizio, e che a questo uopo avevano portato con sè vestimenta tessute in oro, e spada, e pettine, e forbici[495].
Ma la morte repentina del Duca impediva che questi progetti si effettuassero. I Beneventani allora pregavano Carlo di restituire a libertà il principe Grimoaldo, che, statico, aveva condotto con sè in Francia, e chiedevano che loro lo desse in duca; e Carlo, ad onta delle esortazioni e degli ammonimenti di Adriano, aderiva alle loro richieste. Grimoaldo II, accolto con giubilo dai Beneventani, poichè necessità dapprincipio lo imponeva, stava sommesso ai comandamenti di Carlo, e perfino si congiungeva alle soldatesche di Pipino per combattere Adelchi, che in fatto nell’anno 788 sbarcava [431] nelle Calabrie, affine di conquistare nuovamente la corona d’Italia secondo i suoi antichi propositi. L’infelice figliuolo di Desiderio era volto in fuga, e tornava senza speranza a Bisanzio, dove, invecchiando nel dolore, moriva col titolo di patrizio. Caddero così a vuoto i progetti di restaurazione dell’antico Stato dei Longobardi; il quale continuò sua esistenza soltanto nel ducato di Benevento: qui Grimoaldo incominciò a reggere il governo secondo la mente del padre suo; condusse in moglie una nipote dell’Imperatore greco, e conchiuse una stretta lega colla corte di Bisanzio. Ma le guerre che egli ed il successore suo, Grimoaldo III, sostennero contro re Pipino, non appartengono all’argomento di questa Storia[496].
[433]
Abbiamo fin qui considerato l’accorto e ambizioso papa Adriano, intento all’opera politica, nella quale, con gravissimo nocumento della Chiesa, d’ora in poi riposano le cure maggiori dell’officio papale: ci conviene adesso tributargli giusta lode per ciò che egli fece in beneficio della città di Roma. L’operosità in questo riguardo assunse un novello impulso, allorchè i Papi videro colmarsi i loro scrigni coi redditi cresciuti dello Stato.
Nel Dicembre dell’anno 791 Roma fu nuovamente afflitta di un’inondazione del Tevere. Le acque rovesciavano la porta Flaminia, e ne trascinavano i rottami fino ad un arco della via Lata, che era appellato Tres [434] Faccicellas o Falciclas[497]. Il fiume faceva ruinare l’antico Porticus Pallacinae, che stava in vicinanza al san Marco, e le onde si riversavano fino al ponte di Antonino, che oggi ha nome di ponte Sisto[498]. Di queste inondazioni facciamo cenno, soltanto per osservare che esse di sovente si ripetevano, perocchè non si provvedesse più ad espurgare l’alveo del fiume o ad arginarne le ripe. È cosa probabile che Adriano restaurasse le mura della Città ancor prima dell’anno 791. Quantunque Gregorio III avesse intrapreso a ripararle, il lavoro non era stato eseguito con solidità di fondamenta, od altrimenti [435] convien dire che l’ultimo assedio di Astolfo avesse in parecchi luoghi recato grave guasto alle mura. Adriano perciò dava opera alla loro restaurazione nell’intiero circuito della Città; i coloni di tutti i patrimonî della Chiesa, tutti i comuni delle città della Tuscia romana e del Lazio, e Roma stessa, furono obbligati a contribuire al lavoro; e fu ad essi imposto di fornire una parte determinata della grandiosa opera. Dai tempi degli Imperatori in poi, la Città non aveva occupato in suo servizio una sì grande moltitudine di popolo[499]; e, dopo questa vasta restaurazione, Roma era di nuovo validamente munita, sebbene nol fosse più così fortemente e così maestrevolmente com’era stata all’età di Aureliano. Erano le mura di Adriano e le loro trecentottantasette torri che uno Scolastico, sul principio del secolo nono, vedeva e numerava, ancor prima che Leone IV cingesse di mura il territorio Vaticano. Possiamo di leggieri imaginare quanta ricchezza delle antichità di Roma andasse perduta a causa di quest’opera. Non durava più in vigore alcun editto di Imperatori che vegliasse alla salvezza dei monumenti antichi; abbandonati senza difesa, era forza che essi cedessero i loro marmi a chi voleva strapparne, e nelle cave di calce buttavansi alla rinfusa, come materia di gesso, frammenti di templi e rottami di bassi rilievi magnifici e di splendide statue.
Il Papa s’acquistava benemerenza non minore colla restaurazione di alcuni acquedotti. Dopochè Roma per [436] il corso di dugento anni aveva sofferto bramosa penuria di acqua, Adriano, novello Mosè, dissetava adesso il suo popolo. Vedemmo che, oltre all’Aqua Trajana, appena uno solo degli altri acquedotti era stato restaurato. Quel canale chiuso, attraverso il quale Trajano aveva derivato le acque da alcune sorgenti prossime al lago Sabatino (oggidì lago di Bracciano), e per un cammino di trenta miglia sotto elevate volte arcuate avea tratto fino al Gianicolo, già s’appellava al tempo di Adriano Aqua Sabatina; molti degli archi di quell’acquedotto erano ruinati, chè senza dubbio gli avevano fatti in pezzi i Longobardi nell’ultimo assedio. Pertanto, il pozzo del san Pietro e il bagno pei pellegrini, onde usavasi in tempo di Pasqua, dovevansi fornire di acqua, che con gran fatica vi si portava entro a botti[500]. Adriano rimetteva in buono stato l’acquedotto Trajano, e può darsi che fin d’allora le sue acque in parte venissero dal lago, e non soltanto dalle sorgenti. Poichè prendiamo per vero che la Trajana fosse messa a guasto dai guerrieri di Astolfo, e poichè nella biografia di Adriano è detto che, prima del suo ristabilimento, era [437] stata fuor d’uso da vent’anni, dobbiamo perciò accogliere l’anno 775 come il tempo della sua restaurazione[501].
San Pietro faceva di bel nuovo fluire le acque della Trajana; pari beneficio Giovanni Battista operava per l’Aqua Claudia. Nel secolo ottavo sarebbe stato, sotto qualunque riguardo, enorme cosa che Roma avesse manifestato il voto di possedere delle terme, e, perfino, la città capitale della Cristianità aveva sofferto, da lungo tempo, estremo difetto di acqua; che se, alla fine, il grido con cui ne faceva richiesta, otteneva ascolto, ciò avveniva perchè recava insopportabile pena che vuoti ne fossero i fonti battesimali delle chiese. Alcuni acquedotti degli Imperatori furono pertanto restaurati in servizio del Signore, e servirono, fuor delle chiese, da fonti pasquali, per riversare le loro acque sulle teste dei battezzandi, o sui piedi di stanchi pellegrini[502].
L’Aqua Claudia, prossima alla Marzia era stata il più pregiato acquedotto di Roma imperiale; essa scendeva [438] dai monti di Subiaco con un corso di trentotto miglia; le sue arcate superavano di altezza tutti gli altri acquedotti, così che, secondo il detto di Cassiodoro, le sue onde avrebbero potuto rovesciarsi sulla cima dei colli di Roma. Dopo un cammino tortuoso, la Claudia giungeva alla Città presso porta Prenestina (porta Maggiore); dal suo castello, che trovavasi nei giardini di Pallade Liberta, il condotto di Nerone trasportava le acque al monte Celio, dove poneva capo al tempio di Claudio. Di colà l’acquedotto spingeva sue ramificazioni all’Aventino ed al Palatino, e per tal guisa irrigava la parte maggiore di Roma. Dopo di Costantino, la Claudia aveva fornito di acque il battisterio e il bagno del Laterano, finchè i Goti ne avevano privato i Santi ed il popolo. Taluno dei predecessori di Adriano deve avervi effettuato qualche lavoro di riparazione, avvegnachè nella biografia di questo Pontefice sia detto, che essa ebbe fornito la Città di qualche po’ d’acqua, finchè il Papa la fece restaurare completamente, per modo che, come in antico, essa ne gittò in gran copia[503].
Un terzo acquedotto restaurato da Adriano, era detto Aqua Jobia, e lo si trova denotato con egual nome lungo la via Appia. Appena puossi decidere se fosse una ramificazione dell’Aqua Appia o della Marzia[504]. Il [439] quarto acquedotto era la celebre Aqua Virgo. Scaturiva presso la via Collatina, otto miglia lungi da Roma, e, dopo di aver raggiunto la Città a monte Pincio presso il Murus Ruptus, proseguiva il suo corso al di sotto di questa collina, indi, per canali e sotto di arcate, si spingeva nel campo di Marte. Agrippa ne era stato l’edificatore, ed il nome le era stato imposto da una leggenda la quale narrava, che una giovane donzella avesse guidato a questa magnifica fonte alcuni soldati che andavano in cerca di acqua: quell’appellazione conservavasi fino al secolo decimoquinto, chè allora prendeva voga il nome di Trevi. Adriano restaurò l’Aqua Virgo, ond’essa n’ebbe tanta abbondanza di acque che, da sola, avrebbe bastato a fornirne quasi tutta intera la Città; il campo di Marte, alla cui provvisione essa tornava necessaria, doveva essere fin d’allora abbastanza popoloso[505].
Adriano volse le sue cure anche alla Campagna di Roma. Omai l’agricoltura era messa al salvo da nuove devastazioni, dappoichè era caduto il reame dei Longobardi; e già avrebbe potuto animarsi a vita, se non l’avesse impedito la mancanza di un ceto di contadini liberi. Poco a poco, la Chiesa, i conventi, gli ospitali s’avevano abbrancato vastissime terre della Campagna. Peraltro, alcune famiglie della nobiltà cittadina vi possedevano [440] pur sempre degli estesi latifondi, e perfino vi avevano delle proprietà le maestranze della Città[506]. La Chiesa coltivava i suoi campi da sè, oppure, ed era più di sovente, li dava in affitto a persone private. Fu buona ventura che si sia conservato il Registro delle affittanze di Gregorio II nel compendio che nel secolo undecimo ne die’ un Cardinale: è un documento importante, avvegnachè ne sia fatto conoscere la estensione dei patrimonî pontificî, e molte particolarità dei luoghi[507]. Le terre erano coltivate dai coloni, uomini di condizione semilibera, che potevano essere venduti soltanto colla terra cui erano avvinti. Pertanto erano considerati come liberi, in paragone agli schiavi ossiano servi, quantunque il più delle volte fossero, insieme con questi, compresi sotto il nome generico di familia. Secondo le loro condizioni speciali avevano nomi parecchi: adscripticii erano quelli che per trent’anni o per sempre s’erano vincolati al fondo; originarii i loro figli nati sul fondo; conditionales e tributales quelli che per patto erano tenuti a soddisfare alcune prestazioni; mansuarii, perocchè vivessero nella massa o nel mansus. In documenti del secolo ottavo, le prestazioni di servigî sono dette soventi volte opera, xenia o angaria; e l’ultima [441] parola andò nel linguaggio comune a significare massimamente peso e oppressione[508]. Così chiamavasi l’obligo del lavoro, ossia il numero delle giornate di lavoro che colle braccia o con una coppia di buoi dovevasi prestare ad ogni settimana. Le abitazioni dei coloni appellavansi casales, casae coloniciae o, tutt’insieme, colonia; e curtis, ossia cascinale, è espressione consueta di quell’età. Dalle Lettere di Gregorio rilevammo quali fossero in generale le condizioni dei coloni; e i molti documenti dell’Abazia di Farfa, riguardanti donazioni o permute di beni, ci dimostrano che le condizioni degli agricoltori continuavano ad essere eguali a quelle del tempo antico. Pertanto, se i percettori dei tributi (conductores), o gli amministratori (actores) e gli ispettori supremi dei patrimonî (rectores), erano uomini d’animo retto, non doveva essere soverchiamente dura la sorte dei coloni, che vivevano sopra terreni fertili d’inesausta ricchezza, quantunque colle loro mogli e coi figliuoli fossero eglino trattati da scorte dei fondi. Ci manca in vero notizia dell’amministrazione della giustizia e del codice penale che li reggeva; nè è probabile che in un’età di barbarie i contadini trovassero sufficienti guarentie di protezione nella legge[509]. I servi, schiavi, [442] erano a partito assai peggiore, perciocchè nella persona nessun diritto li proteggesse. Spesso avveniva che fuggissero dai fondi, e si nascondessero nel fitto delle macchie o sulle alture dei monti; ne’ tempi anteriori avevano cercato ricovero nei conventi, ma più tardi veniva loro interdetto di rifuggire a scampo nello stato monastico. Peraltro v’hanno molti esempî di emancipazioni; il concetto della libertas durava ancora nel secolo ottavo, e si concedeva puranco solennemente ad alcuni schiavi, insieme colla libertà, anche il diritto civile romano. Allorquando uomini privati «per la salute dell’anima» donavano loro beni a’ conventi, la compassione gli induceva spesse volte a mandar liberi i loro schiavi; e questa era carità fiorita e più meritevole di tutte le opere di pietà[510].
[443]
Abbiamo già posto mente alla fondazione delle Domus cultae che avveniva per opera di Zaccaria; quelle cascine dovevano contribuire ad accrescere la popolazione nella Campagna e a farvi sorgere col tempo delle borgate. Alcune crebbero così infatti, ma ebbero corta durata. Erano isolate di luogo, e la mal’aria ed assalimenti briganteschi loro recavano ben di sovente la ruina. Anche qui occorre celebrare l’operosità di Adriano, perocchè sotto il suo reggimento fossero piantate sei di quelle Domus cultae; due ebbero nome di Galeria, le altre furono dette Calvisianum, S. Edistius, S. Leucius e Capracorum. La Galeria prima era situata lungo la via Aurelia, a dieci miglia da Roma presso Silva Candida; il fiumicello Galera dava il suo nome a parecchi luoghi di Toscana, ma il casale di Adriano non può certo confondersi con quella terra etrusca che stava presso l’Arrone, le cui acque scaturivano dal lago Sabatino[511]. La colonia di Adriano era locata più sotto assai, e forse sorgeva nel sito dove il fiumicello tagliava col suo corso la via Aurelia. Là dov’esso s’abbatteva nella strada di Porto, e dove ancora perdura il nome di «Ponte a Galera» imposto a una tenuta, presso la duodecima pietra miliare, stava la seconda Domus culta di Adriano, che aveva pari appellazione. Essa comprendeva altresì alcune terre [444] dell’isola tiberina, oltre ad un convento eretto a san Lorenzo[512]. La Insula sacra, come ancor la chiamava Procopio, ossia portus Romani, è talvolta menzionata nel Libro dei Papi coll’indecifrabile nome di Arsis. Ivi gli edificî ecclesiastici erano in gran disfacimento; perfino la basilica di santo Ippolito, che un tempo era visitata da moltitudine grande di pellegrini, andava in ruina: quanto poi agli antichi porti del Tevere, che erano Porto ed Ostia, al tempo di Adriano erano diventati palude.
Lungo la via di Ardea, a quindici miglia da Roma, era il fondo Calvisianum. Il territorio degli antichi Latini e dei Rutuli, cui altra volta avevano infuso movimento di vita alcuni luoghi ragguardevoli, quali erano Lavinio e Ardea, era adesso deserto e si copriva soltanto di ruderi di città; tanto maggiore doveva essere dunque il desiderio di Adriano di collocarvi una colonia[513]. Non [445] puossi determinare con esattezza il luogo ove la fondasse; ed è pure ignoto ove fosse situata la Domus culta appellata Edistius. Una chiesa di campagna di questo nome s’ergeva presso la decimasesta pietra miliare della via Ardeatina, ed intorno ad essa Adriano componeva la sua colonia[514]. Abbiamo già veduto che nella Campagna esisteva allora un numero di chiese più grande di quello che ivi è oggidì; ed anche la chiesa di san Leucio, che stava presso la quinta pietra miliare della via Flaminia, era fatta centro di una tenuta fondata da Adriano[515].
Ma la più ragguardevole di queste colonie era quella appellata Capracorum. Il territorio di Veio, che era stato il più ubertoso e fiorente della Tuscia romana, era ridotto triste deserto, illustre soltanto per le ruine di quell’emula antica di Roma; ivi, nel luogo fatto selvaggio, omai da secoli andavano errando le capre, pascolando lungo i torrenti che serpeggiano attraverso vallate di tufo vulcanico, e giungono alla prossima Cremera. Colà, nella diocesi di Nepi, i parenti di Adriano [446] possedevano un Fundus Capracorum; di esso il Papa deliberava di formare una colonia agricola, e punto di mezzo del tenimento doveva essere la chiesa che egli innalzava dalle fondamenta in onore di san Pietro. Adriano stesso, col clero e colla nobiltà, moveva di Roma per consecrare la sua colonia con grande solennità; di quella fondazione era il merito tutto suo, e la destinazione era rivolta agli scopi più santi. De’ suoi prodotti non dovevano provvedersi monaci di qualche convento o alimentarsi le lampade della tomba di qualche morto, ma il reddito ne era dedicato ai poverelli di Roma. Il possedimento dava prodotti di grano, di legumi e di vino, i quali erano deposti nei granai e nelle canove del Laterano. I boschi di querce di Capracorum nutrivano grandi greggi di maiali; a centinaia ogni anno si macellavano nelle masserie, e le carni di essi si portavano al Laterano[516]. Ogni giorno, centinaia di mendichi della Città si accalcavano alle porte del palazzo vescovile, e ivi, dei prodotti benedetti di Capracorum, della terra dell’antica Veio, ricevevano la carità del bravo Pontefice; una libbra di pane, un fiasco di vino ed una scodella di minestra e di carne a testa. Questo cibo mangiavano seduti sotto il portico del palazzo, indi con benessere dell’animo e con lieta ciera miravano i [447] quadri a colori, che sulle muraglie della loggia rappresentavano di quei banchetti di poverelli[517].
In breve tempo la colonia di Adriano venne in gran fiore, diventò un luogo munito e popoloso, chè, cinquant’anni dopo la sua fondazione, Leone IV, quando faceva cinger di mura il borgo del Vaticano, poteva imporvi una congrua contribuzione a quei lavori: e precisamente ad opera dei coloni di Capracorum fu edificato un tratto di muraglia fra due torri, come oggidì ancora cel dice un’antica iscrizione[518]. In essa [448] hanno nome di Militia, e ciò per una colonia desta meraviglia, avvegnachè i Milites esser dovessero liberi cittadini. Sennonchè, il pericolo onde la terra era minacciata dai Saraceni, fe’ sì che Capracorum si munisse di mura, e che la gente del contado fosse costretta ad armarsi; così molti di quegli uomini diventarono liberi; altri uomini liberi delle vicinanze trassero a quel luogo fortificato, di cui diventarono cittadini; e per tal guisa, da una tenuta colonica sorse un castello con una milizia sua propria[519]. La torre, o corte (curtis), o castello di Capracorum (con questi tre nomi a vicenda fu appellata la colonia dopo il secolo undecimo), si perdette col secolo decimoterzo, senza lasciar traccia di sè nella storia.
[449]
Ciò che Adriano fece per le chiese di Roma supera quasi l’opera che vi rivolsero i suoi antecessori; il fervore con cui egli ed i suoi prossimi successori attesero a edificare, illustrò massimamente con sontuosità di monumenti il primo periodo del dominio temporale dei Papi. Adriano trovava molte chiese in decadimento; alcune dalle fondamenta costruiva a nuovo, altre restaurava. Di tutte queste opere sue dà contezza il lungo catalogo che trovasi aggiunto alla biografia di lui.
La chiesa di san Pietro gli andò debitrice di preziosissimi ornati. Noi sappiamo che alla basilica conduceva un portico; incominciava esso non lungi dal castello di Adriano, e da questo capo vi si entrava da una porta (Porta s. Petri in Hadrianio) che forse al castello era attigua[520]. Il portico correva un tratto accosto [450] al fiume; era stretto e angusto, e sembra che fosse la via solita per cui il popolo moveva al san Pietro. Adriano vi pose fondamenta, affine di premunirlo da cadute, e vi adoperò più di dodicimila quadroni di pietra; indi restaurò anche il loggiato che si reggeva sopra colonne[521]. Portici di simil fattura conducevano fuor della Città al san Paolo e al san Lorenzo, ed anche questi il Papa riparava[522].
Nell’atrio del san Pietro, rinnovò la scalea maggiore e i due lati del Quadriporticus. Il campanile di Stefano II, rese adorno di grandi porte di bronzo che egli fece trasportare di Perugia, togliendole a qualche tempio antico[523]. Carlo magno gli mandava in dono delle travi da costruzione e alcune migliaia di libbre di piombo per la saldatura del tetto. Caduti erano di già i musaici dell’abside ossia «Camera», e Adriano li rifaceva a nuovo «secondo il disegno antico». Il pavimento innanzi la Confessione, per quel tratto che si [451] stendeva dalle balaustrate di bronzo, ossiano rugae, fino alla tomba dell’Apostolo, fu lastricato con lamine di puro argento, del peso di cencinquanta libbre; l’interno della Confessione poi fu rivestito di lamine d’oro, sulle quali erano istoriati fatti di storia sacra; e l’altare che era sulla Confessione, fu coperto di oro lavorato con opera sottile. La iscrizione postavi da Adriano ci induce a credere che vi fossero figurate in rilievo la persona di lui e quella di Carlo magno, con atteggiamento che alle loro dignità si conveniva. Vi è detto di Cristo: «Poichè ei discende di progenie di sacerdoti e di re, a entrambi questi ei commise di reggere il mondo. A Pietro, fedel pastore, diede a pascere la greggia, indi ne diè cura ad Adriano. E nella fida città porse il romano vessillo a quei servi suoi che egli a piacimento suo elesse. E Carlo, l’illustre e magnifico Re, lo ricevette dalla mano di san Pietro, che a lui benedice glorificandolo. Questo dono, che ne celebra la salute e il trionfo regale, qui pose il Pontefice, consecrandolo con orrevole usanza»[524].
[452]
Sulla tomba dell’Apostolo erano poste alcune statue di Santi scolpite in argento; in vece di esse il Papa allogò delle statue di oro massiccio, che rappresentavano il Salvatore, la Vergine, san Pietro, san Paolo e sant’Andrea. Con splendidezza, che superava ogni magnificenza, rinnovò tutti gli addobbi della basilica. Nei giorni di festa appendevansi a drappelloni, fra le colonne delle navate, dei tappeti tessuti in porpora e in oro, di sontuosissimo lavoro[525]. A Natale, a Pasqua, nella festività dei due Apostoli, e nel dì anniversario del Papa, si accendeva il doppiere gigantesco che, in forma di croce, pendeva dalla trave trasversale coperta d’argento, la quale reggeva l’arco di trionfo sopra della Confessione: e quando ardevano le sue milletrecentosettanta faccelle, in verità si meritava il nome di grande faro. Anche questa era stata fondazione di Adriano nella basilica[526].
[453]
Il Papa rese adorno con fastosissimo splendore anche il san Giovanni in Laterano. Rinnovò il portico del palazzo che ivi era, e, in vicinanza ad esso, edificò una torre che bellamente decorò di pitture e di marmi: ben può darsi che fosse la torre stessa di Zaccaria, la quale allora abbisognasse di restaurazione. Il rapido decadimento delle chiese romane, per fermo non reca lodo all’arte di quei secoli per ciò che s’attiene a solidità di edificazione; nè la potenza di costruzione era sempre proporzionata alla moltitudine delle fabbriche. L’atrio del san Paolo, ai tempi di Adriano, era lasciato in abbandono siffattamente, che vi andava pascolando il bestiame; per altro ei sembra che già fin d’allora si entrasse nella basilica, non dalla parte del Tevere, ma da una banda laterale. Adriano faceva selciare di marmo questo atrio.
Non vi fu chiesa titolare alcuna o diaconia che questo Pontefice non abbellisse; ad ognuna di esse donava venti tappeti tirî perchè li distendessero a festone negli intercolunnî[527]. Egli faceva operare in suo servigio gli [454] artisti a centinaia in una volta; per lui lavoravano in oro e in argento, in ismalto e in lapislazzoli, trapuntavano drappi di seta, componevano quadri in musaico, dipingevano a fresco con tratti di pennello che erano rozzi sì, ma non affatto privi di vita, e tentavano, sebbene con minor fortuna, la scultura. Abbiamo già manifestato il nostro dubbio che i lavoratori di musaici fossero unicamente artisti di Grecia, quali potevano essere quelli di Ravenna. In tutta Italia era allora coltivata questa fattura di arte; ciò pertanto fa supporre che quivi avesse fondato sue scuole, e che ne producesse suoi lavori; e si serba ancora una scrittura del tempo di Adriano, che ammaestra gli artisti del modo di colorire i musaici, di dorare il ferro, di scrivere in oro, di comporre lo smalto, di preparare l’azzurro di rame e il catmio, e dell’uso cui potevano adoperarsi nelle arti i minerali. Quel trattatello degno di nota, è scritto nel barbaro latino del secolo ottavo, e, se anche non sia che una traduzione dal greco, dimostra pure in qualche modo che le arti avevano eletto sede e nazione nell’Italia di quell’età[528].
È facile cosa peraltro che quegli innumerevoli arazzi sontuosissimi, istoriati a ricamo, fossero di origine [455] bizantina. L’arte di lavorarli era sorta in Oriente ed era fervidamente coltivata a Bisanzio e ad Alessandria. Di là probabilmente venivano loro artisti a Roma, ove lavoravano per incarico dei Papi; e può darsi che molti di loro in Italia emigrassero, durante la persecuzione delle imagini. I nomi dei drappi preziosi e dei pallii splendidamente trapunti, dimostrano una grande varietà delle loro stoffe e della loro fattura, ed in pari tempo rivelano che l’origine ne veniva dai paesi bizantini. Spesse volte sono greche le molte denominazioni dei tappeti ossiano vela; spesse volte, dal luogo donde derivano, sono addirittura appellati Alessandria, Tiro, Bisanzio, Rodi. Lo stesso dicasi delle drapperie bianche, porporine o azzurre, che erano screziate di pietre preziose o istoriate a ricami, e rappresentavano imagini di Santi o figure di animali, di aquile, di leoni, di grifoni, di pavoni, di liocorni. Anche i nomi dei vasi sacri, che i Romani appellavano con greca voce Cymelia, palesano la derivazione orientale. Massimamente poi, di quei pallii, di quelle drapperie e di quegli arredi, devonsi cercare gli esemplari nel tempio di Salomone, che fu un immenso tesoro della magnificenza orientale del culto; i Papi e i Vescovi imitarono le fogge fantastiche del vestimento dei gran sacerdoti degli Israeliti, e le chiese seguirono la splendidezza e il costume degli innumerevoli doni votivi di cui era colmo quel tempio. Le croci d’oro erano cariche di gemme, scintillavano degli ornati d’argento e degli smalti che v’erano condotti sopra; i vasi, le coppe, gli incensieri, i calici, i ciborî erano splendidamente adorni di disegni cesellati o battuti, e il lungo catalogo dei loro nomi enigmatici [456] alletta, e, in pari tempo, induce a smarrimento la fantasia[529].
Due chiese antiche e mirabili dovettero ad Adriano una accresciuta rinomanza.
Presso la via Latina, entro le mura della Città, esiste oggidì una basilica abbandonata, la cui torre, di costruzione medioevale, domina una larga estensione di orti incolti. È la chiesa di san Giovanni Evangelista. Narra la leggenda, che l’Apostolo prediletto del Salvatore fosse imprigionato in Efeso, dove aveva atterrato il tempio di Diana, e di là venisse tratto a Roma: erano allora i tempi di Domiziano. I carnefici gli recidevano le lunghe chiome ondeggianti, avvegnachè credessero che in quelle si occultasse un’arcana magia; indi lo gittavano in un vase pieno di olio [457] bollente. Ma l’Evangelista usciva di quel bagno senza alcun danno, e i giudici, impietrati per la meraviglia del portento, non osavano di sottoporlo a nuovi tormenti. Lo esiliavano in un’isola, e Giovanni partivasi illeso di Roma, e andava a vivere nella solitudine di Patmos, dove lo spirito di Dio gli rivelava le ascose leggi dell’universo. Alcuni leggendarî dei Greci trasportarono ad Efeso questa storia di martirio, ma i Latini pretesero che il fatto avvenisse in Roma; e, già al quarto secolo, i Romani mostravano un luogo fuori di porta Latina (la quale di certo a’ tempi di Domiziano non esisteva) in cui Giovanni sarebbe stato precipitato nell’olio bollente[530]: ivi, non si sa in che tempo, gli fu edificato un oratorio, e nello stesso sito, presso porta Latina, si eleva la cappella di san Giovanni in Oleo, costruzione dell’anno 1509. È altresì ignoto il momento in cui avvenne la primitiva fondazione della basilica; la forma odierna dell’edificio non è anteriore al secolo undecimo o al duodecimo, ma all’età di Adriano esisteva [458] di già la chiesa S. Johannis juxta portam Latinam, che quel Papa restaurava[531].
La seconda chiesa è una delle più antiche e mirabili basiliche della Città. Nella ottava regione, nel sito dove il Foro boario metteva capo verso il Tevere, ancora ai tempi di Adriano duravano in vita parecchi templi pagani. Due di essi, lungo il fiume, in vicinanza del ponte Palatino, lottarono cogli anni, e, risparmiati dall’ingiuria del tempo, esistono ancora oggidì, e sono appellati i templi di Vesta e della Fortuna virile. Oltre ad essi, sotto il monte Aventino e in prossimità del Circo massimo, s’elevavano un tempio della Pudicizia Patrizia e parecchi santuarî di Ercole, al culto antico del quale era sacro quel luogo: ed ivi era la celebre ara massima del semidio. La religione cristiana s’era già di buon’ora inoltrata nel suolo del Palatino e del Foro, e vi aveva piantato sede, costruendo le chiese di san Teodoro, di san Giorgio e di santa Anastasia; ma da questo lato invece aveva tocco appena il terreno del Foro boario. Chiusi erano i piccoli templi di Vesta e della Fortuna; i santuarî di Ercole erano abbandonati al disprezzo; ed il Circo massimo, che v’era vicino, ad onta di tutto il suo decadimento, conservava pur sempre a quel luogo le grandi orme dell’antichità. Peraltro, entro uno di [459] quei templi s’era ficcato il Cristianesimo lunga età prima di Adriano. Una piccola chiesa s’era sospinta fra la ruine del magnifico edifizio che s’elevava appiè dell’Aventino, di rimpetto al tempio di Vesta. È la chiesa di santa Maria in Cosmedin; senza che ad ogni modo si abbia certezza che quell’edificio fosse in antico il tempio della Pudicizia Patrizia[532]. L’interno della chiesa fu ordinato per guisa che le colonne del peristilio del tempio rimanessero in parte allo sgombro, in modo somigliante a quel che vedesi nel san Lorenzo in Miranda, entro il tempio di Faustina. Oggidì ancora, in un edificio attiguo alla chiesa, miransi gli avanzi della cella antica; ed otto colonne scanalate del frontespizio sono murate nel prospetto della chiesa.
Non sappiamo in che tempo questa basilica sorgesse; sulla fine del secolo sesto essa aveva di già grado di diaconia, col titolo di S. Maria in Schola Graeca. Questo nome si spiega da una associazione (schola) dei Greci, che ivi avevano residenza, e la cui memoria anche oggidì serba la «Via della Greca», che ivi esiste. Infatti, alla corporazione greca non apparteneva soltanto la chiesa diaconale, ma altresì il territorio circostante detto era Schola Graecorum; e tuttavia nel decimo secolo [460] quella sponda di fiume s’appellava Ripa graeca[533]. Forse si attribuiva quella denominazione alla basilica per distinguerla da S. Maria antiqua (oppure nova, come fu detta dopo il tempo di Leone IV), che ergevasi in vicinanza dell’arco di Tito[534]. Nel secolo ottavo usavasi soltanto denotarla col nome in Schola Graeca, e, soltanto dopo la edificazione di Adriano, fu anche chiamata in Cosmedin. Il Biografo del Papa ce ne spiega il significato, dicendo che la chiesa, in causa della sua splendida rinnovazione, a buona ragione diventò cosmedin, ossia [461] bene ornata[535]. Pari titolo riceveva in Ravenna una chiesa antica dedicata a Maria; similmente pure era appellata un’altra chiesa in Napoli; e forse tal nome si ricavava da quello di qualche piazza di Costantinopoli, avvegnacchè i Greci in Roma, in Napoli e in altri luoghi introducessero alcuni nomi della loro patria, indottivi dalla carità del luogo natio. In Ravenna, oltre a santa Maria in Cosmedin, eravi anche una santa Maria in Blachernis, a memoria di una chiesa di pari nome che Pulcheria aveva eretto a Bisanzio, dove così era nomato un sobborgo; ed in Roma altresì esisteva sull’Aventino un luogo detto ad Balcernas oppure Blanchernas[536]. Ben fu per eguale ragione che i Greci diedero a quella diaconia l’addiettivo in Cosmedin, ma il suo proprio significato si confuse nel concetto di cosmos ossia adornamento, per guisa che santa Maria in Cosmedin si spiegò per santa Maria Ornata.
La chiesa si presentava agli occhi di Adriano nella forma di un oratorio in decadimento, cui superavano di altezza le ruine del tempio antico. Il Pontefice faceva abbattere quei poderosi quadroni travertini, e ne sgombrava [462] il luogo[537]; indi edificava una basilica a tre navate ed un atrio, che, dopo la metà del secolo nono, fu rinnovata da Nicolò I[538]. La ricostruzione completa che avvenne più tardi sotto di Calisto II e di altri Papi, mutò massimamente l’aspetto della chiesa. È dessa uno dei più bei monumenti d’arte del medio evo, del secolo duodecimo e del decimoterzo, perocchè a questo periodo appartengano i musaici del pavimento, gli amboni e il tabernacolo. Soltanto la torre risale ancora probabilmente al secolo ottavo: è quadrangolare e non è rastremata; svelta di forma e leggiera come tutte le torri romane antiche, ha centosessantadue palmi di altezza su venti di larghezza, con sette ordini di finestre, tre per lato, separate da piccole colonne[539]. Degne [463] di nota sono alcune iscrizioni del secolo ottavo che trovansi nell’atrio della chiesa; sono scritte in caratteri assai rozzi, e si riferiscono a donazioni di Eustazio duce e di uno nominato Gregorio. Questi uomini (Eustazio era anche Dispensator della diaconia) legavano alla chiesa molti possedimenti di terra e, fra altri, dei vigneti a Monte Testaccio. Gli è a ragione soltanto della celebre collina così appellata, che facciamo qui menzione di siffatte iscrizioni, avvegnaddio il nome di Testaccio precisamente si trovi menzionato per la prima volta in questo luogo[540]. Fra l’Aventino, le mura di porta Ostiense e il Tevere, si eleva il monte, alto dugento palmi, quale sembra una piramide di rotti vasi di terra, ed è simile a simbolica collina sepolcrale di Roma antica, imagine di sua magnificenza fatta in ruine. Niuno sa dire quando e come siasi formato: sorse allora che Roma decadde. I Romani, che questa collina poco a poco andarono alzando, potevano in fatto scorgere in essa l’emblema della loro storia; da quei rottami di vasi lo appellarono Mons Testaceus, e la leggenda del medio evo narrava che esso era sorto dai cocci dei vasi nei quali un tempo i popoli dell’Impero romano avevano [464] avuto costume di recare a Roma i loro tributi d’oro e d’argento[541].
Pare che Roma in questa età avesse esaurito nelle cose ecclesiastiche tutta la sua forza, e che per gli studî delle scienze più non ne serbasse. Un buio profondo ravvolge le condizioni delle scuole letterarie di quel tempo. La dottrina dei preti romani era per certo superata di gran lunga dalla scienza degli stranieri: chè i monaci [465] della lontana Irlanda e dell’Inghilterra potevano farsi dottori a quella Roma, la quale tempo prima (e non era assai remoto) aveva dato vita ai primi loro conventi. Dopo di Gregorio magno non v’era in Roma uomo alcuno che avesse osato di sostenere un dialogo erudito con un Beda o con un Alcuino, con Aldelmo, con Teodolfo di Orleans, con un Isidoro o con un Paolo Diacono. Non fuvvi più alcun Pontefice che con scritture teologiche si adoperasse di avvicinarsi alla gloria di un Gregorio o di un Leone, e già si magnificava come opera grande, che Zaccaria traducesse in greco i Dialoghi di Gregorio.
I monaci dei conventi di Roma erano costretti a sbassare il capo, allorchè si narrava ad essi della dottrina onde ornavansi i loro confratelli del chiostro di Colombano, che era in Bobbio, o di quello di Monte Cassino. I Longobardi, maltrattati dai Papi che li chiamavano dispregiato rifiuto del genere umano, si vendicavano in silenzio dei Romani ignoranti, e progredivano nella cultura delle scienze liberali. Fino alla caduta del loro reame, Pavia splendette per istudî eruditi; Felice grammatico lasciava in retaggio al celebrato Flaviano il tesoro della sua sapienza, e quest’ultimo a sua volta, educava un uomo che fu illustre d’ingegno in quell’età, Paolo Diacono suo discepolo longobardo, il quale fra quei contemporanei suoi s’ebbe alta rinomanza di poeta e di storico. La caduta del popolo longobardo non fu descritta dalla ingenua penna di Warnefredo, ma ebbe dal suo culto intelletto onoranza; e l’orrore della caduta dello sventurato Desiderio fu mitigato dallo splendido genio di una sua figliuola. Fu questa, Adalberga, sposa ad Arichi di [466] Benevento, principessa di mente elevata che coltivò con vero affetto le scienze: fu la seconda donna d’Italia che nel medio evo abbia esercitato influenza sulla cultura degli studî, ed è di gloria tanto più degna, per ciò ch’ella sia vissuta in quel tempo antico, e donne pari a lei sieno sorte soltanto in un’età grandemente più tarda. Ed invero, i primi quattro secoli che succedettero alla caduta dell’Impero romano, furono in Italia illustrati da due sole donne germaniche, da Amalasunta figlia di Teodorico e da Adalberga figlia di Desiderio: la barbarie di quell’età è resa massimamente manifesta da questa mancanza di donne per ingegno eminenti.
Paolo Diacono, che era stato un tempo secretario di re Desiderio, godeva a Benevento od a Monte Cassino dell’amicizia di Arichi, e per sollecitazione di Adalberga scriveva la Historia Miscella, che è ampliazione e proseguimento di quella di Eutropio. Alla magnifica corte di Benevento e a quella di Salerno, in mezzo al tumulto dei rivolgimenti d’Italia, si coltivavano studî di rettorica e di storia; e la Principessa longobarda mandava a memoria le «auree sentenze dei filosofi e le gemme dei poeti», e conosceva la storia dei popoli non meno profondamente di quella dei Santi[542].
[467]
Nelle scuole di Benevento, di Milano e di Pavia si insegnava grammatica, dialettica e giurisprudenza; ma in Roma le scienze mondane, poco a poco, erano state cacciate in bando dagli studî di chiesa. Non ci giunge contezza di scuole o di professori illustri in istudî liberali, sebbene di questi maestri ivi fossero: difatti lo stesso Carlo magno, nell’anno 787, conduceva con sè di Roma in Francia dei grammatici e degli aritmetici, affinchè ivi fondassero delle scuole[543]; e Roma era ancora con onoranza tradizionale riverita quale madre delle sette arti umane, sebbene più non le ispirasse il genio che a volo poderoso le elevasse. In bel fiore era [468] soltanto la musica che si coltivava nella scuola Lateranense fondata da Gregorio; in essa si serbavano le discipline del canto ecclesiastico; di là i Carolingi toglievano maestri di canto e suonatori d’organo, oppure nel Laterano facevano istruire monaci franchi. Fra altri, Adriano concedeva a Carlo due celebri cantori pontificî, nomati Teodoro e Benedetto; l’uno il Re poneva a Metz, l’altro a Soissons, quai maestri del canto ecclesiastico romano; ma quegli uomini si dolevano perchè loro non fosse dato di cavare un solo trillo dalle gole dei Franchi, barbaramente stridule e roche[544]. In Roma dunque fioriva la musica religiosa sotto il patrocinio della santa Cecilia, ma più non vi spirava alito di musa poetica. La cultura dei poeti e degli oratori profani, che soltanto nel secolo undecimo comincia qua e colà a risorgere, s’era spenta dopo la caduta del reame dei Goti; e può darsi che Gregorio magno abbia non poco contribuito alla sua ruina. Certo è che dopo il quinto secolo v’erano ancora alcuni mitografi, i quali dichiaravano le favole degli antichi, e ne facevano compendiate comparazioni, ma di loro è dubbio se scrivessero in Roma[545]. Dopo di Aratore qui non v’ebbe più alcun [469] poeta; Omero, Virgilio e Orazio erano maggiormente noti alla corte dei Franchi di quello che fossero in Roma; e nel tempo in cui Angilberto, «l’Omero» di Carlo, e Alcuino colà dettavano loro poemi, nei quali non sempre erano sgraziati imitatori della semplicità e della eleganza di Virgilio, in Roma le tracce dell’arte poetica e della prosodia degli antichi, devonsi cercare soltanto negli epitaffi sepolcrali. In questa città dei morti le muse trascinavano loro vita sotterra, e, moribonde esse stesse, legavano alle tombe il loro ultimo anelito. Così, da questo costume cristiano di iscrizioni funerarie, era sorta una specie propria di poesia, ma avea già raggiunto il suo splendore dopo la metà del secolo quarto, in cui l’ingegno di papa Damaso, portoghese, aveva illustrato le catacombe di Roma con versi eleganti di ritmo eroico, che oggidì ancora si leggono qua e colà a loro luogo, con vaghezza. La più mesta di tutte le fogge di poesia era pur la sola che in Roma mai non si spegnesse; e i conventi, le chiese, i cimiteri della Città esibiscono una grande collezione dell’opera poetica di quella musa dei morti, con versi di tutte le età fino allo scorcio del secolo decimoquinto: certo è che nel sesto secolo vi si cade abbondevolmente nel barbarismo di lingua e di metro. Monaci o preti romani poetavano di quegli epigrammi; però non sempre. Allorquando Caduallo, re degli Angli, morì a Roma, e si volle comporre a onor suo uno splendido epigramma, sembra che non si trovasse verun poeta romano il cui ingegno fosse pari al tema. Si die’ incarico di scriverlo a Benedetto Crispo, vescovo di Milano, che giusto in quello era a Roma; e il poeta, che era già illustre, dettò quel tronfio epitaffio [470] che ci è noto[546]. Neppur il lungo epigramma che fu dedicato a papa Adriano, ed è uno dei migliori di quell’età, fu opera di un Romano; chè i versi scritti con temperata eleganza di frase e con maggior calore di sentimento, sono dovuti all’ingegno di Carlo magno, ed è probabile che Alcuino li vestisse del suo stile.
Carlo, che era stato suo discepolo in tutte le scienze, aveva invece avuto Pietro di Pisa a maestro di grammatica, nella quale allora comprendevasi anche la prosodia e la poesia; e Carlo si toglieva diletto di scrivere talvolta epistole in versi ai suoi amici, e ne indirizzava anche ad Adriano, che non dimenticava di lodarnelo da critico benevolo. Ho ricevuto, così questi gli rispondeva, i versi eccellenti, e adorni, e soavi qual mele, che sgorgarono dall’ingegno vostro eccelso e regale, a Dio sacro; e verso per verso gli ho letti, e con vera delizia ne ho accolto in me il senso robusto[547]. Ed egli stesso, che per ingegno e per cultura era l’uomo più ragguardevole di Roma, talvolta rispondeva a quegli officî cortesi con versi, dei quali alcuni si leggono anche oggidì. Hanno forma di acrostico, e l’espressione e il metro non sono più cattivi del loro tempo[548].
[471]
Nel secolo ottavo, la lingua latina scorgesi universalmente decaduta a corruzione profonda. Le lettere dei Papi ai Carlovingi, che noi abbiamo consultato spessissime volte quali documenti storici di questo periodo, offrono grande argomento di studio a chi scrive la storia della ruina del linguaggio latino. Uscite dalla segreteria del Laterano, dettate dagli stessi Pontefici, compilate da officiali dello Scrinium ossia dell’Archivio, quelle lettere pretendono di inspirarsi al migliore gusto di latinità, onde Roma a quell’età fosse capace. Ma havvi una grandissima differenza fra la ampollosa eloquenza dei rescritti di Cassiodoro e lo stile di queste epistole pontificie, nelle quali più non si serbano le leggi della logica, nè quelle della grammatica: le lettere di Stefano III sovrastanno a tutte le altre per profluvio di frasi; in tutte poi la incapacità di esprimere con chiarezza il pensiero, va di pari passo col barbarismo dell’idioma. Se in esse, nel Libro Pontificale e nel Libro Diurno, devesi a ragione cercare il miglior latino dei Romani di quell’età, è agevole cosa imaginare di qual conio esser dovesse in Roma la lingua usata nella vita abituale. Quali fossero le condizioni sue noi possiamo con qualche fondamento arguire dai documenti di quel periodo, siano essi scritture di donazioni, o atti di argomento giuridico, o iscrizioni funerarie o d’altro genere; dappertutto, in mezzo agli strappi del logoro manto dell’antico latino, ravvisiamo la lingua neo-romana far capolino, nata appena, e goffa ancora[549]. [472] Tuttavolta, non si conservò fino a noi alcun frammento della lingua popolare romana di quell’età; e mentre i Tedeschi e i Francesi nella celebre formula del giuramento di Luigi e di Carlo il Calvo possiedono un documento preziosissimo della lingua romana e dell’idioma tedesco dell’anno 842, uno di somigliante non v’ha per la «lingua volgare» che correva in Roma a quel tempo, e neppure all’età posteriore. Abbiamo, senza alcun dubbio, buona ragione di credere all’esistenza di una siffatta lingua volgare, e di reputare che questa differisse dal latino officiale, usato dai notai. Peraltro, quest’opinione deve andar soggetta a qualche restrizione; in nessun luogo del mondo, la lingua latina doveva serbarsi in mezzo al popolo più a lungo che in Roma, patria sua, dove, oltracciò, non erano avvenute invasioni inimiche, nè immigrazioni germaniche in grande larghezza. Non si trova infatti alcun cenno che i Romani di quel tempo abbisognassero di farsi tradurre dal latino in volgare le prediche dei preti o i documenti de’ notai, come avveniva nelle Gallie; ma questo sì esser doveva, che il latino de’ notai, già profondamente decaduto, nella bocca del popolo s’avesse corrotto ancor più[550]. Se un Romano del tempo di Tacito avesse potuto tornare alla sua città natia, avrebbe sì poco compreso la lingua del popolo, [473] quanto poco oggidì Carlo magno intenderebbe la lingua tedesca, o poco sì come i Tedeschi, senza avervi fatto precedere degli studî, capirebbero la lingua dei loro antenati del tempo di Carlo, od anche dell’età degli Hohenstaufen. L’idioma dei Romani, obbedendo alle leggi di natura, aveva subìta una trasformazione, causa le influenze del tempo. Ma gli è un errore quello di voler attribuire a colpa dei Goti e dei Longobardi la così detta corruzione del latino antico, anzichè di spiegarne la ragione coi naturali procedimenti di ogni decadimento. Lo splendido edificio della lingua latina precipitava a ruina in sè stesso interamente, parimente come Roma rovinava nei suoi templi e nei suoi palazzi: allorchè si leggono quei documenti del secolo ottavo, si hanno di già innanzi agli occhi soltanto i ruderi della lingua di Cicerone e di Virgilio, e dentro vi si scorge palpitare l’anima della favella cristiana di Roma, che va mutando di veste. La lingua officiale e letteraria, sola a noi accessibile, di Roma nel secolo ottavo, ci appare imagine massimamente vera della città di Roma, e dei contrasti della sua architettura, e delle forme della sua vita, avvegnachè da ogni parte la larva maestosa dell’antichità si sollevasse pur sempre al di sopra delle creazioni nuove. La ignoranza grammaticale dipendeva da questo contrasto del morto col vivo; infrante erano le leggi logiche della vecchia lingua romana; e il latino antico, il linguaggio degli eroi e degli uomini di Stato, poco a poco cessava di scorrere come una fonte viva, una volta che caduta era la religione pagana e si dissolveva l’antica società politica. Rattrappita, fatta a pezzi, la lingua andava lentamente trasformandosi, e [474] creava nuove leggi a sè stessa, fenomeno dei più meravigliosi nella storia della cultura umana. La sua parte inorganica somiglia ai musaici di Roma; al paro di questi, la lingua del secolo ottavo e del nono è invecchiata, si fa oscura, difetta di vivacità graziosa, goffeggia fanciullescamente nell’espressione d’idee nuove. Il passaggio al nuovo idioma volgare va operandosi poco a poco: troncate le desinenze, eliminate le consonanti finali, che già si facevano difficili alla lingua ed aspre all’orecchio, avviene una mescolanza delle vocali, mutano le consonanti, i nomi assumono l’articolo: similmente, la incapacità di conservare le regole di genere e di caso, s’insinua perfino nella lingua letteraria del secolo ottavo, educando quelle forme che costituiscono il suono dell’italiano, e che nel secolo decimo e nell’undecimo ottengono completamente il primato[551].
[475]
In questo capitolo tenteremo di descrivere l’ordinamento degl’istituti civili della città di Roma nel secolo ottavo.
Da lungo tempo abbiamo veduto che i Romani si ripartivano tutti in tre classi; la sacerdotale, la militare e quella che comprendeva il ceto inferiore dei cittadini: in generale erano clero, nobili e popolo; chè, in particolare, clero e nobiltà qua e là passavano insieme sotto nome di giudici e di ottimati, parimenti come l’ordine dei cittadini armati era compreso nella Militia, a capo della quale vediamo collocati i Romani ricchi, e gli illustri per rinomanza di lignaggio. La descrizione dell’organamento interno di Roma in relazione a queste tre grandi classi da cui procede la elezione del Papa, è un compito gravemente difficile [476] per lo Storico della Città, e le incertezze sono soverchiamente accresciute a causa degli elementi religiosi e temporali, che ormai vanno fra sè confondendosi.
Al tempo dei Goti, la Chiesa romana, al pari di ogni altro Vescovato, era ristretta ad operare nella cerchia dei negozî che erano specialmente proprî della sua missione religiosa e che erano rigidamente distinti da quelli della Città; questa poi da parte sua continuava avere la costituzione municipale e il suo reggimento autonomo; era amministrata dal Senato e dagli officiali di origine antica, ed aveva, a capo del governo, il Prefetto. La caduta della signoria dei Goti e le sciagure immense dei tempi che succedettero, cagionavano l’effettivo decadimento delle istituzioni romane, senza che però ne operassero con violenza la soppressione. Infatti, mentre nelle città d’Italia conquistate dai Longobardi, l’antica costituzione municipale o scompariva o si trasformava in mezzo agli elementi germanici che vi si introducevano, nell’Esarcato e nel Ducato romano, dove i Longobardi non dominarono, continuava la legislazione giustinianea, al paro degli avanzi delle forme municipali antiche. Ma la ruina di tutte le cittadinanze e la necessità di organamento militare, che diventava bisogno precipuo, recavano a conseguenza che volgesse a fine l’antico governo autonomo romano delle città e delle loro curie. Durante la dominazione bizantina, a capo di tutte le cose temporali di Roma erano Duci e Giudici imperiali eletti dall’Esarca; sennonchè, anche in quel periodo, abbiamo lamentato l’oscurità che si ravvolge intorno alle condizioni [477] del reggimento cittadino, e con sicurezza non abbiamo potuto far altro che notare la graduale estinzione di quasi tutti quegli istituti, che ancora esistevano al tempo di Cassiodoro. Sopravveniva un’epoca che rivelava i grandi mutamenti avvenuti: la pressura dei Longobardi chiamava in vita un ordinamento di difesa guerresca che in soldatesca cittadina associava la nobiltà e i cittadini liberi; di tal guisa, per un periodo di quasi dugent’anni, Roma ebbe indole predominante di città divisa in due ordinamenti, clericale l’uno, militare l’altro. Per lo meno, ivi la natura di tutte le istituzioni temporali appare decisamente militare, e i titoli di officiali publici che vi ebbimo discoperto, erano per lo più quelli soltanto di Duces, di Magistri militum, di Tribuni e talvolta di Comites e di Chartularii. Nulla dimostra a chiare note la inettezza del governo bizantino, più di quel che lo provi l’abbandono completo dell’organamento dell’esercito. Se gli Esarchi in Roma e in altre città avessero potuto conservare soldatesche devote all’Impero, Bisanzio avrebbe soffocato gli sforzi del Papato, e Roma per lungo tempo sarebbe stata impedita di raggiungere la sua independenza dall’Impero. Ma l’arte politica dei Greci fatta impotente, s’accontentava di cavar denaro a furia d’imposte; nel resto abbandonava le province al loro destino e lasciava che da sè s’aiutassero come meglio potevano.
Fu loro buona ventura che i cittadini di Roma si vedessero costretti a riprendere le armi, che per lungo corso di anni avevano lasciato in mano di mercenarî. Peraltro, dappoichè erano al servigio della Republica ossia dello Stato, eglino ricevevano stipendio dall’Imperatore, [478] e obbedivano al Duce o ai condottieri che loro preponeva l’Esarca. Su questo Exercitus romanus, il Papa, nella prima metà del secolo settimo, non esercitava ancora influenza; ne offre dimostrazione la sua rivolta avvenuta in Roma allora che Maurizio cartulario, al tempo di papa Severino, sequestrava il tesoro della Chiesa, e ne lo prova inoltre la ribellione di quest’officiale bizantino contro lo Esarca, nella quale dapprincipio la milizia romana gli ebbe porto mano. Per la prima volta al tempo di Martino I, l’esercito mostra commoversi a sentimento di nazione, e gli Esarchi incominciano allora ad avere riguardo alla sua adesione. Dopo di quel tempo l’indole puramente municipale della milizia si afferma più validamente; è dessa che rappresenta i diritti politici di Roma. L’avarizia e la debolezza dei Bizantini lascia allo scrigno della Chiesa il carico di retribuire l’esercito; la lotta continua dei Papi contro le eresie degli Imperatori rende in esso robusto l’amore di nazione, laonde abbiamo già veduto, allorchè parlammo dei primi moti della controversia pel culto delle imagini, che giusto in quel tempo l’esercito sorge in soccorso del Papa, e lo aiuta a fondare la sua signoria temporale. Questa milizia romana ora accoglieva in sè le classi dei cittadini forniti di possidenza, ed escludeva dal suo seno soltanto il ceto degli operai e la plebaglia. I suoi capitani (dopo la metà del secolo ottavo non ebbero più Duci greci il comando) erano Romani ragguardevoli, che continuavano a tenere titolo di Duci e di Tribuni, e presto cominciavano a tramandarlo in eredità alle loro famiglie. S’ignora il modo con cui erano conferiti quegli officî di capitano; però havvi buon fondamento di supporre che, [479] dopo di Adriano, ai gradi maggiori eleggesse il Papa, laddove gli eletti, secondo il costume romano antico, alla lor volta avevano diritto di nominare gli officiali inferiori. Ripartita per regioni e divisa in reggimenti (numeri), questa milizia, oltre all’organamento militare, uno ne aveva assolutamente civile e democratico, che gradatamente servì di fondamento alla costituzione della Città. Posava esso sul sistema delle corporazioni ossia delle Scholae, che, inspirandosi alla prima origine romana, si era serbato in vita durante il decadimento politico, e si era esteso ognor più.
Il concetto delle scuole (scholae) esisteva di già formalmente fin dal tempo di Diocleziano, in cui di quella maniera ripartivansi gli officiali del Palazzo imperiale e la guardia dell’Imperatore (3500 uomini in sette Scuole). Nell’origine, quella espressione significava le case dove convenivano genti che attendevano a eguali negozî, per trattarvi di affari di utilità generale; dal luogo delle radunanze il nome indi trapassava a denotare, come scholares, gli uomini che partecipavano alla corporazione[552]. Eglino componevano una società fornita di tutti i diritti di associazione civile, con officiali o Priori loro proprî, che secondo norme specialmente statuite provvedevano alle faccende di governo interno. Il primo di quei reggitori era appellato Primicerius o Prior, dopo [480] di lui venivano il Secundus, il Tertius, il Quartus della schola. Oltracciò, tutte le Scuole erano sotto la tutela degli uomini che appartenevano alla nobiltà più cospicua di Roma, ed appellavansi Patroni, personaggi influenti che loro facevano da proteggitori e da avvocati presso la Republica[553]. Le Scuole militari della Città possedevano delle proprietà in comune, e potevano condurre in affitto dei beni immobili. Da alcuni diplomi si rileva che, a significare la corporazione della milizia, s’adoperava l’espressione: publicus numerus militum seu bando (bandus); e numerus o bandus denotava la ripartizione cittadina in reggimenti[554]. Ogni cittadino che serviva nella milizia, detto era Miles, e già nel secolo ottavo questo titolo si adoperava [481] come onorifica distinzione dell’ordine sociale[555]. In questa età, massimamente nelle città non soggette ai Longobardi, i Numeri significavano la milizia civica composta di tutti i cittadini benestanti, atti alle armi; così la milizia rappresentava i diritti politici della cittadinanza, per modo che il concetto di Exercitus Romanus fu pari a quello di Senatus Populusque Romanus, e, come tale, ebbe grandissima importanza nell’elezione dei Papi[556].
Il pari sistema di corporazione si estese in tutte le classi della cittadinanza romana, e, quantunque nei documenti di questo nostro periodo non si faccia speciale menzione di altre associazioni oltre a quelle dei militi, dei Peregrini, dei notai e dei cantori pontificî, è tuttavia fuor di dubbio che altre ve ne aveva. Esistevano allora delle corporazioni di notai ossiano tabellioni (schola forensium in Ravenna), ed altresì di medici, di operai, di mercanti e di artigiani di ogni qualità. Queste corporazioni, che dalla professione cui esercitavano erano appellate anche artes, avevano loro statuti ossia pacta; quando entravano nell’unione, i socî pagavano una moneta determinata, e giuravano di adempiere alle regole della maestranza. Un Prior, ossia Primicerius, governava le faccende dell’associazione, vigilava affinchè le norme dello statuto fossero adempiute, e rappresentava la maestranza [482] nei rapporti collo Stato, cui pagavasi un tributo per il privilegio che accordava[557]. Lo scrigno del sodalizio dispensava sovvenzioni, provvedeva a soccorrere gli infermi ed i poveri della Schola e a dar sepoltura ai socî defunti, sovveniva alle spese del luogo dell’adunanza e dei banchetti festivi, come avveniva in antico. E può darsi che, nella generalità, le corporazioni del secolo ottavo fossero assai somiglianti ai sodalizî del vecchio tempo. Ogni associazione aveva la sua chiesa o cappella, il suo cimitero, ed anche i suoi patroni celesti, come un tempo i collegî degli antichi Romani avevano avuto divinità loro proprie[558].
[483]
Fra queste corporazioni dei cittadini di Roma esistevano anche le Scuole degli stranieri (Scholae peregrinorum) separate fra sè; ed esse danno un sembiante di alta rilevanza alla vita della Città, perocchè in mezzo a quella barbarie di tempi rappresentino l’impronta cosmopolitica che sulla faccia di Roma aveva stampato l’opera della Chiesa. L’antichissima di quelle colonie di stranieri era la scuola, ossia comunità, degli Israeliti. Per lunghi secoli una tenebra oscura ne ricopre le sorti; chè, dopo di Teodorico il quale ne fu proteggitore, per gran tempo di loro non si fa pur motto: tuttavia la comunità continuava ad esistere nel Transtevere, e ci sarà data occasione di trovare ivi più di sovente la loro Sinagoga durante il successivo medio evo[559]. Per lo contrario, occorre spesse volte menzione della Schola Graecorum; e sappiamo omai che il luogo di questa colonia era posto a santa Maria in Cosmedin. Esistevano poi in Roma anche dei conventi greci.
[484]
Eranvi altresì quattro colonie di Peregrini di nazione germanica; chè Sassoni e Franchi, Longobardi e Frisoni avevano tutti dimora nella regione del Vaticano[560]. La più antica era la Scuola degli Anglosassoni, fondata da re Ina, il quale era venuto a Roma nell’anno 727. Qui egli poneva un istituto destinato alla istruzione cattolica di principi e di preti d’Inghilterra, ed edificava per i pellegrini del suo paese una chiesa, la quale in pari tempo doveva servire a cimitero di quelli tra loro che in Roma fossero morti: precisamente per questa ragione era scelto il santo suolo del Vaticano a fondarvi di tali istituti per gli stranieri. Ad ogni anno facevasi maggiore l’accorrenza di Germani che peregrinavano a Roma; questi uomini, per lo più angustiati da gravissima povertà, venivano dal settentrione valicando mari, fiumi e montagne, passando attraverso paesi selvaggi e nemici, superando fatiche infinite, e finalmente giungevano al san Pietro, dove con fervida pietà scioglievano loro preci sulla tomba dell’Apostolo. I disagi e gli stenti, il clima inusato, l’insolita maniera di vita, traevano molti di loro a morte, ed allora ricevevano sepoltura nel Vaticano, nella santa terra dei Martiri. Affine di costituire un reddito con cui si mantenesse la sua fondazione, Ina ordinava il così appellato scotto di Roma, ossia il pagamento di un denaro, che ogni focolare del suo reame del Westsex doveva contribuire [485] a san Pietro[561]. L’istituto ottenne ampliazione da Offa di Mercia, allorchè questi venne a Roma nell’anno 794, per farvi penitenza di un suo delitto di sangue. Anch’egli indisse il denaro di san Pietro in dote di quella fondazione; e vi aggiunse uno xenodochio, da cui, nell’anno 1204, ebbe origine l’Ospitale di Santo Spirito, il cui nome si trasfuse anche alla chiesa di Ina[562]. Tutto il quartiere, dove questa chiesa si elevava, ebbe nel medio evo nome di Vicus ossia Burgus Saxonum, di Saxonia, oppure, nella bocca del popolo, di Sassia[563].
[486]
In quei pressi esisteva pure la chiesa dei Frisoni, che oggidì tuttavia s’appella san Michele in Sassia. Pellegrini di quella nazione, ch’era stata già convertita da Willibrod e da Bonifacio, venivano a Roma; si univano ad essi dei Sassoni battezzati, e fondavano un ospizio ed edificavano la chiesa di san Michele in Sassia[564]. Sorse essa nel secolo nono, al tempo di papa Leone IV, sopra un colle che nel medio evo ebbe nome di Mons Palatiolus[565].
Può darsi che allo stesso tempo appartenga la fondazione della Scuola dei Franchi. La loro colonia deve essere stata assai ragguardevole, perocchè, dal tempo di Pipino in poi, le strette e vive relazioni che correvano fra [487] i Re franchi e Roma, traessero dalla loro contrada alla Città moltissimi pellegrini, e molti Franchi già vi ponessero dimora. La loro chiesa sorgeva dallo stesso lato del quartiere Vaticano, e chiamavasi san Salvatore in Macello, o, più tardi, «del Torrione» da una grande torre rotonda che è vicina all’odierna «Porta de’ Cavalleggieri.» Essa pure ebbe destinazione di cimitero per i pellegrini[566].
Anche i Longobardi avevano loro residenza nel territorio Vaticano, sia che ve l’avessero posta già da tempo antico, sia che la fondassero soltanto dopo la morte di Desiderio; ed in vero la loro Scuola si menziona per la prima volta nella biografia di Leone III, e del loro ospizio di pellegrini si fa cenno soltanto al tempo di Leone IV, allorchè un incendio distrusse il quartiere dei Sassoni[567]. La chiesa dei Longobardi dev’essere stata quella di santa Maria in Campo Santo ovvero di S. Salvator de Ossibus: anche qui la principalità era un cimitero posto nel santo suolo Vaticano[568].
[488]
Mentre la cognizione nostra dello stato in cui era il popolo romano a quel tempo, si restringe in generale a ciò solo, di discernervi l’esistenza di un organamento militare e civile sul fondamento delle corporazioni, incertezze ancor più gravi ci occorrono per ciò che riguarda la costituzione municipale e il reggimento civile della Città. Pochissimi documenti soltanto del primo secolo che succedette a Gregorio magno, giunsero fino a noi; e ciò che si raccoglie da essi e dalle considerazioni dei Cronisti, ci offre dei risultamenti d’indole anzi negativa che positiva.
L’antico Senato romano non era più. Dopo l’anno 579, non v’ha Scrittore greco o romano che ne parli, e questo silenzio ci apprende che esso s’era estinto, appunto così come lo ha detto Agnello di Ravenna. Solamente dopo l’anno 757, l’antico nome di Senato torna parecchie volte a galla. Lo abbiamo veduto per la prima volta nella epistola che il popolo romano indirizzava a Pipino, dopo l’elezione di papa Paolo I. Sono i Romani [489] stessi che vi sottoscrivono col nome di Senato, ed anzi manifestamente vi troviamo inserta la formula antica di Senatus Populusque Romanus; unicamente il senso è diverso, ed i sostenitori della opinione che il Senato in quei secoli continuasse ad esistere, non ritraggono da questo fatto che un sostegno apparente. Del resto, nessun’altra età era stata mai fin adesso così acconcia a far rivivere la ricordanza delle istituzioni antiche dei Romani, al paro di questo tempo, in cui la Città si sottraeva alla dominazione bizantina e ricominciava a sentirsi principe di alcune province. Così sorse novellamente il Senato, ma soltanto di nome e di memorie. Le potenti famiglie nobili che tenevano i primi officî nella Chiesa, nell’esercito e nel reggimento cittadino, ed avevano titolo di Duci, di Conti, di Tribuni e di Consoli, si sollevavano adesso con piglio risoluto da vera aristocrazia di Roma, che contro ai Papi diventava formidabile. Sono soltanto questi ottimati, ossiano Judices de Militia, che pretendono a favor loro il nome insigne di Senatus[569].
[490]
Se il Senato avesse continuato ad esistere come collegio, non v’ha dubbio che troveremmo adoperato il titolo di Senatore; di esso invece non si rinviene traccia in qualsiasi documento di questi secoli, e le lettere dei Papi parlano di ottimati, ma non di Senatori. Oltracciò, se un Senato avesse solamente, come parte eletta, rappresentato in generale l’aristocrazia, oppure avesse fatto corteo al Papa come collegio consultivo nelle bisogne politiche, noi vedremmo Senatori far mostra di sè ogni qual volta si trattasse delle più importanti faccende di Roma, nella elezione dei Pontefici e nei negozî che trattavansi colle corti di Pavia, di Francia e di Bisanzio. Ma, come al tempo di Gregorio, così nel secolo ottavo non se ne fa mai pur cenno. Fra i legati dei Papi alle corti dei Principi, fra i loro plenipotenziarî inviati a ricevere la tradizione di città, o a determinare i confini dei paesi, non troviamo altro che Abati e Vescovi, e maggiori officiali di palazzo, come erano il Primicerius dei notai, il Saccellarius e il Nomenculator, e, di quando in quando, qualche Duce: fra le comitive finalmente che seguivano [491] i Pontefici nei viaggi che imprendevano per gravi faccende publiche, oltre ai cherici troviamo soltanto ottimati della milizia; e nelle instanze che i Papi indirizzavano in nome di tutti gli ordini della cittadinanza romana per ottenere soccorsi, non accade mai che sia fatta menzione di un Senato[570].
Ei si conviene conchiudere pertanto che il Senato romano, nella forma che aveva in antico, s’era pienamente estinto; nè havvi alcun documento che confermi l’opinione di coloro, i quali reputano che nel secolo ottavo si fosse conservato per lo meno in forma di Curia cittadina, ossia come collegio dei Decurioni. Il gran numero di Consoli che già nel secolo ottavo, e assai più nei secoli posteriori, si riscontra nei documenti di Roma, ha indotto alcuni illustri eruditi a scorgere in quelli i Decurioni, ossiano i presidi del Senato, e a foggiarsi così un collegio cittadino, cui diedero il nome di Consulare[571]. Ma dal titolo di Console non è lecito in [492] alcun modo di argomentare che a questa età un istituto di tal fatta in Roma esistesse; ed in generale, non qui soltanto, ma a Ravenna, a Napoli, a Venezia, persino nell’Istria, ancor durante il secolo sesto ed il settimo, quel titolo era usato dispensarsi dall’Imperatore per concessione graziosa o per denaro, e, dopo la prima metà del secolo ottavo, probabilmente anche il Papa lo elargiva. Quanto più raro si faceva il titolo di Patrizio, tanto più largamente diffuso era quello di Console, così che alla fine diventava anche privo di valore. Vedemmo che il titolo di Patrizio per l’ultima volta fu attribuito nell’anno 743, a Stefano duce, cui Zaccaria affidò il governo della Città, quand’egli andò a Liutprando; dappoi fu dato solamente a Pipino ed a Carlo, per significare la loro autorità di difensori e il loro grado di giurisdizione suprema. Ma i Romani serbarono per sè il titolo [493] di Console, tradizione dei loro padri; gli ottimati se ne fregiarono col predicato consueto di Eminentissimus; ed è probabile che, parimenti come la dignità di Duce, eglino ai loro figliuoli lo tramandassero in retaggio, tanto diffusamente lo si trova adoperato fra gli uomini nobili romani[572]. Parecchie volte, così in Roma che in Napoli, quel titolo comparisce associato a quello di Duce, ed è quest’ultimo, non il primo, che insignisce di illustre dignità la persona che lo porta[573]. E così frequente indi diventò, che nel secolo nono incominciarono a ornarsene tutti coloro che tenevano publici officî, segnatamente quelli di giudice. Divenne titolo officiale, così che si trovano accoppiati consul et tabellio, consul et magister censi, consul et memorialis; e nel secolo nono perfino occorre abbatterci in consul et negotiator[574].
[494]
Durante la dominazione bizantina, ai più elevati officî della magistratura giudiziaria e ai maggiori ministeri del reggimento, eleggeva in modo diretto l’Esarca; egli vi spediva il Duce da generale dell’esercito e da governatore di Roma e del Ducato; vi mandava inoltre i suoi Judices «perchè governassero la Città»: dobbiamo intendere ch’eglino fossero giudici veri e proprî, ed in pari tempo officiali dell’erario, sottoposti al Duce, come a reggitore supremo, oppure, in ultimo appello, al Prefetto d’Italia. Ma allorquando, più tardi, i Papi diventarono signori, ossia Patrizî, dell’Esarcato e di Roma, diedero opera eglino stessi ad eleggere questi officiali di governo; e a Ravenna e nella Pentapoli mandarono i loro Actores, ossiano veri officiali della amministrazione, ai quali, sotto parecchi titoli, competeva eziandio autorità di giudici. E devesi accogliere senza dubbiezza che anche in Roma i Pontefici eleggessero i magistrati supremi, i giudici, il Prefetto della Città, i capitani dell’esercito. Dopocchè l’officio di Duce di Roma, quale ancor rinvenimmo nell’anno 743, si fu spento, il Papa tenne sè medesimo in conto di governatore di Roma. Perciò, noi vi troviamo soltanto dei Duces, non più un Dux; e questi officiali (onde talvolta si fa menzione durante l’ottavo secolo), sono a considerarsi spesso, non già sempre, quai magistrati cittadini. In generale, dopo di Pipino, il reggimento civile fu tenuto da giudici e da officiali che obbedivano al Papa, come [495] dapprima avevano prestato soggezione all’Esarca di Bisanzio, che fungeva le veci dell’Imperatore. Ma, ripetiamolo ancora una volta, sotto quest’autorità territoriale del Pontefice, la città di Roma continuava ad essere un Comune fornito di amministrazione autonoma, se anche non era independente nell’ordine politico. Degli elementi della costituzione civica, ita in pezzi colla caduta dello Stato, si erano conservati alcuni germi, fecondi per il tempo avvenire, nella milizia, nelle Scuole, nelle corporazioni: furono questi gli istituti più importanti di quel periodo di transizione, che mette capo alla costituzione municipale del medio evo.
Gli ottimati, ragguardevoli per officio, per istirpe e per ricchezza, dominavano l’esercito del paro che il popolo, con loro grado di patroni, di giudici, di capitani. Nel secolo ottavo si accentrava in loro mani la influenza su tutte le cose di Roma, per guisa che la storia della Città, più chiaramente di tutto il resto, mette in rilievo una signoria aristocratica, che si associa all’istituto della milizia ed alla gerarchia degli officiali publici. L’ordine degli ottimati per certo non ci si presenta come una corporazione di famiglie patrizie ereditarie, e, sebbene parecchi Romani potessero additare superbamente fra i loro avi una lunga schiatta di Consoli e di Duci, tuttavia non si ha ancora traccia alcuna delle famiglie gentilizie del più tardo medio evo. Le stirpi antiche di Senatori e di uomini consolari s’erano estinte; soltanto adesso di nuove se ne formavano; e dove incontriamo degli ottimati, eglino ci appajono potenti per gli officî che tenevano nella Chiesa e nella Republica, non per ragioni di loro famiglia. Certo è che la loro potenza [496] di Judices de militia era ancor maggiore allorquando, come fu il caso di Toto duce, possedevano larga estensione di fondi ed erano signori di un gran numero di coloni. Poichè dunque eglino s’erano appropriati tutti gli officî importanti, poichè alla corte del Papa erano ministri suoi, nella milizia erano patroni e Duci e Tribuni, negli ordini della giustizia erano giudici, ben è certo che eglino tenevano anche il reggimento civico, e forse stavano sotto la presidenza del Prefetto della Città. Ed invero, quantunque il Senato avesse finito di esistere, non può supporsi che la Città fosse priva di un magistrato che provvedesse ai negozî comunali, nè può credersi che Roma mancasse di un consiglio della Comune, che sè stesso rendesse completo. Giacchè dunque, dopo il secolo settimo, la salvezza della independenza di Roma riposava unicamente nella virtù della milizia cittadina, e giacchè soltanto l’organamento di essa dava ai cittadini il sentimento della loro forza e la consapevolezza della esistenza politica comune e dei diritti di questa, ne discendeva che i capitani dell’esercito dovessero in pari tempo essere capi della cittadinanza e comporre l’assemblea civica. La costituzione municipale di Roma in quell’età non può reputarsi pertanto diversa da un ordinamento militare oligarchico[575].
[497]
Ignoriamo peraltro qual fosse l’ordinamento del magistrato civico, e rimangono affatto nascoste nel bujo le forme dell’amministrazione, in fatto di censo e di azienda dei beni comunali[576]. A Roma non è fatta menzione di nomi simili a quelli di Defensor, di Curator, di Principalis, di Pater Civitatis; e soltanto qualche raro cenno di altri titoli porgono i documenti dei notai e dei cancellieri civici. Tali titoli antichi romani sono questi: Chartularius et magister, ed anche consul et magister censi urbis; exmemorialis urbis Romae; Scriniarius et tabellio; Consul et tabellio urbis Romae[577]. I Chartularii [498] sono, così ei sembra, appellati con menzione onorifica nell’epistola di Stefano a Pipino; vengono dopo dei Duces, e prima dei Comites e dei Tribuni: erano officiali dell’amministrazione cittadina, che il Papa talvolta adoperava in suo servizio con ministero di giudici. Al tempo di Stefano III, uno degli uomini più possenti di Roma era Grazioso, «allora Cartulario, indi Duce,» laonde si pare che egli era salito da un officio cittadino minore ad uno più elevato[578]. Per ciò finalmente che concerne il modo ond’erano in questo periodo costituiti i tribunali ordinarî, è questo argomento di incertezza non meno grave, poichè associate erano le bisogne dell’amministrazione con quelle della giustizia, [499] e gli officiali degli ordini più disparati potevano essere deputati, d’arbitrio del Papa, a tenere le veci di scabini nei giudizî. Ei si pare pertanto che l’organamento nelle cose della giustizia fosse involto in grave confusione; questo solo sappiamo che il Prefetto della Città era tuttavia giudice criminale supremo, simile al Consularis di Ravenna, e che il Papa stesso denunciava al suo tribunale i delinquenti più gravi. Del resto, ad ora ad ora per mandato del Pontefice, si trovano nei tribunali sedere Consoli, Duci, Cartularî e Giudici del Palazzo; ma tutto il resto è oscuro, perocchè non possiamo riferire al secolo ottavo gli istituti d’ordine giudiziario che sorsero più tardi, e cioè quelli di duplice natura, di Palazzo imperiale e del pontificio[579]. Ciò di cui non v’ha dubbio si è, che l’antico ordinamento dei tribunali era cessato insieme colla costituzione cittadina antica; che ai ministeri di giudice, spesso riuniti con quelli di officiali amministrativi, eleggeva il Pontefice; e che l’autorità giudiziaria si associava a certe dignità e a certi officî, per modo che il Duce, il Conte o il Tribuno erano in pari tempo giudici effettivi nell’ordine gerarchico che loro era proprio.
Notizie assai più chiare possediamo invece rispetto al reggimento della corte pontificia, il quale si collega assai strettamente ai negozî della Città. Nel corso del tempo, il Palazzo lateranense stava veramente a capo della Città, ed era divenuto sede di tutto il governo ecclesiastico. [500] Figurava da simbolo dei contrasti che s’agitavano nel Papato stesso; nella medesima cerchia degli edifizî assieme congiunti della casa pontificia si provvedeva alle necessità ecclesiastiche di tutte le province della Cristianità, si fornivano di minestra i poverelli, si amministrava la giustizia, e si esigevano i tributi. Nel Laterano si accoglievano il concetto d’ordinamento e le norme del palazzo imperiale; e dalla corte bizantina si toglieva ad esemplare il rigido organamento di gerarchia degli officiali, ed il rito ceremoniale, introducendovi peraltro delle modificazioni a foggia papale. Nel secolo ottavo il Papa era circondato da un vero consiglio di ministri. Se ne trovano gli inizî fino dal sesto secolo, ma la sua importanza comincia soltanto dalla fondazione dello Stato della Chiesa. Come avveniva dei notaî e dei diaconi regionali, che fino dall’antichità erano ripartiti nelle sette regioni ecclesiastiche, parimente anche nel ministero pontificio compare il numero di sette. Quei ministri erano il Primicerius e il Secundicerius dei notai, l’Arcarius, il Saccellarius, il Protoscriniarius, il Primus defensor e il Nomenculator. Quantunque fossero cherici, questi officiali, a causa dei loro rapporti temporali, non potevano salire alle dignità ecclesiastiche, ma rimanevano nell’ordine dei suddiaconi. Peraltro, la loro importanza superava quella di tutti i Vescovi e dei Cardinali, perocchè eglino fossero i ministri maggiori del Papa, in loro mani risiedesse il potere esecutivo, e nel fatto da loro dipendesse puranco la elezione del Pontefice. E poichè l’opera loro li poneva in relazioni con tutte le classi del popolo, ne conseguivano eglino influenza onnipossente.
[501]
Seguendo l’ordinamento del palazzo bizantino, in cui tutti gli officiali di corte si ripartivano in Scuole, i ministri pontificî compaiono anzi tutto come capi delle corporazioni dei notai. Fra loro teneva primo luogo il Primicerio dei notai, del cui officio è diggià fatta menzione in sulla metà del secolo quarto. Nell’origine, esso era stato il capo dei sette notai delle regioni, che, dopo il tempo di Costantino, avevano avuto la sopravveglianza dello Scrinium, ossia della cancelleria. Conformemente allo stato suo, era egli il primo ministro, ossia secretario di Stato, del Papa; non soltanto nella vacanza della sede ne fungeva le veci in società coll’Arciprete e coll’Arcidiacono, ma in quella evenienza reggeva egli propriamente la somma delle cose di governo. Allato a sè aveva il Secondicerio, o sottosegretario di Stato, e questi due ministri erano insigniti della più potente dignità che fosse in Roma. In tutte le occorrenze solenni e nelle processioni conducevano il Papa per mano, ed avevano la precedenza sui Vescovi. Sembra, così dice il frammento di una scrittura appartenente a’ tempi posteriori la quale tratta dei giudici del Palazzo, sembra che eglino governino da socî dell’Imperatore, perocchè non v’abbia cosa importante che senza di loro questi possa operare[580]. Perciò i più ragguardevoli degli [502] ottimati, ed eziandio i nipoti del Papa, ambivano lo splendore di questi officî, e troviamo che Consoli e Duci salivano al Primiceriato come a dignità più elevata o massima[581].
Nell’Arcarius, ossia custode del Tesoro, può ravvisarsi il ministro delle finanze; il Saccellarius, ovvero maestro degli stipendî, provvedeva a pagare colla moneta del publico erario il soldo della milizia, le elemosine dei poverelli, i donativi (Presbyteria) che facevansi al clero. Questi officiali delle finanze, per necessità delle cose, avevano, tratto tratto, ingerenza nell’amministrazione del patrimonio civico, perocchè tutti i tributi dovuti al fisco, le gabelle delle porte, i pedaggi dei ponti e le imposte, stessero sotto il reggimento dell’Arcario, e ne facesse riscossione la tesoreria pontificia[582].
Il Protoscriniarius aveva suo nome dallo Scrinium che esisteva nel Laterano, presso cui avevano loro officio [503] gli Scriniarii, che erano secretarî della cancelleria pontificia, ossiano Tabelliones, avvegnachè fosse loro ministero di scrivere le epistole e i decreti dei Papi, e di dare lettura degli Atti dei Sinodi. Capo della loro Scuola era il Protoscriniario, cui consegnavansi i decreti innanzi che passassero al Primicerio perchè questi li convalidasse[583].
Per ordine di officio succedeva il Primus Defensor ossia Primicerio dei Difensori, ai quali presiedeva. Anche questi cherici, posteriormente al tempo di Gregorio magno, componevano un collegio regionale: dapprima patrocinatori dei poveri, divennero poi avvocati della Chiesa; e già al tempo di Gregorio, insieme con notai e con suddiaconi, gli abbiamo visti provvedere da Rectores all’amministrazione dei beni della Chiesa. Nelle mani del loro preside riposava dunque l’amministrazione dei patrimonî; potrebbesi in esso scorgere il ministro dell’agricoltura, ma non ciò solo, perocchè alla sua competenza, per mezzo dei Defensores, si spettasse ogni cosa che si riferiva ai diritti della Chiesa di contro allo Stato, di contro ai Vescovi ed ai privati, e quanto concerneva le condizioni dei coloni[584].
Ultimo in questa serie di officiali era il Nomenculator o Adminiculator, che era il proprio avvocato dei pupilli, delle vedove, degli oppressi e dei prigionieri, ossia ministro degli affari di grazia. A lui si rivolgevano tutti [504] coloro che avevano da muovere qualche instanza al Pontefice[585].
L’appellazione generale, con cui si denotavano nel secolo ottavo questi sette officiali dello Stato ecclesiastico, era quella di Judices de clero, per distinguerli dai Judices de militia, dai Duces, dai Consules, dai Chartularii, dai Magistri militum, dai Comites e dai Tribuni. Ma allorquando, dopo la restaurazione dell’Impero, il Palazzo pontificio diventò altresì dignità palatina imperiale, queglino ebbero in pari tempo duplice officio di ministri pontificî e imperiali, ed assunsero titolo di Judices Palatini ed anche di Judices ordinarii, perocchè la loro giurisdizione fosse unita all’ufficio onde avevano incarico: ma poichè erano cherici, non potevano essere giudici nelle faccende criminali[586]. Nell’ottavo secolo avevano giurisdizione soltanto nei ministeri che erano loro specialmente attribuiti, ma il Pontefice li designava a varii officî giuridici. Massimamente usava di loro nei negozî diplomatici, e gli adoperava nelle ambascerie; abbiamo infatti trovato che erano forniti di questi incarichi il Primicerio e il Secondicerio dei notai, il Primo Difensore, il Nomenculatore e il Saccellario, però non mai, che sappiamo, l’Arcario e il Protoscriniario.
[505]
Oltre a questi sette ministri, vi avevano degli altri ragguardevoli officiali di Palazzo, che erano propriamente ministri della casa del Papa, ed alla loro volta di nuovo riunivano in Iscuole un gran numero di officiali subalterni: tali erano il Vicedominus ossia maggiordomo, il Cubicularius ossia cameriere, il Vestiarius e il Bibliothecarius. Il Vestiarius, dopo i sette, aveva maggiore potenza; e ottimati, che avevano titolo di Console e di Duce, non disdegnavano quell’officio di corte[587]. Capo di una Scuola assai numerosa, egli aveva la sopraintendenza non soltanto della preziosa guardaroba, ma anche del tesoro dei beni della Chiesa e dei gioielli che erano conservati nel Vestiarium ossia sacristia. Che poi egli fosse veramente anche giudice, si pare dalla bolla con cui Adriano, nell’anno 772, conferiva in perpetuo al Priore del Vestiarium la giurisdizione nelle controversie che si agitavano fra il convento di Farfa ed i sudditi della «Republica romana», fossero eglino abitanti di Roma o di altre città, liberi o servi, uomini di clero o di milizia[588]. [506] Trovasi inoltre il titolo di un Superista di Palazzo, la cui dignità, al tempo di Adriano, era congiunta all’officio di Cubicularius, e, all’età di Leone IV, perfino con quello di Maestro dei militi; laonde ci sembra che fosse un officio tutto laicale, forse quello che, nel significato antico, era attribuito al Curopalata: corrispondeva a sacrestano, e, unitamente ad altri incarichi, comprendeva anche la sopravveglianza che esercitava sugli officiali della famiglia pontificia[589].
Tutti questi officiali del Palazzo, oltre ai sette ministri, avevano qualità non soltanto di Judices, ma anche di Primates et Proceres Cleri (quello che è oggidì la Prelatura), ai quali noi aggiungiamo anche i Defensores, i suddiaconi e i notai regionali[590]. Allorchè questi uomini tornavano a Roma dai remoti patrimonî di Sardegna e di Corsica, dalle Alpi Cozie, e, in tempi anteriori, dalle Calabrie e di Sicilia, può darsi che eglino fossero [507] meno ricchi, ma non già che vi godessero minor estimazione di quella ond’erano stati riveriti i Pretori e i Presidi, che Roma antica aveva un tempo mandato a reggere le province: a buon dritto eglino entravano fra’ Primati della Chiesa, e, in ricompensa, aspettavano di essere chiamati ad uno dei ministeri di Palazzo. Del rimanente, nè Cardinali, nè Vescovi appartenevano ai Judices de clero, ma questo titolo denotava soltanto gli anzidetti officiali di Palazzo: per tal guisa abbiamo innanzi a noi una nobiltà clericale di duplice natura, perocchè essa si associasse in pari tempo alla Chiesa ed all’ordine degli ottimati laicali. Ed anche per essa, come pei maggiorenti del ceto puramente laico, si scorge che la potenza derivava dalla gerarchia degli officî onde quella nobiltà era insignita.
Per giungere alla conchiusione di questo Capitolo, ci occorre di rivolgere uno sguardo alle istituzioni che avevano vigore nelle altre città soggette al Pontefice, ed in ispecialità d’indagare l’estensione che si aveva il Ducato di Roma. Nei luoghi minori, al paro che nei maggiori, il nerbo della cittadinanza s’era raccolto in un organamento militare[591]. La costituzione antica della [508] Curia s’era estinta, e gli officiali maggiori nelle cose della giustizia, dell’amministrazione e della milizia erano confermati o eletti dal Papa. Poichè dominava l’ordinamento militare, i governatori delle città e delle castella, a preferenza di altri, avevano titoli che significavano officî di origine militare; tali erano quelli di Duces, di Tribuni e talvolta di Comites. Ma le nominazioni sono incerte, e per gli officiali pontificî di governo è usato in generale anche il nome di Actores, con cui sono appellati perfino dei conti Franchi[592]. Fra loro si comprendevano anche i giudici in senso proprio, perocchè Adriano, nella sua epistola indiritta a Carlo, espressamente dica, che il suo predecessore aveva mandato a Ravenna, in qualità di Judices, il prete Filippo ed Eustachio duce, «acciocchè rendessero giustizia a tutti coloro che pativano violenza»[593]. Siffatta ripartizione di governo fra un prete e un Duce, potrebbe significare che quest’ultimo [509] fosse incaricato soltanto dei negozî militari, se non avessimo di già veduto che ai Duces manifestamente s’attribuiva autorità di giudici oltre alla podestà militare[594]. Si tenne credenza che il reggimento supremo nelle maggiori città tenessero i Duces, nelle minori i Comites; peraltro questa opinione non sempre puossi convalidare con prove. Al tempo della signoria dei Greci e dei Longobardi, i Duces avevano autorità di comando nelle grandi città; ancora nell’ottavo secolo noi li troviamo a Venezia, a Napoli, a Fermo, ad Osimo, ad Ancona, a Ferrara, senza dire di Spoleto e di Benevento. Quei Duci erano in pari tempo reggitori di tutto il territorio annesso alle città, e pertanto si tentò di denotarli col nome di majores, per distinguerli dai minores che non avevano autorità così estesa[595]: infatti il titolo di Dux non si incontra meno frequentemente, massime dopo il secolo ottavo, di quello di Consul; laonde non è possibil cosa che tutti coloro che ne erano fregiati stessero a [510] capo del reggimento in una città. Nel generale, l’opinione che soltanto le città maggiori abbiano avuto dei Duces può sostenersi per bene, dappoichè nel secolo ottavo non possiamo rinvenire neppur un sol uomo che nel territorio di Roma avesse podestà di vero Dux di una città. Può essere che Toto fosse duce di Nepi, ma certo non è; egli uccise Gregorio duce, che alla sua usurpazione si opponeva, ma non sappiamo altro se non che questi abitava nel Lazio. Senza dubbio, Gregorio reggeva tutta la terra della Campania per conto della Chiesa e con titolo di suo Dux; avvegnachè, dopo la fine del Ducato bizantino debba essersi costituito un organamento novello delle province che allora erano divenute pontificie: e il Papa mandava dei Duci eziandio nelle terre della Campania, come più tardi ne spedì nella Sabina[596]. Anche in Roma parecchie volte è fatta parola di Duces, ma nemmeno uno di essi si rivela governatore di qualche città; nè sappiamo se mai alcuno di loro, fatta eccezione del solo Eustachio, neppur tempo prima, lo fosse stato[597]. [511] Può essere benissimo che fossero o generali, o ministri di Palazzo, o giudici, e che fossero adoperati in isvariate faccende politiche. È possibile cosa che il loro titolo, associato al predicato di Gloriosus, fosse venduto dal Papa, o largito in segno di onoranza, o che fosse usurpato; e può darsi che, parimenti come il titolo di Console, nel secolo ottavo fosse già divenuto ereditario nelle famiglie. Fra i titoli di cui la vanità dei Romani in tutti i tempi si fece bella, e dei quali oggidì ancora si adorna, fu il più ambito; chè gli allettava di portare il nome di una dignità che era tenuta dai Principi potenti di Spoleto e di Benevento e che apparteneva ai governanti di Venezia e di Napoli.
Talvolta, nelle città delle province, si fa cenno di Tribuni col predicato di Magnificus. Gli abbiamo trovati in Alatri e in Anagni, ma neppure a riguardo di essi si può sempre rilevare se siedessero al governo delle Città, o se fossero capitani di milizia, o se ne avessero il titolo per ragione di qualche altro officio[598]. Non rinveniamo [512] pur un Tribuno che fosse mandato dal Papa come legato o commissario, là dove si trattava di affari di grave rilevanza. Anche in Roma sono ristretti al loro officio militare, ma nel secolo settimo sono talvolta mandati a Ravenna, rappresentanti dell’esercito, affine di recarvi all’Esarca, in compagnia di cherici, gli Atti della elezione papale.
Eguale incertezza si oppone finalmente anche per quel che concerne i Comites. Di uno solo infatti è provato che fosse a capo del governo di una città; fu egli un Domenico, che Adriano nell’anno 775 elesse a Comes della piccola terra di Gabellum[599]. Quindi puossi a ragione conchiudere che il reggimento di altre castella fosse affidato a di questi Comites, con autorità nelle cose civili e militari. Talfiata si fa cenno di loro come di possessori di terre, o di fittavoli di patrimonî, ed è pertanto facile che fossero officiali della milizia di Roma[600].
Porremo fine a queste ricerche, coll’indagine dei limiti geografici che s’aveva il territorio di Roma, ossia quello che, ancora di questo tempo, appellavasi Ducatus Romanus. Abbiamo differito fin qui a farlo, perchè non [513] poteva essere determinata con certezza l’epoca in cui la costituzione del Ducato avvenne, perchè posteriormente ne variarono i confini, perchè finalmente soltanto dopo la prima metà del secolo ottavo si riesce a fissarne l’estensione di paese con bastante precisione. Ancora nel documento di donazione di Lodovico il Pio quel territorio è denotato col nome di Ducatus; peraltro, verso la metà del secolo ottavo, abbiamo di già veduto i Papi pretendere a favore di esso il nome di Respublica Romana o Romanorum, per modo che fu tenuto in conto di terra su cui l’Impero occidentale posava i suoi titoli.
Con partizione assegnata da natura, il territorio di Roma era, com’è oggidì, diviso dal Tevere in due grandi tratti di paese; l’uno, la Tuscia formata delle terre che stanno sulla sponda destra; l’altro, la Campania che è composta delle terre a sinistra del fiume. Di qua e di là ne era base il mare, e si prolungava incirca dalla foce del fiume Marta fin oltre il fiume Astura, verso il capo di Circe. Dal lato di nord-est, entro terra, si stendeva un terzo tratto di territorio, che comprendeva alcune parti delle Umbrie e della Sabina. In generale dunque erano confine il mare, il rimanente di Tuscia (detta ducalis ed anche regalis), e i ducati di Benevento e di Spoleto[601].
[514]
La Tuscia romana comprendeva le terre rinserrate fra questi limiti: da una parte il confine era formato dal mare che si stendeva dal braccio destro del Tevere, dove era Porto, fino alla foce della Marta; di lì per altra parte, la linea del confine poteva tracciarsi per Tolfa, per Bleda, per Viterbo fino a Bomarzo (Polimartium) dove raggiungeva il Tevere; quinci finalmente il fiume, piegando in arco e scorrendo di nuovo fino al mare, chiudeva con limite naturale la Tuscia. Dal lato di settentrione le vie Flaminia, Cassia e Claudia attraversavano il paese tosco, e lunghesso il mare lo percorreva la via Aurelia. I nomi delle strade, non mutati dagli antichi, trovansi di sovente in questa età; soltanto che talora, in luogo di Claudia, la via si appellava Clodia, e sembra che già allora la Flaminia si denotasse per via Campana[602]. Terre di Tuscia erano queste: Portus, Centumcellae, Caere (che è l’odierna Cervetri), Neopyrgi, Cornietum, Tarquinii, Maturanum, Bleda, Vetralla, Orchianum, Polimartium, Oriolum (vetus Forum Claudii), Bracenum, Nepet, Sutrium; e dalla destra sponda del Tevere: Horta, Castellum Gallesii (Fescennia), Faleria, Aquaviva, Vegentum (in ruine), e Silva Candida[603]. [515] Viterbo era città di confine della Tuscia longobarda, e Perugia formava un ducato a parte. Nel secolo ottavo, Centumcellae era ancora porto di mare, e Nepe città di provincia considerevole. Quasi tutti quei luoghi stavano da sede di Vescovi[604].
Il Tevere disgiungeva la Tuscia dalla Campania. Duranti i tempi antichi, Campania era detto in generale quel paese che si stendeva da Roma fino al fiume Silari nella Lucania, e di cui Capua era la capitale[605]. Peraltro, in senso più ristretto, la Campania romana giungeva soltanto fino al torrente Liri ed al capo di Circe. Cosiffatto territorio veramente era il Latium, ma, dopo [516] di Costantino magno, a vece di un tal nome, assumeva l’appellazione di Campania, come l’avemmo trovata in molti luoghi del Libro Pontificale. I monti Volsci e il solitario vulcano di Albano dividono quel magnifico paese in due territorî maggiori, che però nel secolo ottavo non avevano ancora una designazione speciale e distinta. Il paese a settentrione era attraversato dalla via Labicana; questa strada, come quella che era la maggiore, e non la via Latina che correva parallela ad essa per mettervi capo alla quarantesima pietra miliare in vicinanza di Compitum, dava il nome all’intiero Patrimonium di colà. La seconda grande via, era la Appia, la quale attraversava la parte meridionale della Campania cui confinava il mare fino a Terracina: era dessa che dava il nome al Patrimonium che ivi stava[606]. Duravano ancora le vie romane minori, quali erano la Ostiense e la Ardeatina. Delle antiche città, che esistevano in questo territorio meridionale oggidì appellato la «Marittima», molte nel secolo ottavo erano scomparse o fatte deserto: così avveniva di Ostia, di Laurentum (oggi Torre Paterno), di Lavinium (oggidì Prattica), di Ardea, di Aphrodisium, di Anzio, che, nominata al principio del secolo quinto, non compare più fino all’ottavo, e di Astura, che, sebbene in quel periodo non compaia più dell’altra, continuava peraltro ancor sempre ad esistere[607]. Non troviamo in quei luoghi sede alcuna di Vescovi, se si eccettui Ostia.
[517]
La frontiera del Ducato si elevava rimpetto a Terracina, perocchè questa città della Campania, al paro di Gaeta, appartenesse sempre al Patriziato di Sicilia. Ma i confini romani sono da questo lato assai incerti, e soltanto per l’idea che si andò diffondendo, dacchè Procopio narrò che la Campania propriamente romana si prolungasse fino a Terracina, noi supponiamo che fin qui giungesse anche il Ducato[608]. È pur cosa meravigliosa che più tardi, nè il diploma di Lodovico il Pio, nè quello di Ottone, facciano più parola di terra alcuna dell’odierna Marittima; per Campania s’intende soltanto il territorio settentrionale posto fra i monti Volsci e l’Apennino, e non si fa pur motto della città vescovile di Albano, nè di quelle di Velletri, di Cori e di Trestabernae. Se queste città spesse volte sono, dopo di Gregorio, menzionate nella storia dei loro Vescovati, mai di loro invece s’ode a parlare per rapporti politici. Questo silenzio per la massima parte di quelle terre si riesce a spiegare; per le altre forse è accidentale. Come mai infatti può credersi che il Duca di Benevento, o quello di Spoleto, oppure il Patrizio di Sicilia estendessero la loro signoria fino ad Albano, senza che tra essi e Roma avvenissero [518] dei conflitti al tempo della controversia delle imagini? E di tai lotte per verità udimmo essersi combattute presso Terracina, e, dal lato di settentrione, prossimamente a Sora, ad Arce e ad altri luoghi sulla frontiera[609]. La mancanza di storia dell’odierna Marittima in quei secoli si spiega per la niuna importanza di quei luoghi, per il decadimento cui erano precipitati, e massimamente per le desolate condizioni di quella marina e delle paludi Pontine, da Velletri a Terracina. Al contrario, il territorio latino, per suoi paesi ragguardevoli e per suo popolo robusto, nel corso dei tempi diventava importante ognor più; ed era a preferenza appellato col nome di Campania[610]. Giungeva fino al Liri[611], e comprendeva le città [519] vescovili di Preneste, di Anagni, di Alatri, di Verola, di Signia, di Patricum, di Ferentinum e di Frosinone, oggidì ancora notevoli[612]. Sembra però che, al di là del Liri, il Ducato si estendesse fino ad un incognito luogo detto Horrea; e già nel secolo settimo ci avvenne di parlare delle città di confine, ch’erano Arpino, Arce, Sora e Aquino, prese dai Longobardi, e sulle quali Adriano moveva sue pretensioni. Pertanto ci riesce impossibile di stabilire con esattezza quale fosse anche da questo lato la frontiera[613].
L’Anio segnava il limite della Campania romana da settentrione, e il territorio che si stendeva al di là di quel fiume fino al Tevere era la Sabina e l’Umbria. Il paese sabinate aveva per confini, da ponente il Tevere, da mezzogiorno l’Anio, da settentrione i fiumi Nari e Velino, da levante l’Abruzzo ulteriore. Esso pertanto confinava colla Tuscia romana, donde lo divideva il Tevere, col Lazio ossia colla Campania, da cui lo separava l’Anio, e coll’Umbria, dove il fiume Nari formava il limite che lo rinserrava. Del resto, la parte maggiore della Sabina era posseduta dal Duca di Spoleto, e il costui dominio si estendeva dal torrente Allia fino alla quattordicesima pietra miliare fuor di porta Salara, per Monte Rotondo (Eretum), per Farfa e per l’antica Cures [520] fino al territorio reatino[614]. Al Ducato appartenevano queste rinomate città: Fidenae, Nomentum, Gabii, Asperio, Ocricolum e Narnia[615]. Alcune terre del Sabinate, e perfino alcune in grande vicinanza di Roma, erano cadute a causa delle ripetute imprese guerresche dei Duchi longobardi di Spoleto, oppure duravano soltanto in ruina. Poco a poco discomparivano Eretum, Crustumeria, Fidenae, Gabii, Ficulea, Antemna. Anche la antica e celebre Cures, la patria di Tito Tazio, di Numa e di Anco Marzio, donde un tempo i Romani avevano tolto nome di Quiriti, periva nell’età dei Longobardi, e, nel nome, perdurava soltanto con un borghetto detto «Correse». Nomentum sola, lungo la via del suo nome, aveva ancor vita fino al secolo decimo come sede di un Vescovo. Presso Narni il fiume Nari faceva da confine; dall’altra sponda di esso incominciava l’Umbria, dove erano le città di Ameria e di Todi (Tuder), le quali però, come abbiamo veduto, in fatto di governo politico [521] erano aggregate alla Tuscia romana. Tre strade principali, che duravano con loro nomi antichi, attraversavano pur sempre il territorio sabinate; la via Tiburtina, che dopo la vigesima pietra miliare assumeva la appellazione di Valeria, e lungo il corso dell’Anio proseguiva fino ad Alba; la Nomentana; e finalmente la via Salara, in cui l’altra metteva capo al di sotto di Nomentum.
[523]
Papa Adriano trapassava di vita nel giorno di Natale dell’anno 795, dopo un reggimento glorioso che aveva durato ventitrè anni, dieci mesi e diciassette giorni. La morte di lui afflisse Carlo profondamente. Erano eglino i due uomini più potenti di quell’età; la sorte aveva posto in mano di loro un grande còmpito; la consapevolezza di ciò e la consuetudine di relazioni lunghe gli avevano legati d’amicizia. Con Adriano e con Carlo s’era manifestata per la prima volta in Occidente l’alleanza associata della Chiesa e dello Stato, che sotto agli Imperatori bizantini erano stati ostilmente divisi l’una dall’altro. La Chiesa romana s’era liberata dal giogo del [524] Cesarismo bizantino; divenuta adesso potestà indipendente, le era dato di allearsi collo Stato occidentale che cresceva in bel fiore, e alla testa del quale stavasi il Re dei Franchi. Carlo tributò onoranza alla memoria dell’amico suo, con celebrazione di messe funerarie, con largizioni di elemosine in tutte le province del suo reame, e con un epitaffio che egli fece incidere a lettere d’oro sopra una tavola di marmo, e fe’ collocare sulla tomba di Adriano nel san Pietro in Roma. Quell’iscrizione dura oggidì ancora; la si mira nell’atrio della basilica, a sinistra della porta maggiore d’ingresso, ed è infissa nel muro, in alto della parete[616].
I Romani, con voce concorde, eleggevano papa il Cardinal prete di santa Susanna, che era consecrato, addì 27 del mese di Dicembre, sotto nome di Leone III. Siffatta prestezza di elezione ci fa comprendere che il clero procedeva liberamente all’elezione, senza che influenza d’altri il premesse. Il novello Papa, romano di nascita e figlio di Azuppio, era stato educato fin dalla sua fanciullezza nel Laterano, e di grado in grado era salito alle più eccelse dignità della Chiesa. Il successore di Adriano, chiamato al seggio pontificio in tanta rilevanza di tempi, non doveva essere uomo d’ingegno affatto comune.
Appena ei fu seduto sulla cattedra di Pietro, Leone [525] significò al Patrizio dei Romani la morte del suo predecessore, e il proprio avvenimento al Pontificato. Quella lettera andò perduta; se avessimo potuto leggerla, essa ci avrebbe risolto parecchie gravi dubbiezze sui rapporti che esistevano fra Roma e il Patrizio, per ciò che spettava alla elezione pontificia. Questa era avvenuta liberamente, ma gli Atti di essa erano stati spediti al Re; laonde fu supposto che a lui competesse, per diritto di patrizio, di dare accoglimento all’eletto, almeno in questa forma di notificamento officiale. Alla sua lettera Leone aggiungeva il donativo onorifico delle chiavi della tomba di san Pietro, e vi univa altresì (simbolo fuor dell’ordine consueto) la bandiera di Roma[617]. Nel tempo medesimo egli chiedeva che Carlo spedisse uno dei suoi maggiorenti, affinchè ricevesse dal popolo romano giuramento di fedeltà e di sudditanza: e questo fatto offre dimostrazione irrepugnabile che Leone teneva il Re dei Franchi in conto di signore supremo di Roma[618].
Carlo mandava allora a Roma, legato suo, Angilberto abate di san Ricaro. Lo muniva di una ricca moneta che levava dal bottino fatto sugli Unni e che destinava [526] a san Pietro, e gli ordinava di raffermare col succeditore di Adriano le relazioni che esistevano per forza di pattuizioni colla Chiesa e con Roma: su di questo oggetto il Re gli prefiniva la maniera onde comportarsi doveva. La lettera, che Carlo scriveva a Leone, diceva dell’importante argomento: «Abbiamo dato incarico ad Angilberto di conchiudere tutto ciò che parve cosa a noi desiderata od anche bisognevole; per tal modo Voi con vicendevole accordanza potrete statuire quello che necessario reputerete alla esaltazione della Chiesa santa di Dio, o alla durata di Vostro Onore, o al rassodamento del Patriziato nostro. Ed in vero, similmente come io ebbi conchiuso col predecessore Vostro un patto di santa paternità, così bramo di affermare con Voi una alleanza inviolabile, di pari fede e di pari amore: possa io per tal guisa ottenere la benedizione apostolica della Santità Vostra. Così per volontà del Signore sia difesa dalla devozione nostra la sede della Chiesa romana, ed avvenga che, coll’aiuto della dilezione divina, la Chiesa santa di Dio sia d’ogni dove presidiata contro le invasioni dei pagani e contro le devastazioni degli infedeli; difesa di fuori colla forza delle armi, dentro protetta colla conservazione della fede cattolica. A Voi si spetta, o santissimo Padre, di soccorrere alla nostra cavalleria, protendendo alto le mani a Dio, siccome fece Mosè: affinchè coll’intercessione Vostra la Cristianità, sotto la capitananza di Dio, consegua sempre e dappertutto vittoria sugli inimici del santo suo nome: così il nome del Signor nostro sia magnificato nell’universo mondo[619].»
[527]
Da questa lettera non deriva che Carlo, come fu detto assai impropriamente, pregasse il Papa di dargli confermazione del titolo di patrizio; egli, per mezzo del suo legato, gli offeriva congratulazioni, e desiderava che fosse dato un novello ordinamento al patto antico, il quale tuttavia di diritto esisteva, ed aveva nel Patriziato sua espressione giuridica. Sebbene quella lettera prefiggesse in generale le relazioni tra il Papa ed il Patrizio dal lato delle loro obligazioni, non vi erano statuiti i limiti dei loro diritti; e tutto ciò che riguardava l’esercizio di essi, in riferimento alla città di Roma ed alle province donate a san Pietro, Carlo determinava nei precetti che oralmente impartiva al suo ministro. Egli aveva ricevuto le chiavi del sepolcro e il vessillo di Roma, che erano i segni coi quali per la prima volta, così vien detto, fu dato a Carlo il Dominium ossia Imperium: ei conviene pertanto che tentiamo di definire la significazione di quei simboli. Narrano alcuni Cronisti che nell’anno 800, prima ancora che in Oriente giungesse novella dell’incoronazione di Carlo, [528] alcuni monaci recassero a lui di Gerusalemme dei simboli eguali. Il Patriarca di quella santa città spediva a lui due frati dei conventi del monte Oliveto e di santo Saba; eglino accompagnavano nel suo ritorno a Roma il prete Zaccaria, che era andato, legato di Carlo, ad Harun Alraschid; e portavano al Re «in segno di benedizione le chiavi del sepolcro del Signore e della terra del Calvario insieme al vessillo[620].» È difficile cosa che il Patriarca di una città pertinente al Califfo imaginasse di attribuire al Re dei Franchi la signoria sopra di Gerusalemme; era stato Harun stesso che al celebrato eroe dell’Occidente aveva concesso la suprema tutela dei luoghi santissimi i quali erano stati culla del Cristianesimo; e si era in conseguenza di questo patto che il Patriarca, come dono ferace di benedizioni e come simboli di quella signoria proteggitrice, spediva a Carlo la bandiera della Chiesa di Gerusalemme e le chiavi delle terre sante, che ora si ponevano sotto il protettorato [529] di lui. Non sorse mai peraltro il concetto di un patrizio di Gerusalemme, e Carlo ricevette quei segni di onoranza, come guardiano protettore della santa città.
Le chiavi del sepolcro di Cristo e il vessillo di Gerusalemme danno eccellente chiarimento di ciò che significassero anche le chiavi della tomba del principe degli Apostoli e lo stendardo di Roma. Così i primi che i secondi denotavano l’officio di tutela e la Militia armata ond’era insignito Carlo, defensor della religione cristiana. Sennonchè la lontananza e la schiavitù in cui era tenuta Gerusalemme rendevano assai difficile che Carlo la facesse da avvocato di quella Chiesa, e il suo ufficio era simile ad uno in partibus infidelium, laddove le condizioni in cui egli trovavasi con Roma erano ben differenti, e gli eguali simboli avevano qui un valore efficacissimo. Le chiavi d’oro della Confessione di san Pietro, poste in mano di Carlo, non erano più soltanto un donativo onorifico di virtù miracolosa, ma esprimevano la dimostrazione degli oblighi e dei diritti che gli spettavano per patto, in riferimento alla Chiesa di Roma ed ai possedimenti di essa. La custodia dell’adito per cui s’entrava nella tomba dell’Apostolo (e questa era centro e fondamento della Chiesa) fu affidata alle mani del Principe; parimente come san Pietro ed il Pontefice tenevano le chiavi delle ragioni dogmatiche, re Carlo nella ragione politica doveva essere custode delle chiavi e guardiano del palladio della Chiesa romana, della tomba dell’Apostolo e di tutto quello che si simboleggiava nella Confessione, ov’erano altresì custodite le molte scritture di donazioni[621]. Di [530] pari guisa, Carlo fu tenuto in concetto eziandio di vessillifero della Chiesa.
Quantunque non v’abbia Cronista alcuno il quale narri che qualche Papa anteriore a Leone III avesse mandato una bandiera in dono al Patrizio dei Romani, è pur cosa probabile che ciò avvenisse. Infatti, la iscrizione che esiste sopra una lapide di altare nel san Pietro fa supporre che anche Adriano avesse di già mandato a Carlo il vessillo; e che l’usanza di un simbolo siffatto non fosse avvenimento fuor del consueto lo dimostra quanto dicemmo testè dello stendardo di Gerusalemme. Ei sembra oltracciò che, ancor prima di questa età, alcuni conventi dessero ai [531] loro proteggitori una bandiera, in segno di loro avvocazia armata; e ciò, dal secolo decimo in poi, venne più frequentemente in costume[622]. Pertanto, se le chiavi erano segno che denotava i doveri onorifici di Carlo, come di guardiano del sepolcro, la bandiera era invece un attributo dei suoi diritti, e si spettava a lui come a Patrizio o Duce dei Romani; il vessillo dell’esercito posto in sua mano significava che a lui era affidata la Militia di Roma, laonde i Cronisti acconciamente appellano quel vessillo: «bandiera della città di Roma», e sembrano avere con tale dizione affermato che in quel simbolo tutto militare si esprimeva il voto dell’Exercitus e del popolo di Roma, poichè questi da parte loro attribuivano in tal guisa a Carlo l’officio di Duce e di capitano militare. Tuttavolta, non è fatto pur motto che l’Exercitus e gli ottimati di Roma prendessero ingerenza officiale a dare quei distintivi a Carlo; del Senato romano, involto in tenebra profondissima, si tace, e il legato Angilberto e le lettere regali erano indiritti al solo Pontefice, senza che neppur si volgesse il pensiero a qualsiasi corporazione cittadina, che nei negoziati avesse potuto esprimere il suo voto. La città di Roma obbediva allora al Papa; la sua milizia era ai servigi dell’Apostolo; il suo vessillo era dal Pontefice affidato al Miles Defensor della Chiesa; e nei quadri si mira porgliela in pugno la mano stessa di san Pietro. In questa età avveniva omai, che i concetti temporali e le idee religiose si confondessero fra essi soverchiamente; e, parimenti come il nome di Respublica, aveva un duplice [532] significato, duplice puranco era il simbolo espresso colla bandiera; il vessillo della città di Roma ha valore altresì di stendardo della Chiesa e della Cristianità, ed anzi massimamente dell’Impero, similmente come il labaro di Costantino[623]. Il Vexillum significa sempre principalmente il duplice attributo di Carlo; quello di Miles ossia di generale della Chiesa (che nei tempi posteriori fu detto Confalonerius Ecclesiae), ed in ispecialità l’altro di giudice supremo di Roma.
Di alta importanza, e fornito soltanto di diritti positivi, è il Patriziato, a rassodare il quale per via di trattato, Angilberto doveva or venire ad accordo con Leone. Era conseguenza di quest’officio che il Papa richiedesse Carlo, affinchè uno dei suoi maggiorenti spedisse a Roma per ricevervi giuramento di fedeltà e di sudditanza dal popolo romano. Il Papa si affrettava di confermare la suprema autorità di milizia e di giurisdizione che spettava al sire patrono, senza la cui podestà, da tutti riverita, di giudicare e di punire, il Pontificato sarebbe stato, perfino in Roma, indifeso. Infatti, poscia che era avvenuta la usurpazione di Toto, i Papi avevano compreso che eglino non avrebbero potuto serbare la signoria della Città e dei loro patrimonî, se alle cose temporali non avessero preposta una podestà imperatoria, cui i Romani avessero dovuto obbedire. Così il Patrizio ne ottenne maggiore importanza; accanto al dovere di proteggere la Chiesa ei fe’ valere anche il [533] suo diritto di esercitare giurisdizione suprema nelle terre che alla Chiesa erano state donate, e nel Ducato che tacitamente le era soggetto[624]. Alla caduta del reame longobardo, la cui corona adesso si congiungeva a quella dei Franchi, Carlo pretendeva al titolo di patrizio, manifestandone per la prima volta la consapevolezza di tutti i suoi diritti. Se di quel titolo non aveva mai usato nei diplomi anteriori all’anno 774, egli ebbe incominciato da questo tempo in poi a fregiarsene[625]. Già fin d’allora che aveva visitato Roma per la prima volta, egli vi era stato accolto cogli onori che un tempo per dovuto obligo erano tributati all’Esarca; e Carlo cedeva alle preghiere di Adriano, e mostravasi al popolo in vestimenta di Patrizio romano, sebbene soltanto a malincuore lasciasse l’abito costumato dai Franchi: quel vestimento, così narra espressamente il suo Biografo, egli ebbe indossato due sole volte, la prima per preghiera [534] di Adriano, la seconda a richiesta di Leone; ei vestiva la lunga tunica e la clamide e i calzari di foggia romana, siccome Cassiodoro descrive esser costume del Patrizio, ed un quadro antico lo rappresenta abbigliato a quel modo, in mezzo ai suoi due cancellieri[626]. Il patto conchiuso con Adriano fin dall’anno 774 aveva costituito la podestà che Carlo tenne come patrizio nelle veci dell’Esarca; laonde Leone III doveva soltanto rinnovare con un trattato quelle relazioni, e raffermarle con un reciproco giuramento[627]. Il Patriziato non aveva bisogno di novella confermazione, perocchè esso fosse duraturo a vita, ma Carlo dava incarico al suo legato di determinare chiaramente l’estensione della potenza che gli spettava. Carlo ricevette dal novello Papa il riconoscimento immutato della giurisdizione suprema che gli apparteneva in Roma, nel Ducato e nell’Esarcato; Angilberto, in nome di lui accolse da tutti i Romani giuramento di fedeltà, e Leone protestò che Roma e lui stesso dovevano obbedienza a Carlo, come a signore temporale supremo. Il Papa, da canto suo, possedeva la signoria territoriale nelle province [535] soggette al suo reggimento, ma essenzialmente essa riposava soltanto nella immunità vescovile, nella libertà che la esimeva dal banno del Duce o del Conte, e consisteva in una condizione pari a quella che, lungo il corso del tempo, si ebbe costituito nella massima parte delle città e dei vescovati d’Italia. Pertanto, lo Stato romano della Chiesa puossi considerare come una grande, od anzi come la massima immunità vescovile[628].
La condizione di dominio che Carlo conseguì in Roma e nell’Occidente, i bisogni della Chiesa e le idee proprie di quell’età, recavano con sè la necessità di rinnovellare l’imperio d’Occidente. Dalla caduta dell’antico Impero romano, dopo un lungo processo di svolgimento, erano sorte due podestà, che dovevano d’ora in poi reggere il mondo europeo; in Roma, sopra fondamenta d’indole latina, s’era formato il Papato, autorità religiosa, nella quale s’accentrava il grande organamento della Chiesa per tutte le province dell’Occidente: al di là delle Alpi, presso i Germani, era sorta la monarchia dei Franchi, la quale estendeva omai la sua signoria fino a Roma, e il cui capo possente stava per riunire in un solo reame la massima parte dell’Occidente. I rappresentanti di quelle due podestà erano legati fra loro da eguale bisogno di prestarsi vicendevole ajuto di forza, e di dare una forma durevole all’ordinamento nuovamente sorto nel mondo. [536] Già Gregorio magno aveva proclamato, che il potere spirituale della Chiesa aveva recato a maturanza la sua independenza; ed i successori di lui, durante la controversia delle imagini, avevano, colla consapevolezza dei loro intendimenti, fatto valere la ragione per cui la podestà della Chiesa doveva procedere distinta da quella temporale dello Stato. Poichè adesso era stata vinta la pugna in cui la Chiesa s’era liberata dall’Impero bizantino, trattavasi di esprimere con manifestazioni esterne la associazione novella che essa aveva conchiuso nell’Occidente germanico, colla podestà politica ivi novellamente sorta. Leone III s’adoperò con grande alacrità di opere d’arte a significare l’armonia esistente fra il potere ecclesiastico e il potere civile. Alcuni musaici, che egli faceva eseguire posteriormente all’anno 796 in alcune chiese di Roma, erano la dichiarazione delle idee e dei bisogni di quell’età. Nella basilica di santa Susanna ei fece ritrarre sè e Carlo magno; le imagini di loro erano da una parte e dall’altra le estreme di un gruppo di nove figure; si elevavano sopra due alture simili a cime di un monte; il Pontefice sosteneva nelle mani il modello dell’edificio della chiesa; aveva sembiante pieno di dignità, volto raso di barba, capo tonsurato a foggia monastica: Carlo vestiva la tunica romana; sulle spalle aveva gettato un lungo mantello riccamente adorno di galloni; fuor di esso spuntava la guaina della spada; aveva la testa coperta di un berretto cinto di diadema; i piedi calzavano sandali a foggia romana, con tibiali ossiano legacci che recingevano la gamba fino al ginocchio[629].
[537]
Era questa la prima volta che in una chiesa di Roma si desse luogo alla imagine di un Re, presso quella di Santi e di Apostoli. Nel secolo sesto, i Ravennati avevano collocato nella tribuna della chiesa di san Vitale i ritratti di Giustiniano imperatore e della sua donna[630]; ma in Roma non s’era mai tributato pari onoranza nè a lui, nè ad alcuno dei suoi predecessori o dei succeditori suoi. In un altro celebre quadro di musaico, era significata l’idea del reggimento armonico del mondo, ed era rappresentata con imagini affatto personali e ricavate da quelle de’ suoi due Principi.
Nel tempo che corse dall’anno 796 al 799, Leone III aveva accresciuto il numero dei triclinî del palazzo Lateranense, uno costruendovene massimamente sontuoso, che egli appellò Triclinium majus. Il suo intonaco era tutto di marmo; marmorei rilievi lo adornavano; era sostenuto sopra colonne di porfido e di marmo bianco, e conteneva tre tribune con quadri a musaico. Il disegno dei musaici della tribuna maggiore è conservato in una imitazione di tempi posteriori, la quale esiste oggidì ancora nel Laterano[631]. Nel mezzo del [538] quadro, il Redentore posa sulla sommità di un monte da cui scaturiscono quattro torrenti; egli sostiene un libro aperto su cui si leggono le parole Pax vobis; la destra mano eleva in atto di ammaestrare i suoi discepoli che stanno intenti ad udirlo; sono eglino disposti dai due lati, e tengono il manto ripiegato intorno alle mani, perocchè sieno pronti a peregrinare nel mondo, seguendo l’insegnamento che loro è dato, e di cui offre avvertimento il motto che di sotto è scritto: «Andate, e ammaestrate tutti i popoli, e battezzateli in nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo; ed ecco, io sono con voi per tutti i giorni, in fino alla fine dei mondo.» Una seconda iscrizione tutt’attorno all’arco dice: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà[632].»
[539]
Dalla destra e dalla sinistra di questo quadro, due altri che si fanno fra loro riscontro, significano l’armonia delle due podestà, e la attribuzione dell’autorità che viene da Dio ai loro supremi reggitori; da una parte sono dipinti papa Silvestro e Costantino il grande, dall’altra Leone III e Carlo magno. In quel tempo durava vivissima la ricordanza di Costantino, primo fondatore della Chiesa imperiale, di cui si era novellato che al Pontefice avesse donato Roma e Italia. I nuovi rapporti che il successore di Silvestro aveva costituito mediante la sua associazione col Re dei Franchi, formavano il parallelo col tempo antico. Il potentissimo dominatore dell’Occidente, re d’Italia e patrizio dei Romani, vincitore di tanti popoli pagani, era dai preti appellato Costantino novello, e superava l’antico Imperatore per larghezze di donazioni effettive, e non già favoleggiate. Fu opera efficace dell’arte di quel tempo, che essa riuscisse ad esprimere con grande chiarezza le condizioni storiche della sua età; così questi musaici, quantunque di rozza fattura, sono, per valore di pensiero, la più alta concezione artistica che abbia avuto vita in una intiera serie di secoli.
Nel quadro a destra, il Cristo è seduto sul trono; a mano dritta di lui è inginocchiato Silvestro, dalla sinistra Costantino; ambidue contemporanei, e, per quel che narra la leggenda, uniti di vincoli d’amicizia. Il Redentore consegna al Papa le chiavi, e all’Imperatore porge il labaro ossia vessillo, che questi impugna colla destra. Presso di lui sta scritto: R. CONSTANTINUS[633].
[540]
A questo quadro corrisponde perfettamente l’altro che è da mano sinistra; sola e significhevole eccezione si è, che qui Pietro tiene le veci del Cristo. Sulle ginocchia dell’Apostolo posano tre chiavi: colla destra egli porge a papa Leone la stola, in segno della sua dignità pontificia; colla sinistra affida a Carlo la bandiera, segno di sua Militia e dell’autorità di giudice supremo. Il Re ha il capo coperto di un berretto cinto di corona parimenti come nel musaico di santa Susanna, e massimamente rassomiglia di fattezze e di vestimento all’imagine che quivi esisteva. All’intorno della cornice quadrangolare che cinge il capo del Papa, è scritto: SCSSIMVS. D. N. LEO. P. P.; intorno all’altra del Re: D. N. CARVLO. REGI. Sotto del quadro è l’iscrizione:
BEATE. PETRE. DONA.
VITA. LEONI. PP. ET. BICTO
RIA. CARVLO. REGI. DONA.
[541]
«Beato Pietro, concedi vita a Leone papa, concedi vittoria a Carlo re.»
Nei secoli anteriori, sotto i musaici consecrati dai Papi, questi sè appellavano soltanto: «Vescovo e servo di Cristo,» ma nella fine del secolo ottavo, al pari degli Imperatori antichi, a sè attribuivano di già il titolo di Dominus, di cui peraltro non ancora improntavano le loro monete[634]. I Romani s’accostumavano a sclamare nelle occasioni solenni: «Lunga vita al signor nostro il Papa!» Dominatore di Roma era divenuto il Pontefice; tuttavolta il titolo di «Signor nostro» era dato anche a Carlo; e prima ancora che egli fosse eletto imperatore, Cronisti e Poeti celebravano a gloria sua, che egli aveva riunito il romuleo Tevere, ossia la città di Romolo, al regno dei suoi avi[635].
[542]
Così sono composti i celebri musaici del triclinio di Leone III. Il Papa li faceva ivi apprestare, dopochè, trattando con Angilberto, aveva assodato il suo vincolo con Carlo: di tal modo essi furono il monumento di quel trattato; e da ciò che dice il suo Biografo si ricava eziandio, che quella sala destinata a refettorio, era già adoperata nell’anno 799. Se dunque la sua fondazione avvenne posteriormente all’anno 796, può essere che i musaici fossero di già compiuti innanzi il giorno di Natale dell’anno 800, prima cioè che Carlo fosse coronato imperatore. Il titolo di Rex, ossia re, non sarebbe stato per vero incompatibile colla dignità imperatoria; sennonchè, ove i quadri fossero stati compiuti dopo la incoronazione di Carlo a imperatore, potremmo a ragione chiederci il motivo per cui non sarebbero stati in quelle scritte apposti i titoli, coi quali, per accertata notizia di quel tempo, Carlo fu acclamato di questa forma: Carolo piissimo Augusto, a Deo coronato magno, pacifico Imperatori Vita et Victoria! Più tardi i Bizantini non vollero mai concedere agli Imperatori occidentali, tenuti per usurpatori, il titolo di Imperator, ma soltanto quello di Riga ossia Rex laonde non [543] dobbiamo accogliere che quei musaici sieno il monumento della restaurazione dell’Impero, che avvenne sulla fine dell’anno 800. Tuttavolta, al tempo di loro costruzione andava maturandosi il grande avvenimento, e, forse un solo anno prima, i musaici del Laterano dimostravano essere conseguenza necessaria la esaltazione di Carlo al trono imperiale d’Occidente[636].
[544]
Un avvenimento che or di repente succedeva, doveva porgere opportunità alla restaurazione dell’Impero occidentale. La stretta associazione di Leone III con Carlo, l’ossequio tributato alla giurisdizione di questo nella città di Roma, l’urgente sollecitazione con cui il Papa lo aveva richiesto che ne togliesse possedimento, fanno supporre che Leone temesse lo scoppiare di moti ostili fra i Romani. Nel corso del secolo ottavo s’era formato nella Città un reggimento clericale aristocratico, perocchè, sopra tutti gli altri, fossero i Proceres ossiano Judices de clero, che qui possedevano grandissima potenza. I sette ministri del Palazzo tenevano in pugno tutte le cose, e, da quasi un secolo, il Primicerio dei notai era, dopo il Papa, l’uomo più autorevole di Roma. La forza del poter suo s’era manifestata coll’esempio pericoloso di Cristoforo e di Sergio; nè colla caduta di loro s’era sminuita, chè anzi, sotto di Adriano, s’era forse accresciuta. Abbiamo indizî che questo Papa pel primo favoreggiasse i suoi nepoti; la sua famiglia, una fra le più cospicue della nobiltà, conseguiva da esso potenza maggiore, così che i parenti più prossimi di Adriano troviamo incaricati degli importantissimi negozî dello [545] Stato, e insigniti degli officî più alti. Teodato, zio di lui, teneva titolo di console e di duce, ed era primicerio della Chiesa; Teodoro e Pasquale, nipoti suoi, avevano in Roma influenza molta[637]. Adriano aveva elevato Pasquale alla dignità di primicerio, e poichè quest’officio non cessava colla mutazione dei Pontefici, egli ne rimaneva in possedimento, anche dopo la morte di Adriano. L’orgoglioso nepote di un Papa che aveva governato Roma con isplendore per il corso di ventitrè anni, ed aveva avvezzato la sua famiglia a condizione di altissima onoranza, vide con rabbia passare il reggimento nelle mani di un uomo che scendeva di stirpe nuova e straniera. I suoi parenti e i clienti suoi, che erano creature di Adriano, e parecchi ottimati del clero e della milizia prestarono orecchio alle voci del suo odio. Alla inimicizia personale dei nepoti di Adriano, cui il novello Papa per necessità doveva togliere l’influenza che fino a quel momento avevano esercitato, si associava la contrarietà che i Romani sentivano contro la suprema autorità pontificia. L’opposizione cominciò nell’ora istessa in cui s’ebbe costituita la podestà temporale dei Papi, e continuò in una lunga serie di rivolgimenti, che non hanno tocco il loro fine neppure al dì d’oggi. In tutta la storia dell’uman genere non si riscontra alcun’altra lotta che abbia durato tempo sì [546] luogo per uno stesso ed immutato principio, quanto quella dei Romani e degli Italiani contro il Dominium temporale dei Papi, il cui regno pur non doveva essere di questo mondo. Pasquale congiurava insieme con Campulo saccellario (sembra che questi gli fosse fratello), per torre al Papa il reggimento e per impadronirsi indi del potere[638]. L’avvenimento di una processione doveva offrirne l’opportunità, e l’attentato avvenne in mezzo a grave tumulto.
Il giorno 25 di Aprile, in cui cade festa di san Marco, era destinato alle grandi letanie, che il Papa, a capo del clero, soleva condurre ogni anno in quel dì. La processione moveva dal Laterano e andava al san Lorenzo in Lucina, dove stava ad aspettarla il popolo, e dove si recitava la Collecta, ossia prece universale: il Papa costumava di recarvisi a cavallo, seguito dalla sua corte. Leone infatti partiva dal Laterano, e Pasquale si univa a lui per prendere il luogo suo nella comitiva; egli cavalcava innanzi al Papa; Campulo lo seguiva dappresso. I loro associati nella congiura stavano attendendo vicino al chiostro di san Silvestro in capite edificato da Paolo I, nel campo di Marte; e quando ivi fu giunto il corteo, a spade sguainate vi mossero assalimento. La processione si disperse; il Papa, abbandonato da tutti, fu strappato di arcione e gettato al suolo sotto la minaccia dei pugnali che gli arrabbiati [547] aristocratici gli appuntavano al petto. Gli strapparono di dosso le vestimenta pontificali, tentarono di svellergli, a usanza bizantina, gli occhi e la lingua, e finalmente lo abbandonarono innanzi alle porte della Chiesa. Pasquale e Campulo lo strascinarono dentro del chiostro e lo gettarono appiè dell’altare, indi comandarono ai monaci greci, che ivi erano, di guardarlo chiuso in una cella[639]; ma, tornati durante la notte, trasportarono il Papa a sant’Erasmo sul monte Celio, dove lo tennero in istretta custodia. Preti, creduli di miracoli, narrarono che Dio, indottovi dalle preghiere dell’apostolo Pietro, gli restituiva gli occhi e la lingua; il miracolo potrebbe essere in ciò, che il malcapitato Leone per sua buona ventura non gli aveva mai perduti[640]. Roma era dominata [548] da terrore profondo; tutto minacciava che fossero per rinnovarsi i fatti sanguinosi avvenuti al tempo dell’usurpatore Costantino. Grande era il numero dei congiurati, e appartenevano alla più eletta nobiltà; sembra che un barone della Campania, Mauro di Nepi, che era della terra di Toto e forse della stessa famiglia di lui, gli avesse afforzati con genti armate di Tuscia[641]. Ma avveniva che la violenza usata togliesse loro l’intelletto, oppure che eglino non trovassero nel popolo il favore sperato ai loro mal concepiti disegni: eglino non provvedevano ad eleggere un antipapa, e ciò dimostra che la loro rivolta era stata indiritta non contro il Vescovo, ma sì contro il Dominus di Roma. La città trovossi in loro balìa.
Frattanto Leone risanava di sue ferite, e un dì, grave sbigottimento incoglieva Pasquale all’annuncio che egli era fuggito. Il coraggioso Albino, camerario, ed altri [549] fedeli liberavano il loro Pontefice, lo calavano per mezzo di una fune dalla muraglia del convento, e senza alcun danno lo conducevano in san Pietro. Intorno al fuggitivo si raccoglieva tosto una parte del clero e del popolo, così che i congiurati non osavano di strapparlo dalla tomba dell’Apostolo ove s’era ricoverato; eglino mettevano a sacco le case di Albino e di Leone, ma non potevano impedire che il Papa finisse di scampare. Vinichi, duce di Spoleto, alla novella dei fatti di Roma, s’era affrettato a venirvi con sue soldatesche, in compagnia di Visundo legato franco; in san Pietro toglieva con sè Leone e lo conduceva in salvo a Spoleto.
La fama dei casi del Papa si sparse per il mondo con rapidità; e messaggieri di Vinichi significarono a Carlo, che Leone desiderava di andarsene a lui. Il Re stava per muover guerra contro i Sassoni, allorchè udiva della prossima venuta di Leone. A quell’annunzio, guadava il Reno presso a Lippeham e poneva campo in vicinanza di Paderborn; quivi attendeva l’ospite chiedente soccorso, e spediva incontro a lui Ildebaldo arcivescovo di Colonia, Anscaro conte e Pipino re. Con questa illustre comitiva, Leone III, seguito da alcuni preti romani, veniva a Paderborn. Allorchè, quarant’anni prima, il suo predecessore Stefano era ito a Pipino, ei v’era andato da vescovo ecclesiastico, che non possedeva principato, nè dominava paesi; per lo contrario, nell’anno 799, il Papa che rifuggiva presso il figlio di Pipino, era signore del territorio di Roma, di città e di province molte. Veniva coperto di ferite, maltrattato e cacciato da quei Romani «che a lui appartenevano», e Carlo or poteva comprendere quali conseguenze traesse [550] necessariamente con sè la miscela del sacerdozio spirituale e del principato d’indole temporale.
L’incontro di quei due uomini a Paderborn fu avvenimento di alta rilevanza nella storia del mondo. Un Poeta, che ne era testimone oculare, fu tratto a darne la descrizione; nella povertà dello stile di quel suo tempo, egli tolse a prestito alcuni colori dalla tavolozza del Virgilio che allora correva per le scuole, e porse una pregevole dipintura dell’avvenimento. Egli è probabile che il Poeta fosse quello stesso Angilberto, il quale, nell’anno 796, era andato ambasciatore a Leone. Nel poema in cui cantò di Carlo magno, dopo di avere descritto Aquisgrana «seconda Roma», e dopo di aver celebrato la corte del Re, la musa di lui si eleva ad una visione foggiata ad antico metro. Il Re dorme, e gli compare in sogno «un triste portento ed un mostro orribile», ossia il Papa mutilato negli occhi e nella lingua: allora egli spedisce tre messaggieri a Roma, perchè avverino ciò che sia di Leone[642]. Con brevi tocchi il Poeta descrive i casi avvenuti a Roma, il viaggio del Papa al campo di Carlo e il suo arrivo a Paderborn, dove «scaturiscono la Patra e la Lippa». Leone veniva accompagnato da re Pipino, che gli era mosso incontro [551] alla testa di diecimila uomini; Carlo lo aspettava nel mezzo del campo. Al comparire del Papa, alla benedizione che egli pronunciava, l’esercito si prostrava tre volte in ginocchio, e, commosso, il massimo Principe dell’Occidente stringeva nelle sue braccia poderose d’eroe l’afflitto fuggiasco. Le schiere dei guerrieri e i paladini, che in tante battaglie avevano sconfitto i Saraceni di Spagna, gli Avari dell’Istro e i Sassoni della Germania, salutavano i due Principi della Cristianità con grida che andavano alle stelle[643]. Al rintronar delle armi si univano le salmodie dei preti; Carlo guidava il Papa alla chiesa cattedrale; vi si celebrava messa solenne; indi susseguivano banchetti, ai quali, come dice il Poeta imitator di Virgilio, spumeggiavano i dolci nappi del vecchio Bacco di Falerno, ossia, più esattamente, dei succhi spremuti dalle uve dorate del Reno[644].
[552]
Intanto che Leone stavasi con grandi onori presso Carlo, e trattava con esso di negozî rilevantissimi, Roma rimaneva in balìa della fazione che ne lo aveva discacciato. Peraltro, la cognizione dello stato in cui la Città allora si trovava è a noi celata da oscurità gravissima. Il Biografo di Leone, con espresso intendimento, non vi rivolge che uno sguardo fuggevole, e dice soltanto che gli usurpatori saccheggiavano e devastavano i possedimenti di san Pietro. Gli aderenti di Pasquale, segnatamente gli abitatori del contado che erano entrati in Roma, si toglievano licenza di molte opere violente. Certo eglino movevano censura contro la signoria troppo grande che alla Chiesa era pervenuta, e scrivevano, ad accusa del Papa, un memoriale, di cui dobbiamo rimpiangere la perdita, perocchè in esso quegli uomini senza dubbio significassero le ragioni che gli avevano indotti a sollevarsi contro Leone III: e questa scrittura, a loro giustificazione, mandavano a Carlo, patrizio dei Romani[645]. Il comportamento dei ribelli è assai degno di nota; quegli stessi Romani che avevano trattato con sì dura crudeltà il Papa, e lo avevano cacciato della Città, attendevano con animo tranquillo il giudizio di Carlo, e si assoggettavano ad un’inquisizione. Non provvedevano ad armarsi in propria difesa, non contrastavano a che Leone tornasse, e neppure tentavano di sottrarsi colla fuga [553] al danno che li minacciava. Una lettera, che Alcuino indirizzava a Carlo, dimostra qual grave peso si attribuisse alla loro sollevazione. Il Re, che era in procinto di romper guerra contro i Sassoni, avea fatto conoscere a quel savio lo stato delle cose di Roma, e gli avea chiesto consiglio di ciò che fosse a fare: Alcuino a questa domanda rispondeva. Tre finora, scriveva l’erudito uomo, sono le persone più eccelse nel mondo; il Vicario di san Pietro, che or fu così empiamente perseguitato; l’Imperatore, signore civile di Roma seconda (Bisanzio), che di questo tempo fu con pari barbarie precipitato dal trono; il Re finalmente, la cui podestà, concessa da Cristo, Carlo tiene, fatto reggitore del popolo cristiano. In lui solo, che le altre due dignità per potenza e (aggiunge egli con independenza di giudizio) per sapienza antecede, riposa la salute della Cristianità. Indi prosegue: «In veruna guisa puossi trascurare la guarigione del capo (di Roma). Se i piedi fanno male (i Sassoni), il loro è dolore più sopportabile di quello onde si travaglia la testa. Si componga pace col popolo infame (cioè i Sassoni) se sia cosa fattibile; si pongano da banda le minacce acciocchè inveleniti non isfuggano, ma si avvincano colla speranza, finchè con salutevole consiglio a pace tornino. Deesi conservare quel che si possede (Roma), affinchè per acquistare il meno, non si perda il più. Occorre vigilare a guardia del proprio ovile, acciocchè il lupo rapace non lo devasti. Così si provveda alacremente alle cose straniere, all’uopo che nelle cose nostrali non s’abbia danno[646].»
[554]
Questa lettera dimostra che la ribellione della Città, vista in lontananza, appariva ancor più pericolosa di quello che per il fatto essere potesse, e dimostra che Carlo possedeva autorità perfetta di giudice, e signoria suprema sopra di Roma. Ei si trattava pertanto di esercitare questa autorità con severità imparziale; nè già Carlo intendeva di ricondurre senza più a Roma con forza di armi il Papa fuggitivo, come questi forse aveva sperato, ma il Papa e i suoi oppositori Romani citava innanzi al suo tribunale di giudice. Le doglianze che gli ottimati movevano contro di Leone dovevano essere di grave rilevanza; difficile è che si riferissero soltanto a colpe personali di lui, ma dovevano riguardare veramente la condizione temporale che il Pontefice aveva conseguito in Roma. Se tale non ne fosse stato il caso, e se si avesse tenuto i nepoti di Adriano ed il loro partito addirittura in conto di volgari assassini, eglino non si sarebbero sottoposti all’arbitrato dei Patrizio. Devesi accogliere pertanto che questi uomini fossero convinti del loro diritto, e che eglino ne cercassero il fondamento nell’antichissima e [555] imprescrittibile maestà di popolo romano. Ad ogni modo, tutti questi fatti sono sepolti in una tenebra profonda, causa il mutismo in cui si chiudono i loro contemporanei.
Carlo, lo dobbiamo credere per certo, faceva significare ai Romani che egli spedirebbe a Roma suoi legati forniti di piena autorità, affinchè pronunciassero sentenza mediante inquisizione condotta con norma di diritto. Infatti, nell’autunno, Leone III lasciava l’Alemagna, e con numerosa comitiva tornava tranquillamente a Roma. Lo accompagnavano dieci legati di Carlo, che venivano a istituire il procedimento; ed erano gli arcivescovi Ildebaldo di Colonia ed Arno di Salzburgo, i vescovi Cuniberto, Bernardo, Atto, Flacco e Jesse, e i conti Helmgot, Rotgaro e Germano. Nelle province e nelle città, attraverso le quali il Pontefice passava nel suo viaggio, egli era dovunque ricevuto e ossequiato con magnificenze solenni. L’accoglimento che egli s’aveva anche in Roma doveva renderlo certo, che sotto il presidio di quelli che lo accompagnavano ei non aveva ragione di temere offesa dalla Città: ed allorquando, addì 29 di Novembre, ne venne in vicinanza, trovò a ponte Milvio il popolo di tutti i ceti, che ivi era mosso a dare il benvenuto a lui ed ai signori Franchi. V’erano con loro gonfaloni, il clero, la nobiltà, la milizia, le maestranze della cittadinanza e le Scuole degli stranieri. Lo si condusse salmeggiando alla basilica di san Pietro, e quivi si celebrava la messa e si amministrava la comunione[647].
[556]
Leone pernottò in uno dei palazzi vescovili che erano presso il san Pietro, e soltanto nel dì successivo andò al Laterano. Pochi giorni dopo fu dato incominciamento all’inquisizione. I legati di Carlo tennero le adunanze del loro tribunale nel triclinio di Leone. Pasquale, Campulo e i loro socî si presentarono chetamente innanzi ai messi franchi; il più grave processo che da secoli fosse tenuto in Roma diè faccenda ai giudici per il corso di parecchie settimane. Gli atti non ne giunsero fino a noi; un brevissimo frammento di essi, fosse pur come quello dell’inquisizione dell’usurpatore Costantino, sarebbe di valore altissimo per la storia, e se ne potrebbe ben dimostrare privo di fondamento ciò che narra il Biografo di Leone III, che quei nobiluomini non sapessero dir nulla a carico del Papa. Se pure ai nepoti di Adriano non sarà riuscito di provare loro accuse contro Leone III come prete, eglino avranno per lo meno discusso di ragione sul rapporto temporale in cui il Pontefice si trovava colla città di Roma: la recente signoria temporale dei Papi aveva, ancor al tempo di Paolo I, destata una violenta contrarietà nella nobiltà romana, ed aveva dato occasione all’usurpazione di Costantino. Per quel che concerne il modo ond’era composto il tribunale, non è chiaro se ai dieci legati Franchi si aggiungessero o no, quali scabini, anche degli ottimati romani del clero e della milizia: peraltro ciò deve accogliersi per vero, avvegnaddio il procedimento concernesse il piatire [557] del Papa e dei Romani[648]. La conclusione si fu che gli accusati erano dichiarati colpevoli; fu pronunciata contro di essi condanna di morte, ma l’esecuzione della sentenza si assoggettò alla decisione di Carlo, cui può essere che i condannati appellassero.
Carlo aveva promesso al Papa di venire a Roma, e di celebrare nella Città le feste di Natale dell’anno 800. Nell’Agosto andava a Magonza; raccoltivi i suoi ottimati, chiarito ad essi quali doveri lo chiamassero in Italia ed in ispecialità a Roma, ordinava la partenza. Ancora quand’era in Francia, il Re aveva chiesto ad Alcuino che lo accompagnasse, ma il valentuomo non andava, sia che lo trattenesse infermità, o che ne lo distogliesse l’affetto che nutriva per il suo chiostro di san [558] Martino di Tours; laonde Carlo scherzevolmente lo rimproverava ch’ei preferisse le capanne di questa città annerite dal fumo ai palazzi di Roma sontuosamente splendidi d’oro[649]. L’Abate di san Martino dava compagna al suo Re la musa poetica, la quale, ispirandosi al presentimento dell’avvenire, gli rivelava che Roma, capo del mondo, culmine dei più eccelsi onori, tesoro dei Santi, attendeva ch’ei vi andasse da reggitore del regno e da patrono; e gli diceva, che missione di lui si era di erigervi il suo tribunale, di comporvi la pace e di imperare sull’orbe per volontà di Dio[650].
Carlo andò col suo esercito a Ravenna; rimase in questa città sette giorni, indi proseguì ad Ancona; e, dopo di avere di là spacciato re Pipino con una parte delle soldatesche contro il ribelle Grimoaldo, duca di Benevento, si ripose in cammino per Roma. La prossima [559] venuta del più potente uomo di quell’età, il quale, sotto lo scudo della sua protezione, copriva di difesa Roma e la Chiesa, metteva a commovimento febbrile la Città; perocchè agli uni apparisse in vista di giustiziere terribile, agli altri di salvatore, tutti poi s’aspettassero eventi insoliti. Ed egli veniva per esercitare in Roma sua autorità di patrizio, nel senso che questa podestà avea di più elevato; e la coscienza che il governo della Chiesa universale, e che tutte le cose massimamente gravi, e le sorti dell’Occidente erano riposte nelle sue mani, diffondevano sopra di lui una maestà imperatoria.
Alla decimaquarta pietra miliare lungo la via Nomentana esisteva ancora a quel tempo l’antica terra detta Nomentum, che già fin dal secolo quarto era sede di un vescovo: qui Leone era venuto col clero, colla milizia e col popolo per accogliervi il Re con ogni maniera di onori. Questi vi giungeva il giorno 23 di Novembre[651]. Il Re fece far alto, e desinò col Papa; e [560] poichè Leone in quella prima conferenza fu reso certo di ciò che in Roma doveva avvenire, tornossene alla Città, per ricevervi Carlo alla domane con feste grandi. Il Re passò la notte a Nomento, e nel dì 24 di Novembre entrò nella Città. Non tenne ingresso dalla porta Nomentana, ma, percorrendo il circuito delle mura, passò da ponte Milvio per visitare prima di tutto il san Pietro. Il Papa, circondato dal clero, lo aspettava sulla gradinata della basilica: indi, secondo la costumanza, conduceva il Re nel tempio dell’Apostolo.
Addi 1 di Dicembre, Carlo tenne un’adunanza grande e solenne. Parimenti come un tempo avea fatto Teodorico, quand’era venuto a Roma per comporvi a pace tumulti che erano similmente avvenuti per la successione alla cattedra di san Pietro, così Carlo, da giudice supremo di Roma e nella sua autorità di patrizio, convocava clero, nobiltà e borghesia, Romani e Franchi. Questo meraviglioso parlamento, che fu un sinodo in forma di corte giudiziaria, si radunò nel san Pietro. Il Re, vestito della toga e della clamide di patrizio romano, sedeva a fianco del Papa; dai lati di loro e tutto d’intorno erano assisi gli Arcivescovi, i Vescovi e gli Abati, laddove il clero minore e tutti i nobili [561] romani e franchi stavano in piedi[653]. Carlo parlò; disse loro che era venuto a Roma come patrono e come patrizio, per ricomporre l’ordine turbato della Chiesa, per punire i delitti che erano stati commessi contro il capo supremo di essa, per pronunciare sentenza fra i Romani accusatori ed il Papa accusato. Innanzi al tribunale del Patrizio dovevano ancora una volta essere udite le doglianze che i Romani ribellati avevano mosso contro il Papa, e dovevasi definire se questi era colpevole o innocente. Non si moveva eccezione, nè dubbio contro l’autorità che Carlo aveva di giudice; tutti i Vescovi franchi ammettevano che egli era capo universale della Chiesa; il Papa, che s’era assoggettato alla inquisizione dei legati regî, era, come ogni altro Romano, suddito a lui, e come tale compariva innanzi al tribunale del suo giudice. Certo è che Leone III a questo tribunale si assoggettava; i Cronisti franchi lo narrano senza rigiri; soltanto il Libro Pontificale cela l’avvenimento dell’inquisizione. Esso narra che i Vescovi tutti concordemente s’alzassero e dicessero: Noi non osiamo di pronunciare sentenza sulla Sede apostolica, che è capo di tutte le Chiese di Dio. Perocchè noi stessi siamo sottoposti ai giudizio di essa e del Vicario suo; ma sovra di essa non v’ha giudice alcuno, e questo è costume accolto fino dai tempi antichi. Conformemente ai canoni, noi ci sottomettiamo a quello che il supremo Pontefice dichiara essere ben fatto. Ed il Papa disse già: Io seguo l’esempio dei miei predecessori nel pontificato, e son pronto a purgarmi [562] delle false accuse, che l’empietà ha sparso contro di me[654].
V’era, fra altri, l’esempio di Pelagio, cui Leone III poteva appigliarsi. Allorchè alla morte di Vigilio predecessor suo, quel Papa era stato accusato da alcuni Romani, di avervi avuto mano, egli s’era purificato publicamente in san Pietro con giuramento prestato alla presenza di Narsete, e sotto la sopravveglianza che questi esercitava da giudice supremo; perocchè egli allora, come patrizio, rappresentasse la maestà dell’Imperatore. Similmente fece Leone, ma soltanto dopo che egli ebbe adempiuto osservanza alla procedura giuridica, cioè a dire, dopo che Carlo ebbe ancora una volta prestato orecchio alla voce dei suoi accusatori. Questi comparvero innanzi all’assemblea, esposero le loro querele, ma non poterono darne la prova; ed allora Carlo si associò alla opinione dei Vescovi, i quali, rifiutando di pronunciare giudizio, avevano rimesso il Papa a prestare il giuramento di purgazione[655]. Questo avvenne nel dì [563] susseguente alla prima tornata; parimenti che in questa, tutti i Vescovi e tutti gli ottimati della Città e del Re, si riunivano nel san Pietro, ed il popolo dei Romani in moltitudine pigiata riempieva le navate dell’ampia chiesa. Il Pontefice saliva la cattedra, sulla quale erasi collocato un tempo Pelagio, e tenendo in mano i santi Evangelî, diceva la formula di purificazione:
«Noto è, o diletti fratelli, che uomini malvagi sono insorti contro di me, e hanno amareggiato me e la vita mia con gravi accuse. Per conoscere di queste, il benignissimo ed illustre re Carlo è venuto in questa Città, coi sacerdoti e coi grandi suoi. Per la qual cosa, io Leone, pontefice della Chiesa santa romana, non giudicato mai da chicchessia, non costretto, ma di mia spontanea volontà, purifico me in presenza vostra, innanzi a Dio che fruga ogni labe della coscienza, innanzi agli angeli suoi ed a Pietro santo, principe degli Apostoli, il cui sguardo ci vede; e dico che non ho commesso i delitti che mi si rimproverano, nè ho comandato che si commettessero: così ne invoco a testimonio Iddio, al cui giudizio dovremo un dì comparire, e sotto i cui occhi stiamo. E questo faccio, non perchè lo imponga legge alcuna, nè perchè io voglia ordinarlo come usanza o come decreto di santa Chiesa ai miei successori od ai Vescovi confratelli miei, ma per darvi certezza ancor maggiore, che vi liberi di sospetto ingiusto[656].»
[564]
Dopocchè Leone ebbe convalidato questa protesta col giuramento di purgazione, il clero intonò il Te Deum; il Pontefice dianzi accusato, sedette di bel nuovo, puro di macchia, sulla cattedra di san Pietro; e i suoi accusatori, ossiano i nobili che erano stati già prima condannati alla morte, Pasquale, Campulo ed i loro socî cospiratori, furono dati in mano al carnefice. Ma il Papa preferì di dar loro perdonanza, perocchè egli con ragione temesse di accrescere l’odio dei Romani colla punizione capitale dei parenti di Adriano e di uomini così illustri. Alle fervide istanze che ei ne faceva, Carlo assentiva a esiliare i colpevoli in Francia, chè questo luogo di esiglio adesso teneva le veci del bando a Bisanzio, che un tempo s’era usato prefiggere ai rei[657].
Uno degli avvenimenti più rilevanti della storia, e grave di massime conseguenze, susseguiva a questi [565] grandi fatti, che di quello erano la preparazione: la corona degli Imperatori romani ponevasi in capo a Carlo, re dei Franchi. Trecento e ventiquattro anni erano trascorsi dacchè i legati del Senato romano erano andati a Bisanzio, e avevano deposto in mano di Zenone imperatore le insegne dell’Impero, protestando che Roma e l’Occidente non avevano più bisogno di un Imperatore che fosse proprio soltanto di loro. Durante quel periodo di tempo così lungo, in mezzo a tanta mutazione di sorti e a decadimento ognor più profondo, gli Imperatori bizantini avevano continuato a reggere Italia come una loro provincia. Un senso pietoso del genere umano aveva mantenuta ancor viva l’idea dell’Impero romano, e tuttavia, fino agli ultimi anni del secolo ottavo, l’Italia liberata e l’Occidente ne avevano venerato il fantasima nel titolo onde si insignivano gli Imperatori di Bisanzio. Cessati erano gli istituti dell’antichità, sopra i quali aveva riposato il trono dei Cesari; ma il concetto dell’Impero durava ancora. Era esso quella forma santificata, che per il corso di secoli aveva espresso l’idea unitaria di republica della gente umana, e altresì della Chiesa visibile. I Germani, che avevano distrutto l’Impero occidentale, ora lo rinovellavano, dopocchè erano stati accolti nella civiltà romana e nel grembo della Chiesa: ed era la Chiesa stessa, la cui gerarchia e le cui leggi diggià abbracciavano l’Occidente, che allevava l’Impero romano, quasi nuovamente traendolo dal suo seno, come forma politica del suo principio civile universale e di quella unità in cui il Pontefice la aveva accentrata. Oltracciò, la supremazia di essa su tutte le Chiese dell’Occidente, poteva ottenere reverenza completa soltanto [566] per opera dell’Imperatore e dello Stato. La restaurazione dell’Impero era eziandio necessaria per frenare la formidata potenza del Maomettismo, il quale veniva premendo sull’Occidente, e faceva tremar di paura Bisanzio, e dalla Sicilia e dalle Spagne moveva minaccia anche a Roma. Gli Imperatori greci avevano potuto dominare l’Occidente e l’Oriente riuniti, fino a tanto che eglino erano stati robusti, fino a tanto che la Chiesa occidentale era stata debole, finchè Italia era giaciuta oppressa di abbattimento mortale, e l’Occidente germanico era stato disertato da’ Barbari effreni di legge. Non lo poterono più, allora che la Chiesa si ebbe fatta independente, Italia ebbe acquistato la coscienza di nazione e l’Occidente s’ebbe composto nel grande regno di Francia associato ad Italia, e fu retto da un uomo in cui la Provvidenza aveva stampato vasta orma del suo genio. Di tal guisa l’idea di proclamare Carlo imperatore, andava educandosi; così fu mandato a eseguimento quel disegno, di cui un tempo, al principio della controversia degli Iconoclasti, gli Italiani sollevati avevano minacciato Leone l’Isaurico. L’Occidente adesso reclamava per sè l’Impero. Il fatto storico dell’Impero di Bisanzio aveva già ottenuto, per consuetudine lunga di tempi, autorità giuridica, ma Bisanzio altro non era che la figlia di Roma; laddove di qui, di Roma, era proceduto l’Impero; qui i Cesari avevano avuto loro sede. La illustre madre dell’Impero non faceva perciò che rivendicare il suo diritto, se ora, come ne’ tempi antichi, offriva la corona imperiale al più potente Principe dell’Occidente. Alcuni Cronisti contemporanei, guardando lo stato del mondo di allora, trovavano che la podestà imperiale, la [567] quale da Costantino in poi aveva avuto sede, primamente divisa, indi universale appresso i Greci, a Bisanzio, non poteva essere tenuta da un solo uomo. Infatti, due anni prima che papa Leone fosse vittima di mali trattamenti, anche la dignità imperiale era stata vituperata nella persona di Costantino VI; e la Republica romana, cioè a dire l’Impero, era stata usurpata da una femmina perversa, da Irene, che aveva fatto accecare il proprio suo figliuolo: poichè così era, ei sembrava massimamente che il trono dell’Impero fosse vacante[658]. Pertanto, la corona abbandonata di Costantino fu trasmessa al monarca Franco, perocchè egli già possedesse Roma, capo dello Stato, e parecchi altri luoghi dell’Impero antico. Un fatto di sì alta rilevanza, il quale secondo le idee di quel tempo e i bisogni dell’Occidente era divenuto una necessità, ma che aveva sembianza di un rivolgimento di contro ai diritti di Bisanzio, difficilmente poteva essere l’opera di un breve momento; esso era soltanto il risultamento di avvenimenti storici e di deliberazioni maturate per conseguenza di quelli. Havvi neppur motivo di dubitare che la corona imperiale da lungo tempo fosse la meta desiderata di Carlo magno, e l’idea coltivata da’ suoi amici che s’ispiravano a’ concetti romani? Manifestamente Carlo veniva a Roma per torsi quella corona, od almeno per prendere su di quel fatto un’ultima deliberazione; e già, durante il suo soggiorno in Francia, il Papa s’era chiarito pronto a prestare il suo aiuto, affinchè il grande mutamento [568] si compiesse[659]. Soltanto con esitazione i Papi s’erano svincolati dalla podestà legittima dell’Impero bizantino; così per tradizione che per arte politica, avevano ad essi prestato ossequio, anche allora che i Principi franchi avevano conseguito potenza in Italia. La necessità delle cose gli aveva costretti a gettarsi nelle braccia di questi e di sgomberare loro autorità di Patriziato in Roma, e ne avevano cavato loro prò acquistandone lo Stato della Chiesa, cui poteva proteggere soltanto una intervenzione franca, pronta sempre a favorirli. La cacciata del Pontefice da Roma, onde era divenuto signore, diede finalmente l’impulso decisivo. Compreso di quelle considerazioni, Leone III doveva far sì che la podestà imperiale diventasse possedimento di una dinastia occidentale, e propriamente della casa regale dei Pipini fervidamente cattolica, di cui Stefano, predecessore suo, aveva consecrato la corona, di cui lo zelo religioso affidava la Chiesa latina di valorosa difesa, di cui la potenza prometteva alla Cristianità protezione dai Barbari e dagli Infedeli: di Bisanzio invece altro non si poteva aspettare sennonchè continuazione del despotismo giustinianeo ed eresia in fatto di dogma. Tutto ciò s’era ponderato da lungo tempo e con maturo consiglio.
Gli amici che Carlo aveva nel clero, erano, possiamo tenerlo per certo, i più zelanti propugnatori di questo disegno ardito, che forse il Papa non coltivava con pari fervore. Già, ancor prima d’adesso, Alcuino era stato [569] iniziato a quelle idee; ne lo dimostrano le sue lettere[660]: i legati franchi s’erano soffermati un anno intiero a Roma, e per fermo s’erano messi d’accordo coi Romani, dal cui voto elettivo la cosa principalmente dipendeva. Ed invero eran dessi che per l’antico giure di elezione, spettante al Senato ed al popolo, avevano proclamato Carlo a loro patrizio, e, per egual diritto, ora lo eleggevano a loro imperatore. Soltanto perchè egli era imperatore dei Romani e di Roma, massimamente perciò, ei diventava anche imperatore di tutto lo Stato[661]: [570] nè v’ha dubbio che all’incoronazione precedesse una statuizione della nobiltà e del popolo di Roma; e la proclamazione di Carlo a imperatore romano, avveniva per opera dei tre soliti ordini elettivi, precisamente secondo l’esemplare delle elezioni pontificie.
Il grande rivolgimento, che cancellava i diritti di Bisanzio antichi da secoli, non doveva aver le sembianze di un’opera arbitraria del Re o del Papa, ma doveva aver l’apparenza di un atto che emanasse da Dio, ed al quale si conformasse in pari tempo, giusta il buon dritto, la Cristianità, il cui voto era espresso dal popolo dei Romani e dal parlamento di tutti i cherici, e di tutti gli ottimati, e dei cittadini adunati in Roma, così Germani che Latini. Anche i Cronisti franchi narrano che Carlo fu fatto imperatore per elezione del popolo romano od altrimenti parlano del parlamento associato delle due nazioni riunite; e specificano tutti quelli che v’ebbero parte, denotandoli in questa serie: il Pontefice, l’intiera assemblea dei Vescovi, dei preti e degli abati, il Senato dei Franchi, tutti gli ottimati dei Romani, ed il rimanente del popolo cristiano[662].
La deliberazione dei Romani e dei Franchi fu annunciata a Carlo in forma di supplichevole instanza. [571] Deesi credere che egli, parimenti come ebbe fatto un tempo Augusto, facesse mostra di non voler accettare la suprema dignità, e che alla fine soltanto ei vi venisse astretto, per forza di un fatto già avvenuto? Puossi addirittura accusare d’ipocrisia la protesta data da un uomo così pio ed eroico com’egli era, allorchè dicea che la corona imperiale lo aveva colto inaspettatamente, e che egli non avrebbe oltrepassato la soglia della chiesa di san Pietro, se avesse conosciuto l’intendimento di Leone[663]? Forse che Pipino, figliuolo di Carlo, non era per quel proposito tolto alla guerra di Benevento, e chiamato a Roma per assistere alla incoronazione imperiale? Si tentò di conciliare fra loro tutti questi fatti contraddittorii, e si sostenne con Eginardo che Carlo stava in sospeso, perocchè lo trattenesse pensiero di Bisanzio; si affermò che egli non aveva ancora dato la sua adesione, ed aveva già innanzi cercato, per via di negoziati coi Greci, di ottenerne loro adesione a ciò ch’ei diventasse imperatore; e si disse che egli perciò era stato effettivamente colto a sua impensata colla incoronazione, la quale riusciva inopportuna per riguardo di tempo[664]. Ragioni di probabilità sorreggono questa opinione; sennonchè essa concerne soltanto il breve momento della ceremonia, avvegnacchè Carlo già da lunghissimo tempo avesse acconsentito di esser elevato all’Impero, e la solennità dell’incoronazione fosse stata [572] statuita per il tempo della sua venuta a Roma. I suoi amici zelanti ne attendevano l’ora con precisa certezza.
La ceremonia fu fatta senza preparazione e senza pompa, affine di por termine ad ogni nuova dubbiezza. E ciò era intendimento del Papa, perocchè egli in siffatto modo componesse sè stesso a massima altezza, e attribuisse alla Chiesa il più eccelso diritto per via dell’incoronazione e della consecrazione. Ed infatti era egli, suo capo supremo, che adesso con virtù efficace faceva imperatore l’uomo eletto dai Romani e dai Franchi. Nulla ebbe forma più semplice, nulla avvenne mai con dimesse apparenze più di questo atto, che fu di importanza sì alta nella storia del mondo. Nel giorno di Natale, Carlo stavasi genuflesso orando innanzi alla Confessione di san Pietro; allorchè ei si levava, Leone, quasi fosse ispirato da Dio, gli poneva in capo una corona d’oro; a quel segno, che stavasi attendendo, e di cui comprendevasi il significato, tutto il popolo congregato prorompeva nelle voci con cui solevasi acclamare ai Cesari: «A Carlo, piissimo Augusto, coronato da Dio, Imperatore dei Romani, grande e datore di pace, vita e vittoria[665].» Due volte ancora si ripetè il grido; questo istante che fu l’importantissimo di tutti quelli che avessero sonato in Roma da secoli, mise il popolo a grande commovimento, ed il Papa, nuovo Samuello, unse dell’olio santo il novello [573] Cesare dell’Occidente e il figliuol suo Pipino[666]. Indi vestì Carlo del manto imperiale, e, inginocchiandosi innanzi a lui, adorò il capo del romano Impero coronato da Dio per mano sua[667]. Alla solennità poneva fine la messa, e Carlo e Pipino offerivano i donativi che avevano già apparecchiato per le chiese: presentavano la basilica di san Pietro di una tavola d’argento con vasi preziosi d’oro; alla chiesa di san Paolo tributavano di simili offerte votive; alla basilica Lateranense davano una croce d’oro seminata di pietre preziose, e alla santa Maria Maggiore facevano dei presenti non meno sontuosi.
Di tal guisa, Carlo dimetteva il titolo di patrizio dei Romani, e da quest’ora in poi s’appellava imperatore e augusto. Il titolo novello non poteva accrescere di efficacia la potenza di un Principe che, lunghissimo tempo prima, aveva dominato l’Occidente cristiano; ma serviva adesso a significare con precisa espressione questa signoria assoluta di Carlo; e lo componeva innanzi al mondo in quella dignità cesarea che gli era stata «concessa da Dio,» e ch’egli aveva vestito in Roma, santuario [574] massimo della Chiesa, sede antichissima della monarchia mondiale. Nei tempi più tardi, allorchè l’Impero germanico venne a conflitto contro il Papato, gli Scrittori di giure canonico foggiarono una loro teoria, affermando che l’Imperatore aveva conseguito la corona soltanto per grazia del Papa: e questa investitura fecero derivare dal fatto che Carlo era stato coronato da Leone III. Gli Imperatori alla loro volta trassero in campo le acclamazioni del popolo che aveva gridato: «All’Imperatore dei Romani, coronato da Dio, vita e vittoria;» e dissero che la loro corona, retaggio inalienabile dei Cesari, portavano perciò soltanto che Dio loro la aveva data. I Romani finalmente protestarono che la corona era pervenuta a Carlo unicamente perchè gliela aveva concessa la maestà del Senato e del popolo romano. La controversia sull’origine giuridica dell’Impero si prolungò in tutto il medio evo; essa non recò veruna mutazione efficace nella storia del mondo, ma pur dimostra che gli uomini, mossi da un bisogno congenito alla loro natura, intendono a ricondurre il mondo dei fatti sotto una regola di diritto da cui la forza riceva impronta di legalità. Papa Leone III non possedeva il diritto di dare altrui la corona dell’Impero, chè sua non era, parimente come a Carlo mancava ogni diritto di pretenderla. Ma il Papa reputava sè essere il rappresentante dell’Impero e dei Romani; e, come capo della nazione latina, e, più ancora, come capo spirituale supremo, e per tale riverito, di tutta la Republica cristiana, ben aveva egli la potenza di effettuare quel rivolgimento che, senza l’ajuto della Chiesa, possibile non sarebbe stato. Il mondo tenevalo in conto di colui che intercedeva [575] fra esso e la Divinità; laonde fu soltanto colla incoronazione e colla unzione avvenute per mano sua, che l’Impero di Carlo agli occhi del mondo acquistò la consecrazione e la confermazione divina. Il diritto elettivo dei Romani, d’altra parte, in quella forma onde si esercitava, era incontestato; nè in alcun’altra elezione imperiale di tempi posteriori potè esso riuscire di così decisa importanza giuridica. Se nell’anno 800 i Romani, dai quali il novello Augusto conseguiva il suo titolo, si fossero chiariti avversi alla elezione di Carlo, il Re dei Franchi o non sarebbe mai diventato imperatore, oppure alla sua potenza imperatoria, parificata ad una usurpazione, avrebbe mancato anche l’ultima apparenza di forma giuridica; per la qual cosa Carlo non poteva possedere virtù d’imperatore senza la volontà del Papa o senza quella dei Romani. Peraltro, a questi nell’elezione s’erano accompagnati anche i Franchi e gli altri Germani rappresentati in Roma dalle Scuole degli stranieri; e il diritto elettivo, che originariamente aveva appartenuto soltanto al Senato ed al popolo romano, ma che del resto neppur Carlo ebbe mai per tale acconsentito, perdette la sua importanza, perocchè la potenza dello Stato indi in poi abbia posato sulla nazione germanica, dalla quale i Re franchi e i tedeschi furono eletti.
Un’altra questione s’ebbe a elevare nell’istesso torno di tempo; e cioè fu disputato se, nell’anno 800, il Papa togliesse l’Imperium ai Greci per darlo ai Franchi: invero siffatta opinione esposero i campioni del diritto d’investitura pontificia. Se vero sia che Leone III non possedeva, come Papa, nè la podestà assoluta, nè il diritto di dare al [576] Re dei Franchi la corona dello Stato, gli è con ciò definito altresì che neppur poteva torla ai Greci per darla ai Franchi. Perfino la frase di «traslazione dell’Impero,» non è vera che a metà[668]. Infatti, allorchè si venne al grande partito di far Carlo imperatore, perdurava ancora il concetto dell’unità dell’Impero, e discendeva per tradizione incancellabile e salda così, che non potevasi pur pensare a separare l’Occidente dall’Oriente. Più esatto si è il dire, che, dopo la caduta di Costantino VI, Carlo si prese il trono dell’Impero universale, poichè lo si considerava vacante; nè ciò fece da antimperatore, bensì, e massimamente, da imperatore, e da successore di Costantino e di Giustiniano. Carlo stesso vagheggiava, così era detto, la conchiusione di un maritaggio con Irene. L’Impero doveva essere dato ad una dinastia nuova, a quella dei Re franchi, non già al popolo dei [577] Franchi; ed è cosa assai probabile che tanto Carlo quanto Leone reputassero di poter conservare immune da divisione l’Impero, sì come avveniva della Chiesa. Ma la loro speranza non fu che un’illusione. Il nuovo Impero rimase dell’Occidente, nè conseguì mai più l’unione coll’Oriente che l’antico Stato aveva posseduto all’età di Onorio e dei suoi succeditori. I Greci, irritati, tennero ciò sempre in conto di un’usurpazione, e si dolsero che il legame antico, il quale aveva annodata Roma a Bisanzio, fosse stato troncato dalla poderosa spada dei Franchi, e che la più vaga figliuola di Roma, Costantinopoli, fosse separata per sempre dalla sua madre canuta[669]. Un profondo abisso divise indi in poi le terre del Settentrione da quelle del Levante. L’Oriente e l’Occidente si separarono l’uno dall’altro, nella Chiesa e negli istituti civili, nella scienza e nell’arte, nelle costumanze e nelle forme della vita. L’Impero greco divenne orientale, e durò, immerso nel torpore, per un periodo meraviglioso, ma travagliato, di sei secoli; laddove l’Impero romano venne in bel fiore nell’Occidente, svolgendo una robustezza rigogliosa, di cui prima non si sarebbe pur avuto speranza.
Così fu rinnovellato l’Impero romano[670]. Nel concetto [578] degli uomini, la sua forma antica sembrava restaurata; ma non era che apparenza, perocchè la vita fosse nuova. Non soltanto la tempra di questa vita del novello Impero fu essenzialmente tedesca, ossia germanica, ma l’Impero stesso con ardito intendimento fu tolto alla cerchia delle ragioni meramente politiche, e fu ricondotto a quella dei voleri di Dio, di cui ben tosto fu considerato essere un feudo. Ebbe forma di teocrazia. La Chiesa, reame di Dio sulla terra, parve essere il suo intimo principio vivificatore; l’Impero fu la forma civile di essa, il suo corpo cattolico. Senza della Chiesa l’esistenza dell’Impero non era possibile; non erano più le leggi romane, ma gli istituti della Chiesa che componevano la salda struttura e il legame che avvinceva fra loro i popoli occidentali, e ne costituiva altrettante comunità cristiane, a capo delle quali erano l’Imperatore uno e il Papa uno. La civiltà del mondo antico, l’essenza della religione, il culto, la legge morale, il sacerdozio, la lingua romana, le festività, il calendario, in breve tutto ciò che le nazioni possedevano a patrimonio comune, tutto derivò dalla Chiesa. Il concetto romano di Republica universale del mondo e dell’unità del genere umano trovava sua forma visibile soltanto nella Chiesa e nel suo rito divino. L’Imperatore ne era capo e patrono; era difensore, promotore e ordinatore della Chiesa, era vicario temporale di Cristo. Coi popoli e cogli Stati che vivevano riuniti sotto il suo imperio, e che, spontanei o costretti, riverivano la sua autorità civile, [579] stava egli propriamente nelle identiche relazioni in cui il Papa s’era trovato verso le chiese nazionali e metropolitane, innanzi che gli fosse riuscito di raccogliere ad accentramento completo la Chiesa. Tosto dopo di Carlo magno il novello Cesare dell’Occidente non tenne effettiva potenza territoriale, nè autorità di Stato; la sua maestà imperatoria riposava più veramente sopra un dogma derivato dal giure delle genti, quasi come se fosse una podestà internazionale. Era un potere che risiedeva nel campo dell’idea, cui difettavano fondamenta pratiche.
Il principio religioso e teocratico che si costituì nell’Occidente cancellò il concetto dello Stato che s’era foggiato nell’antichità romana, ed operò per guisa che, nel corso dei tempi, la Chiesa, ossia il Pontefice di essa, vicario spirituale di Cristo, diventò autorità sola dominatrice: il modo mistico con cui nel medio evo si definiva la esistenza del mondo reale, e che oggi ci ha l’apparenza di un trastullo sofistico tutto azzimato di simboli, edificò l’universo a simiglianza dell’uomo, mediante l’unione di anima e di corpo; il dogma, combattuto in lunghe battaglie, delle due nature del Cristo, della natura mortale e terrena, e della natura divina e immortale, fu applicato anche alla forma politica del genere umano; ed il risultamento ne fu profittevole soltanto al Papa. Invero la Chiesa era l’anima, lo Stato era soltanto il corpo del Cristianesimo uno; il Papa era vicario di Cristo in tutte le cose divine ed eterne, l’Imperatore non ne era il vicario che nell’ordine della materia fuggevole e terrena; quegli era il sole che vivifica tutto il creato, questi era soltanto la luce minore, la luna, che con pallido [580] raggio naviga in mezzo alla notte che recinge la terra. Il dualismo fra l’Imperatore ed il Pontefice diventò lotta di principî; e il mondo occidentale, che nell’anno 800 ebbe creazione nuova, cominciò a scindersi nei contrasti della Latinità e del Germanismo, intorno a cui indi si svolse tutta la storia di Europa, e tuttora si muove. Peraltro, all’età di Carlo magno, questi contrasti erano appena visibili nel loro germe. Davanti alla maestà imperiale di lui, come già innanzi a quella degli Imperatori antichi, si eclissava lo splendore del Vescovo di Roma, che a lui aveva prestato adorazione; quel Vescovo, al pari d’ogni altro del suo Impero, era suddito suo. Dopo il lungo uragano delle migrazioni dei popoli, l’incoronazione di Carlo a imperatore fu precisamente il suggello della pacificazione dei Germani con Roma, fu vincolo che annodò il mondo antico al nuovo, il mondo latino al tedesco. Alemagna e Italia divennero, di questo tempo in poi, i campioni della cultura universale del mondo. Per lungo ordine di secoli operarono vicendevole influenza l’una sull’altra, e, allato di esse, dalla miscela delle due razze, vennero crescendo in bel fiore altre nazioni, nelle quali prevalse dall’una parte l’elemento sostanziale latino, dall’altra il germanico. Tutta la vita dei popoli fu quindi compresa nell’orbita di un grande sistema concentrico composto della Chiesa e dell’Impero, e ne derivò la comune civiltà dell’Occidente. Questo duplice sistema meraviglioso tenne per secoli avvinto il genere umano in una cerchia fatata, e lo tenne saldamente così, che l’ordinamento del mondo politico dell’antichità, per potenza e per durata, non vi si può pur paragonare.
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L’età in cui si svolgono avvenimenti di grave rilievo nella storia del mondo, non ha virtù di comprenderne l’importanza: soltanto la generazione che vien dopo, tributa ad essi nominanza adeguata. Così accadde di quella incoronazione di Carlo magno. Negli annali della vita degli uomini appena v’ha un altro momento storico che all’intelletto delle età posteriori si mostri posare sovra un culmine di altezza sì eccelsa. Fu un momento di creazione storica, in cui dallo sfasciume dell’antichità e dal diluvio delle migrazioni dei popoli s’elevò un solido continente, sul quale dappoi si compose la storia d’Europa, non per legge meccanica della forza, ma per un principio d’indole decisamente morale.
FINE DEL VOLUME SECONDO.
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LIBRO TERZO. | |
DAL PRINCIPIO DEL GOVERNO DEGLI ESARCHI ALL’INCOMINCIAMENTO DEL SECOLO OTTAVO. | |
Capitolo primo. — § 1. Decadimento di Roma. — La Chiesa romana sorge dalle rovine dello Stato. — Benedetto fondatore del monachismo occidentale. — Abazie di Subiaco e di Monte Cassino. — Cassiodoro si fa monaco. — Origine e diffusione del monacato in Roma | Facc. 3 |
§ 2. I Longobardi si avanzano in Italia. — Giungono fin sotto Roma. — Benedetto I papa, 574. — Pelagio II papa, 578. — I Longobardi assediano Roma. — Distruzione di Monte Cassino, 580. — Fondazione del primo convento di Benedettini in Roma. — Pelagio II chiede aiuto a Bisanzio. — Gregorio va nunzio alla corte dell’Imperatore. — Inondazione e peste, 509. — Muore Pelagio II. — Edificazione del san Lorenzo | 20 |
§ 3. Gregorio I è eletto papa. — Sua vita prima. — Solenne processione in causa della peste. — Leggenda dell’apparizione dell’angelo sulla tomba di Adriano | 35 |
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Capitolo secondo. — § 1. Gregorio è ordinato papa addì 3 settembre 590. — Sua prima predica. — I Longobardi condotti da Agilulfo e da Ariulfo stringono Roma d’assedio. — Gregorio pronuncia la orazione funebre di Roma. — Egli compra la ritirata dei Longobardi | 43 |
§ 2. Condizioni del reggimento temporale di Roma. — Gli officiali imperiali. — Assoluto silenzio rispetto al Senato romano | 55 |
§ 3. Relazioni di Gregorio colla città di Roma. — Sue cure per il popolo. — Amministrazione dei beni ecclesiastici | 64 |
§ 4. Gregorio conchiude pace con Agilulfo. — Foca sale al trono di Bisanzio e riceve gratulazioni da Gregorio. — La colonna di Foca nel foro di Roma | 74 |
Capitolo terzo. — § 1. Caratteri del secolo sesto. — Maometto e Gregorio. — Condizioni religiose. — Culto delle reliquie. — Credenza dei miracoli. — Gregorio consacra la chiesa dei Goti nella suburra di santa Agata | 83 |
§ 2. I Dialoghi di Gregorio. — Leggenda di Trajano imperatore. — Il foro di Trajano. — Condizioni della cultura scientifica. — Accuse contro Gregorio. — La Città volge a decadenza sempre maggiore. — Gregorio si adopera a restaurare gli acquedotti | 94 |
§ 3. Operosità di Gregorio nei negozî della Chiesa. — Egli tenta di riunire l’Occidente germanico con Roma. — Converte l’Inghilterra. — Muore nell’anno 604. — Monumenti di Gregorio in Roma | 112 |
Capitolo quarto. — § 1. Pontificato e morte di Sabiniano e di Bonifacio III. — Bonifacio IV. — Il Panteon di Agrippa è consecrato a Maria Vergine ed a tutti i Martiri | 121 |
§ 2. Diodato, papa nell’anno 615. — Sollevazioni in Ravenna ed in Napoli. — Terremoti e lebbra in Roma. — L’esarca Eleuterio si ribella in Ravenna. — Papa Bonifacio V. — Onorio I, 625. — Il diritto di conferma dell’elezione pontificia spetta all’Esarca [585] di Ravenna. — Edificî di Onorio. — Il san Pietro. — È messo a sacco il tetto del tempio di Venere e di Roma. — Cappella di sant’Apollinare. — Sant’Adriano nel Foro | 132 |
§ 3. San Teodoro al Palatino. — Reminiscenze dell’antichità. — La chiesa dei SS. Quatuor Coronatorum sul Celio. — Santa Lucia in Selce. — Sant’Agnese fuor di porta Nomentana. — I santi Vincenzo ed Anastasio ad Aquas Salvias. — San Pancrazio | 141 |
Capitolo quinto. — § 1. Onorio I muore nel 638. — Maurizio cartulario e Isacco esarca mettono a sacco il tesoro della Chiesa. — Severino papa. — Giovanni IV papa. — Battistero Lateranense e suoi quattro oratorî. — Teodoro papa, 642. — Ribellione di Maurizio in Roma. — L’esarca Isacco muore. — Rivolta di palazzo a Bisanzio. — Costante II imperatore. — Pirro patriarca viene a Roma. — Chiesa di san Valentino e di sant’Euplo | 153 |
§ 2. Martino I, papa nel 649. — Sinodo romano per la controversia dei Monoteliti. — Attentato di Olimpio esarca contro la vita di Martino. — Teodoro Calliopa trascina colla violenza prigioniero il Papa, nell’anno 653. — Martino muore in esilio. — Eugenio, papa nel 654 | 165 |
§ 3. Vitaliano è fatto papa nell’anno 657. — Viene in Italia Costante II imperatore. — Accoglienze e soggiorno di lui in Roma (663). — Una voce di lamento su Roma. — Condizioni della Città e dei suoi monumenti. — Il Colosseo. — Costante mette a sacco Roma. — Muore a Siracusa | 171 |
Capitolo sesto. — § 1. Deodato, papa nel 672. — Rinnovazione del convento di santo Erasmo. — Dono papa, 676. — Agatone papa, 678. — L’Arcivescovo di Ravenna si sottomette al primato di Roma. — Il sesto Concilio ecumenico nell’anno 680 restaura la fede ortodossa. — Pestilenza del 680. — Leggenda [586] di san Sebastiano. — Leggenda di san Giorgio. — La basilica in Velo Aureo | 187 |
§ 2. Leone II, papa nel 682. — Benedetto II. — Condizioni della elezione pontificia. — Giovanni V papa. — Discorde elezione alla morte di lui. — È eletto Conone. — Clero, esercito, popolo. — Sergio I papa. — L’esarca Platina viene a Roma nel 687 | 199 |
§ 3. Sergio disapprova gli articoli del Sinodo trullano. — Lo spatario Zaccaria viene a Roma per imprigionare il Papa. — I Ravennati entrano in Roma. — Relazioni di Ravenna con Roma e con Bisanzio. — Giovanniccio di Ravenna | 208 |
Capitolo settimo. — § 1. San Pietro. — Pellegrinaggi a Roma. — Re Caduallo riceve il battesimo in Roma nel 689. — I re Corrado e Offa si fanno monaci. — Sergio abbellisce le chiese con doni votivi. — Sepolcro di Leone I nell’interno del san Pietro | 213 |
§ 2. Giovanni VI, papa nel 701. — Teofilatto esarca viene a Roma. — Le milizie italiane s’avanzano fin sotto le porte della Città. — Restaurazione del monastero di Farfa nella Sabina. — Gisulfo II di Benevento entra nella Campagna. — Giovanni VII, papa nel 705. — Giustiniano II recupera il trono di Bisanzio. — Oratorio di Giovanni VII nel san Pietro. — Leggenda del sudario della Veronica. — Si restaura Subiaco | 219 |
§ 3. Sisinnio, papa nel 707. — Costantino, papa nel 708. — Castigo inflitto a Ravenna. — Il Pontefice va in Oriente. — Supplizî in Roma. — Indole dei Ravennati. — Sollevazione di Ravenna sotto di Giorgio. — Prima federazione di città in Italia. — Filippico Bardane, imperatore nel 712. — I Romani gli rifiutano omaggio. — Ducato e Duce di Roma. — Guerra civile in Roma. — Palazzo de’ Cesari. — Anastasio II imperatore nel 713. — Costantino muore nel 715 | 229 |
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LIBRO QUARTO. | |
DAL PONTIFICATO DI GREGORIO II NELL’ANNO 715 ALLA INCORONAZIONE DI CARLO IMPERATORE NELL’ANNO 800. | |
Capitolo primo. — § 1. Gregorio II sale al pontificato nel 715. — Indole e operosità di Gregorio. — Bonifacio converte la Germania. — Leone l’Isaurico. — Culto delle imagini dei Santi in Oriente e in Occidente. — Statua di bronzo del san Pietro in Vaticano | 245 |
§ 2. Editto di Leone contro il culto delle imagini. — Resistenza di Roma e sollevazione di alcune province italiane. — Attentato alla vita di Gregorio. — I Romani e i Longobardi prendono le armi. — Ribellione contro Bisanzio. — Tentativi da Napoli contro Roma. — Lettere di Gregorio all’Imperatore | 256 |
§ 3. Contegno di Liutprando. — Egli conquista Ravenna. — Dona Sutri al Papa. — Il Papa, i Veneziani ed i Greci si collegano contro Liutprando. — Il Re muove contro Roma, indi si ritira. — Un usurpatore in Tuscia. — Gregorio II muore nel 731. — Gregorio III è eletto papa nel 731. — Sinodo romano contro gli Iconoclasti. — Condizioni dell’arte in Occidente. — Edificazioni di Gregorio III. — Restaurazione delle mura della Città | 266 |
§ 4. Leone l’Isaurico manda un’armata in Italia. — Apprende i beni della Chiesa romana. — Il Papa acquista Castel Gallese. — Conchiude alleanza con Spoleto e con Benevento. — Liutprando entra nel Ducato. — Gregorio III chiede aiuto a Carlo Martello. — Muoiono Gregorio III, Carlo Martello e Leone l’Isaurico nell’anno 741 | 278 |
Capitolo secondo. — § 1. Zaccaria, papa nel 741. — Egli tratta con Liutprando. — Va a lui. — Novella [588] donazione dei Longobardi alla Chiesa. — Secondo viaggio del Papa a Liutprando. — Il Re muore. — Rachi gli succede sul trono di Pavia | 289 |
§ 2. Continua l’ossequio all’Imperatore. — Rapporti amichevoli con Bisanzio. — Carlomanno viene a Roma e si fa monaco a Monte Soratte. — Rachi professa fede monastica a Monte Cassino. — Astolfo succede a Rachi nel 749. — Il Papa acconsente all’usurpazione di Pipino. — Zaccaria muore nel 752 | 295 |
§ 3. Edificazioni di Zaccaria nel palazzo Lateranense. — Suoi tentativi di porre colonie nella Campania. — Le Domus cultae. — Stefano II papa. — Astolfo conquista Ravenna nel 751. — Egli leva pretese su Roma. — Stefano cerca ajuto presso l’Imperatore, indi presso Pipino. — Va in Francia. — Pipino e i suoi figli sono consecrati re nel 754. — Col patto di Kiersy Pipino promette soccorso. — Il Re è eletto patrizio dei Romani | 303 |
§ 4. Falliscono i negoziati con Astolfo. — Ritorno di Stefano. — Pipino scende in Italia. — Astolfo accetta la pace. — Primo documento di donazione di Pipino dell’anno 754. — Il Re dei Longobardi entra nel Ducato. — Assedio di Roma nel 755. — Devastazione della Campania. — Saccheggio delle catacombe di Roma. — Lettera di Stefano ai Franchi. — San Pietro scrive una lettera al Re dei Franchi | 319 |
§ 5. Pipino scende in Italia. — Astolfo leva da Roma l’assedio. — Venuta di legati bizantini e loro disinganno. — Astolfo si sottomette. — Documento della donazione di Pipino. — Fondazione dello Stato della Chiesa. — La Chiesa è immessa nel possesso delle città donatele. — Astolfo muore nell’anno 756. — Il monaco Rachi tenta di ottenere la corona. — Desiderio è proclamato re dei Longobardi. — Stefano muore nell’anno 757 | 329 |
Capitolo terzo. — § 1. Paolo I, papa nell’anno 757. — Lettera dei Romani a Pipino. — Relazioni amichevoli [589] del Papa con questo Re. — Desiderio punisce i Duchi di Spoleto e di Benevento ribelli. — Desiderio viene a Roma. — Comportamenti politici di Paolo. — Relazioni del Papa e di Roma con Bisanzio. — È fatta pace con Desiderio | 343 |
§ 2. Edificazioni di Stefano II e di Paolo I. — Il Vaticano e il san Pietro. — Primo campanile in Roma. — Cappella di santa Petronilla. — Traslazione dei Santi dalle Catacombe nella Città. — Si fonda il convento di san Silvestro in capite | 353 |
§ 3. Paolo I muore nel 767. — Usurpazione di Toto duce, e dei suoi fratelli. — Costantino pseudo-papa. — Reazione in Roma. — Cristoforo e Sergio irrompono in Roma coll’ajuto dei Longobardi. — I Longobardi collocano Filippo in Laterano. — Stefano III papa. — Terrore in Roma. — Punizione degli usurpatori. — Pipino muore nel 768. — I suoi figli si dividono il regno. — Concilio Lateranense nel 769 | 359 |
Capitolo quarto. — § 1. Influenza e potenza di Cristoforo e di Sergio in Roma. — Stefano III e Desiderio si collegano a loro danno. — Il Re dei Longobardi s’avanza fino alle porte della Città. — Caduta di que’ due uomini, e colpa del Pontefice nella loro miserevole fine. — Intendimento di un duplice maritaggio tra la famiglia principesca di Pavia e quella dei Franchi. — Intrighi del Papa per mandarlo a vuoto. — Ravenna resiste contro di Roma. — L’indirizzo politico della corte franca è favorevole al Pontefice — Stefano III muore nell’anno 772 | 373 |
§ 2. Adriano I papa. — Caduta della fazione longobarda in Roma. — Atteggiamento ostile di re Desiderio. — Inquisizione e caduta di Paolo Afiarta. — Il Prefetto della Città. — Desiderio devasta il Ducato romano. — Adriano s’appresta alla difesa. — Ritirata dei Longobardi | 386 |
§ 3. Spedizione di Carlo in Italia. — Assedio di Pavia. — Carlo celebra in Roma le feste di Pasqua. — Confermazione [590] della donazione di Pipino. — Caduta di Pavia e del reame dei Longobardi nell’anno 774 | 395 |
§ 4. Donazione di Costantino. — Limiti geografici della donazione carolina. — Spoleto, Tuscia, la Sabina, Ravenna. — Pretensioni di Carlo all’autorità suprema e al diritto di conferma degli Arcivescovi di Ravenna. — Patriziato di san Pietro. — Si dimostra che il Papa era padrone degli edificî publici di Ravenna, ma d’altronde obbediva all’imperio supremo di Carlo. — Mercato di schiavi fatto dai Veneziani e dai Greci | 405 |
§ 5. Benevento. — Arichi duca si fa independente. — Il Papa guerreggia per ragione di Terracina. — Carlo viene per la seconda volta a Roma. — Vi torna la terza volta. — Impresa contro Benevento, e pace. — Nuova donazione di Carlo. — Arichi tratta con Bisanzio. — Condizioni di Bisanzio. — Si pone fine alla controversia degli Iconoclasti. — Grimoaldo duca di Benevento | 421 |
Capitolo quinto. — § 1. Condizioni di Roma. — Inondazione del Tevere nell’anno 791. — Adriano ripara le mura della Città. — Restaura l’Aqua Trajana, la Claudia, la Jobia e l’Aqua Virgo. — Provvede a porre colonie nella Campagna. — Condizioni dei coloni. — Le Domus cultae di Adriano. — Capracorum | 433 |
§ 2. Adriano attende a edificare chiese. — Portico Vaticano. — Il san Pietro. — Il Laterano. — Il san Paolo. — Operosità delle arti in Roma. — San Giovanni ante Portam Latinam. — Santa Maria in Cosmedin. — La Schola Graeca. — Monte Testaccio | 449 |
§ 3. Condizioni delle scienze in Roma ai tempi di Adriano. — Ignoranza dei Romani. — Cultura dei Longobardi. — Adalberga. — Paolo Diacono. — Scuole in Roma. — Musica sacra. — Cessa l’arte poetica. — Poesia epigrammatica. — Ruina della [591] lingua latina. — Primi incominciamenti della lingua neo-romana | 464 |
Capitolo sesto. — § 1. Condizioni interne di Roma e dei Romani. — Le tre classi del popolo. — Organamento militare. — L’Exercitus Romanus. — Ordinamento delle Scuole. — Universalità del sistema delle corporazioni. — Scuole di stranieri: Israeliti, Greci, Sassoni, Franchi, Longobardi e Frisoni | 475 |
§ 2. Reggimento civile della città di Roma. — Non esiste più Senato. — I Consoli. — Gli officiali della Città. — La nobiltà. — Amministrazione della giustizia. — Il Prefetto della Città. — La corte pontificia. — I sette ministri del Palazzo, e gli altri officiali della casa papale | 488 |
§ 3. Istituti nelle altre città. — Duces. — Tribuni. — Comites. — Del Ducato romano e dei suoi confini. — La Tuscia romana. — La Campania. — La Sabina. — L’Umbria | 507 |
Capitolo settimo. — § 1. Muore Adriano nell’anno 795. — Leone III è eletto papa. — Spedisce un’ambasceria a Carlo, e questi conchiude un patto colla Chiesa. — Significazione simbolica delle chiavi della tomba di san Pietro e del vessillo di Roma. — Giurisdizione suprema esercitata da Carlo patrizio in Roma. — Definizione dell’accordanza che esisteva fra la podestà religiosa e la civile. — Musaici in santa Susanna. — Quadro a musaico nel triclinio di Leone III | 523 |
§ 2. I nepoti di Adriano uniti ad altri ottimati congiurano contro Leone III. — Attentasi alla vita di lui. — Il Papa fugge a Spoleto. — Va in Alemagna e s’incontra con Carlo. — Roma è in balia dei nobili. — Alcuino consiglia sul contegno che Carlo deve usare con Roma. — Leone torna a Roma nel 799. — Carlo per mezzo di suoi ministri procede contro gli accusati | 544 |
[592] | |
§ 3. Carlo a Roma nell’800. — Tiensi parlamento nella chiesa di san Pietro. — Carlo pronuncia giudizio sui Romani e sul Papa. — Leone presta giuramento di purgazione. — Carlo è eletto dai Romani imperatore. — Restaurazione dell’Impero occidentale. — Carlomagno è incoronato imperatore dal Papa nell’anno 800. — Criterî sull’origine giuridica e sul concetto del novello Impero | 557 |
[593]
VOLUME SECONDO | ||||||
ERRATO | CORREGGI | |||||
Pag. | 28 | nota, | lin. | 11, | Enrico | Eorico |
» | 28 | nota, | » | 12, | Enrice | Eorice |
» | 62 | nota, | » | 7, | riceve nome | porta nome |
» | 62 | nota, | » | 10 e 11, | accolto | corretto |
» | 78 | nota, | » | 16, | imperdonabili | perdonabili |
» | 90 | nota, | » | 1 e 2, | Mai, di regola generale, catene | Mai catene |
» | 111 | nota, | » | 8, | Pallasenas | Pallacenas |
» | 180 | testo, | » | 17, | della piazza | del foro |
» | 183 | testo, | » | 12, | su | presso |
» | 188 | testo, | » | 12, | frammenti | miniere |
» | 216 | nota, | » | 4, | soialem | sodalem |
» | 226 | nota, | » | 9, | deve aver | si dice aver |
» | 257 | testo, | » | 17, | Leone | Gregorio |
» | 279 | testo, | » | 4, | vendeva | rendeva |
» | 392 | nota, | » | 2, | Annaldo | Anualdo |
» | 401 | testo, | » | 22, | leggere a Carisiaco la scritta | leggere la scritta, fatta a Carisiaco, |
» | 434 | nota, | » | 2, | Faccioli | Vignoli |
» | 456 | testo, | » | 8, | giardini | orti |
» | 463 | testo, | » | 12 e 13, | monte; è alto dugento palmi; | monte, alto dugento palmi, quale |
» | 463 | testo, | » | 14, | alle simboliche colline sepolcrali | a simbolica collina sepolcrale |
» | 496 | nota, | » | 3, | malamente | espressamente |
» | 515 | testo, | » | 3, | omai | ancora |
» | 515 | testo, | » | 3 e 4, | s’era fatta città di terra ferma | città di provincia considerevole |
1. Sublacus o Sublaqueum ebbe nome dai laghi artificiali, dei quali Nerone adornò ivi la sua villa. Menzione del luogo è fatta per la prima volta in Plinio, Hist. Nat. III, 17. Soltanto la fondazione del convento fatta da san Benedetto diè origine al Castrum Sublacum. Vedi il Nibby, Annal. III, 120, e il Jannucelli, Memorie di Subiaco, Genova 1856.
2. Don Luigi Tosti scrisse la più recente storia del suo celebre convento: Storia della Badia di Monte Cassino (Napoli 1842, 3 vol.), con documenti. Il favoloso documento della donazione di sette mila schiavi di Sicilia con Messina e con Panormo, che Tertullo avrebbe fatta a Benedetto incomincia: Tertullus Dei gratia invictissimae Reginae Coeli Terraeque civitatis Romanae Patricius, Dictatoribus, Magistratib., Senatorib., Consulib., Proconsulib., Praefectis, Tribunis, Centurionibus ecc. La sottoscrizione conta a olimpiadi! Il Tosti riconosce che questa pergamena ha i caratteri del secolo X, e che il rescritto di privilegio di papa Zacaria, in cui è data conferma a questa donazione, esiste soltanto in copie posteriori al secolo XI. La Sicilia, dove Benedetto mandò Placido da missionario, è il paradiso dei Benedettini; il documento creato dall’imaginazione non manca nella Sicilia Sacra del Pirro (p. 1155).
3. Gli ultimi sette savî di Atene furono Damascio, Simplicio, Eulamio, Prisciano, Ermiade, Diogene, Isidoro. Eglino si rifuggirono in esilio presso re Cosroe di Persia. Agathias, Hist. II, 30. Volle stranezza di destino che i filosofi greci del primo tempo dovessero scampare davanti ai Persiani, le conquiste dei quali già minacciavano il mondo ellenico, e che undici secoli più tardi gli ultimi filosofi di Grecia, esiliati di Atene dall’Editto di un Imperatore cristiano, dovessero invece cercare riparo presso un Re di Persia: Kuno Fischer, Storia della filosofia moderna, 1865, I, 20.
4. Il Montfaucon, nel Diarium Ital. p. 323, attingendo ad un Codice cassinese del secolo XI, dipinge il ritratto di Benedetto e dell’antica veste dei Benedettini. Così il Tosti, I, 100 e segg., dove trovasi anche la Regola di Benedetto tratta dal commentario di Paolo Diacono. Il lettore può trovare la storia di Benedetto nei: Dacherii et Mabillonii Acta Sanctor. Ord. S. Bened. e nel Mabillon: Annales Ord. S. Benedicti.
5. Anime generose facevanlo mosse da quell’impulso, di cui il Poeta dice:
Werft die Angst des Irdischen von euch!
Fliehet aus dem engen dumpfen Leben
In des Ideales Reich!
Sgombrate dall’ansia mente i terrestri ardori; dalla vita gretta e vuota del mondo, fuggite nel regno dell’idea! Schiller. Così sulla porta del convento di Grotta Ferrata sta scritto: Ἔξω γένοισθε τῆς μέθης τῶν φροντίδων.
6. Il Tiraboschi (III, l. c. 16) fa incominciare dalla monacazione di Cassiodoro la completa ruina della letteratura italiana: D’allora in poi l’Italia non potè occuparsi in altro che nel piangere le sue sciagure. Egli dedica a Cassiodoro un eccellente Capitolo e con molta dignità respinge le supposizioni del Saint Marc riguardo ai motivi che spinsero il Ministro a farsi monaco. Cassiodoro dettò nel chiostro la sua Storia ecclesiastica, Historiae ecclesiasticae tripartitae libri XII, un compendio di Sozomeno, di Socrate e di Teodoreto; scrisse inoltre De orthographia per istruzione dei suoi frati, che egli esortò vivamente ad occuparsi di copie di codici. Vedi il Tiraboschi, il Baehr, Storia della letteratura romana e le Fonti storiche del Wattenbach.
7. Rutilio con versi eleganti e vivaci scaglia le prime frecciate di satira che si conoscano scritte contro il monachismo (v. 489 e segg):
Processu pelagi jam se Capraria tollit,
Squallet lucifugis insula plena viris.
Ipsi se MONACHOS graio cognomine dicunt,
Quod soli nullo vivere teste volunt.
Munera fortunae meluunt dum damna verentur:
Quisquam sponte miser, ne miser esse queat?
8. Il Nerini, De Templo et Coenob. S. Bonifacii et Alexii, Roma 1752, c. 4, reputava che questo convento sull’Aventino fosse l’antichissimo di Roma. Il documento della donazione di Eufemio desta appena un sorriso.
9. Gaudemus Romam factam Hierosolymam. Crebra virginum monasteria, monachorum innumerabilis multitudo (S. Hieron., Ep. 126, ad Principiam). Quando parlammo del saccheggio dei Goti trovammo Marcello con Principia sull’Aventino, e la pia donna morì pochi dì dopo la caduta di Roma. La più antica menzione di una monaca romana nelle iscrizioni dei monumenti risale al 447. Hic quiescit gavdiosa C. ancilla dei qvae vixit annis xl. et men. v. dep. x. kal. Octob. Callepio vc. con. Trovasi nel De Rossi, Inscript. Christian. I, n. 739.
10. Joh. Diacon., Vita S. Gregor. I, c. 6. Paul. Diacon., Vita S. Gregor. c. 2. Mabillon, Acta S. Ord. S. Ben. I.
11. Precisamente ottanta libbre contribuite dal «patrimonio di san Pietro» che Gregorio, nella carezza cui era salita in Roma ogni vettovaglia, giudica essere troppo poco. Così è la vita loro, dic’egli, e la traggono in lacrime e in astinenze, laonde io credo che, se elleno state non fossero, niuno di noi per sì lunghi anni avrebbe potuto in questa città serbarsi in vita sotto la spada dei Longobardi. Lettera di grazie da Gregorio indiritta a Teoctista e Andrea. Ep. 23, lib. VI. Le donne che vivevano in religione claustrale appellavansi dal greco monastriae; con dizione latina sanctimoniales.
12. Il Mone, Storia del paganesimo nell’Europa settentrionale, II, § 96, descrisse le costumanze pagane dei Longobardi. Il Borgia, Memorie di Benevento, II, 277, riporta un inno a Barbato dell’anno 667, in cui è discorso della cessazione del culto dei serpenti. Dalla venerazione che i Longobardi tributavano al campeggio ed agli alberi magici ebbe origine la credenza popolare degli Italiani che i Tedeschi principalmente adorassero gli alberi. Il Göthe trovava ancora viva in Italia quell’idea.
13. Paolo Diacono, III, c. 11, dice che fu il Papa a far venire granaglie.
14. Il Ducato di Spoleto, che ebbe tanta importanza nella storia di Roma, probabilmente fu fondato intorno al 569. La storia del Ducato fu scritta dal benemerito abate Fatteschi, che pel primo si giovò dei documenti longobardi di Farfa: Memorie Istorico-diplomatiche riguardanti la serie dei Duchi di Spoleto, Camerino 1801. La cronologia dei primi tempi longobardici è buia.
15. Colla caduta del regno i Goti non erano del tutto scomparsi in Italia. Così in Roma come nella Campania eglino continuarono in famiglie che assunsero costume latino.
16. Menander, Excerpt., p. 126.
17. Mabillon, Annal. Benedict. ad ann. 580; sennonchè il Tosti assume l’anno 589. Nella sua storia di Monte Cassino egli tratta dei primi secoli assai brevemente e con discorso incerto; ed io seguo con buon fondamento gli Annali dal Mabillon e gli Acta SS. Ordinis S. Benedicti editi dal Mabillon stesso.
18. Paul. Diacon., IV, c. 19 e il Chronic. S. Monast. Casin. I, c. 2, nel Muratori Script., T. IV.
19. Nei più tardi anni del medio evo scomparve ogni traccia di questo convento di Benedettini presso il Laterano.
20. Sigon. De Regno 1, 17. — Carlo Troya, Cod. Dipl. Long. 1, 62 pensa che la Città fosse governata dal Senato e dagli altri magistrati di Roma finchè non v’era nè un Duce, nè un Maestro dei militi. Della pace conchiusa parla Pelagio II, Ep. V ad Elia vescovo di Grado ed ai Vescovi d’Istria e delle Venezie (nel Labbè e nel Troya, Cod. Dipl. I, n. XIV). Il Noris ed il Muratori son d’accordo nel ritenere per data l’anno 586.
21. Per Respublica non deve intendersi la Città, ma lo Stato. Del pari, Childeberto, in una lettera a Lorenzo di Milano, dice: Juxta votum Romanae reipublicae vel Sacratissimi nostri Imperatoris (Troya, Cod. Dip. Longob. n. XI). — Vel unum magistrum militum, et unum ducem dignetur concedere; dunque i due officî erano distinti.
22. La epistola (ad Gregorium Diacon. Ep. III, Labbè Concil. VI, 623) porta la data: 4. Nonas Octobr. indict. III. Il Muratori la attribuisce all’anno 587, ma il Troya I, n. 16, con buone ragioni la fa risalire ai 5 ottobre 585.
23. Ep. IV ad Aunacharium Episc. Antisiadorensem: nec enim credimus otiosum, nec sine magna divinae providentiae admiratione dispositum, quod vestri reges Romano imperio in orthodoxae fidei confessione sunt similes; nisi ut huic urbi ex qua fuerat oriunda, vel universae Italiae finitimos, adjutoresque praestaret. I Franchi furono considerati Leti ossia federati dell’Impero romano. A ragione il Troya annette a questo fatto importanza, e si riferisce ai versi che Sidonio rivolgeva ad Eorico re dei Visigoti:
Eorice tuae manus rogantur,
Ut Martem validus per inquilinum,
Defenset tenuem Garumna Tibrim.
Troya, Storia d’Italia, I, 1308. Tav. Chronol., p. 577. Si legga nel Cod. Diplom. Long., n. 43, la lettera che Maurizio scriveva a Childeberto, dove l’Imperatore discorre della priscam gentis Francorum et Ditionis Romanae unitatem. Così si preconizza il tempo più tardo, in cui un Pontefice diceva di Carlo Magno: cujus industria Romanorum Francorumque concorporavit imperium. Sergio, in un documento riportato dal Maurisse, Hist. de Metz, p. 190 e citato da Giorgio Waitz, Storia della costituzione germanica, III, 185.
24. Gregor. Turonen., Hist. Francor., X, c. 1. Vi attinsero Giovanni Diacono, Vita S. Gregor. I, c. 34 e Paolo Diacono, Vita S. Gregor. c. 3 e De gestis Longob. III, c. 23. — L’Alveri, Roma in ogni stato, I, 571 e segg., con molto ardimento e con grossi errori, dà la storia di tutte le inondazioni del Tevere e di tutte le pestilenze di Roma dalla fondazione della Città fino al 1660.
25. Gregorio di Tours, X, c. 1, Paolo Diacono De gest. Long. III, c. 23. La Cronica di Mario d’Avenche la chiama anche variola, pustola e glandula.
26. Procop. De bello Persico, II, c. 22, 23, Paul. Diaconus, De gest. Long., III, c. 4.
27. Gregor., Dial. IV, c. 36. La descrizione di una visione meravigliosa del Paradiso e del Purgatorio trovasi più tardi nella lettera che San Bonifacio di Magonza indirizzava alla Domina Eadeburga, nel Baronio, Annal. IX, p. 11.
28. Hic fecit supra corpus b. Laurentii martyris basilicam a fundamento constructam, et tabulis argenteis exornavit sepulchrum ejus. Anast. in Pelag.
29.
Praesule Pelagio martyr Laurentius olim
Templa sibi statuit tam pretiosa dari:
Mira fides! gladios hostiles inter et iras
Pontificem meritis haec celebrasse suis.
La iscrizione (di sei distici), ora quasi cancellata è riportata completamente nel Bunsen III, 2, 314 secondo la correzione introdotta da Gaetano Marini nel suo Codice manoscritto della Vaticana. Vedi anche Ciampini, Vet. Mon. II, c. 13. — L’associazione di Lorenzo e di Stefano è spiegata chiaramente in una sentenza di Leone I: A Solis ortu usque ad occasum Leviticorum luminum corruscante fulgore, quam clarificata est Hierosolyma Stephano, tam illustris fieret Roma Laurentio. S. Leo Papa, serm. 83 in festo S. Laur. M. pagina 169 (Edit. Lugdun. 1700); nel Fonseca, de Basil. S. Laur. in Dam. c. 3, p. 137.
30. Sotto il musaico con caratteri ammodernati leggesi il distico antico:
Martyrium flammis olim Levita subisti
Jure tuis lux templis veneranda redit.
31. Della vita di Gregorio scrisse Giovanni Diacono, contemporaneo di Anastasio bibliotecario, in sull’882. Dapprima monaco di M. Cassino, indi Diacono della Chiesa romana, Giovanni dettò quella biografia dietro comando di Giovanni VIII (Mabillon, Acta S. O. S. Ben. T. I). Anche Paolo Diacono, monaco di M. Cassino, scrisse una Vita S. Gregorii, la quale tuttavia, nella forma in cui oggi la conosciamo, gli è contestata (Mabillon, ivi). Vi ha inoltre la Vita S. Gregorii nei Bollandisti e Maurini, ma essa non è che un raffazzonamento.
32. Gregorio stesso (Ep. 2, lib. III) dice di aver tenuto quell’officio: Ego quoque tunc urbanam praefecturam gerens. V’ha però la lezione praeturam, nè Gregorio di Tours nè Paolo Diacono, nè Beda (Histor. II, c. 1) non fanno alcuna menzione di ciò. Stando al Pagi, ad ann. 581, n. III, Gregorio intorno all’anno 575 fu prefetto della Città.
33. Di tal guisa Gregorio di Tours ben dipinge la pompa bizantina del vestire, Hist. X, c. 1.
34. Clerus, Senatus, populusque romanus, dice Giovanni Diacono, Vita I, c. 39, ma in questa antica formula sotto nome di Senato manifestamente non può intendersi altro che il titolo degli ottimati.
35. S. Gregor., Ep. 2, lib. XI.
36. Secondo il Martinelli, santa Eufemia sorgeva nel vico Patricio non lungi dal Titulus Pudentis.
37. Di questa Litania septiformis parlano Gregorio di Tours, X, c. 1 e Paolo Diacono, De gest. Long. III, c. 24, e in generale: Laderchius, De sacris Basil. SS. Mart. Marcell. etc. III, c. 10. Sono qui dunque menzionate tutte le sette regioni ecclesiastiche; la Reg. III e la Reg. IV corrispondono alle antichissime denominazioni, le altre no. Oltracciò non si parla di alcuna chiesa nel Trastevere, perlocchè la processione non si attenne esattamente alla partizione regionale.
38. Benedetto XIV vi fece innalzare quella statua. L’angelo che ripone nel fodero la spada sarebbe il simbolo più sublime del sacerdozio che ha missione di dare al mondo la pace; sventuratamente però non si affà alla storia dei Papi, che usurparono anche la podestà della spada temporale.
39. La iscrizione dice: Lucae et Lucis opus. Virgo haec quam cernis in ara circumvecta nigram dispulit urbi luem. Il Casimiro, nella sua Storia di S. Maria in Araceli, dà la descrizione dell’imagine bizantina della Madonna ed una lunga ed arida dissertazione su quell’argomento. Non mi è noto che al tempo di Gregorio fossevi l’uso di trasportare in processione le imagini dei Santi. Oggidì ancora si celebra la ricordanza di quella leggenda, poichè la grande processione di san Marco, quando giunge al ponte adrianeo, canta l’antifona Regina coeli.
40. S. Gregor. Ep. 4, lib. I. Le sue prime lettere, precisamente quelle indiritte a Teoctista sorella dell’Imperatore, lamentano la perduta felicità della vita contemplativa: Contemplativae vitae pulchritudinem velut Rachelem dilexi sterilem sed videntem et pulchram, quae etsi per quietem suam minus generat, lucem tamen subtilius videt. Lea mihi in nocte conjuncta est, activa videlicet vita, fecunda, sed lippa, minus videns, quamvis amplius parens. Dei simboli di Rachele e di Lia usarono più tardi Dante e Michelangelo.
41. S. Gregor., Ep. 4, lib. VI: Secretiora loca petere aliquando decreveram, e la praef. del Liber Pastoralis dice: Pastoralis curae me pondere fugere delitescendo voluisse. Anche Gregorio di Tours, X, c. 1, dice soltanto: Cum latibula fugae praepararet, capitur. Ma Giovanni Diacono, I, c. 49, riferisce la leggenda della fuga, e Paolo Diacono, Vita, c. 11, racconta che egli si faceva trasportare entro una cesta e che una colonna di luce indi ne tradiva l’intento.
42. Evang. Lucae, XXI, 10, 11.
43. È questa la Omelia prima sugli Evangelî della Edizione dei Benedettini, t. I, p. 1436. Mi presi l’arbitrio di compendiare la predica verso la fine.
44. S. Gregor. Ep. 2, lib. I. Nelle lettere è usata più spesso l’espressione di sitonicum per annona.
45. Ep. 3, lib. I.
46. Ep. 32, lib. II, ind. X. Theodosiani vero, qui hic remanserunt, rogam non accipientes, vix ad murorum quidem custodiam se accomodant. La voce ῥόγα significa donativum o stipendium, ed erogator tesoriere degli stipendi. V. l’Ep. 129, lib. VII, ind. II, indiritta a Donellus erogator.
47. Hieron. Rubeus, Hist. Ravenn. IV, p. 187.
48. Paul. Diacon., De Gest. Long., IV, c. 9, e S. Gregor. Praefat. in lib. II super Ezechiel. e l’Omelia sesta.
49. Dal testo di questa Omelia riunisco soltanto questi frammenti: Ubi enim senatus? ubi jam populus? Contabuerunt ossa; consumptae sunt carnes: omnis in era saecularium dignitatum fastus extinctus est. Quia enim senatus deest, populus interiit — jam vacua ardet Roma.
50. In qua (urbe) sine magnitudine populi, et sine adjutoriis militum tot annis inter gladios illaesi, deo auctore, servamur. Ep. 23, lib. VIII, Ind. I.
51. Ep. 43, lib. IV, Ind. XIII.
52. Ep. 40, lib. V, Ind. XIII. Merita considerazione questo periodo: Et quidem si terrae meae captivitas per quotidiana momenta non excresceret: vi parla una grande coscienza della dignità propria; Gregorio sentiva di essere a capo del paese romano.
53. Le lettere di Gregorio parlano del Dux Sardiniae (Ep. 46, 47, lib. I), del Dux Arimini (56, I), del Dux Campaniae (12, VIII), del Dux Neapolis (5, XII) ecc.
54. Nelle vicinanze di Roma, e incaricati puranco di prestarle soccorso, erano Veloce e Maurizio, maestri de’ militi, (Ep. 21, XII, Ind. 7). Più di sovente è fatta menzione di Maestri de’ militi in Sicilia ed in Napoli: 25, XII; 13, 71, 75, VII.
55. Ep. 129, VII. Ep. 2, VIII, Ind. 3.
56. Praefectus Urbis Johannes: Ep. 7, VIII: così il già menzionato Gregorio era prefetto della Città. Ep. 40, V.
57. Georgius Praef. Italiae. Ep. 22, 23, 37, 38, I, 24, XII, c. 1, V. Si noti la espressa distinzione: Excell. Romanum Patricium (cioè l’Esarca) et per emin. Praefectum atque per alios Civitatis suae nobiles viros. — Praef. Africae 37, VIII, Illyrici 21, II, Siciliae 38, II (qui altri Codici scrivono Praetor). Vi contraddice pertanto il Panciroli il quale nella Notitia imp. occid., pag. 115, dice: Italiae serius recuperatae suus Praefectus redditus non invenitur.
58. Proconsul Italiae (Ep. 20, VIII). Gregorio si lagna col Proconsole che alla Diaconia di Napoli fosse tolta l’annona, e si riferisce a quanto aveva fatto Giovanni suo predecessore nell’officio. È cenno anche di un Proconsul Dalmatiae (Ep. 3. VII). Non avevano dunque anche i Proconsoli cessato di esistere, come il Biondo e il Giannone opinano a torto.
59. Ep. 30, X: Quia quid passurus sit, exemplo praecedentium non nescimus.
60. Ep. 51, X, Ind. 3. Al punito, che era colpevole di malversazioni, Gregorio indirizzava una bella lettera di conforto Ep. 31, VIII. Il Baronio compara mirabilmente le relazioni di Gregorio con Leonzio a quelle di Cicerone con Verre.
61. Epp. 54, 55, 56, 57, 58, VIII.
62. Felix Contelorius scrisse de Praefecto Urbis (Roma 1631): è lavoro importante per la storia dei Prefetti nei più tardi anni del medio evo; esso apre con bastante ingenuità la serie dei Prefetti antichi da Adamo o da Romolo. A quello scrittore, con maggior cura, ma soltanto fino all’anno 600, succedette il Corsini, de Praefectis Urbis, Pisa 1766. — Trovo che il prefetto Giovanni portava titolo di Palatinus e di Patricius (51, 52, VIII), ed osservo che il titolo di Patricius, più tardi proprio del solo Esarca, era in quel tempo ancora diffuso largamente: Opilio Patricius (Ep. 27, XII), Venantius Patricius (33, I, 42, 43, V), ecc., perfino la moglie di lui si appella Patricia (128, VII), e così la romana Rusticiana. Non parlo del Patricius Galliarum, il cui titolo era allora conferito dai Re franchi (33, II, 17, XII).
63. Così un Comes privatorum Beator: hic qui quasi comes privatorum dici vult, venisse et multa contra omnes agere. Ep. 26, XI, Ind. 6. — Nella Ep. 29, XII, Gregorio parla dei diversa officia palatii urbis Romae, pei quali raccomanda l’annona.
64. Il Troya, Osserv. sul Gov. di Roma nel 595 (Nota al Cod. Dip. Long., I, n. 131), s’industria a sostenere la esistenza del Senato. A favor di questa opinione egli osserva (n. 401) che nell’anno 717 entra in corte di Liutprando un Senator filius Albini, nel quale vuol ravvisare un Senator Romanus. Io trovo tuttavia che ancora in sull’anno 874 un Vescovo di Torcelli porta nome di Senatore, del cui titolo si fregiava anche Cassiodoro. Però il Troya respinge l’idea del Savigny che il Decurionato esistesse nelle città italiche ad onta della conquista dei Longobardi, e questo errore fu, dopo di lui, corretto da Carlo Hegel, il quale reputa che la designazione Ordo (Clero, Ordini et Plebi) usitata ai tempi di Gregorio, fosse unicamente una forma dello stile di segreteria, e, dichiarando che per esso debbasi intendere il ceto degli Honorati et Possessores, opina che le Curie, massimamente in questo periodo, fossersi estinte (I, c. 2, della sua Storia della Costituzione dei Municipî).
65. Il conte Vendettini (Del Senato Rom. I, c. 2) si sforza indarno di affermare che esistesse il Senato ad onta delle parole di questa Omelia, e il Troya appunta di esagerazione i detti di Gregorio. Il Savigny (I, 367, Nota c.) sostiene che nelle Lettere di Gregorio è fatta menzione del Senato; io però in quelle Lettere non rinvenni neppur un passo dove fosse il caso di trovarne motto, fuori di una che parla dell’acclamazione con cui il clero ed il Senato accolsero il simulacro di Foca: io la reputo però un’aggiunta posteriore alla compilazione di quelle Lettere. Senatus deest, populus interiit, dice Gregorio. Supposto pure che qui il deest fosse soltanto un rettoricume come l’interiit, e che quell’ambasceria di senatori avvenuta nell’anno 579 provasse la continuazione del titolo senatorio, ne sarebbe salvo soltanto un nome, non già l’essenza.
66. La patrizia Rusticiana era emigrata a Bisanzio, e sembra che Gregorio invano abbia invitata la pia e ricca donna a tornarsene a Roma. Qui possedeva dei beni; ed ella consolava sè con pellegrinaggi al monte Sinai, e il Papa con donativi; gli mandava dieci libbre d’oro perchè riscattasse schiavi, e drappi di seta per ornamento della chiesa di san Pietro, pretendendo con ambizione aristocratica che quei tappeti dovessero essere trasportati alla basilica con pompa solenne. Gregorio le scrisse cinque lettere.
67. Così, nel documento della donazione a san Paolo di alcuni beni, leggiamo i nomi dei Fundi Antonianus, Cassianus, Cornelius, Primianus. Ep. 9, XII, Ind. 7.
68. Ut quisquis fuisset publicis administrationibus implicatus, ei ad ecclesiasticum venire officium non liceret. Joh. Diacon., Vita S. Gregor. II, c. 16. Gregorio perciò venne in dissenso coll’Imperatore (Ep. 62, 65, II). All’invece si presenta il solo caso di uno che uscisse del chiostro per assumere un officio temporale. Il patrizio Venanzio diventava ex monacho Cancellarius d’Italia, e perciò n’ebbe aspra censura da Gregorio (Ved. l’Ep. 33, I, ed altre lettere a lui indiritte). Già Costantino, nell’anno 320, aveva dovuto promulgare una legge, mercè cui proibiva che quegli sventurati schiavi delle finanze dello Stato, ch’erano i Decurioni, rifuggissero nel sacerdozio (Cod. Theodos. XVI, 2, 3). Del continuo gli Imperatori tentarono con editti d’impedire che gli officiali dello Stato concorressero alle dignità ecclesiastiche.
69. Al tempo di Gregorio fannosi risalire le publiche lavande dei piedi e i conviti di pellegrini a Pasqua: sono oggidì quelle scenate da teatro, colle quali in Roma si mettono in maschera la povertà e la umiltà cristiana.
70. Si consultino Joh. Diacon., Vita, II, c. 53, e le numerose lettere di Gregorio a questi suddiaconi.
71. Ep. 70, lib. I.
72. Ep. 30, lib. XII, Ind. 7. — Dopo ch’ebbero perduti i patrimonî di Sicilia, i Papi andavano talvolta a cercar cavalli in Francia. Adriano pregava Carlo di spedirgli alcuni «famosi» cavalli, per poter cavalcare con decoro: Tales nobis famosissimos mittite equos, qui ad nostram sessionem facere debeant. Cod. Carol., Ep. LXVII (nel Cenni, LXXXI, p. 440). Per i rapporti colle colonie hanno importanza la Ep. 44, I, Ind. 9, ad Petrum Subd. Sicil., e le altre: IV, 21, Ind. 12; IX, 18, 19, Ind. 2, XIII, 34, Ind. 6. — Il canone in grano è specificato così: Pensionem integram et pensantem ad septuaginta bina persolvant. La prestazione è chiamata pensio (da pensum), talfiata anche burda o burdatio (forse il Bürde, fastello, fascio dei tedeschi?), oppure illatio burdationis. Una imposta sui prodotti del mercato è detta siliquaticum o siliquae; così in Cassiodoro, Var. lib. II, Ep. 30, III, 25. Se un colono prendeva moglie, pagava al Conductor, a titolo di nuptiale commodum, un solidus. — Le massime di Gregorio sono espresse nell’Ep. 44, I: quia nos sacculum ecclesiae ex lucris turpibus non volumus inquinari: aurea sentenza e meritevole che si tragga dall’obblio.
73. Cenni storici sull’agro Romano dal secolo VIII sino ai giorni nostri, Roma 1855, breve ed utile scrittura colla carta topografica dell’agro romano, di Emilio Pitorri.
74. Gregorio impiegava il reddito di beni cospicui per alimentare le lampade nella chiesa di san Paolo; erano i possedimenti ad Aquas salvias: Massam quae Aquas Salvias nuncupatur, cum omnibus fundis suis; i. e. Cella vinaria, Antoniano, villa Pertusa in foro Primiano, Cassiano Silonis, Cornelii, Thessalati atque Corneliano. Ep. 14, XIV, Ind. 7. Di tal guisa nella Campagna si salvano dal naufragio i nomi ruinosi di antiche famiglie patrizie. Oggidì ancora la Massa delle acque Salvie colla Victoriola e colla Cesariana è la maggiore nel patrimonio appiense. — Continuava ancora il nome del fiume Almo, come emerge dalla stessa Bolla, che principalmente offre ottime notizie dei dintorni del san Paolo. A destra fuori della porta esisteva allora il convento di monache di santo Stefano, il fondo Pissinianico e la fossa latronis. A sinistra erano i possedimenti del convento di santo Edistio.
75. Maurizio, intorno al 569, mandava trenta libbre d’oro perchè fossero ripartite fra il clero e i poverelli; e Gregorio (Ep. 2, VIII, Ind. 3) gliene fa quitanza rendendogli grazie. — Ma l’Esarca prendeva denari a prestito dalla Chiesa: Ep. 129, VII, Ind. 2.
76. Nepe: Ep. 2, XI, Ind. 10. — Napoli: Ep. 24, XII, Ind. 7: Universis militibus Neapolitanis — magnificum virum Constantinum Tribunum custodiae civitatis deputavimus praeesse. Qui ha motivo di giubilare il cardinale Baronio. — Cagliari: Ep. 2, 5, VII, Ind. 2.
77. Ep. 21, 22, 23, XII. Ind. 7 ai maestri de’ militi Veloce, Maurizio, Vitaliano.
78. Ep. 41, 42, VII, Ind. 2: Lettera di grazie di Gregorio ad Agilulfo e a Teodolinda.
79. Ep. 103, VII, Ind. 2, a Teodoro, curatore di Ravenna.
80. Sui Laurata vedi il Baronio, ad ann. 603, i Benedettini nella annotazione all’Ep. 1, XI, Ind. 6 e il Ducange nel Glossario. — Adriano I scriveva a Costantino e ad Irene: Neque enim quando imperialis vultus et imagines in civitates introducuntur, et obviant judices et plebes cum laudibus, tabulam honorant vel supereffusam cera scripturam, sed figuram imperatoris (nel Labbé, Concil. VII, 758).
81. Ep. 1, XI, Ind. 6: Venit autem icona suprascriptorum Phocae et Leontiae Augustor. Romam VII Kal. Maii, et acclamatum est eis in Lateranis in basilica Julii ab omni clero et senatu: Exaudi, Christe: Phocae Augusto et Leontiae Augustae Vita. Tunc jussit ipsam iconam Dom. beat. et apostol. Gregorius Papa reponi in oratorio S. Caesarii mar. intra palatium.
82. Il Bunsen ecc., III, 1, 507, opina che la basilica Julii in Lateranis sia stata l’antico Palazzo e si riporta ad Anast. Vita Sergii I: Basilica domus Juliae, quae campum respicit. A me però avviene di trovare il seguente passo nella Vita s. Vitaliani, dove, di tempi anteriori, si parla della presenza in Roma dell’Imperatore Costante: Venit ad Lateranos et laetus ibidem pransus est in basilica Julii, prova evidente che si discorre di una sala o di un triclinio dell’antico palazzo lateranense.
83. Il Baronio pensa a san Cesario nella via Appia, ma egli interpreta erroneamente il passo della Vita Sergii I. Un oratorium S. Caesarii era nel Laterano, e il Galletti, Del Vestarario, p. 3, determina che esso esistesse nel Vestiarium. Il Gibbon vi trova posto nel palazzo de’ Cesari; le inesattezze di lui per quel che riguarda le località di Roma sono altrettanto gravi che perdonabili. Come poteva un tanto uomo ignorare che la Chiesa chiamava santi i papi ancor dopo san Gregorio?
84. A Foca Ep. 38, XI, Ind. 6, del mese di giugno. A Leonzia Ep. 44, XI, ed a Foca, Ep. 45, XI. — Il Baronio lo scusa, denigrando la fama di Maurizio; il Muratori s’indigna celebrando il Maurizio; il Sigonio narra, senza assumere quella missione di giudice che spetta allo Storico; ma il Gibbon e il Bayle dicono la verità. Il gesuita Maimbourg, Histoire du Pontife St. Gregoire, Paris, 1680, I, 257, trova occasione di adulare Luigi XIV, dicendo che l’umiltà di Gregorio fu sì ammirabile ch’egli ad un tiranno qual’era Foca scriveva avec tout le respect et toute la soumission qu’un sujet doit à son Prince. L’abate Fleury con eleganza dice soltanto: On voit par cette lettre, combien saint Grégoire était peu content du gouvernement de Maurice.
85. La iscrizione leggesi nel Bunsen, III, 1, 271 e in Carlo Fea, Iscrizioni di monumenti pubblici, Roma, 1813 pag. 4. Del Senato non è cenno qui, come non havvene al ponte che Narsete edificava sull’Anio. Del resto diverte il comparare a quella iscrizione pomposa l’energica enumerazione delle qualità che Cedreno attribuisce a Foca: Vinosus, mulierosus, sanguinarius, rigidus, ecc. Hist. Comp., p. 170.
86. Ep. 30, III, Ind. 12.
87. Colla Ep. 29, I, egli spedisce ad Andrea di Dibiria una di quelle chiavicine: Clavem a S. Petri Apost. corpore — quae super aegros multis solet miraculis coruscare: nam etiam de ejus catenis interius habet. Eaedem igitur catenae, quae illa sancta colla tenuerunt, suspensae colla vestra sanctificent. Aratore, nel suo poema della storia dell’Apostolo, dice sulla fine del primo libro:
His solidata fides, his est tibi Roma catenis
Perpetuata salus, harum circumdata nexu.
Libera sempre eris, quid enim non vincula praestent,
Quae tetigit, qui cuncta potest absolvere? cujus
Haec invicta manu, vel relligiosa triumpho
Moenia, non ullo penitus quatientur ab hoste
Claudit iter bellis, qui portam pandit in astris.
Gregorio VII rinnovellava l’uso di mandare in dono delle chiavi di Pietro; egli ne spediva ad Alfonso di Spagna. Reg. Greg. VII. 6. — Ancor nell’anno 1866 si fondava una confraternita delle catene di san Pietro. — Mai catene furono portate sì a lungo quanto quelle di san Pietro.
88. Gregorio mandava alla regina Teodolinda un amuleto in croce d’oro, che ancora può vedersi nel tesoro di Monza. L’uso degli amuleti trovasi diffuso in Roma dopo il secolo quarto. Dapprima portavano appesi al collo dei pesci di metallo che contenevano reliquie, ed anche de’ globi d’oro come nell’antichità: soltanto nel secolo sesto gli amuleti in forma di croce sembrano esser divenuti più frequenti, sebbene se ne rinvenga anche nel quarto secolo. — Vedi il De Rossi, Bullettino di Archeologia cristiana, Roma, maggio, 1863, n. 1.
89. Ep. 23, VI.
90. Ep. 34, VII: L’ex-console Leonzio gli manda oleum sanctae crucis et aloës lignum, unum quod tactu benedicat, aliud quod incensum bene redoleat. Il Marini, Pap. Dipl. N. 143, riporta un documento da Monza (intorno all’anno 600), che contiene un catalogo degli olii dei santi Martiri di Roma; tanta copia ai tempi di Gregorio ne aveva fatta venire la regina Teodolinda. Vedi inoltre il Marini in nota alla pagina 377 e il Ducange: Ἔλαιον του ἁγισυ Σταυρο, nel Glossario.
91. Joh. Diac. Vita S. Greg., III, c. 58: Vestes foras excussae. — Francesco Pagi non si stupisce che un abito facesse miracoli, se ne operavano i sudarî e le cinture di san Paolo. Breviar. p. 189, XXIV.
92. Dialog. III, c. 30. Il diavolo era ariano, e con esso Gregorio mirava a far breccia nei Longobardi.
93. Ep. 19, II. Ind. II. Nè nella Roma del medio evo, nè in quella odierna mi riescì di rinvenire una chiesa di questo Santo famoso del Norico, il cui cadavere era dai suoi fratelli emigranti portato a Napoli nel tempo di Odoacre.
94. Dialog. IV, c. 40. Geenna è l’espressione adottata dai Padri della Chiesa. Anche Prudenzio ne usa, principalmente in quel passo stravagante con cui conchiude la sua Hamartigenia: Avidae nec flamma gehennae Devoret hanc animam mersam fornacibus imis. — Esto: cavernoso, quia sic pro labe necesse est Corporea, tristis me sorbeat ignis averno. Sembra quasi accogliere un’idea del Purgatorio. — Nel documento di una donazione, in Farfa nel secolo ottavo, si legge: Quisquis — metu gehennae aeterna incendia pertimescens (Registri di Farfa nel Fatteschi ecc., p. 260). Nel secolo nono, il Poeta Saxo dice: Sevis tortoribus igne gehennae. Secondo la dottrina di Gregorio l’Inferno senza fondo (Infernus) era nella terra, e, come nel poema di Dante, era diviso in parecchi scompartimenti (poenales loci). Chi moriva nella fede doveva anzi tutto purificarsi nel Purgatorio.
95. Ricavai questa leggenda da Joh. Diac. II, c. 44, da Paolo Diac. c. 27 e dal greco Giovanni Damasceno (del secolo ottavo) nell’opera De iis, qui in fide dormierunt, tom. I, c. 16, ediz. di Parigi del 1712. Fa meraviglia che il Leggendario di Jac. de Voragine non l’abbia accolta. Della redenzione di Trajano fa menzione anche il Chronicon di Siegberto, ad ann. 591, ed il Cronista viveva intorno al 1100.
96. Bellarmino, De Purgatorio II, c. 8, nel tom. I delle Controversie.
97. Lo spirto poetico di Dante, come un tempo Gregorio nel foro, scorse storiata quella leggenda nel Purgatorio fra gli intagli del primo cerchio che attestano esempli d’umiltà:
Quivi era storiata l’alta gloria
Del roman prence, lo cui gran valore
Mosse Gregorio alla sua gran vittoria:
Io dico di Trajano imperadore etc.
Purgat. Cant. X.
98. Paul. Diacon., Vita S. Gregor., c. 27: Quod opere mirifico constat esse constructum. Nel Museo gregoriano del Laterano si conservano due splendidi ornati in alto rilievo del foro di Trajano, e un bel rilievo di parecchie figure, tra cui quella dell’Imperatore, che deve aver fatto parte dell’arco di trionfo di Trajano: da quei resti puossi argomentare la bellezza di quel foro, in verità opus mirificum.
99. Venant. Fortun., Carm. III, c. 23; ed inoltre VII, c. 8:
Si tibi forte fuit bene notus Homerus Athenis:
Aut Maro Trajano lectus in urbe foro.
100. Quei versi gli sfuggirono; ma questi ei serbò di una iscrizione funeraria che Venanzio compose per il vescovo Leonzio:
Nobilitas altum ducens ab origine nomen
Quale genus Romae forte senatus habet.
Lib. IV, poem. 10. — Vendettini, del Sen. Rom., p. 17.
101. Ozanam, Documents inédits etc., p. 6, il quale toglie a prestito il contenuto sostanziale del suo scritto dalla eccellente dissertazione del Giesebrecht: De literarum studiis apud Italos.
102. Aratore, ligure di nascita (morto nel 556 o nel 560), scrisse due libri Historiae apostolicae (tom. X della Max. Bibl. Veter. Patr. Lugduni). La dedica all’abate Floriano in forma d’elegia non è priva di grazia:
Ad carmen concurre meum; pedibusque labanti
Porrige de placido saepe favore manum.
Del resto questo poema ha lo scopo di glorificare san Pietro, cui è consecrato il primo libro, e san Paolo, cui è consecrato il secondo. — Intorno ad Aratore si veda il Tiraboschi, III, I, c. X, e il Galletti, Del Primicerio, p. 21. — Sette volte il poeta lesse i due libri in publico. Il poema si contiene in un antico Cod. Vatican., n. 1665, sulla fine del quale, Fol. 39, sono raccolte le notizie della sua intitolazione a Vigilio e della lettura publica.
103. Quei concetti non si spensero mai nella letteratura cristiana. Idee e forme pagane ricomparvero ancora nella età della rinascenza sotto di Carlo Magno. Il Piper, che nella Mitologia e simboli dell’arte cristiana, tom. I, p. 139, fa incominciare quell’età con Alanus ab insulis nel secolo duodecimo, avrebbe potuto completare d’assai quel suo Capitolo con esempli tratti dal tempo di Aratore.
104. S. Columbani Poemata Epist. ad Fedolium, p. 34 (tom. XII della Max. Bibl.). Nel suo carme De vanitate et miseria vitae mortalis già compaiono la rima e l’assonanza. Quell’ode egli scriveva vecchio di settantadue anni, poco tempo prima di morire. — Gli studi più recenti hanno dimostrato che il celebre Cod. Argenteus di Ulfila apparteneva al monastero di Bobbio. Alcuni preti goti convertiti dall’Arianesimo donarono probabilmente quel gioiello a san Colombano: di là fu portato in Vestfalia, indi ad Upsala. Castiglioni, Ulphilae Gothica Versio Epistolae divi Pauli, Mediol. 1829, in Carlo Troya, Cod. Dip. Long. P. II, p. 24.
105. Ep. 28, IX, Ind. 4.
106. Togata e trabeata latinitas, dice il barbarico frate di Monte Cassino nel secolo nono. Vita S. Greg., II, c. 13.
107. È notevole per il suo secolo la «barbara eleganza» con cui scrive Giovanni Diacono (II, c. 14): Sola deerat interpretandi bilinguis peritia, et facundissima virgo Cecropia (la lingua greca) quae quondam suae mentis acumina, Varrone caelibatum suum auferente, Latinis tradiderat, imposturarum sibi praestigia, sicut ipse in suis epistolis quaeritur, vindicabat. — Gregorio confessa la sua ignoranza del greco: Quamvis Graecae linguae nescius. Ep. 29, VI, Ind. XV, e Ep. 27, VI: Hodie in Constantinopolitana civitate qui de Graeco in Latinum, et de Latino in Graecum dictata bene transferant, non sunt. Si ha fatica a crederlo.
108. Quia in uno se ore cum Jovis laudibus Christi laudes non capiunt. Ep. 48, IX.
109. Non barbarismi confusionem devito, situs motusque et praepositionum casus servare contemno, quia indignum vehementer existimo ut verba coelestis oraculi restringam sub regulis Donati. Epist. ad Leandrum come introduzione alla Exposit. Moral. in Libr. Job. — Questa confessione, cui il Brucker, Hist. Crit. Phil. III, 563, dà molto peso, è interpretata dal Tiraboschi, il quale difende Gregorio con dignità e con acutezza. — W. Giesebrecht, De litterar. stud. apud Italos primis medii aevi seculis, Berlino 1845, dice di Gregorio: Quamvis ipse doctissimus, non modo his studiis non favebat, sed maxime iis erat inimicus. — C’est de tous les papes, celui dont il nous reste le plus d’écrits, dice il Fleury, Hist. Eccl., VIII, 235.
110. V’erano pagani a Terracina, Gregor., Ep. 20, VII; in Corsica, 2, VII; persino in Sicilia, 26, III; e Gregorio veniva a sapere che il prete Sisinnio di Reggio nelle sue case alzava preghiere a un idolo (4, X). È probabile che questo uomo non fosse altro che un amatore di belle arti. — La Sardegna aveva molti pagani, Ep. 23, ecc., III. Chiamavansi Barbaricini e loro duce era Ospizio, che, fattosi cristiano, ebbe da Gregorio in premio un Breve. I Giudici dell’isola per denaro tolleravano il culto pagano, Ep. 33, IV.
111. Ozanam, ecc., p. 32: On y enseignait assurément la métrique latine, et les éléments de la langue grecque. Gregorio scrisse il suo Antiphonarius sotto il dettato di un angelo nell’oratorio della santa Croce nel Laterano: così almeno afferma Giovanni Diacono, De eccles. Lateran. nel Mabillon, Mus. Ital. II, 571.
112. Giovanni di Salisbury (Polycrat. II, c. 29): Doctor S. Gregorius non modo mathesin jussit ab aula recedere, sed, ut traditur a majoribus, incendio dedit probatae lectionis
Scripta Palatinus quaecumque tenebat Apollo
(Horat., Ep. 3, I)
in quibus erant praecipua, quae coelestium mentem, et superiorum oracula videbantur hominibus relevare. Si scorge chiaro che per matematici intender si devono soltanto astrologi e auguri.
113. Ep. 29, VII ad Eulogio di Alessandria. Egli vi dimostra che la biblioteca della Chiesa non era affatto completa.
114. Li trasse da un palimsesto che altre volte aveva appartenuto al monastero di Bobbio. Vedi la prefazione alla sua edizione M. Tullii Ciceronis De Republica quae supersunt. Romae, 1822.
115. Leonis Urbevetani Chronicon, tom. V delle Deliciae Eruditor. di Giovanni Lami, p. 104: et ne erroris antiqui semen de cetero pullularet, imaginibus Daemonum capita et membra fecit generaliter amputari — descrizione per fermo preziosa di quest’amputazione generale di statue! Di Gregorio narra lo stesso fatto, celebrandolo, Amalrico Augerio, Vitae Rom. Pont., Muratori, Scriptor. III, 2, p. 55.
116. Platina, De Vitis Pontif. in Sabiniano I. Qui e sulla fine della vita di Gregorio lo difende con valore dall’accusa di vandalismo.
117. Bargeo, di mente barbarica al paro di Leone d’Orvieto, difende Gregorio se distrusse statue e templi, locchè ei crede; ed è massimamente opinione sua che i Romani medesimi per impulso dei Papi violentemente devastassero la Roma antica. — Gregorio è discolpato dal Platina, dal Tiraboschi, dal Bandini e meglio che tutti dal Fea. Il Bayle stesso (Dict. hist. et crit., article Gregoire I), lascia stare di quelle accuse; il Brucker, ecc. III, 590, seg., e nell’Appendice, attacca con accanimento il Papa, ma dubita egli pure che si facesse reo di quel vandalismo d’arte.
118. Ep. 24, XII: Quatenus cura formarum committi Augusto vicecomiti debuisset. — Nam sic despiciuntur atque negliguntur formae ipsae, ut nisi major sollicitudo fuerit, intra paucum tempus omnino depereant. La lettera è dell’anno 602.
119. Gregorio accenna una volta alle terme di Agrippina dove fondava un convento; un’altra volta parla di una Taberna juxta Pallacenas. D’entrambe la Ep. 44, V. Le terme di Agrippina, sposa di Germanico, sono situate nella valle di san Vitale, dove ancora si trovano i loro avanzi. Ci è noto che il luogo Pallasena fosse in vicinanza al san Marco. Una sola volta negli scritti di Gregorio vengono a galla nomi di porte antiche. Ep. 44, XI.
120. Servus servorum Dei. Vedi Giov. Diacon., II. c. 1. Il titolo di Papa a quei tempi era dato ancora ad altri vescovi. Il primo che così ne appellò il Vescovo romano ad esclusione degli altri, fu Ennodio di Ticino intorno all’anno 510. Vedi la annotazione nel Gieseler, I, p. 437.
121. Oltre che sulle Chiese d’Italia, il Vescovo romano era fornito delle prerogative patriarcali anche sopra l’Illirio e sull’Africa.
122. Sulle relazioni di Gregorio colle Chiese germaniche, che, al pari di quella stessa cattolica dei Franchi, stavano soltanto in lassi rapporti con Roma, vedasi G. Lau, Gregorio I magno nella sua vita e nella sua dottrina, Lipsia, 1846, p. 179 e segg., massime sui rapporti con Idelberto e con Brunhilde.
123. Ad Christum Anglos convertit pietate magistra Adquirens fides agmina gente nova — Hisque «Dei consul» factus laetare triumphis. Così sta scritto nell’epitaffio di Gregorio.
124. Angli quasi Angeli. Beda, Histor. II, c. 1; Giov. Diacon. Vita I, c. 21. — Gregorio mandava il prete Candido nelle Gallie a comperarvi fanciulli angli per il servizio dei conventi. Ep. 10, V.
125. Ep. 59, 60, IX, e la lettera di Gregorio a raccomandazione del monaco Agostino, 52 ecc. V. Con quanta abilità ei sapesse adattarsi al Paganesimo, ce lo insegna la Ep. 71, IX, dove comanda che i templi pagani sieno consecrati a chiese, e che i battezzati nella festa dei Martiri sieno convitati a mensa in capanne di verzura disposte intorno alle chiese.
126. Ep. 59, 1, all’Esarca di Africa. Gli sventurati Còrsi erano oppressi dagli officiali greci in modo sì atroce che vendevano i loro proprî figliuoli. Ep. 3, VI.
127. Ebbe sepoltura in san Pietro dove gli fu posto un monumento ed una bella iscrizione sepolcrale. Fu scritta in verso da Oldrado, arcivescovo di Milano e secretario di Adriano I, perciò in tempo assai più tardo. Si consulti il Cancellieri, De secretariis vet. Basilicae Vaticanae, p. 669. La iscrizione può vedersi nei miei Monumenti sepolcrali dei Pontefici romani.
128. Giovanni Diacono descrive questi dipinti, Vita, IV, c. 83, 84. Degli occhi di Gregorio dice: Oculis pupilla furvis non quidem magnis sed patulis — si suole correggere in fulvis forse a torto; e il Bayle dice che era in lui le fond de toutes les ruses et de toutes les souplesses dont on a besoin pour se faire de grands protecteurs et pour attirer sur l’Eglise les bénédictions de la terre. — Angelo Rocca scrisse su quei ritratti una dissertazione (Tom. III della edizione dei Maurini).
129. Paol. Diacon., Vita S. Gregor., c. 23, e De Gest. Long., IV, c. 30.
130. Questa storia di fantasmi leggesi in Sigberto, Chron. ad ann. 607. Vedasi il Platina, in Sabiniano. Secondo alcune lezioni di Anastasio, nella Vita Sabin., sarebbe detto che egli vendeva il moggio di grano a trenta oppure a tredici solidi; secondo altre, affatto inverosimili, egli avrebbe dato, per un solidus, trenta moggia. D’una libbra d’oro si coniavano solidi settantadue.
131. Funus evectum est. Anast. in Sabin. Un’altra lezione reca ejectum, locchè del resto importa una grave differenza, e il Vignoli assume la variante assai affaticata; funus et lectus ejus ductus est.
132. È noto che Urbano VIII Barberini ne spogliava il tetto per fonderne cannoni e per farne le torte colonne del tabernacolo nel san Pietro. Di quel fatto vandalico tolse vendetta la pasquinata imperitura: Quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barbarini.
133. Il più antico documento romano in cui appaia il nome di Pantheum, data dal tempo di Nerone nell’anno 59, ed è una mirabile tavola arvalica che fu rinvenuta nell’anno 1866 nel luogo ov’era il tempio della Dea Dia lungo la via di Porto. Ivi, fra altro, la corporazione dei Fratres Arvales dichiara che essa si congregava In Pantheo... così è dato di conchiudere che l’edificio di Agrippa già allora era rivolto a scopo di culto religioso. Vedi il De Rossi, Bullett. Archeol. 1866, m. 4.
134. Secondo Dione Cassio, LII, 27, vi si trovavano le statue di Marte e di Venere, ma egli con finezza di spirito il nome Πάνθειον spiega così: ὄτι θολοειδες ὄν, τῷ οὐρανῷ προσέοικεν. Plinio, Hist. Nat. XXXVI, 24, 1, dice: Pantheon Jovi Ultori ab Agrippa factum. L’abate Pietro Lazeri, nel suo scritto: Della Consecrazione del Panteon, Roma 1749, XI, afferma che il Panteon non fosse un tempio, nè che tale dai Cristiani fosse considerato (VIII); egli è però acconciamente confutato dal Fea, Sulle Rovine, Nota C., p. 284.
135. In un disegno dell’interno del Panteon fatto da Giuliano da San Gallo, contemporaneo di Raffaello, si vedono ancora nelle edicole i piedestalli antichi sui quali un tempo erano poste le statue degli Dei. Questo disegno trovasi nella Barberina. Vedi il Passavanti, Raffaello da Urbino, I, p. 322.
136. Ep. 71, IX, Indict. 4.
137. L’Anonym. Viennensis (ed. Luigi Ross, Vienna 1840, n. 11) chiama ancora il Partenone: ναὸς τῆς θεομήτορος, e favoleggiando aggiunge che da Apollo e da Eulogio fosse edificato al non conosciuto Iddio, ὅν ῴχοδόμησαν ἀπολλὼς και εὐλόγιος ἑπ’ ὀνόματι ἀγνὠσιῳ θεῷ. Il Belamio di Eliopoli fu il primo tempio tramutato in chiesa cristiana intorno all’anno 391. Vedi il Gottfried, Commentar. in Cod. Theodos., XVI, tit. 10.
138. Anastas. in Bonifacio IV: Hic petiit a Phocate Principe templum, quod Pantheon vocabatur; quod fecit ecclesiam beatae ac gloriosissimae et Dei genitricis semperque Virginis Mariae, et omnium Martyrum Christi. — Paolo Diac. De G. Long. IV, c. 37: Idem alio Papa Bonifacio petente jussit in vetere fano, quod Pantheon vocabant, ablatis idolatriae sordibus, Ecclesiam beatae semper virginis Mariae, et omnium martyrum fieri, ut ubi quondam omnium non deorum, sed daemonum cultus erat, ibi deinceps omnium fieret memoria sanctorum. Beda narra il fatto parimente.
139. Liber de Mirab. Romae nel Montfaucon, Diar. Ital. e la Graphia aureae urbis R., la quale aggiunge: In hujus autem templi fastigio stabant duo tauri erei deaurati. Ambedue, oltre che di Cibele, parlano anche di Nettuno. Ai Mirabilia attinse quasi alla lettera Leone da Orvieto nel Chronicon Pontific. nel Lami ec., IV, p. 107; egli vi aggiunse anche Marte. Si compari finalmente il Martirolog. Romanum, colla nota del Baronio al dì 13 Maggio; Adone, nel Chron. e nel Martyrologium, e l’Usuardo.
140. Ugonio, Le stazioni, p. 313. Altri conta diciotto carra, che tuttavia avrebbero già dato una somma ragguardevole; ma il Baronio da un manoscritto di quella chiesa determina che fossero carra trentadue: e se ne compiace.
141. Ado Vienn., Cronic., 604; Hermann. Contractus, 609; Sigberto, Chronic., 609; Marianus Scotus, 610. Si dee però ancor dare la prova che sia esatta la data del 609, assunta sulla fede degli Annales monasteriens. nel Pertz, Mon. Germ., III, 153: ad essi soltanto si riferisce il Jaffé, Regest. Pont.
142. Baron., Annotat. al Martyrolog. Rom. 1 Novemb.
143.
Gregorio Quartus, jacet hic Bonifacius almus
Hujus, qui sedis fuit aequus Rector et aedis,
Tempore, qui Focae cernens Templum fore Romae,
Delubra cunctorum fuerunt quae Daemoniorum;
Hoc expurgavit, sanctis cunctisque dicavit.
Quest’iscrizione leggesi ancora nelle grotte del Vaticano.
144. Juramentum Senatorum Urbis nell’Ordo Roman. di Cencio Camerario e nel Mabillon, Mus. Ital., II, 215: Nominatim autem sanctum Petrum, urbem Romanam, civitatem Leoninam, Transtyberim, insulam, castellum Crescentii, Mariam Rotundam.
145. Anastas. in Diodato. Secondo la cronologia degli Esarchi data da Marquardo Freher (apud Joh. Leunclavium Jus Graeco-Roman. Francf. 1596, T. I), Giovanni Lemigio fu il quinto esarca, ed a lui successe Eleuterio nel 616. Ecco la serie: Longino, Smaragdo 584, Romano 587, Callinico 598, Smaragdo iterum 602, Giovanni Lemigio 612, Eleuterio 616. Anche gli Esarchi, come i Re longobardi, assumevano il soprannome di Flavius.
146. Anast., in Bonifacio V, e Paolo Diacon., IV, c. 45.
147. Vedi a quest’anno il Pagi, Critica in Baron., e Francesco Pagi, Breviar.
148. Vedi i due Pagi.
149. Il gesuita Garnerio, editore del Liber Diurnus, crede che la seconda formula, ossia il Decretum de electione Pontificis, sia stata scritta dopo la elezione di Bonifacio V. È sottoscritto: Clerus, Optimates, et Milites seu Cives; e ciò sarebbe di grave rilevanza per la storia della costituzione della città di Roma se si potesse accertare il vero tempo della compilazione di quel decreto.
150. Renovavit omnia cimilia b. Petri Apostoli. Anast., in Honor.
151. Investivit regias majores in ingressu ecclesiae, quam vocant medianam, ex argento etc. Il plurale indica i due battenti della porta.
152. La iscrizione è nel Gruter, p. 1163, 5, secondo il Cod. Palatin. Ne riferisco gli ultimi versi:
Sed bonus Antistes dux plebis Honorius armis
Reddidit ecclesiis membra revulsa piis.
Doctrinis monitisque suis de faucibus hostis
Sustulit exactis jam peritura modis.
At tuus argento praesul construxit opimo
Ornavitque fores, Petre beate, tibi.
Tu modo coelorum quapropter, Janitor alme,
Fac tranquilla tui tempora cuncta gregis.
153. Severan. ecc., I, 68. Guidonea — per quella erano guidati — i Peregrini. Con questa spiegazione, il nome non può certo avere appartenuto al secolo settimo.
154. Operuit etiam omnem ecclesiam ejus ex tegulis aereis, quas levavit de templo, quod appellatur Romae (erroneamente Romuli) ex concessu Heraclii piissimi Imperatoris. Anast. in Honorio.
155. Fecit Ecclesiam beato Adriano martyri in tribus fatis. Anast.
156. Bunsen e Platner, III, 1, 359. Il Marangoni, Cose Gentil., c. 53, la prende per il tempio di Saturno dov’era Aerarium. Il Nardini, II, c. 6, p. 200, combatte quest’opinione, che è pur quella del Marliano.
157. Il Marangoni, Cose gent. c. 52, afferma che il san Teodoro sia la terza chiesa della serie dei templi trasformati. Il Panciroli ecc. p. 705, reputa che fosse stata tempio di Romolo e di Remo, e dice che al suo tempo la lupa di bronzo venne di là trasportata in Campidoglio. Altri dichiarano che fosse stato tempio di Romolo (Venuti e Marliano, c. 21); anche il Nibby sembra decidersi per questa opinione (Nota al Nardini, II, lib. V, c. 4, 162). Il Winkelmann, Storia dell’arte dell’Antichità, III, 3, § 11, reputa non soltanto che il gruppo sia quello antico famoso di cui parla Dionisio di Alicarnasso (Ant. Rom. I, c. 79, p. 65), ma afferma altresì che il san Teodoro fu il tempio di Romolo. Dionisio però non parla di un tempio, ma di un τέμενος, dove egli vide elevarsi il gruppo antico nella vicinanza del Lupercale: χάλκεα ποιὴματα παλαιᾶς ἐργασίας. Un secondo gruppo di quella maniera era puranco nel Campidoglio. — La storia della chiesa di san Teodoro fu scritta dal Torrigio: Historia del Martirio di S. Teodoro soldato, Roma 1643; egli pure reputa che fosse il tempio antico di Romolo.
158. Venuti, Descriz. delle antichità di Roma, p. 1, c. 1. — Panciroli, Tesori nascosti, p. 705. — Torrigio c. 6 e 7. — Al c. 21 egli riferisce le antiche preci di questa chiesa per gli infermi che conchiudono così: per signum sanctiferae Crucis, et in intercessionem Beati Theodori liberet te Dominus noster Jesus Christus ab hac infirmitate. — Oggidì san Teodoro appartiene alla Sodalitas Sacrati Cordis Jesu. Nel cortile un’ara antica serve ancora di cantharus.
159. Martyrol. Roman. e l’Usuardo agli 8 di Novembre. — Si veneravano in questa chiesa anche cinque Martiri che avevano vissuto da scalpellini in Pannonia e s’erano rifiutati di scolpire idoli. S’ignora il tempo in cui le loro reliquie venissero a Roma. La loro antica leggenda fu narrata dal Wattenbach. Vedi le sue Fonti storiche della Germania nel medio evo, p. 28.
160.
Illic Orphea protinus videbis
Udi vertice lubricum theatri etc.
Martial. X, 19.
161. Martyrol. Rom., l’Usuardo al dì 21 Gennaio, il Surio, t. I, 488 a 492, che attribuisce la leggenda a sant’Ambrogio, e Jacobus de Voragine.
162.
Constantina Deum venerans Christoque dicata,
Omnibus impensis devota mente paratis,
Numine divino multum Christoque juvante,
Sacravit templum victricis virginis Agnes etc.
In Bunsen e Platner ec. III, 2, 445. La iscrizione è attribuita al vescovo Damaso, che molti epigrammi ebbe composto in onore dei Martiri, e segnatamente anche quello a santa Agnese che leggesi nella chiesa di lei, sopra una tavola di marmo. Prudenzio dedicava alla Santa l’inno ben conosciuto.
163. Nel Gruter, 1172, 4. — Addì 14 Aprile 1855, trovandosi nel cenobio di sant’Agnese, Pio IX ebbe la disgrazia di precipitare al basso nelle stanze sottoposte insieme colle persone adunatevi, poichè il pavimento della sala ove egli stava crollò. In gratitudine di aver salva la vita, egli fece restaurare la chiesa; ma il mal genio dell’arte odierna ebbe guasta la semplicità di quella chiesa incantevole colle stonature dei dipinti collocati sulle pareti.
164. Martyrol. Roman. al dì 22 Gennaio. Di san Vincenzo cantò Prudenzio nei Peristeph. Hym. 5. — Il Baronio scrisse una dissertazione erudita sull’equuleus, ossia sullo strumento di tortura con cui il Santo fu straziato, ed è cosa che per certo ci mette troppo brivido in dosso. — Della traslazione delle reliquie di santo Anastasio a quella chiesa parla Adone nella Cronica dei tempi di Eraclio e nel Martyrol. ai 22 Gennaio. La storia dei due Santi trovasi nel Surio che, secondo Simone Metafraste, la colloca ai 22 Gennaio.
165. Est haud procul ab hujus urbis muro et S. Pancratius Martyr valde in perjuriis ultor. Gregorio di Tours, de gloria Martyrum, c. 25. — Il carmelitano Paolino, De Basilica s. Pancratii disquisitio, Romae 1808, narra la storia della basilica. Egli lamenta che nell’anno del terrore 1798 sparisse il cadavere del Santo e non ne rimanesse che un osso del braccio: e neppure quest’osso valse a difendere il convento duranti i moti dell’anno 1848.
166. Et ibi constituit molam in loco Trajani juxta murum civitatis, et formam, quae ducit aquam a laco Sabbatino, et sub se formam, quae conducit aquam ad Tiberim. Così il testo, sulla fine della Vita Honorii nel Vignoli.
167. Ciò si ricava da Anastas. in Severino, ed è l’opinione del Platina nella Vita del medesimo Papa.
168. Anast. Vita s. Silvestri. Il lettore già sa che Costantino non fu battezzato da Silvestro, ma che soltanto in fine di sua vita ricevè il battesimo da un Vescovo ariano.
169. Anast. in Sixt. III: hic fecit in Basilica Constant. ornamentum super fontem, quod ante ibi non erat, i. e. epistylia marmorea, et columnas prophyreticas erexit, quas et versibus ornavit. Questi distici si leggono oggidì ancora in caratteri moderni nell’architrave sopra le colonne.
170. Al di sopra di esse leggesi quest’iscrizione antica: In honorem B. Jo. Baptistae Hilarus Episcopus Dei famulus offert. Nell’altro oratorio la iscrizione rinnovata, che è sopra la porta, dice: Liberatori suo B. Joanni Evangelistae Hilarus Episcopus famulus Christi. Egli lo ebbe fondato in rendimento di grazie che, cardinale diacono e legato di Leone I al sinodo brigantesco di Efeso nell’anno 449, aveva potuto sfuggire alla morte. Certo si è che Ilario massimamente deve avere contribuito all’edificazione del battistero, perocchè ciò si paja da una iscrizione che leggesi nel Gruter, 1163, n. 11.
171. Anast. in Hilaro, n. 69. Essi furono demoliti; l’oratorio della Croce perì soltanto al tempo di Sisto V.
172.
Martyribus Christi Domini pia vota Johannes
Reddidit antistes, sanctificante Deo.
At sacri fontis similis fulgente metallo
Providus instanter hoc copulavit opus;
Quo quisquis gradiens et Christum pronus adorans,
Effusasque preces impetrat ille suas.
Sulla storia della cappella vedi il Ciampini, Veter. mon. II, c. 45.
173. Et misit per omnia castra, quae erant sub civitate Romana per circuitum, dice Anast. in Teodoro. Così è denotato il territorio della Città, nè ancora è fatta menzione del Ducatus Romanus.
174. Anast. in Teodoro. — Ermin. Contract. determina l’anno 644 per quello della ribellione, e lo segue il Baronio. Il Muratori racconta l’avvenimento in quell’anno, senza accoglierne sicurezza di data. Erra manifestamente Marquardo Freher quando assume il 642 per l’anno della morte d’Isacco, chè altrimenti quei fatti che il Lib. Pont. narra nella Vita di Teodoro, sarebbero avvenuti soltanto un mese dopo la sua ordinazione. Il Montfaucon pone la morte d’Isacco all’anno 641.
175. La iscrizione che io lessi in Ravenna è migliore di quella che dà il Rubeus, Hist. Rav. IV, p. 202; Montfaucon, Diar. Ital., p. 98:
Ἐνταῦθα κεῖται ὁ στρατηγήσας καλῶς.
Ῥώμην τε φυλάξας καὶ φυλάξας τὴν δύσιν
Τρὶς ἕξ ένιαυτοῖς γαληνοῖς δεσπόταις
Ισαάκιος τὼν βασιλέων ὁ σύμμαχος,
Ὀ τῆς ἁπάσες Ἀρμενίας κὸσμος μέγας,
Ἀρμένιος ἦν γὰρ οὖτος ἑκ λαμπροῦ γένους.
Τούτου θανόντος εὐκλεῶς ἡ σύμβιος
Σώσαννα σώφρων τρυγόνος σεμνῆς τρόπῳ
Πυκνῶς στενάζει ἀνδρὸζ ἐστερημένη,
Ἀνδρὸς λαχόντος ἐκ καμάτων εὐδοξίαν,
Ἐν ταῖς ἀνατολαῖς ἡλίου καὶ τῆ δύσει
Στρατοῦ γὰρ ἦρξε τῆς δύσεως καὶ τῆς ἕω.
176. Ciò narra non già Anastasio ma Teofane nella Chronogr., p. 275. Il fanatico costume veniva di Grecia.
177. Martinelli, Roma ex ethnica sacra, p. 301.
178. Labbé, Concil., T. VII, p. 78 e seg.
179. Si autem — potueris suadere exercitui Romae consistenti, jubemus hoc idem tenere Martinum — si autem inveneris aliquid contrarium in tali causa, exercitum tacitum habeto...... Anast. in Martino. — La lezione del Baronio: taciti abitote, ha un buon significato.
180. Armans se cum exercitus virtute, oppure armans secum exercitus virtutem, come legge il Vignolio nella Vita di Martino, n. V.
181. Profectus est in Siciliam adversus gentem Saracenorum, qui ibidem inhabitabant.
182. Il Muratori dubita che Teodoro Calliopa effettivamente fosse esarca due volte. Secondo il Pagi, Martino sarebbe stato trascinato fuor di Roma nel 653, ed egli esclude l’anno 650, che è la data dal Baronio. V. il Jaffè, Reg. Pont.
183. Quibus susceptis in palatio. Ep. XV Martini ad Theodor., nel Labbè, Concil. VIII, p. 66.
184. Nella sua lettera indiritta a Teodoro narra Martino che egli fu imbarcato in una nave a Messina; per certo era l’antico porto Misenum, non già Messina: ciò si pare dal testo. La Terra Laboris, di cui fa cenno la stessa lettera, sembra essere un corrotto della Terra Liparis, anzichè nome della Terra di Lavoro. Così pensa Camillo Pellegrino, De Ducatu Benevent., Diss. V. — Misenum era detto allora Messena e Mesenu, Lipari forse Lebori o Labori.
185. Ei lamentava amaramente che tutti i suoi amici e i Romani lo avessero diserto nel loro oblio: Quia sic funditus infelicitatis meae obliti sunt, et nec scire volunt, ut invenio, sive sim super terram, sive non sim. Egli scongiura i Romani di mandargli dei viveri: dacchè gli stessi stranieri sono in Roma pasciuti, avea ben egli, che un tempo era stato pontefice, diritto a un po’ di cibo. Per verità, Giobbe fu meno sventurato di quello che Martino fu nel suo esiglio di Crimea.
186. Atene nel medio evo — è argomento di studî severi e grandiosi. Si legge con altissimo allettamento la Descriptio urbis Athenarum dell’Anonymus Viennensis (τὰ θέατρα καὶ διδασκαλεῖα τῶν Ἀθηνῶν), che è scrittura di un Greco del secolo decimoquinto, edita da Luigi Ross (Vienna, 1840), il quale la trasse da un manoscritto esistente a Vienna (oltre alle lettere di Zygomalàs e di Kabasìlas nella Turcograecia del Crusius). Se ne scorge che un eguale spirito di leggenda velava nel buio i monumenti di Atene al paro di quelli di Roma. Come in Roma, così anche in Atene, più d’un grande monumento si denotava col nome di palazzo (παλάτιον o οἶκος), ma la ricordanza dei filosofi di Atene abbelliva durante il medio evo parecchie di quelle ruine col titolo di scuole ossiano διδασκαλεῖα; così si avevano le scuole di Socrate, degli Eleati, dei Cinici e dei Tragici, di Sofocle, di Aristotele ecc. Gli Istoriografi bizantini non fanno pur motto di Atene.
187. Paolo Diacono, III, c. 32.
188. Giannone, Storia del Regno di Nap., IV, c. 2, 3, e la Dissertazione di Camillo Pellegrino.
189. Anastasio dice soltanto suscepit cum; l’honorifice, che è di stile prammatico, rimase per un senso di pudore nella penna.
190. Pallium auro textile in Anast.; similmente narra Paolo Diac., V, c. 11 e Beda De sex. aetat. ad ann. 4625.
191. Le giustificazioni del cardinale Baronio si riassumono brevemente in queste sue parole: Dummodo catholicae veritati esset consultum.
192. Questa elegia trasse il Muratori da un codice che si conserva a Modena (Antiq. Med. aevi, XXI). Il verso Ingenuique tui ecc., fu dal Troya (Cod. Langob. I, 143, 144) e dal Pizzetti (Antichità Toscane, I, 322) interpretato di questa guisa: I senatori privati dei loro beni decaddero in condizione di coloni. In qualunque modo, quel passo parla della ruina della nobiltà. Il servorum servi prende di mira i Bizantini; e forse anche con ironia accenna ai Pontefici, dei quali primo Gregorio I appellossi Servus servorum Dei. Non credo che il carme fosse composto innanzi al tempo di Gregorio. I versi ricorrenti Roma subito ecc., sono un giocherello antico, e Appolin. Sidon. (IX, ep. 14) lo cita come illud antiquum, ed un altro ne aggiunge: Sole medere pede, ede perede melos. La associazione di Roma e di Amore è antica e mistica; e trovo in Giov. Lydus, De Mensib., IV, 50, un passo che ne dà spiegazione. Roma, dic’egli, ha tre nomi: τελεστικὸν ἱερατικὸν πολιτικόν, τελεστικὸν μεν οἱονει Ἔρως, ὤστε πάντας ἔρωτι θείῳ περὶ τὴν πόλιν πατέχεσθαι. Il nome sacerdotale era Flora, il nome politico Roma.
193. Quamdiu stat Colyseus, stat et Roma: quando cadet Colyseus, cadet et Roma: quando cadet Roma, cadet et mundus. Beda, Collectan. et Flores, III, 483. — Scipione Maffei accoglie l’opinione che il nome derivasse dall’edificio stesso (Verona illustrata, IV, I, c. 4). Anche l’anfiteatro di Capua nel secolo nono era appellato Colossus, e quindi detto era Colossensis il signor suo Guaifar. Erchempert, Hist Langob., c. 56. — Il Beda moriva intorno al 734. — In Inghilterra ai tempi di Edoardo I correva una strana profezia sul Caballus Constantini: Costantine, cades, et equi de marmore facti, locchè tuttavia più rettamente si poteva riferire ai due domatori di cavalli. V. il Pauli, Storia d’Inghilterra, IX, 39, che è citato nell’articolo della Quarterly Review, Jan. 1864, p. 225, dedicato a questa Storia della città di Roma ed intitolato: Rome in the Middle age.
194. Omnia quae erant in aere ad ornatum civitatis, deposuit: sed et Ecclesiam S. Mariae ad Martyres quae tecta tegulis aeris erat, discoperuit, et in regiam urbem cum aliis diversis, quae deposuerat, direxit. Anastasio, e parimenti Paul. Diac. V, c. 11. Si vedano anche i Mirabilia, Cod. Laurent., e l’Anonym. Magliabechianus. — Il Fea, Sulle Rov., pag. 313, trova di che confortarsi colla certezza che ancora rimasero alcuni bronzi, segnatamente nel palazzo dei Cesari, dove, ancora nel secolo decimottavo, si dissotterrarono di consimili frammenti.
195. Ai tempi di Carlomagno in Roma non esisteva che una sola statua equestre di bronzo; perocchè il così nominato Anonimo di Einsiedeln, che allora scriveva le sue notizie topografiche di Roma, oltre al Caballus o Equus Constantini, di cui soltanto fa menzione, altre per certo ne avrebbe specificato se veduto ne avesse. Se dunque il suo Caballus fosse stato effettivamente quello di Costantino, dove rimaneva quello di Marco Aurelio, e perchè egli non ne faceva cenno? Io credo pertanto che il Caballus Constantini dell’Anonimo fosse la statua equestre di Marco Aurelio, e che la iscrizione della vera statua equestre di Costantino, da lui copiata, si leggesse ancora sul piedestallo.
196. Siracusa nel medio evo ha una storia buia. Non ne trovai lume nè nella lettera del monaco Teodosio (anno 878, ad Leonem Archid. de Syracus. urb. Expugnant. nella Bibl. Sicul. del Caruso I), nè nel Pirri e neppure nel Facello. Lo stesso Michele Amari, nella sua Storia dei Musulmani in Sicilia, ne offre scarsi chiarimenti. Egli dice: «Ratratta era la città nel nono secolo dal tempio di Giove Olimpico e dalle Epipoli alla penisola: ratratto l’umano ingegno da Gelone al monaco Teodosio.» — Al tempo di Costante il tempio di Minerva era stato già tramutato in una chiesa, che è l’odierna cattedrale, e consecrato a Maria Theotocos; è però difficile che Belisario ne compiesse la edificazione (Pirri, Sicilia Sacra, II, 123). — Il Liber Junior. Philos., tra le città illustri di Sicilia nel secolo quarto, cita Siracusa e Catina (Catanea), e loro dà ancora il predicato di splendidae: lo stesso Codice aggiunge anche Palarmus, ma il Maj editore la ritiene un’aggiunta appostavi da un frate della Cava, quando Palermo era già cresciuto a potenza.
197. Secondo il Liber Pontificalis restaurò la chiesa di san Pietro nel Campus Meruli lungo la via Portuensis. Il Bosio, Roma sotterr., II, c. 20, 124, afferma che fosse collocato alla duodecima pietra miliare, e dimostra che ancora in una bolla di Giovanni XIX è fatta parola del Campus Meruli, che è oggidì il Campo Merlo in Portese. Ho già riferito un passo dei Dialoghi di Gregorio (III, c. 11), secondo il quale il Campo Merlo sarebbe stato situato all’ottava pietra miliare.
198. Erasmo fu vescovo della Campania e martire ai tempi di Diocleziano: vedi il Martyrol. Usuardi ai tre di Giugno. La storia del martirio di sant’Erasmo è il più orrido soggetto della pittura; si miri il quadro di Nicolò Poussin che esiste nella galleria del Vaticano e se ne rabbrividisca.
199. Ugonio, le Stazioni, pag. 291; Severano, delle sette chiese p. 486.
200. Nardini III, 367; Platina, in Dono I. Gli è Pietro Mallio che afferma il fatto nel suo scritto sulla basilica di san Pietro. Quel così detto Sepulcrum Scipionis è figurato in forma di piramide sulla porta di bronzo del san Pietro. — Dono restaurò anche la chiesa che nella via Appia era dedicata a Eufemia, celebre santa di Calcedonia, che aveva una chiesa anche dentro di Roma nel Vicus Patricius presso il Titolo di Pudente. Martinelli, Roma ex ethnica sacra, p. 357. — Ambedue quelle chiese sono perite. — Il Liber. Pontif., nella Vita di Dono fa cenno di un convento siriaco, Monasterium Boetianum, in cui quel Papa, a cagione delle eresie nestoriane professate dai monaci, pose frati romani. Che fosse una fondazione di Boezio o che sorgesse nelle case di lui?
201. Agnellus, Osserv. alla Vita di Mauro, riferisce il notevole privilegio da Costante largito alla Chiesa ravennate; la carta relativa è data Kal. Martias Syracusa. Ivi è detto: Sancimus amplius securam atque liberam ab omni superiori Episcopali conditione manere et non subjacere pro quolibet modo Patriarchae Urbis Romae, sed manere eam Αυτοχέφαλην. — Era allora (anno 666) esarca Gregorio.
202. Ancora nel secolo nono la gelosia di Ravenna si manifesta con fervida passione negli scritti di Agnello. Dopochè lo Storico ravennate ha narrato della sottomissione di Teodoro, egli lo caccia in sepoltura con ischietto compiacimento: Cum multa alacritate Sacerdotum, et omnium gratulatione submersus est, in Ardica B. Apollinaris subtus jacet. Vita Theodori, c. 4, 320.
203. Ep. Agathonis, nel Labbé, Concil. D. VIII, 655.
204. Non quidem ut haereticus, sed ut haereticorum fautor. Francesco Pagi, Breviar., pag. 243, XVIII, e Anast. Vita S. Leonis II, n. 148.
205. Paol. Diacon. VI, c. 5. — Anast. in Agathone n. 141, parla della peste di Roma, ma nulla riferisce della leggenda di Pavia.
206. Delatis ab urbe Roma beat. Sebastiani martyris reliquiis. Il Baronio e il Sigonio leggono: Ad urbem Romam. L’Ugonio (le Stazioni, p. 58) e il Panciroli (ecc. p. 212) affermano la stessa cosa. Il Muratori dà ragione ai Pavesi.
207. Il quadro è attribuito ad Antonio Pollaiuolo fiorentino; sta a manca di chi entra nella chiesa.
208. Così è dipinto in uno dei più bei quadri del Sodoma nella galleria degli Ufficî a Firenze.
209. Così la leggenda secondo il Surio, De probat. Sanctor. Histor., Colonia, 1570, tom. I, p. 434-452, ai 20 di Gennaio. Il cardinale Wiseman, che ne trasse partito nel suo romanzo della Fabiola, si fe’ lecite certe finzioni, delle quali egli dovrà chieder venia ai Martirologi ed ai Martiri.
210. Poichè la testa di san Paolo era caduta sotto la scure, nessun altro Martire aveva virtù di resistervi. Virtus Christianorum nonnisi in ferro vincitur, dice la legenda aurea nella Vita di santa Eufemia. La leggenda riccamente adorna di san Giorgio è una delle più favorite tra le poesie di quelle specie. Vedi gli Acta Sanctor., addì 23 di Aprile.
211. Duranti le crociate frequenti erano le apparizioni di san Giorgio e del suo esercito biancovestito, e con lui si mostravano anche san Teodoro e Mercurio. Per combattere gli infedeli la Chiesa romana soleva invocare Maurizio, Sebastiano e Giorgio, come si pare dall’Ordo Roman. ad armandum Ecclesiae Defensorem vel alium militem.
212. Jacopo de Voragine, domenicano e arcivescovo di Genova (morto nel 1298), scrisse la sua Legenda sanctorum (appellata Historia Lombardica e aurea, per la prima volta stampata a Norimberga), che nell’età delle leggende costituì della vita dei Martiri un novellario ad uso del popolo. Egli narra che a Silena, in Libia, un Re era costretto a esporre la sua unica figliuola alla voracità di un drago, e che san Giorgio montato sul suo buon destriero ne la liberava. — Il Panciroli, p. 716, il Baronio nel Martyrol., ed altri affermano con senso schiettamente romano che la vergine raffiguri una provincia chiedente soccorso. — Giustiniano innalzava una chiesa a san Giorgio, e nell’antica Atene, forse già fin dal secolo quinto, il santo cavaliere aveva preso possesso del tempio di Marte. Così le Divinità antiche si trasformavano in Santi cristiani, e i vecchi templi degli Dei si tramutavano in chiese del Cristianesimo.
213. Hujus almi Pontificis jussu, Ecclesia juxta velum aureum in honorem beati Sebastiani aedificata est, necnon in honorem martyris Georgii.
214. S. Gregor. ep. 68, IX, ad Marinianum Ab: quia ecclesiam S. Georgii positam in loco qui ad sedem dicitur. L’Ugonio non venne alla conghiettura che la espressione ad sedem possa mettersi in relazione coll’Janus Quadrifrons, sede dei banchieri, il quale dista soltanto di alcuni passi dal san Giorgio. Invero presso la chiesa s’alza anche l’Arco degli Orefici, ma esso è più piccolo, e per fermo la località dev’essere determinata dal monumento maggiore.
215. Nel portico della chiesa di san Giorgio la iscrizione, che è dei tempi di mezzo, di un abate Stefano, dice: Hic locus ad velum praenomine dicitur auri. Ancora nell’anno 482 era assai bene conosciuto il nome antico. Lo apprendiamo da una iscrizione che si legge nel De Rossi: Inscriptiones Christian. Urbis Romae, VII saeculo antiquiores, I, n. 878: Locvs Avgvsti Lectoris De Belabrv....
216. Giorgio Fabricio, Antiquitatum p. 21, dice che nell’età di mezzo, al Janus Quadrifrons il popolo dava nome di casa di Boetio. Io però ho ragione di dubitare che tal nome derivasse de quello dell’illustre Senatore. È più probabile che discendesse da qualche famiglia nobile che abbia fortificato il Janus. Per lo meno a’ tempi di Gregorio IX, nel secolo decimoterzo, eravi un Aegidius Boetii. Vedi Vita Gregor. IX; Murat. III, 582.
217. La iscrizione dice: Basilica Semproniana S. Georgii Milit. Mart. in Velabro. Martinelli, pag. 106, e lo segue l’Ugonio, p. 18.
218. In una cappella attigua è istoriato san Giorgio a cavallo che combatte il dragone; non è però un quadro antico. Non vi trovai più un altro dipinto di età più remota, del secolo decimoquarto o del decimoquinto, che altra volta esisteva in sant’Eusebio. Nella chiesa si mostra come reliquia la mitica bandiera del Santo. San Giorgio era venerato quale duca e capitano del popolo cristiano. Nel medio evo il Senato romano celebrava la sua festa addì 23 di Aprile, e gli offeriva un calice in dono.
219. Il Martinelli nomina ancora le chiese di san Giorgio in Martio, in Specie ed in Vaticano.
220. È cosa singolare che san Giorgio ottenesse diffusamente culto di patrono, persino nell’Abissinia; così ne informano le lettere della spedizione di Abissinia di questi ultimi tempi (1868).
221. Il Mabillon, Mus. Ital. II. Comment. in Ordin. Rom., CXVII, confuta l’opinione del Sigonio, de Regno it., p. 78 ad a. 682, che prima di Leone II, il Pontefice fosse consecrato da un solo Vescovo, da quello di Ostia. Il Vescovo di Ostia appoggiava il libro degli Evangeli alla nuca del Pontefice e gli imponeva sul capo la mano; quello di Albano salmeggiava la prima orazione: Adesto supplicationibus nostris; il Vescovo di Porto cantava la seconda: Propitiare, Domine. — Ordo Roman. XIV, nel Mabillon, pag. 272, e Titul. VII del Liber Diurnus.
222. Hic suscepit divalem jussionem clement. principis Constantini ad venerabilem clerum et populum atque felicissimum exercitum Romanae civitatis, per quam concessit, ut qui electus fuerit in sede Apostolica, e vestigio absque tarditate Pontifex ordinaretur. Il Baronio esclama: Restituta Romana ecclesia in pristinam libertatem! Ma, al paro degli avvenimenti della Storia, non si acconciano a quest’opinione nè il Liber Diurnus, nè le Professiones fidei che in questo si contengono indiritte precisamente a quell’Imperatore.
223. Ne era allora universale la costumanza. Il giovine Pipino era adottato da Liutprando, re de’ Longobardi, colla recisione delle chiome. Anche la recisione della barba si usava come simbolo di adozione. Paul Diacon., VI, 53. Le ciocche di capelli così tagliate appellavansi Mallones, da μαλλὸς; «e Malloni,» dice il Muratori all’anno 684, «s’ode anche oggidì nel dialetto modenese.» — Taso e Caco, giovani figliuoli di Gisulfo duca di Forlì, furono assassinati a tradimento dallo esarca Gregorio, dopochè costui gli aveva adescati e tratti a sè colla promessa di volerseli adottare per figli colla recisione della barba. L’astuto barbiere tenne parola; rase la barba di Taso, ma soltanto dopo che gli era stato troncato il capo (Paul. Diacon., IV, 41).
224. Il Tit. IV del Liber Diurnus dice: Viros honestos cives, et de exercitali gradu; e, secondo il Tit. II, sottoscrivevasi il decreto di elezione così: Clerus, Optimates et Milites seu cives. La elezione avveniva: convenientibus nobis, ut moris est (sec. 7), cunctis sacerdotibus ac proceribus ecclesiae, et universo clero, atque optimatibus, et universa militari praesentia, seu civibus honestis, et cuncta generalitate populi istius a Deo servatae Romanae urbis. Qui è assai difficile di porre rettamente a loro luogo le particelle congiuntive et e seu. In generale tengo opinione che i milites appartengano agli optimates, del pari che i proceres ecclesiae appartengono ai sacerdotes, e che i cives honesti egualmente sorgano dalla generalitas populi. Io adotto pertanto la interpunzione seguente: cunctis sacerdotibus ac procer. eccl. et universo clero; atque optimatib. et universa militari praesentia; seu civib. honestis et cuncta generalitate populi. Io credo che il Miles fosse essenzialmente un cavaliere, ossia che appartenesse ai soldati a cavallo. — Carlo Hegel, I, 248, vuole distinguere del tutto i Milites dai Cives, quasi che fossero un terzo e un quarto Stato; e tiene (I, 252) i cives honesti soltanto per il populus ossia plebs. Nel Marini, Pap. Dipl., n. 112, 113, su cui egli si appoggia, si trovano denotati per viri honesti, uomini che attendevano ai mestieri. Sennonchè non avrebbero potuto questi forse appartenere all’Exercitus, come obligati a prestar servigio nella milizia? Se i nobili servivano a cavallo, quali Romani componevano le fanterie? Per certo cittadini atti alle armi.
225. Tit. V. Lib. Diurn.: convenientibus Sacerdotibus, et reliquo omni clero, eminentissimis consulibus et gloriosis judicibus, ac universitate civium et florentis Romani exercitus. — Qui i Consoli e i Giudici stanno insieme colla cittadinanza, quali suoi giudici civili. A questa partizione cittadina in altre città corrisponde manifestamente la formula di elezione usata dopo di Odoacre: Clero, Ordini et Plebi; così in Rimini, in Terracina, in Perugia, in Crotona e in Ravenna stessa, come si rileva dalle Lettere di Gregorio: Ep. 56, I, 58, I, 14, 27, II, 21, IV. Ivi però non si parla di esercito. Per Napoli particolarmente, si aggiungono anche i Nobiles: Clero, Nobilibus, Ordini et Plebi, 3, II. L’Ordo, onde in Roma non è fatto cenno, era l’antica Curia, che s’era divisa in ottimati, possessori ecc.; come opina C. Hegel.
226. Suis judicibus, quos Romae ordinavit et direxit ad disponendam civitatem. Anast. in Conon., n. V.
227. Ecco le parole di Anastasio: inito consilio, primates judicum, et exercitus Romanae militiae, vel cleri seditiosi pars plurima et praesertim sacerdotum, atque civium multitudo: la moltitudine dei cittadini, cioè a dire di quelli che non servivano nell’esercito.
228. Qui sic abdite venit, ut nec signa nec banda cum militia Romani exercitus occurrissent ei juxta consuetudinem in competenti loco, nisi in propinquo Romanae civitatis. Anastas. in Sergio, n. 159.
229. Il Baronio ha buon dritto di dire: Unus spiritus omnium Romanorum pontificum.
230. La data dell’anno in cui si tenne questo concilio andò perduta co’ suoi Atti. Il Pagi e il Muratori assumono l’anno 691. Il suo nome Trullanum deriva dalla cupola, ossia Trullus del palazzo; il nome di Quini-Sextum discende da ciò che si congregò a supplemento del quinto e del sesto Concilio ecumenico.
231. Egressus — foris basilicam Domni Theodori Papae apertis januis sedens in sede, quae vulgo appellatur sub Apostolis. Questo però è l’oratorio di san Sebastiano, edificato da papa Teodoro.
232. Agnellus, Vita S. Felicis, c. 2, 352 segg.
233. Vedi la lettera ad Elvia madre di lui.
234. L’epitaffio è in Beda, Hist. Eccl. Gentis Anglor. V, c. 7, in Paol. Diac. VI, c. 15, e più correttamente nel tom. V Classicor. Auctor. di Angelo Mai, p. 404. — È probabile che la iscrizione fosse poetata da Benedetto, arcivescovo di Milano. Ne riferisco alcuni distici del principio e del mezzo:
Culmen, opes, sodalem, pollentia regna, triumphos,
Exuvias, proceres, moenia, castra, lares;
Quaeque patrum virtus, et quae congesserat ipse
Caedual armipotens, liquit amore Dei,
Ut Petrum, sedemque Petri Rex cerneret hospes...
Sospes enim veniens supremo ex orbe Britanni
Per varias gentes, per freta, perque vias,
Urbem Romuleam vidit templumque verendum
Aspexit Petri, mystica dona gerens...
Hic depositus est Caedual, qui et Petrus, Rex Saxonum, sub die duodecimo Kalendarum Maiarum, Indictione secunda; qui vixit annos plus minus triginta, imperante Domno Justiniano, piissimo Augusto, anno et Consulatus quarto, pontificante Apostolico viro Domno Sergio Papa anno secundo. — Del battesimo e della morte di Caduallo in Roma fa menzione anche il Carmen Aldhelmi de Basilica aedificata a Bugge filia regis Angliae, in Angelo Mai, ibid., pag. 388. Aldelmo (morto nel 709) scrive Ceduvalla e dice senza malizia:
Alta supernorum conquirens regna polorum,
Clarum stelligeri conscendens culmen Olympi.
235. Anast., Vita Constant. e Beda, V, c. 20. — Quei Re morirono a Roma non molto dopo.
236. Cymelia è espressione generica degli arredi sacri: in particolare poi v’erano forme innumerevoli di lampade, di vasi, di coppe, di calici, d’incensieri ecc.
237. Conchiude così:
Sergius antistes divino impulsus amore
Nunc in fronte sacrae transtulit inde domus.
Exornans rutilum pretioso marmore tumbum
In quo poscentes mira superna vident.
Et quia praemicuit miris virtutibus olim,
Ultima Pontificis gloria major erit.
Gruter. 1170, n. 3. — A papa Sergio s’attribuisce l’edificazione di una sola chiesa, e precisamente dell’oratorio di sant’Andrea nella via Labicana, che egli rinnovò da cima a fondo.
238. Anast. in Joh. VI.
239. Apud fossatum, in quo in unum convenerant. Il Muratori traduce «fossa della città,» ma fossatum è principalmente un accampamento circuito di fosso: così nella Vita dello stesso Giovanni VI si usa dell’identica espressione per significare il campo dei Longobardi. — Non m’accingo a decidere se il fatto ricorresse o no nell’anno 702.
240. Muratori, ad ann. 683; Mabillon, Annal. Bened., XVII, c. 32, 561 segg.; Chron. Farfense e Muratori Prolegom., a questa Cronica nel tom. II, p. 2, Scriptor. Nei documenti Longobardi di Farfa ricorre sempre la formula: Monasterium S. Dei genitricis Mariae quod situm est in territorio Sabin. in loco ubi dicitur Acutianus.
241. La Tabula chorographica Medii Aevi di Giovanni Barretta (XX, n. 108) offre in quest’argomento pochissimi chiarimenti, al paro della Dissert. IV de ducatu Benev. di Camillo Pellegrino. Un passo degno di nota che trovasi in Procopio, De B. Goth. I, 15, estende il territorio romano, come oggidì, fino a Terracina: μεθ’ ὃυς Καμπανοὶ ἄρχι ἐς Ταρακήνην πόλιν οἰκοῦσιν οὓς δὴ οἱ Ῥώμης ὃροι ἐκδέχονται.
242. Anastasio non parla che dello sconosciuto luogo Horrea; all’invece Paolo Diacono specifica: Suram Romanorum civitatem, Hirpinos atque Arcem. Il Cluver e il Muratori leggono: Soram, Arpinum, Arcem atque Aquinum. Sora era un castello antico de’ Sanniti; l’antica Arx, che è l’odierna Arce, è posta tra Arpino e Aquino.
243. Fu una restituzione di beni ecclesiastici, nè già la donazione di una intera provincia, qualmente opinava il Baronio. In tutte le terre da loro conquistate i Longobardi si erano impossessati dei patrimonî della Chiesa.
244. Aveva sostituito un naso d’oro, e quando lo spurgava, i suoi cortigiani comprendevano che aveva condannato a morte qualcuno.
245. Ne diede la descrizione il Torrigio, Le sacre grotte Vaticane, II, 117, prima che fosse demolita.
246. Questa imagine, dall’anno 1609 in poi, trovasi nella cappella Ricci in san Marco di Firenze: così almeno attesta il Furietti, De Musivis, c. 5, p. 79.
247. Joannes indignus Episcopus fecit B. Dei Genitricis servus.
248. Rappresenta la Vergine col bambino, velata a foggia greca, seduta sopra un trono splendidamente adorno: innanzi a lei sta un angelo; dietro v’ha una mezza figura che offre un dono al bimbo, ed una seconda figura, che forse è quella di Giuseppe. Il lavoro, condotto su pasta cattiva e grossolana, è rozzo al pari di quello contemporaneo del santo Stefano in san Pietro ad vincula. Un brutto disegno ne è dato nel Crescimbeni, Storia della basilica di santa Maria in Cosmedin p. 145.
249. Lo desumo dal Cronicon Benedicti, monaco di santo Andrea sul monte Soratte (Mon. German., V, c. 11); Johannes praeerat papa, qui fecit oratorium sanctae Dei genitricis, opere pulcherrimo, intra ecclesia b. Petri apostoli, ubi dicitur a Veronica.
250. Sull’argomento del santo sudario (Sindone in greco) vi ha una piccola letteratura. Mi occorre ammonire il lettore affinchè si guardi dal torre in mano il libro di Alfonso Paleoto intitolato: Jesu Christi Crucifixi Stigmata sacrae Sindoni impressa, dove la dipintura del corpo di Cristo è tale da metter addosso brividi di paura. Poichè Cristo pinse sè medesimo sul sudario, non v’ha alcuna delle sue piaghe che non sia ricercata e discussa con dottrina senza pietà: in breve la è una repugnante anatomia della sua passione. — L’Alveri, Roma in ogni stato, II, 210 segg. e il Severano, Le sette chiese, p. 154 e segg., diedero una storia completa del sudario.
251. Il gesuita Landsberg ci fa certi che questa imagine era fedele al pari di una fotografia; egli vi seppe scorgere persino le tracce della ceffata con cui un soldato scelleratissimo percosse il volto di Cristo: in quella sacratissima imagine, che si conserva in san Pietro, si vedono ancora i segni delle dita di quel soldato. Severan, p. 160. — La santa Veronica è per disgrazia una finzione derivata dalle parole vera icon che significano «vera effigie» di Cristo; questa effigie re Abgaro si dice aver tolto da Edessa. Vedi il La Farina, Storia d’Italia, I, p. 210.
252. Orosio, Hist. XII, c. 4. Nulla qui è detto della Veronica, ma soltanto che Tiberio, alla notizia della morte e della risurrezione di Cristo, voleva proclamarlo Dio, e che ne fu impedito dal Senato. Da Orosio attinse il racconto Ottone di Frisinga, Chron. III, c. 12, ma neppur esso fa parola della Veronica, sebbene il monaco Benedetto, due secoli prima di lui, ne conoscesse la storia.
253. Oggidì ancora nel Panteon si vede una cassa con una iscrizione che arditamente dice: In ista capsa fuit portatum sudarium passionis Domini nostri Jesu Christi a Hierosolymis Tiberio Augusto.
254. Mabillon, Annal. Bened., lib. XIX, 23.
255. Johannicius Ravennianus ille facundus poeta, quia invictissimo Augusto contrarius fuit, inter duos fornices murina morte vita privetur. Agnello racconta la storia di quest’uomo nella Vita Teodori, Damiani, S. Felicis. È un racconto da romanzo; la sorella di lui pregò che le fosse concesso di vedere dalla finestra il mozzo capo del fratello; lo vide, pianse e morì. Agnello si dice pronipote di Giovanniccio. — Di questo notevole Storico della Chiesa ravennate, che chiude la sua opera col vescovo Giorgio in sull’anno 846, si leggano i Prolegomeni nell’Amadesi, Antistit. Ravenn. Chronotaxis. Favent. 1783. La sua orrida prosa è una miscela di semplice stile di cronista e di imitazione ampollosa dei retori antichi.
256. Dal modo con cui i Bizantini acciecavano i condannati al supplizio, costringendoli a fissare gli occhi sopra un bacino arroventato in cui si versava aceto, il Muratori fa derivare la parola italiana abbacinare. I casi di Ravenna narra Agnello nella Vita S. Felicis.
257. Alla mitra del Papa Anastasio dà nome di camelaucum (καμελαύκιον in greco): in italiano s’usa la voce camauro. Vedi l’annotazione del Vignoli a questo passo.
258. Anastasio dà la descrizione di questo fatto; ma chi però potrà prestargli fede che l’Imperatore colla corona in capo si prostrasse e baciasse i piedi del Pontefice? V’è però aggiunto che egli pro delictis suis si confessasse e ricevesse la comunione.
259. È quel giuoco antico ai dischi che anche oggi s’usa in tutta Italia, ed è conosciuto sotto il nome di ruzzola. Nel testo è detto: parvuli cum modica orbitella. Agnellus, Vita Damasi, c. II, 327.
260. Saccos induti sunt — ciliciis se operierunt. Sono i cappucci oggidì ancora usati dalle Confraternite. Quelli che li portano di stoffa di crine (ciliccino) sono detti particolarmente i sacconi. — In quest’occasione, Agnello, che scriveva soltanto cento anni dopo, nomina come ornamenti abituali delle donne: mutatorias vestes (varietà di abiti sfarzosi), et pallia, inaures, et anulos, et dextralia (smaniglie), et pereselidas (?), et monilia (collane), et olfactoria (ampolline odorose), et acus, et speculas, et lunulas (ornamenti d’oro in forma di luna), et liliola (ornamenti in forma di giglio), praesidia (?), et laudosias (?). In Ravenna erano ancora in quel tempo teatri e terme.
261. Agnello dice che quelle lotte sanguinose duravano ancora a’ tempi suoi.
262. Bandum significa vexillum (bandiera) e Bandus una schiera riunita sotto un vessillo. Agnello usa con pari significazione bandus, militia, numerus. Numerus, per reggimento di soldatesca, appartiene ai tempi dell’Impero, e quella voce trovai, in un epigramma di Damaso nelle catacombe, usata anche per la turba (exercitus) dei Martiri. — Alcuni di quei gonfaloni esistevano già anche sotto l’Esarca. — I Papiri Dipl. del Marini enumerano: Numerus felicum Theodosiacus (n. 90), Num. Mil. Sermisiani, forse composto di Dacî di Sarmisia (n. 91), Num. victricis Mediol. (n. 93), Num. Arminiorum (n. 95), Num. felicum Persoarminiorum (n. 122), Num. Veronensium (n. 95), Num. Juniorum e Num. invicti (n. 111). I nomi di questi reggimenti erano dunque tratti da quelli di paesi o di Imperatori, o da concetti astratti. I loro officiali erano appellati: Tribunus, Primicerius, Adorator (parola inesplicabile) e Optio od Ozio, che si spiega per distributor annonae.
263. ὁ δὲ φιλιππικὸς διὰ τοῦ αὐτοῦ σπαθαρίου ταύτην ἐπὶ τὰ δυτικὰ μέρη ἕως Ῥὠμης ἐξέπεμψεν. Theoph., Chronogr., p. 319.
264. I Greci chiamavano pancarea quelle manifestazioni in dipinto; vedine Anast., in Vita Constant., n. 174. Nel secolo decimoquarto, e più tardi ancora, in alcune chiese di Roma si collocavano di quei quadri, malagevoli a trattarsi, di Concilî.
265. Ecco come s’esprime Anastasio: Hisdem temporibus cum statuisset populus Romanus nequaquam haeretici Imperatoris nomen, aut chartas, vel figuram solidi suscipere.
266. Riporto il passo: Contigit, ut Petrus quidam pro ducatu Romanae urbis Ravennam dirigeretur, et praeceptum pro hujusmodi causa acciperet, n. 176. È cosa meravigliosa che i Duces di Roma si facciano visibili precisamente nel tempo in cui il loro potere sta per iscomparire.
267. In Via sacra ante palatium etc.
268. Questa iscrizione degna di nota trovasi nel Marini, Pap. Dipl., p. 367, nota 1, al n. 424. Videla per la prima volta Pietro Sabino nel secolo decimoquinto in santa Anastasia; un frammento indi ne videro l’Ughelli e il Suaresio in san Benedetto in Piscinula. Io consultai tanto questo frammento, quanto la copia del Sabino nell’archivio del De Rossi; non vi si trova variante per il passo longo refecta gradu. Ecco la iscrizione:
Ultima funereo persolvens munia busto
Quo pater illustris membra locanda dedit
Adjecit titulos proles veneranda Joannes
Ne tantus quovis esset honore minor.
Hic jacet ille Plato, qui multa per agmina lustrans
Et maris undisoni per freta longa volans
Claruit insignis regno gratusque minister
Celebremque sua praestitit esse manu.
Post ergo multiplices quas prisca Palatia Romae
Praestiterant curas longo refecta gradu
Pergit ad aeterni divina palatia regis
Sumere cum meritis praemia firma dei.
Plato V. Ill. Cura Palatii Urbis Romae Vix. An. Pl. M. LXVI. Dep. M. Nob. Die VII. Indict. XV. Imp. DN. Justiniano Aug. Anno II. P. C. Ejus Anno II.
Nell’Epitome Chronicor. Cassinens. (Muratori, II, p. I, 354) è detto che Eraclio, dopo la conquista della Croce, venisse all’Aurea Urbs, e quivi fosse coronato nel palazzo dei Cesari. Mi meraviglia che il Nibby, note al Nardini, III 136, e il Visconti, Città e famiglie, sec. II, 255, potessero prestarvi fede. Lo stesso Cronista, di cui è difficile che scrivesse prima del mille, narra la egual fiaba anche dell’imperatore Maurizio.
269. Dal fervore vivissimo con cui il popolo prendeva parte all’elezione del Duce, il Bethmann Hollweg (Dell’origine della libertà delle città Lombarde, p. 186), conchiude a ragione che questo Duce, anzichè un generale, fosse capo del governo nella Città e nell’intiero Ducato. Non puossi in veruna guisa dubitare che il Duce era reggitore della Roma di allora come Vicerè dell’Imperatore. — Mi giova qui introdurre l’osservazione che il secondo trimetro dell’iscrizione riferita in nota alla pag. 161, deve suonare così: Ῥὼμην τε φυλάξας ἀβλαβῆ καὶ τὴν δύσιν.
270. Hic exordio pontificatus sui calcarias decoqui jussit, et a porta S. Laurentii inchoans hujus civitatis muros restaurare decreverat, et aliquam partem faciens etc. Anast. in Gregorio II, n. 177.
271. Anast., n. 180, Paul. Diacon. De Gest. Lang., VI, 36, e Beda, De sex aetat. ad ann. 4671. Quest’ultimo direbbe ad Pontemolinum, ma è ben un errore di amanuensi posteriori. Il Pagi e il Muratori pongono la innondazione all’anno 716, il Baronio al 717, e così pure l’Index Ducum spoletan. et Abbat. Farfensium nel Mabillon, Mus. It. I, 2, 63.
272. Ducatum ei qualiter aggerent quotidie scribendo praestabat. Anast. n. 181.
273. Quod enim simulacrum Deo fingam, cum si recte aestimes, sit Dei homo ipse simulacrum?... Nonne melius est in nostra ima dedicandus est mente, in nostro imo consecrandus est pectore? È un bel passo nell’Octavius di Minucio Felice (Edizione di Parigi, 1605, pag. 367).
274. Concil. Illiberis, Can. 36: Placuit picturas esse in ecclesia non debere, ne quod colitur et adoratur in parietibus depingatur.
275. Nei primi secoli non fu costume di rappresentare il Cristo nudo in croce. Negli atrî antichi delle chiese di Roma non s’ebbe trovato mai un crocifisso; l’antico simulacro della Croce di Lucca rappresenta il Redentore vestito di tonaca lunga e decente, col diadema in capo. I mirabili vasi da olio bizantini che trovansi in Monza, ed i quali la regina Teodolinda ebbe in dono, rappresentano la storia della passione di Cristo, ma il Salvatore si eleva in gloria al di sopra della croce, e soltanto i due ladroni pendono dalle croci loro. L’uso del Crocifisso era ancora assai raro all’età di Gregorio. Alcuni anni fa si rinvenne nelle rovine del Palatino una caricatura pagana in colori, che rappresentava un Crocifisso colla testa d’asino.
276. Prudenzio (Inno IX a san Cassiano) ci fa però conoscere uno di quei quadri di martirî; chè, nella chiesa sepolcrale di Forum Cornelii (Imola), egli vide dipinta la storia di quel santo maestro di scuola che i suoi scolari pagani con loro stili da scrivere straziarono a morte. È questo il più antico cenno che io mi conosca di una pittura di quel genere; Prudenzio viveva nel secolo quarto. Dappoi, Paolino di Nola, al principio del secolo quinto, fece ornare la chiesa ch’egli consecrava a san Felice, con quadri di storie bibliche antiche e di martirî. Nel secolo sesto crebbero a gran numero i quadri nelle chiese.
277. Può essere che le prime finzioni di quei ritratti del Cristo appartenessero al secolo terzo, e fossero di origine gnostica. Agostino non conosceva alcuna imagine vera del Cristo: Qua fuerit ille facie nos penitus ignoramus — nam et ipsius Dominicae facies carnis innumerabilium cogitationum diversitate variatur et fingitur; quae tamen una erat, quaecumque erat. De Trinit. VIII, c. 4, 5, oper. III. — Alessandro Severo deve aver collocato il simulacro di Cristo nel suo Lararium (Lamprid. c. 29).
278. Et quidem zelum vos ne quid manufactum adorari possit, habuisse laudavimus, sed frangere easdem imagines non debuisse judicamus. Idcirco enim pictura in ecclesiis adhibetur, ut hi qui litteras nesciunt, saltem in parietibus videndo legant quae legere in codicibus non valent. S. Greg. Ep. 110, VII. Ind. 2. Pari linguaggio ei tiene scrivendo a Sereno Ep. 9, IX, e a Secondino, Ep. 54, VII, Ind. 2.
279. Cicero in Verrem, IV, c. 47, § 94: Herculis templum est apud Agrigentinos. — Ibi est ex aere simulacrum Herculis, quo non facile dixerim quidquam me vidisse pulchrius — usque eo, judices — ut rictum ejus ac mentum paulo sit attritius, quod in precibus et gratulationibus non solum id venerari, verum etiam osculari solent. Il piede del Pietro di bronzo in Vaticano, dai baci della gente è reso affatto aguzzo; il bacio prolungato del tempo distrugge i monumenti al pari del suo dente roditore.
280. Il Cancellieri, De sacrariis novae Basil. Vatic. p. 1503 segg. parla diffusamente di questa statua. Un’altra statua antica di Pietro e simile a questa, ma in marmo, stava sopra la porta maggiore della basilica, ed ora si trova nelle Grotte. Torrigio, Le sacre grotte Vatic., p. 73.
281. Imago cujuslibet Sancti aut Martyris, aut Angeli: Anastas. n. 184, Paul. Diac., VI. c. 49 e Theophan. Chronogr., p. 338.
282. Καὶ μαθὼν τοῦτο Γρηγόριος ὁ πάπας Ῥώμης τοῦς φόρους τῆς Ἰταλίας καὶ Ῥώμης ἐκώλυσεν. Anastasio, che erra nel tempo, parla soltanto della imposizione di un censo.
283. Omnis Italia consilium iniit, ut sibi eligerent Imperatorem, et Constantinopolim ducerent: Anast., n. 184.
284. Il racconto di Teofanio, p. 343, che il Papa eccitasse Roma e Italia tutta all’insurrezione (e seguono la sua fede Zonara e Cedreno) è un errore. Mi fa meraviglia che Gregorio nella sua lettera a Leone non accenni neppure a pensare che gli Italiani intendessero di eleggersi un novello Imperatore. La Vita Gregorii II dice che egli ammoniva i Romani: ne desisterent ab amore, vel fide Romani imperii. Il La Farina, Storia d’Italia, I, 215, dice con amore di patria affatto moderno: «non oprò da pastore, nè da amico d’Italia».
285. Petrum ducem turbaverunt oppure orbaverunt.
286. Questa è opinione sostenuta assai modernamente (dopo il Pagi) dal Sugenhein, Storia dell’origine e dello svolgimento dello Stato della Chiesa. È difficile di raccomandarla all’autorità di una fonte storica; io non ne conosco pur una.
287. Le due lettere (in greco e in latino) sono negli Act. Syn. II Nicaen. nel Labbé, VIII, 651. Il Baronio ne determina la data all’anno 726, il Pagi al 730, il Muratori al 729.
288. Afferma il Baronio che quella celebre imagine venne, dopo che Costantinopoli cadde in mano dei Turchi, di Edessa a Roma, dove oggidì si conserva nella chiesa di san Silvestro in Capite: Annal., ad ann. 944.
289. Εἱκοσιτέσσαρα στάδια ὑποχωρήσει ὁ ἀρχιερεὺς Ῥὼμης εἰς τὴν χώραν Καμπανίας, καὶ ὕπαγε διῶξον τοὺς ἀνέμους. È un passo difficile a decifrarsi; sembra che il Papa con sarcasmo e con esagerazione parli della debolezza di Bisanzio, che, tutto al più, poteva fidare nei suoi vascelli.
290. ὅν αἴ πᾶσαι βασιλεῖαι τῆς δύσεως θεὸν ἑπίγειον ἔχουσι. Il Baronio non legge neanche ὤς θεὸν. Dunque Pietro è dichiarato Dio, e tale lo proclama lo stesso Papa.
291. ὅτι βασιλεὺς καὶ ἱερεὺς εἰμι: nelle lettere medesime.
292. Paul Diacon., VI, c. 49. — Dal c. 54 si pare la presa di Ravenna, onde fa racconto Agnello nella Vita Johannis, p. 409. La successione di questi avvenimenti è più confusa che le vie d’un labirinto. Ad ogni modo, la presa di Ravenna dev’essere anteriore all’anno 730.
293. Facta donatione beatissimis Apostolis Petro et Paulo restituit atque donavit: Anast. Siamo entrati nel periodo delle così dette «restituzioni» e delle donazioni. Il Sugenheim, ecc., p. 11, dice: «Appare quindi che Sutri fu il primo embrione dello Stato della Chiesa oltre a Roma.»
294. A nec dicenda gente Longobardorum — è frase solita in bocca dei Papi per questo popolo a que’ tempi. La lettera del Papa indiritta a Orso, doge di Venezia, trovasi in Andrea Dandolo, nel Muratori, XII, nel Baronio ad ann. 726, e nel Labbé, Concil., VII, 177. Il Papa in essa dice: Ut ad pristinum statum sanctae Reipublicae in Imperiali servitio dominorum, filiorumque nostrorum Leonis et Constantini magnorum Imperatorum ipsa revocetur Ravennatum civitas, ut zelo et amore sanctae fidei firmi persistere, Domino cooperante, valeamus.
295. Cum cuncto clero, nobilibus etiam consulibus, et reliquis Christianis plebibus adstantibus decrevit: Anastas. in Gregor. III, n. 192. È il noto partimento dei tre ordini elettivi di Roma.
296. Sex columnas onychinas volubiles concessas ab Eutychio exarcho, duxit in ecclesiam b. Petri Apostoli. Meglio columnae stiratae, come opina il Vignoli.
297. Anche i Bizantini tornarono a coltivare fervidamente la pittura, e ottennero scusa in grazia del Panselinos, che fu il Raffaello di loro.
298. Monache fuggitive fondarono nell’anno 750 il convento greco di santa Maria in Campo Marzo, detto anche di san Gregorio Nazianzeno. Vedi la piccola Cronica del convento, data alle stampe nell’anno 1750.
299. A questo edificio si riferiscono alcune iscrizioni in marmo che trovansi nelle Grotte del Vaticano. Vedi il De Rossi, Due monumenti inediti spettanti a due concilii Romani de’ secoli VIII e IX.
300. Basilicam s. Dei Genitricis quae in Aquiro dicitur: Anastas. n. 201. Altri manoscritti hanno in Aciro, in Adchiro. Il Vignoli legge in Cyro. È assai difficile di poter pensare che il nome derivi dalle antiche corse equiriche di cavalli, da lunghissimo tempo obbliate: potrebbesi facilmente spiegarlo da quello di qualche romano Aquirio o Aquilio, che in origine avesse edificata questa chiesa nelle sue case.
301. Hujus temporibus plurima pars murorum hujus civitatis Romanae restaurata est. Alimoniam quoque artificum, et pretium ad emendam calcem de proprio tribuit: Anast. n. 202.
302. Τὰ δέ λεγόμενα πατριμόνια τῶν ἁγίων καὶ κορυφαίων ἀποστόλων τῶν ἔν τῇ πρεσβυτέρᾳ Ῥώμῃ τιμωμένων ταίς ἐκκλησίαις ἔκπαλαι τελούμενα χρυσίου τάλαντα τρία ἥμισυ τῷ δημοσίῳ λόγῳ τελεῖσθαι προσέταξεν: Teophan, p. 334. Di questa confisca fa menzione papa Stefano, Cod. Carol. Ep. VIII; 111 nel Cenni.
303. Il cardinale Deodato, sulla fine del secolo undecimo, raccolse nella sua Collezione (Cod. Vat. n. 3833), traendole dai Registri di Gregorio II, molte notizie sugli affitti di quei fondi; fra altro: Theodoro Consuli in annis XXVIII Insulam Capris cum monasterio S. Stephani, per la mercede di cento nove solidi d’oro e cento megarici vini. Al prete Eustachio era allogato il convento di san Martino in Sorrento; a una diaconessa il luogo detto Icaonia nella Campania; a Teodoro console il convento di san Pancrazio presso Miseno per la durata di ventotto anni. Borgia, Breve istor. del domin. tempor. ecc., Append. Docum. I.
304. Hujus temporibus Galliensium castrum recuperatum est — et in compage sanctae reipublicae atque in corpore Christi dilecti exercitus Romani annecti praecepit: Anast., n. 203. Di qui si pare che incominciavasi a denotare il popolo stesso sotto il nome di Exercitus. Peraltro è falsa assolutamente l’opinione del Cenni (Monum. Dominat. Pont., p. 14), che dice: Gregorius III sanctam republicam (locchè significa chiaramente Stato della Chiesa) instituit.
305. Dum — a Gregorio Papa, atque ab Stephano, quondam Patricio et Duce, vel omni exercitu Romano praedictus Trasimundus redditus non fuisset: Anast., n. 206, nel principio della Vita Zachariae. Il Vignoli legge invero patricio et duce omnis exercitus Romani, ma la lezione riportata di sopra è più antica, ed ha il carattere del tempo, laonde io mi vi conformo giusta il testo del Bianchini.
306. Accoglie questo fatto il Pagi ad ann. 726, n. 13, 14; è ben vero che la sua opinione si raccomanda soltanto ad una considerazione contenuta nel Lib. Pontif., Vita Steph. III, n. 235.
307. Con esse incomincia il Codex Carolinus, che è uno dei documenti più importanti della Storia e decoro della biblioteca di Vienna. Quella Collezione, ordinata da Carlo magno, contiene novantanove lettere dei papi Gregorio III, Stefano III, Zaccaria I, Paolo I, Stefano IV, Adriano I, e dell’antipapa Costantino; sono indiritte a Carlo Martello, a Pipino e a Carlo magno, e vanno dall’anno 739 al 794. La Collezione fu stampata nei Monum. Dominat. Pont. del Cenni e nel Cursus Completus Patrologiae, ed. Migne t. XCVIII; indi parecchie altre volte; modernamente fu di nuovo edita dal Jaffè. L’intitolazione di quelle lettere di Gregorio III è questa: Domno Excellentissimo filio Carolo subregulo Gregorius Papa.
308. Il Muratori (ad ann. 741) confuta il cardinale Baronio, il quale afferma, Liutprando avere assediato Roma e messo a sacco il san Pietro. Il Baronio, dal suo punto di vista, pretende ricavarlo da un passo della seconda lettera di Gregorio.
309. Populus peculiaris, frase fin qui inusata, che denota a pennello la novella epoca di Roma: il popolo romano divenuto proprietà e pecus di san Pietro.
310. Sacratissimas claves Confessionis B. Petri. Conosco gli scrittori e gli argomenti pei quali eglino sostengono che queste chiavi fossero di foggia diversa da quella delle chiavi che Gregorio sì di sovente spediva a Principi. Anche a me per fermo il significato del donativo sembra essere più elevato, e riferirsi in pari tempo alla protezione del sepolcro.
311. Nostris obedias mandatis, ad defendendam Ecclesiam, et peculiarem populum: lettera seconda.
312. Questo Cronista, pressochè contemporaneo, è il Continuator Fredegar. III, c. 110, nell’edizione di Gregorio di Tours fatta dal Ruinart: Eo enim tempore bis a Roma sede S. Petri ap. B. Papa Gregorius claves venerandi sepulcri cum vinculis S. Petri (ossiano schegge di ferro limato) — legationem — Principi destinavit. Eo pacto patrato, ut a partibus Imperatoris recederet, et Romanum Consulatum praefato principi Carolo sanciret. — Il Cenni, Mon. Dom. p. 2, segg., respinge ogni idea di questo consolato che il Ruinart afferma. L’Annalista di Metz, che scrisse cento sessanta anni dopo di Gregorio (Monum. Germ. I, ad ann. 741), senza discorrere di consolato, v’aggiunse parola di un decretum Romanor. Principum; e vi concorda quasi alla lettera il Chronic. Mossiacense ad ann. 734. — Il Ruinart, il Pagi e il Muratori perciò accolsero l’idea che il patriziato fosse conferito a Carlo Martello; e il Muratori vuol trovarne conferma nel passo della prima lettera di Gregorio che dice: Et ipsas sacratissimas claves confessionis B. Petri, quas vobis ad regnum direximus; cioè alla signoria, precisamente, di Roma. L’altra lezione ad Rogum (preghiera), manca di senso. Per parte mia prendo l’espressione ad regnum come affatto locale, e cioè ad regnum Franciae. L’espressione Regnum per Consulatus o Patriciatus repugnerebbe affatto ai concetti di quell’età.
313. Il Muratori a quest’occasione ommette di pronunciare il suo giudizio sull’arte politica romana, e dice: «tralascio altre osservazioni». — Anast. in Zacharia, n. 208.
314. Praedictas quatuor civitates, quas ipse ante biennium abstulerat (dunque nell’anno 740) eidem sancto cum eorum habitatoribus redonavit viro. Quas et per donationem firmavit in Oratorio Salvatoris, sito intra ecclesiam B. Petri apostoli: Anast. n. 210.
315. Ubi cum tanta suavitate esum sumpsit, et hilaritate cordis, ut diceret ipse rex, tantum se nunquam meminisse commessatum: Anast. — Il Lib. Pontif. narra che il Re camminò alla staffa del Pontefice per un mezzo miglio di strada. Questo fu dunque il primo di quegli atti di umiliazione, con cui i Re si abbassarono innanzi ai Papi. Similmente, più tardi anche Pipino fece a papa Stefano da vicestrator. Nella famosa donazione di Costantino, quest’Imperatore avrebbe assunto officio di palafreniere verso papa Silvestro: ἡμεῖς στράτορας ὀφφίκιον (!) ὑπελθόντες καὶ τὰ χαλινὰ τοῦ ἵππου αὑτοῦ κατέχοντες (Fabricius, Bibl. Graeca, t. VI, p. 6).
316. Ecco le notevoli parole con cui s’esprime Anastasio: relicta Romana urbe jam dicto Stephano Patricio et Duci ad gubernandum. Ripeto che io ritengo, questo Stefano essere stato un officiale greco; nè v’ha or bisogno di spiegare in che relazione egli si trovasse rispetto al Papa. Stefano fu l’ultimo Duce imperiale di Roma. La serie di questi Duci o Vicerè bizantini di Roma, che noi conosciamo, è la seguente: Cristoforo duce nel 711, Pietro nel 713, Basilio nel 717, Marino nel 718, Pietro nel 720, Stefano nell’anno 740. — Vedi l’annotazione del Baldini ad Anastasio, Vita Constant., t. IV, p. 616, cui io nulla posso aggiungere.
317. Lo narra il Biografo del Papa con ingenua serietà.
318. Parti reipublicae restitueret: qui dunque per respublica s’intende ancor sempre l’Impero romano. Ma nell’anno 764, papa Paolo I parla già di una pars nostra Romanorum (Cod. Carol., XXIV, nel Cenni XXXVIII).
319. Vedi il Sigurd Abel, Della caduta del reame dei Longobardi in Italia, Göttingen 1859, p. 22.
320. Philipps, Diritto ecclesiastico, III, 34.
321. Nella bolla di Adriano, dove trattasi di alcuni beni del monastero di Farfa (dell’anno 772), è detto: Imperantibus domno nostro piissimo Augusto Constantino a Deo coronato magno Imperatore, etc. Di Gregorio III e di Zaccaria si hanno parecchi Acta con quella formula cronologica.
322. Donationem in scriptis de duabus massis, quae Nymphos et Normias appellantur, juris existentis publici eidem sanct. et beat. Papae S. Romanae eccl. jure perpetuo direxit possidendas: Anast. n. 220. — Le mura ciclopiche di Norba, terra dei Volsci, destano, oggidì ancora, meraviglia. Il luogo rimase deserto, e in vicinanza ad esso fu edificata Norma. Lasciata anche questa in abbandono, sorse più al di sotto Ninfa; ma essa pure cadde, simile a un sepolcro vaghissimo tutto ricoperto d’edera, e in quello stato oggidì pure si mira. Sembra che nel secolo ottavo Ninfa fosse abitata, non Norma; ed è probabile che la paura di assalimenti dei Saraceni, costringesse il popolo a ricoverarsi nuovamente in Norma ch’era terra forte. Vedansi il Westphal e W. Gell ai luoghi relativi.
323.
Vides ut alta stet nive candidum
Soracte. —
Horat. I, 9.
Summe Deum, sancti custos Soractis Apollo etc.
Virgil. Aeneis XI, 785.
324. Ne parla anche Adriano nella sua lettera indiritta all’imperatore Costantino e ad Irene, Acta synod. II Nicaen., Labbé VIII, p. 750: misit ad montem Soractem, ubi S. Silvester — persecutionis causa — receptus etc.
325. San Gregorio (Dialog. 1, c. 7) lo descrive posto sul vertice del monte, ma non lo appella da san Silvestro. Su una delle pendici del monte era un convento dedicato a santo Erasmo (Gregor., Ep. 24, I, Ind. 9). Incerto è quando avesse origine il nome di santo Oreste: quel nome derivò da una iscrizione ivi rinvenuta SORACTE..., da cui la furba ignoranza del medio evo costrusse un santo, S. ORESTE. Per un ricovero di uomini penitenti il nome di Oreste sa di classicume, e tocca nel segno.
326. Pipino donò più tardi il chiostro maggiore al Papa, che lo congiunse a quello di san Silvestro in Capite di Roma. La bolla di Paolo è nel Cod. Carol. XII, nel Cenni, XXXII; Mabillon, Annal. Bened., XXII. n. 12: sulla donazione di Pipino vedasi ancora il Cod. Car. XVI, nel Cenni, XLI. — Eginardo, nella Vita di Carlo c. 2, dice: Monachus factus est in monte Soracte apud ecclesiam S. Silvestri constructo monasterio. I Cronisti appellano il monte col nome di Zirapti e Sarapte; così anche la Cronica del monaco Benedetto che è del secolo decimo (Mon. Germ., V, dal 693 al 719).
327. Anast. n. 223. Leo Ostiensis, Cronic. Casin., lib. I, c. 7 e 8. Di altri Principi che intorno a questo tempo si fecero monaci, si citano Unoldo di Aquitania e Anselmo di Friuli, fondatori del celebre convento di Nonantola presso Modena.
328. Il Sigurd Abel accenna che Rachi avea leso il sentimento di nazione dei Longobardi con donazioni fatte secondo il diritto romano, e dimostra che quel popolo lo lasciò cadere allorchè egli uscì di sua via per le insinuazioni del Papa. Della caduta del reame dei Longobardi, p. 23.
329. Il Cod. Carol. contiene una sola lettera di papa Zaccaria a Pipino maggiordomo, ai Vescovi ed ai Principi di Francia: è dell’anno 758, ma riguarda soltanto cose di Chiesa.
330. Con Pipino incominciano le idee di teocrazia. Fu il primo ad appellarsi re per grazia di Dio. G. Waitz, Storia della costituzione germanica, III, p. 198.
331. Le Cointe, Annal. Eccl. Francor., ad ann. 752.
332. Se ne trova il disegno nel Severano: delle sette chiese I, 535. Fu fatto dall’architetto Francesco Contini che lo trasse dalla pianta della Città del Buffalini, da disegni esistenti nel san Pietro in Montorio e nella biblioteca Vaticana, e da tradizioni. Lascio ai Topografi la descrizione di quel labirinto, e rimetto il lettore anche alla Tav. XXXVII delle Basiliche di Roma Cristiana del Gutensohn e del Knapp.
333. Ducitur ad palatium Zachariae Papae, quod vulgariter dicitur Casa major: Ordo Roman. XIV, nel Mabillon, Mus. Ital. I, 260.
334. Fecit autem a fundamentis ante scrinium Lateranense porticum atque turrim etc. Anast. n. 218.
335. La voce tecnica è vela — vela serica alytina da ἄλυτος, insolubilis, oppure da ἀλήθινος. Che sia esatto?
336. Del Registro degli affitti di Gregorio II ho già parlato. Questo Pontefice, intorno al 715, costituiva a beneficio delle lampade del san Pietro una fondazione, colla dotazione di quarantotto possessioni che si estendevano fin verso Anagni. La iscrizione marmorea antica che vi è relativa è oggi infissa nel muro nell’atrio del san Pietro; la bolla ne è stampata nel Bullar. sacr. Basil. Vaticanae, I, 7. Tutti quei terreni avevano cultura di oliveti.
337. Il Catalogo delle tenute dell’Ager romanus dell’Eschinardi cita: Fontignano in san Paolo. — Di queste fondazioni fa parola il Lib. Pontificalis. Si veda l’art. Laurentum nel Nibby, Analisi de’ dintorni di Roma.
338. Per vero lo si chiama anche Stefano III, se si conta il suo antecessore fra quelli che furono ordinati papi.
339. Il Muratori ha determinato questa data sul fondamento di un diploma del convento di Farfa promulgato da Astolfo, e dato: Ravennae in Palatio, IV die m. Julii A. feliciss. regni nostri III, per Indict. IV feliciter., nelle Antiq. Ital. Diss. 67; nel Fatteschi, N. X, 264 e nel Fantuzzi, t. V, n. VIII. La monca Storia di Agnello tace di un avvenimento tanto importante.
340. Et suae jurisdictioni civitatem hanc Romanam, vel subjacentia ei castra subdere indignanter asserebat. Il Lib. Pontif., da questo tempo in poi, contiene notizie abbastanza precise e accertate. Vedi anche il Cronic. Vulturnense, lib. III, 401, ed il Muratori, Script., I, p. 2.
341. Il celebre convento di san Vincenzo sul Vulturno, nella diocesi d’Isernia, fu fondato da tre fratelli longobardi, Tato, Taso e Paldo intorno al 703. Per qualche tempo contenne dai cinquecento frati: Paol. Diacon., IV, c. 40, e la Cronaca del convento edita dal Muratori, che la trasse dalla biblioteca Barberina.
342. Deprecans imperialem clementiam, ut juxta quod ei saepius scripserat, cum exercitu ad tuendas has Italiae partes, modis omnibus adveniret etc. Anast. n. 232.
343. Procaedens in laetania cum sacr. imagine Domini Dei et Salvatoris nostri Jesu Christi, quae acheropita nuncupatur: Anast. n. 233. È la prima volta che si faccia menzione di questa antica imagine. È dipinta in tavola; la figura è di colore oscuro, con barba, tutta di stile bizantino. Se ne trova la copia nel Marangoni, Istoria della Cappella di Sancta Sanctorum, Roma, 1747. — Durante tutto il medio evo s’adoperò nelle processioni; e alla vigilia dell’Assunta la si lavava nel Foro, come un tempo la statua di Cibele si mondava nelle acque dell’Almo (Ordo Roman. XI, nel Mabillon, Mus. It., II, 151). Vedi Andrea Fulvio, Ant. Rom. I, de Ostia in sulla fine, il Martinelli, Roma ex ethn. sac. p. 157 ed il Marangoni, Cose Gentil. c. 28, 105. La processione notturna fu bandita soltanto da Pio V, poichè la si avea tramutata in baccanale.
344. A ciò si riferiscono le due lettere di Stefano a Pipino (Cod. Carol. X) ed ai Duchi del popolo franco (XI), che il Cenni opportunamente ordinò a loro posto.
345. Jussionem imperialem, dice Anastasio collo stile d’uso.
346. Commendans cunctam dominicam plebem bono pastori Domino nostro, etc. La espressione Dominica plebs, spesso usata nel Cod. Carol. per significare i Romani, ha una nota assai efficace, come quella di peculiaris populus.
347. Nel convento di san Maurizio moriva di febbre Ambrogio, primicerio. Il suo barbarico epitaffio (nelle cripte del Vaticano) dice: Ex hac urbe processit suo secutus pastorem In Roma salvanda utrique petebant regno tendentes Francorum Sancta perveniens loca B. Mauritii aulae secus fluvii Rhodani Litus ubi vita noviliter ductus finivit mense Decemb. etc. etc. Galletti, del Primicer., p. 41. Preferisco leggere ductus anzichè doctus.
348. Il Jaffé, Regesta Pontif. Rom., fissa ai 14 di Aprile la data del trattato di Carisiaco. Il Fantuzzi, Mon. Ravenn. VI, n. IC, riporta il documento della donazione ch’è notoriamente falso.
349. Lo significa manifestamente anche Stefano III (a. 770) nella sua lettera a Carlo e a Carlomanno (Cod. Carol. 45, nel Cenni 49): vos b. Petro, et praefato vicario ejus, vel ejus successoribus spopondisse, se amicis nostris amicos esse, et se inimicis inimicos, sicut et nos in eadem sponsione firmiter dinoscimur permanere. E Paolo I parimenti protesta (Cod. Carol., XVI, nel Cenni, XLI e nella lettera successiva). Così Pipino assunse la defensio et exaltatio Ecclesiae nel senso spirituale e in quello temporale, come si pare da passi innumerevoli delle lettere di Paolo.
350. Pipino è denotato soltanto col predicato di Defensor o Protector. Vedasi nel Cenni, a pag. 74, 79, 82, 141, 146, 150, 160, 167, 170, 181, 182, 183, 184, 187, 189, 190, 191, 196, 199, 208, 210, 212, 220, 222, 227, 233 ecc.; sempre defensor! — Io respingo l’opinione del Ducange che già fin d’allora il Patriziato fosse un dominium. — Il Borgia, Breve Hist. ecc., p. 51 e Memor. stor. di Benevento, p. 13 e segg., nel Patriziato vede l’avvocazia della Chiesa, e ciò per il tempo di Pipino è esatto. — Anastasio avvisatamente non fa cenno neppur una volta della elezione dei Re a Patrizî. Anche il Mabillon, De re diplom., II, c. 3, 73, afferma che Stefano fe’ Pipino patrizio soltanto a titolo di onoranza. — Il diploma di fondazione di san Silvestro in Capite (nel Giacchetti, Hist. di s. Silvestro de Capite, p. 16), che senza dubbio è falso, dà a Pipino il titolo di Defensor Romanus; allora per certo si avrebbe detto: Defensor S. Dei Ecclesiae Romanae.
351. Qualiter patricius sit faciendus. Nell’Ozanam, Document. inédits etc., p. 482. La stessa formula è riportata testualmente nel Glossar. del Ducange, che la trasse da un Cod. Vatic. di Paolo Diacono, De Gest. longob.: trovasi anche nel Mabillon, De re dipl., c. IX, n. 3. — Su quest’argomento è da confrontarsi Constant. Porphyrog., De Cerimon. Aulae Byz., I, 47, p. 236 segg. Le indagini moderne attribuiscono a ragione quella formula al tempo degli Ottoni. Vedi il Floril. del Mus. Ren. per la Giurispr., V, 123, Carlo Hegel ecc., I, p. 316 e il Giesebrecht, Stor. dell’Impero ted., I, 812.
352. Sub terribili — sacramento, atque in eodem pacti foedere per scriptam paginam affirmavit se illico redditurum civitatem Ravennatium cum aliis diversis civitatibus: Anast., n. 248.
353. Cod. Carol. VII, IX, nel Cenni VI, VII. Non può muoversi dubbio di sorta sul documento della donazione: et necesse est, ut ipsum Chirographum expleatis. Le forme usate per esprimere la restituzione sono: reddere et contradere.
354. Si afferma che il Papa riferisse la «restituzione» alla Republica nazionale italica o romana, perciocchè la conquista di Ravenna avvenuta sotto Giustiniano fosse stata un’usurpazione: ma allora la signoria greca, massime dopo Belisario, sarebbe stata sempre usurpazione, e sarebbe contraddizione inesplicabile che ancora Stefano II, e i suoi succeditori fino a Carlomagno avessero prestato ossequio all’Imperatore di Bisanzio, come a capo legittimo di tutto lo Stato romano anche in Italia. Vedi quell’opinione esposta nella Dissertazione del Döllinger: L’Impero di Carlomagno e dei suoi successori, negli Ann. istor. di Monaco, 1865.
355. Vestra melliflua bonitas, vestris mellifluis obtutibus, nectareas mellifluasque regalis Excellentiae vestrae syllabas. Al culmine dei barbarismo è l’espressione deifluo «che sgorga da Dio.» Il Christianissimus è predicato del Re dei Franchi, già in uso.
356. Ut princeps Apostol. suam justitiam suscipiat — frase accorta che abbraccia titolo di diritto e di possesso. La usano anche i Cronisti tedeschi.
357. Cod. Carol., IV, VI; nel Cenni, VIII, IX. Non si fa menzione degli Spoletini; però essi erano compresi nelle Tusciae partibus.
358. Praefatus vero Warneharius — ut bonus athleta Christi decertavit totis suis viribus: sulla chiusa delle due lettere.
359. Pestifer Aistulfus — nam et multa corpora sanctorum effodiens, eorum sacra mysteria ad magnum animae suae detrimentum abstulit. Anast. n. 249. Accenno di volo soltanto, che nell’anno 653 alcuni monaci franchi ebbero rubato da Monte Cassino, allora abbandonato, le salme di Benedetto e di Scolastica, e le portarono nelle Gallie. Vedi il Muratori, Antiq. med. aevi, V, p. 6, segg. Le Catacombe di Roma saccheggiate dai Longobardi furono del resto ancora aperte ai visitatori fino al secolo nono. Soltanto dopo di quel tempo, e fino al secolo decimoquinto, rimasero obliate e caddero in rovina tale che se ne dovette indi fare quasi nuova scoperta. Vedi il De Rossi, Introduzione alla sua Roma sotterranea cristiana.
360. Così dice il Fleury, Hist. Eccl., an. 755, n. XVII: L’Église y signifie non l’assemblée des fidèles, mais les biens temporels consacrés à Dieu; le troupeau de Jésus-Christ sont les corps, et non pas les âmes — et les motifs les plus saints de la religion employés pour une affaire d’état. Il Muratori abbandona «questa delicata materia» al Francese, e dice soltanto: «Certamente nulla è più capace di travolgere le nostre idee e di farci nascere in mente delle dolci e strane immaginazioni, che la sete e l’amore de’ beni temporali, innata in noi tutti.»
361. Cod. Carol., III, nel Cenni X: Petrus vocatus Apostolus a Jesu Christo Dei vivi filio... vobis viris excellentissimis Pippino, Carolo et Carolomanno tribus Regibus, atque sanctissimis Episcopis, Abbatibus, Presbyteris, vel cunctis generalibus exercitibus et populo Franciae. L’antica lezione di Anastasio: subtili fictione Pipino — intimavit etc. si acconcia ottimamente a questa lettera, ma il Vignoli la corregge, certo rettamente, così: subtili relatione etc.
362. Sono frasi della lettera medesima: Ne lanientur, et crucientur corpora, et animae vestrae in aeterno atque inextinguibili tartareo igne cum diabolo, et ejus pestiferis Angelis etc.
363. La rivelazione di questi secreti diplomatici la dobbiamo a due passi dell’ingenua narrazione che leggesi in Anastasio, n. 250.
364. Anastasio, nella biografia di Stefano, narra questi fatti con bella chiarezza: Asserens isdem Dei cultor, mitissimus Rex, nulla penitus ratione easdem civitates a potestate beati Petri et jure Ecclesiae Romanae, vel Pontificis Apostolicae Sedis quoquomodo alienari etc.
365. Opina il Sugenheim che Pipino concedesse al Papa soltanto l’utile Dominium; il Muratori non si decide, ma propende a questa sentenza. Il Pagi dà al Papa il dominio assoluto; non occorre dire del Baronio, nè del Borgia, del Cenni e dell’Orsi. Il Le Cointe, il De Meo e il De Marco assennatamente affermano che continuasse la signoria suprema di Bisanzio, ed io son certo che essa durasse in quell’età quale principio regolatore. Per quanto finalmente concerne l’apocrifo documento della donazione di Pipino, che il Fantuzzi riporta nei Monum. Ravenn., VI, 99 (a Lunis cum Corsica etc. fino a Benevento), non v’ha bisogno oggidì di fare pur parola.
366. L’avvenimento della donazione, oltre che da Anastasio, è confermato da due lettere di Stefano II, nelle quali egli parla di donationis pagina e di chirographum. (Cenni, Monum. I, 74, 81; Sugenheim, p. 23). Il Döllinger respinge l’opinione che Pipino abbia fondato un principato ecclesiastico (nella Dissertaz. soprad.). Il Philipps (Diritto eccles., III, p. 48) afferma senza fondamento, che Pipino abbia elevato a esistenza giuridica la sovranità del Papa nell’Esarcato, dove già esisteva di fatto. Il Waitz (Storia della Costituzione germanica, III, p. 81) concepisce quegli avvenimenti nel senso che il Vescovo romano abbia ricevuto la cessione delle conquiste di Pipino per conto dell’Impero, e quale vicario di questo, ma nel tempo stesso anche a favore della Chiesa, che con quello consideravasi legata di associazione strettissima. Questa opinione, divisa anche dal Döllinger, si concilia colla mente politica di quell’età. — Vedremo più tardi quanto ristretti fossero i diritti di signoria territoriale che Carlo, continuatore della opera di Pipino, concesse al Pontefice. — La opinione espressa dall’Eichorn (Storia del diritto e dello Stato germanico, quarta ediz. I, p. 537), che al Papa, come patrizio di Ravenna, fosse trasferita la podestà fino allora tenuta dall’Esarca, è meno contendibile dell’altra sua opinione, che già Pipino ricevesse pari autorità su Roma e sul Ducato. Quanto poca autorità egli ivi esercitasse lo dimostrerà ciò che vedremo in seguito. Anche il Savigny (Storia del diritto romano, I, 360) al Papa attribuisce autorità di Esarca; egli afferma che la donazione fu fatta alla Chiesa ed alla Republica romana, e che per questa ultima non s’intendeva la città di Roma, ma l’Impero romano occidentale antico, che gli Imperatori bizantini avevano usurpato; della restaurazione dell’Impero occidentale s’avrebbe già coltivato il disegno.
367. Ne sono memorabili esempli le donazioni di Subiaco e di Monte Cassino.
368. Etenim tyrannus ille, sequace diaboli, Haistuplus devorator sanguinum Christianorum, Ecclesiarum Dei destructor, divino ictu percussus est, et in inferni voragine demersus... Cod. Carol., VIII, nel Cenni, XI. — Quando, cinquecent’anni dopo, morì Federico II, che fu il grande nemico del Papato politico, Innocenzo IV osannò alla sua morte con parole simili (Laetentur coeli, et exultet terra): sempre eguali durarono gli odî del prete e le condizioni di Roma.
369. Sed valde dilexit Monachos, et in eorum est mortuus manibus. Anonym. Salernit.
370. Et praedictus Fulradus venerabilis cum aliquantis Francis in auxilium ipsius Desiderii, sed et plures exercitus Romanorum si necessitas exigeret... Anast., n. 255.
371. Annuente Deo rempublicam dilatans... Anast. Nel Cod. Carol., XXXVI, nel Cenni XV, si legge (p. 144): dilatationem hujus provinciae, locchè manifestamente si riferisce al Ducato: e Roma e il Ducato nel Cod. Carol., XX, nel Cenni, XXXVII, sono detti: haec miserrima et afflicta provincia. Con Imola e colle dette città, Desiderio doveva restituire anche Osimo, Ancona, Numana, Bononia. Tutti questi luoghi mancano nella enumerazione data da Anastasio (n. 254) per quelli donati da Pipino; locchè dimostra che il sopraddetto Anastasio non ebbe innanzi ai suoi occhi il documento di quella donazione di Pipino.
372. È la prima delle trentuna lettere di Paolo, nel Cod. Carol., XI, nel Cenni, XII.
373. Cod. Carol., XXVII, nel Cenni, XIII: preciosissimum — munus attulit, Sabanum videlicet.
374. Cod. Carol., XXXVI, nel Cenni, XV: nos — firmi, ac fideles servi S. Dei Ecclesiae, et praefati ter beatissimi, et coangelici spiritalis patris vestri, Domini nostri Pauli etc. — fovens nos, et salubriter gubernans... Pipino invece è chiamato: noster post Deum defensor, e auxiliator.
375. Domno excellentissimo, atque praecellentissimo, et a Deo instituto magno Pippino Regi Francorum, et Patricio Romanorum, omnis Senatus, atque universa populi generalitas a Deo servatae Romanae civitatis. Il Muratori a torto pone la lettera all’anno 763.
376. Il Papa mandavagli alcuni libri in dono: Antiphonale et Responsale — Grammaticam Aristotelis, Dionysi Areopagitae libros, Geometriam, Orthographiam, Grammaticam etc.: Cod. Carol., XXV, nel Cenni, XVI, 148. — Oltracciò, Paolo mandava a Pipino una spada di gran prezzo, esempio primo della consecrazione della spada, che è in uso anche oggidì; e ai Principi spediva anella di gran valore (Cod. Carol., XV, nel Cenni, XVIII, 159). — La spada significa la missione militare di Pipino. Nelle incoronazioni degli Imperatori, avvenute nei tempi posteriori, il Papa toglieva dall’altare del san Pietro una spada nuda, e ne cingeva l’Imperatore qualificandolo Defensor della Chiesa e Miles di san Pietro. Vedine il rito nell’Ordo Roman., XIV; nel Mabillon, Mus. Ital., II, 402.
377. Più tardi il Cardinale cospirava con Bisanzio, e il Papa pregava il Re di confinarlo come Vescovo in qualche remota Città del suo Stato. Cod. Carol., XXV e XXXIX, nel Cenni, XVI e XIX.
378. Questo emerge dalle lettere di Paolo: Cod. Carol., XV, nel Cenni, XVIII: sicque Spolentinum et Beneventanum, qui se sub vestra a Deo servata potestate contulerant.
379. Questa città, già fin d’allora, era appellata Otorantum (Otranto).
380. Vedi questa lettera nel Cod. Carol., XIX, nel Cenni XVII.
381. Lettera XV, nel Cenni, XVIII: Sed bone Excellentissime fili, et spiritalis compater, ideo istas literas tali modo exaravimus, ut ipsi nostri missi ad vos Franciam valerent transire.
382. A ciò si riferisce la lettera XXI, nel Cenni, XX. Invece dell’anno 759, il Muratori assume l’anno 760 e l’Indizione 13: lo segue il Troya, Cod. Dipl. Long., tom. V, n. DCCXL.
383. Non ob aliud nefandissimi nos persequuntur Graeci, nisi propter sanctam et orthodoxam fidem etc. Cod. Carol., XXXIV, nel Cenni, XXV.
384. Questo dubbio è espresso dal Muratori, Annal. ad ann. 759, 762. Egli si meraviglia inoltre che Paolo parli soltanto degli armamenti dei Bizantini contro Ravenna, e mai non parli di Roma. Eppure v’è un passo dove si discorre di disegni di guerra non unicamente contro Ravenna. Cod. Carol., XXXIV, nel Cenni, XXV: Graeci — super nos, et Ravennatium partes irruere cupiunt.
385. Delle intenzioni dei Bizantini, oltre alla lettera sopraddetta, parlano anche la XXVIII, nel Cenni, XXVI, e la XXIV, nel Cenni, XXXVIII.
386. Quod sex Patricii deferentes secum trecenta navigia, simulque et Siciliensem stolum, in hanc Romanam urbem absoluti a Regia Urbe ad nos properant. Ibid.
387. Anast. Vita Gregor. III, n. 194. Il Panvinio (De Basil. Vatican., III, c. 8, nel tom. IX Spicileg. Roman.) dà i nomi dei conventi, traendoli da una iscrizione marmorea di Gregorio III, esistente nel suo Oratorio. Vedi il De Rossi, Due docum. inediti, tav. II, e il Cancellieri, De Secretariis novae B. Vat., p. 1484. — Il nome Cata Galla Patricia si spiega da una proprietà di Galla, figlia del patrizio Simmaco, che visse da monaca presso il san Pietro. Di quest’opinione io trovo conferma nelle notizie, sebbene confuse, che sono offerte dal Chronicon Benedicti di Monte Soratte, il quale, intorno all’anno 1000, sa narrare: ad omnipotentis Dei servitium sese apud b. Petri ap. ecclesia in monasterio tradidit.
388. Stefano lo edificò a rendimento di grazie del viaggio che egli compiè felicemente quando andò a Pipino. Il Frodoard (De Stephano II Papa, in Dom. Bouquet, V, 442) dice di esso: Papa Deo grates referens, turrim erigit aulae, Argentique colens radiis investit et auri. Aere tubas fuso attollit, quibus agmina plebis Admoneat laudes et vota referre Tonantis. — È noto che il primo uso delle campane nelle chiese è attribuito a Paolino di Nola; tuttavia, prima del secolo settimo, non vi si adoperavano campane di gran dimensione. Vedi il Baronio, ad ann. 614. — L’Audoen, Vita S. Eligii, anno 650, usa del nome campanae; parimenti il Beda intorno all’anno 700. Si soleva adoperare la frase: signa pulsare ad missam publicam. I frati fecero uso generale delle campane dopo il 740. Vedi Gio. Batta Casali, De profan. et sacris veterib. Ritibus, Romae, 1644, p. 236.
389. Del campanile di Stefano presso il san Pietro danno notizia il Cod. Freher. e Thuan., II del Lib. Pontif.
390. Pietro stesso avrebbe dato sepoltura alla sua figliuola, e sul sarcofago di lei avrebbe scritto: Aureae Petronillae filiae dulcissimae. Tertulliano e Gerolamo parlano della moglie di lui. — La leggenda narra che Flavio, nobile pagano, avesse chiesto in isposa la bella giovinetta; ella chiedeva tre giorni per decidere; li passava nella preghiera, e moriva.
391. Sul cimitero di Petronilla vedasi il Boldetti, Osservaz. sopra i Cimiteri de’ Ss. Martiri, II, c. 18, p. 551. — Già in sul 600 si parla dell’olio miracoloso della lampada di Petronilla, e nel catalogo di questi olii che trovasi nel Marini, Papiri ecc., p. 208, dicesi addirittura: Sce Petronillae filiae Sci Petri Apost...
392. Il Lib. Pont. dà al luogo dell’edificio il nome di Mosilius, che significa Mausoleum (Severano, Le sette chiese, p. 92). Il Cancellieri (De secretar. Veter. Bas. Vatican.) a questa chiesa rotonda di Petronilla ha dedicato una lunga ed erudita dissertazione, e decisamente smentì l’opinione ch’essa avesse origine dal favoleggiato tempio di Apollo.
393. Infra autem sacrati corporis auxiliatricis vestrae B. Petronillae, quae pro laude aeterna memoriae nominis vestri nunc dedicata dinoscitur. Cod. Carol., XXVII, nel Cenni, XIII.
394. La positura del luogo è descritta nel secolo decimo da Benedetto, monaco di Soratte, in questo modo: Stephanus — cepit hedificare domum ecclesiam; in onore S. Dionisii, Rustici et Heleutherii, in hurbe Roma, juxta via Flaminia, et ereio (horologium di Augusto?) non longe ab Agusto, juxta formas species decorata, sicut in Francia viderat (Mon. Germ., V, c. 20). — Agusto è il mausoleo di Augusto, e può darsi che esso, nel secolo decimo, fosse appellato Agosta. Io attribuisco importanza a ciò, che Benedetto associa la fondazione di Stefano col soggiorno da lui fatto in Francia.
395. Ubi et Monachorum congregationem construens, Graecae modulationis psalmodiae Coenobium esse decrevit: Anast., Vita Pauli, n. 260. — Nell’archivio di san Silvestro si conserva il diploma di fondazione scritto in pergamena di dubbia origine, che fu completamente stampato nel Labbé, Concil. VIII, p. 445. Di questa chiesa scrisse distesamente, ma senza lume di critica, il Carletti, Memorie storiche critiche.
396. Il convento chiamossi anche Cata Pauli dall’abitazione di Paolo I; ed anche inter duos hortos. — Il Lib. Pontif. attribuisce a Paolo l’edificazione di una chiesa agli apostoli Pietro e Paolo, presso il tempio di Roma, nella via Sacra. Il suo luogo deve essere stato là dove s’eleva oggidì santa Francesca Romana, non lungi dall’arco di Tito, sulle ruine del gran tempio di Venere e di Roma.
397. Omnes eum derelinquentes, nisi ego: così dice Stefano III nel Concilium Lateranense, ann. 769, ed. Cenni, Rom. 1735, p. 4. — Paolo I fu lodato perchè era padre di tutti i poverelli, e di notte tempo visitava le carceri per liberarne coloro che erano condannati a morte: questo prova che, a rincontro dei tribunali, spettava al Papa diritto di grazia. Sed et carceres, atque alia claustra per eadem noctium secreta visitabat. Et si quos ibidem conveniebat retrusos a mortis eruens periculo liberos relaxabat: Anast., 258. Similmente riscattava spesso i debitori a jugo servitii: durava quindi ancora la prigionia per debiti.
398. Questi fatti escludono che Pipino esercitasse un’autorità diretta su Roma. Oltre al Lib. Pontif., è di grande rilievo per la storia di questi avvenimenti un frammento notevole degli Atti del concilio Lateranense dell’anno 769, edito per la prima volta da Gaetano Cenni e completamente dal Mansi, Suppl. Concil., I, 642. Di Toto è detto: quidam Nempesini oppidi ortus Toto nomine...
399. Ex improvisa enim violentia, manu a populorum innumerabili concordantium multitudine, velut valida aura venti raptus, ad tam magnum et terribile Pontificatus culmen provectus sum. Unde sicut navis aequoreis procellis fluctuatur, ita ego infelix etc. Le due lettere di Costantino leggonsi nel Cod. Carol., 98, 99.
400. Si leggano i sopraddetti Atti di quel Concilio dell’anno 769.
401. Per muros civitatis cum flammula ascendebant, metuentes Romanum populum, et nequaquam de Janiculo ipsi Longobardi ausi sunt descendere, n. 258. La flammula, dice il Vignoli in nota, era una banderuola purpurea che usavasi quale segno in campo; quello Scrittore ricorda la orifiamma dei Re francesi.
402. Sicque praefatus Christophorus alia die aggregans in tribus fatis sacerdotes, ac primates cleri, et optimates militiae, atque universum exercitum, et cives honestos, omnisque populi Romani coetum a magno usque ad parvum: Anast., n. 271.
403. Stefano III fu eletto addì 1 di Agosto, e consecrato nel dì 7 di Agosto: Jaffé, Reg. Pontif.
404. Nam Constantinus invasor apostol. Sedis, dum deductus ad medium esset, et magna pondera in ejus adhibentes pedibus in sella muliebri sedere super equum fecerunt, et in Monasterium Cella novas coram omnibus deportatus est: Anast. in Stephano, n. 272. Stando al Martinelli ed al Catalogus Ecclesiar., questo chiostro di monaci greci s’ergeva presso la chiesa di santo Saba, che fu un abate di Cappadocia morto intorno al 532: il luogo era detto Cella nova, ed ivi erano le case possedute dalla madre di Gregorio magno.
405. Gratiosus tunc Chartularius, postmodum dux: Anast., n. 269.
406. Nel manoscritto D., edito dal Muratori, è detto: et Campaniae pergentem Alatro partem Campaniae ubi erat, come suppone il Papencordt nella sua Storia della città di Roma nel medio evo, a pag. 93. — Precisamente quando io era giunto alla conchiusione di questo secondo volume (nell’anno 1858) mi giunsero sott’occhio i materiali lasciati dal Papencordt e pubblicati dall’Höfler. La profondità degli studî di quel valentuomo prometteva un’opera di grande rilevanza, sebbene il Papencordt si restringesse alla sola parte d’argomento politico. Ma l’erudito scrittore fu rapito dalla morte nell’incominciamento della sua carriera, e fu perdita grave della scienza, che io in particolarità amaramente deploro. A lui s’appartiene la gloria di essere stato il primo a concepire l’idea di questa difficile impresa. Il suo disegno, simile a quello originario del Gibbon, era ignoto anche a me, allorchè nell’autunno dell’anno 1852 volsi il pensiero a quest’opera, e quando nell’anno 1855 ne impresi lo eseguimento. Dappoi, le mutazioni politiche d’Italia diedero nuova importanza allo studio del medio evo di Roma, che per lungo tempo fu negletto, e i lavori della sua storia si vanno estendendo ognora più. Nell’anno 1865 il Dyer publicò una History of the City of Rome, e nel 1867 A. di Reumont diede alle stampe i due primi volumi della sua Storia della città di Roma, che si stenderà dalla fondazione della Città fino alla età odierna, e, per gli avvenimenti di questi periodi di tempo, offrirà un quadro generale, giovevole per la gran moltitudine dei lettori. Pertanto, da un dieci anni a questa parte venne in vita una nuova letteratura in argomento della «Storia della città di Roma.»
407. Presso il Colosseo. Con questo nome per la prima volta Anastasio appella l’anfiteatro di Tito.
408. Eumque in teterrimam retrudi fecerunt custodiam, quae vocatur Ferrata in cellario majore: Anast., n. 274. Era un carcere munito di cancellata di ferro; la transenna, ossia andito presso il Laterano, fa argomentare che ivi una prigione esistesse. Si fa spesso cenno delle cellae o cellaria del Laterano, cantine o volte, ove si custodivano le vettovaglie, ed alle quali presiedeva il Paracellarius.
409. Vedi nel Mansi il frammento sopra citato, e consulta anche il Labbè, Concil., tom. VIII, 483. Anast. dà soltanto la narrazione delle cose di maggior rilievo.
410. Ita coram omnibus professus est, vim se a populo pertulisse, et per brachium populi fuisse electum, atque coactum in Lateranense Patriarchium deductum propter gravamina, ac praejudicia illa, quae Romano populo ingesserat Domnus Paulus Papa: Anast., n. 277. Ne consegue che una parte del popolo, gli ottimati in ispecie, incominciavano a soffrire, come di un giogo, la dominazione del Papa. Quel passo è assai notevole.
411. Sergio era laico, ripudiò la moglie, e divenne arcivescovo. Ei si difese assai bravamente in Roma, dove Stefano II lo sostenne prigioniero: Laicus fui, et sponsam habui, et ad Clericatum perveni, et cognitum vobis factum est, et dixistis, nullum obstaculum mihi esse potest (Agnellus, Vita Sergii, p. 424). Egli morì nell’anno 769. — Stefano, duce di Napoli e aderente di Roma, fu dal popolo eletto vescovo. Morì nell’anno 789.
412. Igitur judicavit iste a finibus Perticae totam Pentapolim, et usque ad Tusciam, et usque ad mensam Uvalani, velut Exarchus: Agnellus, Vita Sergii, c. 4, 430. La narrazione di Agnello, che del resto è ostile a Roma, viene tuttavia confermata dal Cod. Carol., LV, nel Cenni LI. Vedi anche il Muratori, ad ann. 770, 777.
413. Quin etiam, portas hujus Romanae urbis claudentes, aliam ex eis fabricaverunt, et ita armati omnes existebant ad defensionem propriae civitatis: Anast., n. 285.
414. Vedasi l’analisi di questi avvenimenti nel Sigurd Abel, Annali dell’Impero franco sotto Carlo magno, Berlino 1866, I, p. 76 segg.
415. Il Jaffè colloca l’abboccamento all’anno 771. Ma tutti questi avvenimenti succedettero prima che si trattasse del progetto di maritaggi tra le corti di Francia e di Pavia, locchè avveniva nell’anno 770.
416. Sergius eadem nocte, qua hora campana insonuit: Anast. n. 288. Già a quel tempo sonavano in Roma le campane, forse ad annunciare l’ora dell’Ave Maria.
417. Et dum infra civitatem, nocturno silentio, ipsos salvos introducere disponeremus, ne quis eos conspiciens interficeret, subito hi, qui eis semper insidiabantur, super eos irruentes, eorum eruerunt oculos: Cod. Carol., XLVI, nel Cenni XLV, 269. L’amanuense di Anastasio dice: Cupiens eos, noctis silentio propter insidias inimicorum salvos introduci Romam. Questi ed altri passi concordi dimostrano che il Biografo conobbe la lettera di Stefano, ma le varianti significano che egli era di parte franca.
418. Subtilius mihi — Domnus Stephanus Papa, retulit, inquiens, quod omnia illi mentitus fuisset (sc. Desider.) — et tantummodo, per suum iniquum argumentum erui fecit oculos Christophori Primicerii, et Sergii Secundicerii filii ejus, suamque voluntatem de ipsis duobus proceribus Ecclesiae explevit, unde damnum magis et detrimentum nobis detulit. Così Adriano in Anastasio, n. 293.
419. Ep. XLVI, nel Cenni, XLV, 267. Il Cenni opina col Le Cointe e col Pagi che la lettera fosse estorta, perocchè i nobili uomini Cristoforo e Sergio tutto a un tratto non potessero tramutarsi in malfattori, nè i nequissimi Longobardi in figliuoli illustri. Ma la lettera evidentemente fu scritta nell’eccitamento dell’animo, subito dopo la caduta dei due, per adulare il Re cui ne fu mandata una copia. Il Muratori si appose al giusto, e lo seguì il La Farina. Si chiarisce facilmente la ragione per cui Dodone è dipinto con oscuri colori: egli era legato di Carlomanno, ed in quel momento eravi fra i due fratelli inimicizia.
420. Anast. n. 293. Colla biografia di Adriano il Lib. Pontif. muta di stile; e qui s’entra in un altro periodo di questa Collezione preziosa.
421. Ne tratta il Cod. Carol., XLVII, nel Cenni I, p. 274.
422. Annales Francor. ad ann. 770.
423. Seminans inter reges discordia, dice a quest’occasione già nel secolo decimo l’Autore del Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma. Mon. Germ. V, 720.
424. Cod. Carol. XLV, nel Cenni, XLIX, 281: Perfida, quod absit, ac foetentissima Langobardorum gente polluatur, quae in numero gentium nequaquam computatur, de cujus natione et leprosum genus oriri certum est. Se ne offende il sentimento onesto del Muratori, il quale giunge a dubitare che questa lettera di sensi triviali fosse scritta dal Papa: persino il Cenni sclama, arrossendone: Aevo illi dandum est aliquid.
425. Eginhard. c. 18, e Paol. Diacon., Gesta Episcop. Mettensium nei Monum. Germ. II, 265: hic ex Hildegard conjuge quattuor filios et quinque filias procreavit, habuit tamen ante legale connulium ex Himiltrude nobili puella filium nomine Pippinum.
426. Anathematis vinculo esse innodatum, et a regno Dei alienum, atque cum diabolo et ejus atrocissimis pompis, et caeteris impiis aeternis incendiis concremandum deputatum: formula consueta dell’anatema in quell’età. La si scriveva anche sopra i sepolcri per vietarne la distruzione, e con essa si conchiudono le scritte di donazioni. — Un’iscrizione marmorea del secolo ottavo, commemorativa di una donazione di Giorgio e di Eustazio (trovasi nel vestibolo della chiesa di santa Maria in Cosmedin) dice in sulla fine: et anathematis vinculo sit innodatus et a regno Dei alienus, atque cum diabolo et omnibus impiis aeterno incendio deputatus. Colla formula di anatema riferita più sopra, concorda quasi parola per parola, quella del Liber Diurnus c. VII, tit. 22: et cum diabolo et ejus atrocissimis Pompis, atque cum Juda traditore Domini Dei et Salvatoris nostris Jesu Christi, in aeternum igne concremandum, simulque in chaos demersus cum impiis deficiat.
427. Il Muratori con qualche malizia osserva che Carlo allora non era «peranche divenuto magno.»
428. Sembra che Rimini continuasse ad avere dei Duces. La loro serie nel secolo nono è quasi completa. Vedasi Luigi Tonini: Rimini dal principio dell’êra volgare all’anno MCC, Rimini, 1856, II, 155. Ei si pare che questa memoranda città sia stata a capo della Pentapolis maritima (Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia e Ancona): la Pentapolis mediterranea o nova comprendeva Jesi, Cagli, Gubbio, Fossombrone, Urbino con Montefeltro e, più tardi, con Osimo. I due territorii insieme uniti, erano detti Decapolis.
429. Questi avvenimenti sono narrati da Anast. Vita Stephani III, n. 282, 283 e nella Epistola di Adriano che è nel Cod. Car. LXXI, nel Cenni XCIII, 499.
430. Incertum, (dice Eginardo, Vita Car. c. 18,) qua de causa. Un frate favoleggiatore, che scriveva sullo spirare del secolo nono, ne sa egli solo la ragione: quia esset clinica et ad propangandam prolem inhabilis, judicio sanctissimorum sacerdotum relicta velut mortua. Monachi Sangall., Gesta Karoli, II, c. 17, nei Mon. Germ. II, 759.
431. Di Adelardo di Korbey è detto: culpabat modis omnibus tale connubium (con Ildegarde) — quod — rex inlicite uteretur thoro, propria sine aliquo crimine repulsa uxore: — Ex vita Adalhardi 7, p. 525. E di Berta dice Eginardo, c. 18: ita ut nulla unquam invicem sit exorta discordia, praeter in divortio filiae Desiderii regis, quam illa suadente acceperat.
432. Theodotus (così io scrivo in vece di Theodolus) restaurò in Roma la chiesa di sant’Angelo in Pescaria, come ne serba ancora memoria un’iscrizione in marmo ivi esistente: Theodotus holim dux nunc primicerius scae sed. apostolicae, et pater uius Ben. Diac. a solo edificavit pro intercessionem animae suae et remedium omnium peccatorum.
433. Il decreto di elezione di Adriano, deposto nell’archivio del Laterano, fu edito dal Mabillon nel Mus. Ital. I, 38, al Libellus de Vita Hadriani I. Tutti gli ordini elettivi ivi compaiono.
434. Vita s. Adriani in Anast., n. 292. Un passo di Agnello (Vita Sergii, p. 426) dimostra che già s’aveva costume di accordare amnistie quando avvenivano mutazioni nel pontificato: in ipsa vero die electus est praedictus germanus defuncti Papae (sc. Paulus) in solio Apostolatus, et statim solvit omnes captivos, et omnibus noxiis veniam concessit.
435. Tunissone Presbytero, et Leonatio Tribuno habitatoribus civitatis Anagninae: Vita Hadr. n. 297.
436. Quella via aveva il nome da un palazzo: usque in Merolanam ad arcum depictum, quem secus viam, quae ducit ad ecclesiam S. Dei Genitricis ad Praesepe: Vita Hadr. n. 298. Con pari nome quel luogo è detto Merolanas anche nell’Ordo Roman. I (Mabillon, Mus. Ital., II, 4), che è un libro di formule, compilato tosto dopo del tempo di Adriano.
437. Vita Hadr. n. 298: tunc praefatus sanct. Praesul precibus judicum, universique populi Romani jussit contradere antefatum Calvulum cubicularium, et praenominatos Campanos praefecto urbis, ut more homicidarum eos coram universo populo examinaret. La voce examinare ha omai un’impronta di medio evo.
438. Pro vero amputandis tam intolerabilibus flagitii reatibus, missi sunt ipsi Campani Constantinopolim in exilium: ibid. n. 299.
439. Tradidit eundem Paulum consulari Ravennatium urbis: ibid. n. 299. — Carlo Hegel ecc. I, 262, respinge con buoni argomenti l’opinione che per quel Consularis s’abbia a intendere il collegio di Consoli, che, secondo il parere del Savigny e del Leo, sarebbe subentrato a quello dei Decurioni.
440. Ita vero idem Paulus examinatus est, quia etiam nec scientia exinde data est — Pontifici: Vita Adr. n. 300. Ma i Biografi pontificî celano troppe cose.
441. Adscribi fecit suggestionem suam Constantino et Leoni Augustis, magnisque Imperatoribus — ut in ipsis Graeciae partibus in exilio mancipatum retineri praecipissent: ibid. n. 300.
442. Anastasio narra che a Ravenna trovavasi allora Anualdo, cartulario: il nome è germanico (Anwald), ma questo ottimate della milizia e messaggiero del Papa, è dal Cronista qualificato civis romanus. Perciò egli dovrebbe essere stato lo stipite della posteriore famiglia romana degli Anialdi o degli Anibaldi.
443. L’antica Utriculi Civitas ai tempi dell’Impero era ricca di tesori d’arte; e gli odierni musei di Roma, dopo che Pio VI v’ebbe fatto effettuare degli escavi, devono a quella piccola città di provincia, dei capolavori preziosissimi; fra gli altri, quella testa dei Giove di fama universale che trovasi nella rotonda del Vaticano, e il grande musaico che ivi pure si vede.
444. Fabricari fecit: espressione consueta pei lavori di muratura. Dopo il tempo di Cristoforo e di Sergio, gli abitatori della Toscana e del Lazio (Campania) erano obbligati a prestare servizio militare nella Città.
445. Susceptoque eodem obligationis verbo per antefatos Episcopos, ipse Langobardorum Rex illico cum magna reverentia a civitate Viterbiense confusus ad propria reversus est.
446. Promittens insuper ei tribui quatuordecim millia auri solidorum, quantitatem in auro, et argento: Anast., n. 310. Il Leo, Storia d’Italia, suppone con buona ragione che questa fosse la domanda che in origine Desiderio aveva rivolto a Roma.
447. Agnello (nella Vita Leonis, p. 439) dice che fu Martino, diacono ravennate, a guidare i Franchi nel loro cammino: secondo il Chron. Novalicense sarebbe stato un giullare.
448. In generale si affà all’indole dei Longobardi quello che del valoroso Drottulfo dice il noto epitaffio di Ravenna, che leggesi in Paolo Diacono:
Terribilis visu facies, sed corda benigna.
449. Nella Vita Hadriani n. 314 segg. è data particolareggiata descrizione dell’ingresso e del soggiorno di Carlo in Roma.
450. Direxit in ejus occursum judices ad fere triginta millia ab hac Romana urbe in locum, qui vocatur Novas, ubi eum cum bandora susceperunt. La stazione è situata alla vigesimaquarta pietra miliare. L’Holstenio (nel Vignoli, Nota 3, c. 35) pretende di aver visto ruine di Novas due miglia al di qua di Bracciano.
451. Schola militiae cum patronis, simulque et pueris, qui ad discendas literas pergebant, deportantes omnes ramos palmarum atque olivarum etc. Dal Papencordt o dal suo editore (p. 98) si opina erroneamente che i patroni militiae fossero i Santi protettori anzichè i preposti delle corporazioni militari. L’espressione patronus, nel significato di Santo protettore, io trovo per la prima volta nella Vita Hadr., n. 339. — Dalla menzione che è qui fatta dei fanciulli delle scuole, l’Ozanam (Docum. inédits) volle trarre la conseguenza che in Roma si provvedesse ancora all’insegnamento delle scienze.
452. Venerandas cruces, id est signa, sicut mos est ad Exarchum aut Patricium suscipiendum. Ma tosto dopo è detto: cruces ac signa.
453. È nota la questione che si dibattè se avesse luogo più onorifico chi teneva il lato destro oppure chi stava al sinistro, e sulla ragione per cui, nei musaici e nei sigilli antichi, san Pietro spesse volte tenga la manca, e san Paolo la destra. Sembra che il luogo d’onore si determinasse a seconda che la persona si presentava allo sguardo dello spettatore. Quando il Papa e il Re entravano nella chiesa, il popolo che guardava ad essi, aveva il Papa alla sua destra. Ordo Roman. I, nel Mabillon, II, p. 3: Episcopi quidem ad sinistram intrantium, presbyteri vero ad dextram, ut quando Pontifex sederit, ad eos respiciens, episcopos ad dextram sui, presbyteros vero ad sinistram contueatur.
454. Sesesque mutuo per sacramentum munientes, ingressus est Romam. — Nei tempi più tardi i Re davano e ricevevano giuramento di pace prima di entrare in Roma. — Così suggellavasi legame di amistà (firmitas et integritatis stabilitas), come dice Adriano: Cod. Car. LIII, nel Cenni, LII, 326.
455. Alcune statuizioni in riguardo alla messa ed alle preci ordinate per Carlo, si contengono nell’Ordo Romanus I, che è un mirabile Libro rituale del secolo ottavo o del nono. In esso è data descrizione delle funzioni pasquali conformemente ai racconti di Anastasio. — Le Stazioni della Pasqua sono rimaste anche oggi le stesse; chè alla domenica la Stazione è in santa Maria Maggiore, al lunedì in san Pietro, al martedì in san Paolo, al mercoledì in san Lorenzo.
456. Il testo di Anastasio, secondo il Vignoli, è questo: A Lunis (oggidì Sarzana) cum insula Corsica, deinde in Suriano, deinde in monte Burdone, inde in Berceto, deinde in Parma, deinde in Regio, et exinde in Mantua, atque in Monte Silicis, simulque et universum Exarchatum Ravennatium, sicut antiquitus erat, atque provincias Venetiarum et Istriam, necnon et cunctum ducatum Spoletinum seu Beneventanum. Si confronti il Docum. I nel Borgia, Breve Istor. Cod. Vatic. 3833. — È notevole cosa che, fuor di Anastasio, non v’ha alcun Cronista che sappia di questa donazione. Il frammento della Vita Adriani nel Mabillon dice questo solo: Carolus non destitit, donec Desiderium — exilio damnaret — resque direptas Adriano Papae restitueret, proposizione che appartiene ad Eginardo, quasi parola per parola.
457. Contro questa donazione, che il Cenni, l’Orsi, il Fontanini, il Borgia sostengono a tutta possa, si manifestano chiaramente il Muratori e il La Farina. All’opposto il Sigurd Abel recentemente propugnò l’opinione che in fatto la donazione di Kiersy comprendesse tutti i territorî che sono specificati nella Vita Adriani; egli non reputa che il passo relativo vi sia stato inserito più tardi. Vedi La caduta del reame dei Longobardi p. 37 e segg., e gli Annali del reame franco sotto di Carlo Magno dell’istesso autore, I, 131 segg. Parimenti dice il medesimo Abel: Il documento di donazione avrà contenuto soltanto la promessa di provvedere alla restituzione di quei possedimenti della Chiesa romana sui quali il Papa poteva far valere i suoi diritti. — Il Muratori, il Giannone, il Sigonio sono propugnatori intelligenti della potestà suprema di Carlo: jure principatus, et ditione sibi retenta.
458. Fa meraviglia di trovare perfino la citazione del primo anno di patriziato nella Epist. Hadriani ad Bertherium Viennensem Episcop. (nel Labbè, Concil. VIII, 554): datum Kalend. Jan. imperante piissimo Augusto Constantino, annuente Deo coronato piissimo rege Karolo, anno primo patriciatus ejus. Peraltro questa lettera è apocrifa.
459. Cod. Carol. LV, nel Cenni L, 318. Le basiliche allora erano ventotto, le diaconie sette.
460. Karolus gratia dei Rex Francorum et Longobardor. ac patritius Romanor. Così nel diploma dei 9 di Giugno 776, in cui egli conferma all’abbazia di Farfa tutte le donazioni fatte dai Re longobardi: Reg. Farfa, n. 147. — Nei documenti però è ommesso talvolta il titolo di patrizio; così in un istromento del primo di Dicembre 774, che concerne l’abbazia di Monte Amiato, si dice soltanto: Regnante Domino nostro Carolo Rege Francor. et Langobardorum (Cod. Dipl. della Badia di san Salvadore al monte Amiato, nella biblioteca Sessoriana di Roma).
461. Cod. Carol. XLIV, nel Cenni LIX, 352: quia ecce novus Christianissimus Dei Constantinus Imperator his temporibus surrexit, per quem omnia Deus Sanctae suae Ecclesiae... largiri dignatus est. Nella sua lettera Adriano parla solo di patrimonî, e della potestas in Italia: Piissimo Constantino magno, per cujus largitatem S. R. Ecclesia elevata et exaltata est, et potestatem in his Hesperiae partibus largiri dignatus est. La lettera è dell’anno 777 o, per lo meno, è anteriore al 781. La Cronologia delle quarantanove lettere di Adriano indiritte a Carlo è talvolta oscura; coll’anno 781, in cui Adriano diventò compadre di Carlo, le lettere si dividono in due parti. Tutte le lettere con intitolazione di spiritalis compater, sono posteriori al 781: massimamente il Muratori, il Le Cointe e il Pagi sono in parecchi luoghi corretti dal Cenni, compiutamente poi dalla grandiosa opera del Jaffè.
462. Il Döllinger nella sua Dissertazione sulla donazione di Costantino (Fole pontificie del medio evo, Monaco 1863) ha descritto l’origine e la storia di quella finzione. Egli chiarisce che fu un’invenzione di origine romana, spacciata tra l’anno 752 e il 777; soltanto più tardi si fece una versione in greco della scritta: vedi il Fabricius, Bibl. Graeca, VI, p. 5 seg. Ne fa menzione Aeneas Parisiensis in sull’854. Nel corso del tempo si volle compreso in questa donazione anche tutto l’Occidente. Soltanto nel secolo decimoquinto, Lorenzo Valla con critica poderosa confutò quella falsità. Il leggitore potrà inoltre trovare un giudizio assai arguto delle idee espresse in quella donazione, consultando L. K. Aegidi, Il Congresso de’ Principi dopo la pace di Luneville, Berlino 1853, p. 129.
463. Il Castellum Felicitatis, anticamente Tifernum, fu più tardi detto Città di Castello. Lo dimostra una lettera di Gregorio IX indiritta a Federico II nell’anno 1230: Castellum Felicitatis, quod nunc dicitur Civitas de Castello: Huillard, Hist. Dipl. Friderici II, vol. III, 249.
464. Il Muratori ad ann. 776 e gli Atti della Cronica di Farfa. — Ad onta di quanto si legge nel Cod. Carol. LVIII, nel Cenni LVI, 341: quia et ipsum Spoletinum Ducatum vos praesentialiter obtulistis protectori nostro B. Petro, i Papisti non osarono di attribuirne al Pontefice di più che il Dominium utile. La Chiesa non aveva maggior diritto su Spoleto di quello che avesse sull’Istria, se anche vi possedeva dei dominî; è detto: in partibus di Spoleto: p. 253 nel Cenni. — La frase ipsum Spoletinum Ducatum reputo essere un’esagerazione, sebbene il Fatteschi, Memorie istorico diplom. riguard. la serie de’ Duchi di Spoleto (Camerino 1801) p. 50, affermi che al Papa fu donato il territorio, ma senza giure sovrano.
465. Cod. Carol. XV, nel Cenni, LXXXIX, 480. — Il Cenni comprende persino la Tuscia Regalis (che è l’odierna Toscana) nella donazione, ma senza diritti di sovranità. Egli trae quest’opinione dal Cod. Carol. LXV (presso di lui è la LXIII), poichè ivi il Papa dà ingiunzioni al Duce di Lucca, che questi però non ascolta. Tuttavolta anche Gregorio Magno, già al suo tempo, dava comandamenti ai Duci di Napoli e di Sardegna, senza che per ciò quei paesi fossero a lui soggetti.
466. Cod. Carol. LVI, nel Cenni, LXXI, 405. — Erano vecchi di Forobono (l’antico vescovato di Forumnovum) prossimo all’odierno Montebono. Vedi anche la Ep. LXVIII, 387. Egli vi prega che fosse proceduto alla statuizione dei confini sicut ex antiquitus fuit... signa inter partes constituentes. Il termine romano qui ha nome di signum. A questa delimitazione di confini tra la Sabina e Reate s’ha riguardo anche nel Diploma Ludovici Pii.
467. Vedi il Fatteschi, loc. cit. p. 93, 248. Egli vi riporta una serie di documenti di Farfa dal 938 al 1106. Prima dell’anno 939 non si trova infatti documento di sorte nel Registro di Farfa che riguardi la Sabina. — Per esempio, all’anno 939: Ingibaldus Dux et rector territorii Sabinensis, e vi sono aggiunti gli anni di reggimento del Papa. All’anno 941: Sarilonis Marchionis et Rectoris Territorii Sabinensis etc. Non v’ha dubbio che fossero Rettori pontificî.
468. Agnellus, Vita Mauri, c. 2, 273 (Mauro tenne la cattedra dal 642 al 671). I Conductores della Chiesa ravennate in Sicilia appaiono già intorno all’anno 444 nel celebre istromento (è il più antico che esista) che è contenuto nel Marini, Papir. n. 73.
469. Cod. Carol. LIV, nel Cenni LI, 322. Può darsi che tutti e due portassero addirittura titolo di Judex; nei luoghi minori sembra che il Papa delegasse dei Comites, come a Gabellum: Cod. Carol. LI, nel Cenni LIV, 335. Officiali pontificî nelle città portavano in generale anche il titolo di Actores, che spesso si ritrova nelle carte ravennati.
470. Cum exercitu in eandem civitatem nostram Castelli Felicitatis properans: Cod. Carol. LX, nel Cenni, LV, 337. Le lettere che trattano della «ribellione» di Ravenna sono nel Cenni, ai num. 51, 52, 53, 54.
471. Sed nec nostrae paternitati displicere rectum est, qualiscumque ex nostris aut pro salutationis causa, aut quaerendi justitiam, ad vos properavit. Cod. Carol., LXXXV, nel Cenni XCVII, 521.
472. Cod. Carol., LXXV; nel Cenni LXXVI, 421 sq.
473. Questa lettera importante è la L; nel Cenni LXI.
474. Così all’incirca deve aver scritto, chè Adriano risponde: Pro honore vestri Patriciatus nullus homo esse videtur in mundo, qui plus pro vestrae regalis Excellentiae decertare moliatur exaltatione, quam nostra apostolica assidua deprecatio. Quest’è la prima volta in tutto il Codex Carolinus, che un Papa parli della dignità di Patrizio, ove se ne eccettui l’intitolazione nell’incominciamento delle lettere.
475. Quia ut fati sumus (così correggo a vece di estis), honor Patriciatus vestri a nobis irrefragabiliter conservatur, etiam et plus amplius honorifice honoratur; simili modo ipse Patriciatus beati Petri, fautoris vestri, tam a s. recordationis Domno Pippino, magno rege, genitore vostro, in scriptis in integro concessus, et a vobis amplius confirmatus, irrefragabili jure permaneat: Cod. Carol., LXXXV; nel Cenni, XCVII, 521. Può darsi che la lettera sia dell’anno 790.
476. Carlo non pretese all’investitura di Roma, ma, secondo certi Atti di un Concilio lateranense dell’anno 774, il Papa avrebbe acconsentito che ei ne fosse fornito. Peraltro l’avvenimento di questo Concilio, menzionato per la prima volta da Siegberto ad ann. 773, non è altro che una finzione. Vedasi il Mansi, Suppl. Concil., I, 721 e il Pagi, ad ann. 774, 13. Devesi poi riferire soltanto alle costituzioni posteriori all’800 quanto il Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma (Mon. Germ., V, 719) dice di Carlo, dopo la sua andata a Roma: Fecitque pactum cum Romanis eorumque pontifice, et de ordinatione pontificis ut interesset quis legatus etc.
477. Eginhard, Vita Carol. c. 26: Ad cujus structuram cum columnas et marmora aliunde habere non posset, Roma atque Ravenna devehenda curavit. E il Poeta Saxo, vers. 439:
Ad quae marmoreas praestabat Roma columnas,
Quasdam praecipuas pulcra Ravenna dedit.
Cod. Carol. LXVII; nel Cenni LXXXI, 439: Nos quippe libenti animo et puro corde, cum nimio amore vestrae Excellentiae, tribuimus effectum, et tam marmora, quamque mosivum, caeteraque exempla de eodem palatio vobis concedimus auferenda. Aggiungo che Carlo Magno fece trasportare di Ravenna ad Acquisgrana anche la statua equestre di Teodorico. Nel secolo decimo il palazzo di Ravenna era già in ruine, e Ottone II vi edificava intorno al 971 un palazzo nuovo. Vedi il Fantuzzi, ecc. Tom. V, nel Prospetto § 13.
478. Cod. Carol., LXXXIV; nel Cenni LXXXIII, 459. I Veneziani (Venetici) avevano praesidia e possessiones nelle terre ravennati, ed allora già tendevano a impadronirsi di Ravenna.
479. Anastasio, n. 222.
480. Cod. Carol., LXV; nel Cenni LXIII: Quia nos nec navigia habemus, nec nautas, qui eos comprehendere potuissent, tamen naves Graecorum gentis in portu civitatis nostrae Centumcellensium comburi fecimus etc. Nel Volume III avrò argomento di riportarmi alla Storia della marineria pontificia scritta dal Guglielmotti, bibliotecario dei Domenicani in santa Maria sopra Minerva: di questo libro è or ora incominciata la stampa[481].
481. Il primo volume della Storia della Marina pontificia nel Medio Evo dal 328 al 1499 del P. Alberto Guglielmotti fu edito di recente (1871) a Firenze, coi tipi dei Successori Lemonnier. L’originale del secondo volume (2. ediz.) di questa Storia della città di Roma, publicavasi nel 1869. (N. del T.).
482. Il Giannone ecc. tratta bellamente di questo argomento e delle relazioni con Benevento, Lib. VI, c. 1 sgg.
483. Cod. Carol., LIX; nel Cenni LVII, 343 sq.: Qualiter — proximo Martio mense adveniente, utrosque in unum conglobarent, cum caterva Graecorum et Athalgiso, Desiderii filio, et terra marique ad dimicandum, super nos irruant, cupientes hanc nostram Romanam invadere civitatem.
484. Dalla conquista del Friuli data la divisione dei Ducati longobardi in Contee; ma la costituzione del gau e il feudalismo dei Franchi furono trapiantati in Italia: Leo, Storia d’Italia, III, 1, p. 206.
485. Cod. Carol., LXXXIII; nel Cenni LX, p. 357 sg. La lettera è anteriore al 781, e il dubbio del Muratori che essa possa appartenere all’anno 791, è confutato dal Cenni che la attribuisce all’anno 777. Il Giannone, VI, c. 1, sulle orme di Camillo Pellegrino, trae erroneamente da questa lettera la conseguenza che i Beneventani avessero preso Gaeta, donata da Carlo alla Chiesa, e che l’avessero restituita ai Greci. A fior d’evidenza si tratta qui di alcune città della Campagna (aliquantas civitates nostras ampaniae). Io tengo opinione che Gaeta allora fosse ancora greca, quantunque possa negarlo il Federici (Degli antichi Duchi e Consoli Ipati e della città di Gaeta, Napoli 1791, p. 30, Introduzione).
486. Nos quidem pro nihilo deputamus ipsam civitatem Terracinensem etc., Cod. Carol., LXIV; nel Cenni LXV, p. 377.
487. Nefandissimi Neapolitani, et Deo odibiles Graeci — subito venientes, Terracinensem civitatem, quam servitio beati Petri et vestro atque nostro subjugavimus, nunc autem — invasi sunt.
488. La frase: Ut sub vestra atque nostra sint ditione, e l’altra, spesse volte ripetuta, in servitio vestro, pariterque nostro, non è già espressione cortese, ma denota l’altum dominium del Re. Sembra che la lettera sia stata scritta tosto innanzi all’anno 781. L’amicizia tra Roma e Napoli durò soltanto breve tempo. Nell’epitaffio di Cesario, figlio di Stefano duce di Napoli, è detto:
Sic blandus Bardis eras, ut foedera Grais
Servare sapiens inviolata tamen.
489. A quel battesimo ed alla presenza di Carlo in Roma hanno argomento alcuni versi che leggonsi in Dom. Bouquet, V, 401; ivi Carlo è appellato Console. Ne tace la Vita Adriani. Noto in essa per lo meno due specie di redazione; la più antica descrive completamente gli avvenimenti politici fino alla caduta di Pavia: ciò che sussegue spesso non è altro che un duplice compendio dei Registri di chiese. — Può vedersi il Chronic. Laurisham. Moissiac. gli Annal. Laurissenses e quelli di Einhardo, ad ann. 781.
490. Einhardo, Annal. ad ann. 786, Annal. Lauristens., 787, Tiliani (787), il Poeta Saxo, ann. 786. — Il Chronicon Mon. Casin. I, c. 12 (nel Muratori, Script. IV) riferisce le condizioni di pace. La Storia di Erchemperto scorre di volo sul reggimento di Arichi.
491. Quindi in poi la Chiesa romana fu veramente la lupa, di cui il poeta dice:
Ed ha natura sì malvagia e ria
Che mai non empie la bramosa voglia;
E dopo ’l pasto ha più fame che pria.
492. Praesertim et partibus ducatus Beneventani idoneos dirigere dignetur missos, qui nobis, secundum vestram donationem, ipsas civitates sub integritate tradere, in omnibus valeant: Cod. Carol., LXXXI, nel Cenni, LXXXVIII, 475; XC, nel Cenni LXXXIX, 480; XCII, nel Cenni XC, 483. — De Capua quam b. Petro — pro mercede animae vestrae, atque sempiterna memoria, cum coeteris civitatibus obtulistis, LXXXIII, nel Cenni XCI; LXXXVI, nel Cenni XCII.
493. Nel diploma di Lodovico il Pio (Borgia, Breve Istoria ecc. Append. III, p. 19) è detto; in partibus Campaniae Soram, Arces, Aquinum, Arpinum, Theanum et Capuam.
494. Vedi la Sacra Imper. ad Papam, nel Labbé, Concil. VIII, 678 ecc., negli Atti del Concil. Nicaen. II. — Dopo l’assestamento della controversia delle imagini Adriano chiese la restituzione dei patrimonî di Sicilia e di altri luoghi, ma Bisanzio non vi diè risposta. Se ne duole il Papa nella sua lettera indiritta a Carlo (Labbé VIII, 1598). — La controversia delle imagini fu definita nell’anno 842 per opera dell’imperatrice Teodora, ma i Libri Carolini di Carlo e di Alcuino, e il Concilio di Francoforte del 794 si pronunciarono decisamente contrarî alla adorazione (προσκύνησις) delle imagini.
495. Cod. Carol. LXXXVII; nel Cenni XCI, 488: Spatarios duos ad Patricium eum constituendum, ferentes secum vestes auro textas, simul et spatam, vel pectinem, et forcipes, sicut illi praedictus Arichisus indui et tondi pollicitus fuerat.
496. Erchempert. c. IV, sq. — Grimoaldo II morì nell’anno 806; i Beneventani, piangendolo, scrissero sul suo sepolcro:
Perculit adversas Francorum saepe phalangas,
Salvavit patriam sed, Benevente, tuam;
Sed quid plura feram? Gallorum fortia regna
Non valuere hujus subdere colla sibi.
(Anon. di Salerno, c. 22.)
L’epitaffio, che vorrebbesi scritto da Paolo Diacono per Arichi, trovasi nell’Anonimo di Salerno, c. 16, e nel Pellegrino, Tumuli Princ. Longob. nella sua Historia Princip. Longob., t. III, p. 305. Tanto le iscrizioni funerarie dei Principi di Benevento quanto quelle dei Consoli e dei Duci di Napoli (ivi) riescono di sussidio alla storia di quell’età, e meritano di esser lette.
497. Evellens portam usque ad arcum qui vocatur Tres Faccicellas: Anast. n. 356. Il Vignoli legge più esattamente falciclas. Ignota è l’origine del nome, che significherebbe tre fiaccole od altrimenti tre falciuole. — Il Fea, sulle Rovine, p. 380, pensa che fosse l’arco vicino al san Lorenzo in Lucina, fatto abbattere da Alessandro VII nell’anno 1662, e che nel più recente medio evo era appellato «delli Retrofoli» e «di Portogallo.» I Mirabilia dicono: arcus triumphalis Octaviani ad s. Laurentium in Lucina.
498. Usque ad Pontem Antonini. Non convengo col Fea che questo ponte fosse il Sublicius, nè col Vignoli che fosse il ponte «Quattro Capi,» nel medio evo detto Fabricii Judaeorum. I Mirabilia con esatta serie enumerano: P. Antoninus, Gratiani, P. Senatorum; la Graphia specifica: Neronianus ad Sassiam (il distrutto ponte Vaticano presso santo Spirito), Antonini in arenula, Fabricii in ponte Judaeorum ecc. I Mirabilia parlano di un theatrum Antonini juxta pontem Antonini; e l’Ordo Roman. XI, nel Mabillon, Mus. Ital., II, p. 126, fa che il Papa vada ad majorem viam Arenulae, transiens per theatrum Antonini. Questo teatro pertanto non può essere stato altro che quello di Balbo (presso il palazzo Cenci). Vedi il Nibby, Roma nel 1838, II, 588 ed i Platner e Bunsen, III, 3, 65.
499. Totas civitates tam Tusciae, quamque Campaniae congregans, una cum populo Romano, ejusque suburbanis, nec non et toto Ecclesiastico patrimonio: Anast., n. 236, 355.
500. Anast., n. 331: Simulque in balneo juxta eandem ecclesiam sito, ubi et fratres nostri Christi pauperes, qui ad accipiendam eleemosynam in paschalem festivitatem annue occurrere et lavari solebant; dimostrazione dell’antico costume delle lavande dei piedi che fannosi a Pasqua nel san Pietro. Anche nel Laterano era un bagno simile, che probabilmente aveva origine dagli antichi palazzi: Anast., Vita Stephani III, n. 271 e Vita Hadriani, n. 333. — Sulla restaurazione dell’Aqua Trajana, vedasi Alb. Cassio, Corso delle acque ecc., I, pars. 1, n. 39, p. 359.
501. Il Cassio assume l’anno 776 senza esporne la ragione. Ei parla (p. 361) di una seconda restaurazione della Trajana effettuata per opera di Adriano, ed è probabile che lo traesse in errore un’altra più breve notizia data da Anastasio, n. 346. Gli sfuggì l’avvertenza che la seconda parte della Vita Hadriani consiste di una duplice redazione, per lo che ne deriva la ripetuta enunciazione degli stessi edificî.
502. Dum vero forma, quae Claudia vocatur, per annorum spatia demolita esse videbatur, unde et in balneis Lateranensibus de ipsa aqua lavari solebat, et in baptisterio ecclesiae Salvatoris domini nostri Jesu Christi, et in plures ecclesias in die sancto Paschae decurrere solebat: Anast., n. 333. Io credo pertanto di aver colto nel vero senso con ciò che ho detto più sopra nel testo.
503. Sicut antiquitus abundantur, decurrere fecit: ibid.
504. Forma quae Jobia vocatur: Anast., n. 332. Tal nome le è dato anche dall’Anonimo di Einsiedeln. — Il Cassio ha su questo punto un lungo e arido capitolo, I, n. 30. Ei si decide per la Marzia, e forse la Jobia era una ramificazione dell’Aqua Marzia che dava la più squisita acqua potabile di Roma, vero dono degli Dei, dice Plinio. Il Vignoli, all’invece, vuol correggere Julia in luogo di Jobia.
505. Forma, quae Virginis appellatur, dum annorum spatia demolita, atque ruinis plena existebat, vix modica aqua in urbem Romam ingrediente — noviter eam restauravit, et tantam abundantiae aquam effudit, ut pene totam civitatem satiavit: n. 336. L’Anonimo di Einsiedeln vide ancora i suoi archi ruinati in vicinanza della colonna di Antonino: forma virginis fracta.
506. Oggidì la proporzione dei possedimenti è la seguente: di 362 «Tenute» dell’Ager Romanus, persone private laiche ne possedono 236; Capitoli ecclesiastici, conventi, ospitali ed altri luoghi pii ne possedono 126. Vedi Emidio Pitorri ecc., p. 59.
507. Nella collezione Deusdedit, trovansi locazioni date a soldati, come a Gemmulo e ad Alfio, al primo cuoco del Papa, a notai, a donne.
508. Sugli Angariales vedi il Marini, Papiri, n. XLVI, documento dell’anno 1027.
509. Sul colonato danno illustrazioni le Lettere di san Gregorio, il Liber Diurnus, i papiri del Marini, i documenti di Farfa, il Glossario del Ducange. Riferisco di una matricola, ossia canone enfiteutico nel territorio di Ravenna (nel Marini, n. 137): Colonia... praestat solidos numero... tremisses... siliquas... in xenio laridi pondo... anseres... gallinas... ova... per ebdomadam opera... lactis pondo... mellis pondo... — Oppure: Angariae quatuor cum bovibus et quinque a manibus etc.: Marini, p. 371, a. 3. — Nei documenti di Farfa vedasi al n. 33 (nel Fatteschi, p. 263, anno 750), una donazione di Lupo duce di Spoleto, all’Abazia di Farfa, in cui nominatamente si specificano molti coloni.
510. La celebre chartula manumissionis nell’Ep. 12, V, di san Gregorio, in cui egli dimette in libertà due schiavi, Montana e Tommaso, fu assunta a praeceptum libertatis nel Liber Diurnus, c. VI, tit. 21, e dice: ... cumulo libertatis largito, ab omni servili fortuna et conditione liberum esse censemus, civemque Romanum solutum ab omni subjectionis noxa decernimus. E il notevole testamento di Mananes dell’anno 575 (Marini, Pap. n. 75, p. 116): ingenuos esse volo civesque Romanos. — Nel secolo ottavo trovasi nei Reg. Farfa, n. 94, Fatteschi, n. XXIV: servi et ancillae, quos pro animarum nostrarum ademptio liberos dimittimus; ibid., n. 97, XXVIII: Bonosulo clerico liberto nostro; n. 148, XXXVII, anno 792: le persone sono fatte libere, ma devono prestare all’Abazia annualmente angariae et pullos et pecus.
511. Questa Galeria, che oggi è in completo decadimento ed è di veduta grandemente pittoresca, conta appena novanta abitatori. Rimase senza risultamento il proposito accolto nell’anno 1830 di volerla popolare (W. Gell ecc.) — E. Pitorri (ecc. p. 18) reputa che la odierna tenuta di santa Maria di Galera o in Celsano, sia il luogo dove esistesse una delle Domus cultae di papa Zaccaria.
512. Anast., n. 328: seu Monasterium b. Laurentii, positum in insula portus Romani, cum vineis ei pertinentibus, simulque et lecticarium, quae vocatur Asprula. Fa meraviglia la spiegazione che il Ducange dà di questa oscura parola; egli afferma chiamarsi lecticarius il fundus, perchè vi si andava in lettiga.
513. Calvisianum è uno dei nomi antichi, dei quali molti ancora si rinvengono a quel tempo. In una iscrizione esistente nella chiesa di santa Maria in Cosmedin (secolo ottavo) e nella Collezione Deusdedit, trovo ancora parola del Fundus Pompejanus, che è Mompeo, odierna tenuta nel Sabinate. Nel secolo ottavo durava tuttavia un Fundus Mercurianus. Nelle affittanze di Gregorio II trovansi un Campus Veneris, e terreni appellati Hostilianum, Porcianum, Coccejanum, Pompilianum, Servilianum e perfino Lucretianum (nel territorio Gabinate). Invece hanno suono italiano moderno: Casa nova, Cervinariola, Casavini, Casa simiama.
514. Ivi la Chiesa ereditava da Leonino, prima console e duce, poi monaco, tre unciae del suo patrimonio detto Massa Aratiana ecc. La Uncia era la duodecima parte di un Jugerum, ossia un tratto di terra lungo venti piedi, largo dieci.
515. Di questa chiesa, consecrata ad un Vescovo di Brindisi, e di un convento eretto ivi presso, fa menzione una volta anche san Gregorio. Due volte se ne trova cenno anche nella Vita Benedicti III (Anast., n. 559, 561), indi per l’ultima volta sotto Gregorio VII. Ancor nel secolo decimottavo se ne mostravano le ruine presso Torre del Quinto. Vedi il Galletti, del Primicerio, nota alla pag. 54.
516. L’allevamento dei majali aveva avuto larghe proporzioni al tempo degli Imperatori, ed era considerevole anche adesso. In un diploma di Farfa (Fatteschi, n. XXI), Teodicio, duce di Spoleto, nell’anno 764, concede a quell’Abazia la pastura estiva nei suoi boschi per duemila porci: debeant papulare in gualdis nostris.
517. In porticu — ubi et ipsi pauperes depicti sunt; bellissimo degli ornamenti per un palazzo vescovile. Ecco l’indice delle provvisioni: per cento poverelli decimatas vini duas (la decimata corrisponde a sessanta libbre, dunque libbra 1 1⁄5 a testa), oppure cuppam capientem calices duos, che corrisponde ad una foglietta all’incirca; caldaria plena de pulmento, da cui ogni persona riceveva carnem de pulmento. Il pulmentum non era sempre una vivanda di carni; nella Cronica di Benedetto da Soratte è detto: pulmentum ex milio factum, vivanda fatta con farina di miglio, ossia vera polenta. — Intorno a Capracorum (posita in territorio Vigentano) vedasi Anast., n. 327, 328, 339. — Ebbi chiara idea del reggimento di queste colonie ecclesiastiche, allorchè vidi i dominî dei Certosini di Trisulti nelle campagne di Frosinone; ivi trovai sei monaci dalla bianca tonaca e dalla lunga barba, che facevano da ispettori di quelle tenute rurali, governando un popolo di mille coloni.
518.
Hanc Turrem
ET PAGINE UNA. F
ACTA. A MILITIAE
CAPRACORUM
TEM. DOM. LEONIS
QUAR. PP. EGO AGATHOE (patrono della milizia).
Questa iscrizione, che ancor si vede infissa nel muro sopra la porta per cui s’entra dalla via di porta Angelica, ed un’altra iscrizione che riguarda la Militia di Saltisine, leggonsi nel Marini (Annot. n. 48, 240). Egli spiega acconciamente la parola Pagina per fronte del muro posta fra due torri; nel nome di Saltisine egli si studia di scoprire il significato di Calvisianum.
519. Nella Militia di Capracorum scorgo un raro esempio della trasformazione di coloni in liberi agricoltori. Il nome Milites, almeno nel secolo undecimo, è talvolta traslato dal presidio dei soldati agli oppidani (Collez. Deusd. nel Borgia, docum. I, p. 7, 8). Capracorum è espressamente nominato come castello (Vedi le bolle nel Marini, Nota I al n. 48, e n. 46, p. 73, n. 48, p. 81). — Il Coppi in una piccola scrittura intitolata: Capracorum colonia fondata da s. Adriano I (Roma 1838), segue la storia delle sorti di questa terra, e pensa che l’antico Capracorum sia l’odierno Campagnano, vicino a Nepi. Il Marini ed altri si lasciano indurre dal nome di Caprarola (presso Viterbo) a cercare colà il luogo di Capracorum.
520. Al cominciamento del portico (caput porticus) era la chiesa di santa Maria (oggidì Traspontina), che deve distinguersi da un’altra di pari nome nell’Adrianeo; ambedue Adriano elevò al grado di diaconie: Anast., in Adr. n. 337: unam quidem s. — Dei genitricis Mariae — quae sita est in Adrianio. Aliam — quae sita est — in caput porticus. Il Vignoli, in vece di Adrianio, legge (e fa meraviglia) Atriano, spiegando la dizione così: in atrio prope Vaticanum. Le annotazioni di questo benemerito editore del Liber Pontificalis, il più di sovente, sono fiacche.
521. Anast. n. 341: plusquam duodecim millia tufos in littore alvei fluminis in fundamentis ponens. Se queste pietre di tufo provenivano da edifizî antichi, la devastazione dovette essere grandissima. Tufi qui significano quadroni di pietra travertina.
522. Anast. n. 342.
523. Anast. n. 356: Portas aereas majores mirae magnitudinis decoratas studiose a civitate Perusina deducens in basilicam b. Petri Apostoli ad turrem compte erexit. Il Bunsen ecc. II, p. 1, p. 64, opina che la Vita di Adriano attribuisca all’opera di questo Papa anche la torre dell’atrio; essa però parla soltanto della torre che è accosto al palazzo patriarcale del Laterano: quella del san Pietro ebbe origine da Stefano II.
524. Questa inscrizione riferisce il Gruter, seguendo il Cod. Palatinus, p. 1163, n. 8. Eccone il passo:
Tradit oves fidei Petro pastore regendas,
Quas vice Hadriano crederet ille sua:
Quin et Romanum largitur in urbe fideli
Vexillum famulis qui placuere sibi.
Quod Carolus mira praecellentissimus rex
Suscipiet dextra glorificante Petri.
Il Bunsen, p. 90, col Papebroch, pone Imperium famulis invece di Pontificatum famulis, come ha il Gruter. Pontificatum non avrebbe alcun significato, e, dopo che ebbi esaminato i musaici del triclinio di Leone III, io correggo senza dubbiezza il senso, scrivendo: vexillum famulis, e penso che su quelle lamine ne fosse rappresentato il disegno: ne parla in favore anche il suscipiet dextra, locchè presuppone il braccio che impugna una bandiera. La lezione Imperium è preferibile naturalmente per la metrica; parimenti sotto questo riguardo non potrebbesi accogliere che solamente vexillum.
525. Ivi il solo Adriano collocava sessantacinque di quei Vela: per universos arcus ejusdem Apostolorum Principis basilicae de paliis tyriis atque fundatis fecit vela numero sexagintaquinque. La voce arcus fu usata sbadatamente; chè sulle colonne del san Pietro posava un architrave a linea retta.
526. In progresso di tempo si continuò a illuminare la chiesa di san Pietro prima con quella lampada a croce, indi con una minore, finchè quell’uso ne fu affatto sbandito nell’anno 1814. All’età di Pietro Mallio (in sul 1180) ardevano ogni giorno centoquindici lampade nel san Pietro, ed egli descrive la luminaria dei giorni festivi nel Cap. VI della sua Histor. Basil. Vatican. — Al tempo di Adriano, o poco dopo, un pellegrino di Salzburgo compilò un elenco delle chiese romane, dove numerò tutte le cappelle e tutti gli altari che erano dentro e intorno al san Pietro. Può dirsi che questa scrittura sia la più antica descrizione della basilica Vaticana. È compresa sotto il titolo di Notitia Ecclesiarum urbis Romae nel Vol. II, T. II delle Opere Alcuini, ed. Froben, p. 597.
527. Per unumquemque titulum viginti, et linea viginti. — Anastasio ne enumera 440, locchè, al tempo di Adriano, darebbe ventidue chiese titolari a vece di ventotto. L’Anonimo di Salisburgo specifica perfino solamente ventuna chiesa nella Città. — Al contrario si desume il numero di sedici diaconie in proporzione di sei tappeti per ciascuna, su novantasei. Adriano stesso fondò tre novelle diaconie, le due già menzionate di santa Maria, e quella di san Silvestro presso il Vaticano.
528. Trovasi nel Muratori, Dissertazione XXIV delle Antiq. med. aevi: fu tratto da un codice di Lucca.
529. Lo si può raccogliere dalla biografia di Adriano e da quella di Leone III. — A significare la porpora usavasi la voce blattyn; blatteus adopera Eutropio, e Sidonio appella blattifer il Senato. Blatta poi è chiamato l’insetto, del cui sangue si cava il colore cremisino. I vela, i pallia, le vestes, spesse volte hanno nome semplicemente dal loro colore e dalla loro stoffa, ad esempio holoserica, alba, rosata, prasina, rubea, alythina o de stauracin (da storax oppure da σταυρος: trapunto a croci). Dalla manifattura o dagli ornati hanno queste appellazioni: cum periclysi (con galloni), de blatta ornata in circuitu de olovero (tutto porpora da ὸλος; e verus, sc. color), de chrysoclavo cum historia (a bottoni o a punti d’oro), quadrapola (secondo il Bulengerus nel Ducange, ai quattro angoli auro textae, aut serico, vel tabulis auroclavatis), fundata (ossia auro textus, acu pictus). Pei lavori d’oro e d’argento battuto, è usata la solita espressione anaglyphus ossia sculptilis. Il Museo cristiano del Vaticano dà soltanto alcuni deboli saggi di quell’arte antica.
530. Tertulliano pel primo parla del martirio di Giovanni in Roma: in oleum igneum demersus nihil passus est, in insulam relegatur. Vedasi il Martyrolog. ad diem 6 Maii. — Il discorso usitato è questo: Ante Portam Latinam in ferventis olei dolium missus est; così anche nei Mirabilia. La esatta espressione: juxta Portam Latinam, usata da Anastasio è tramutata in ante, e la chiesa oggidì ancora è detta «san Giovanni avanti Porta Latina» oppure «a Porta Latina.» Ne scrisse la storia il Crescimbeni: L’istoria della chiesa di S. G. a P. Latina, Roma 1716: ivi egli riferisce anche le leggende.
531. La festività del Santo, che cade nel giorno 6 di Maggio, è di già compresa nel Liber Sacramentalis di Gregorio I; credesi pertanto che la chiesa esistesse fin dal secolo quinto, e che fosse edificata sulle rovine del tempio di Diana: Crescimbeni l. c., II, c. 1. — Il territorio che ivi si stende tra la via Latina e la via Appia, è illustre per le tombe degli Scipioni e per i più celebri colombarî di Roma.
532. Più sotto del tempio della Pudicizia Patricia, ed in vicinanza di esso, erano il tempio rotondo di Ercole Vittorioso e l’Ara massima. Di ciò vedi il De Rossi: L’ara massima ed il tempio d’Ercole nel Foro Boario, Roma, 1854, pag. 7. Al tempo di Sisto IV, dai ruderi di un edificio rotondo fu disotterrato il famoso Ercole capitolino scolpito in bronzo dorato: è figura disaggradevole per il suo ammanieramento, e rimonta alla età di mezzo dell’Impero.
533. Lo si ricava dall’Anonimo di Einsiedeln, il quale, additando la via che conduce al san Paolo, fa questa distinzione: Inde per scholam Graecorum, ibi in sinistra ecclesia Graecorum. Nell’itinerario dello stesso Anonimo si rinviene ancora la denotazione di Schola Graeca in Via Appia. — Si menziona in Ravenna una Schola Graeca in sul 572; Marini, Pap. n. CXX, 185: Leonti Medici ab Schola Graeca. — Nel Nerini, de templo S. Bonif. ecc., Append. I, il diploma di Ottone III, che ivi è riferito, dice: seu in rippa Graeca, vel in Aventino etc. Vedi il Crescimbeni, Istoria della Basil. di S. M. in Cosmedin (Roma, 1715), opera che quel canonico e custode dell’Arcadia ampliò nell’altra: Lo Stato della Chiesa di S. M. in Cosm., Roma, 1719.
534. L’Anonimo di Salisburgo (in Alcuino, l. c., p. 600) enumera le seguenti chiese di Maria in Roma: Maria Major (così chiamavasi di già allora la S. Maria ad Praesepe), Maria antiqua, Maria rotunda, Maria transtyberim. Non parla della Schola Graeca, dacchè è probabile che egli scrivesse prima dell’edificazione di Adriano. Che questa Notitia fosse compilata nel secolo ottavo e non prima, ricavo da ciò che lo Scrittore conosce la cappella di santa Petronilla in san Pietro.
535. Diaconiam vero s. Dei Genitricis, semperque virginis Mariae Scholae Graecae, quae appellatur Cosmedin..... veram Cosmedin amplissimam a novo reparavit: Anast. n. 341.
536. Nerini, De Coenob. ss. Bonif. et Alex., p. 33, 37: Monasterii S. Bonifacii — et Alexii — quod ponitur in Abentinum loco, qui dicitur Balcerna. L’in Cosmedin e l’in Blachernis corrisponde, in Ravenna, al S. Apollinaris in Classe e, in Roma, al S. Georgio in Velabro etc. L’in determinava luogo o titolo, come in Lucina, in Damaso ecc., ma talvolta significava anche qualità; alcune chiese in Italia erano infatti dette in coelo aureo dai loro tetti scintillanti di dorature; una chiesa di Roma è da un suo altare detta in Ara coeli. — Ricordo finalmente che anche Carlo magno chiamò in Lateranis il suo palazzo di Aquisgrana, a ricordanza di Roma.
537. Maximum monumentum de Tiburtino Tufo super eam dependens per anni circulum plurimam multitudinem populi congregans — demolitus est. È probabile che se ne adoperassero le pietre per costruire il portico del san Pietro.
538. Nel muro del portico vedesi oggidì infissa una scultura antica che rappresenta una specie di frontispizio d’edificio ad otto arcate, colla iscrizione seguente che fu illustrata dal Crescimbeni:
Honoris Dei et sanctae Dei Genitricis Mariae
Pontificatus Domini Adriani Papae ego Gregorius Notarius.
Ritengo quella scultura non essere altro che un arabesco di fregio ornamentale.
539. In Roma le torri di santa Maria Nova (oggidì Francesca Romana) e dei santi Giovanni e Paolo hanno costruzione pari a quella di santa Maria in Cosmedin.
540. Item Bineas Tabularum 115, qui sunt in Testacio. Devesi intendere vigneti nel campus Testaceus. Le Tabulae sono misura di superficie dei campi. Del resto, quelle iscrizioni sono monumenti preziosissimi del latino barbarico di quell’epoca. — Oggidì Monte Testaccio è coronato di taverne, coperte di rottami di orci; gramo quadro della vita, che avrebbe ispirato un Orazio o un Hafis.
541. Il Nibby, Roma nel 1838, I, p. 32, crede che il Testaccio non sorgesse prima del secolo quarto, perocchè essendovi state scavate delle grotte, vi si trovarono delle antiche sepolture; ed opina che non si elevasse soltanto allora che quei vasi antichi erano iti fuor d’uso; può darsi che al tempo di Teodorico già fosse sorto. Al secolo terzo lo attribuisce anche il Reifferscheid (Bullettino dell’Instit. di Corrispond. Archeologica, n. XI, Novem. 1865), e lo crede formato di vasi che riempievano i magazzini dell’emporio tiberino. Il Nardini, Rom. III, ant. p. 320, lo fa derivare dalla corporazione dei vasai che fin dall’antichità dimorava in quelle vicinanze; Andrea Fulvio e Lucio Fauno accolgono eguale opinione. Il Ficoroni lo crede formato del cumulo di ruine di colombarî. Per me sono lieto che il Testaccio si celi agli sguardi degli Archeologi, ravvolgendosi entro un velame di poesia.
542. Nella dedicazione ad Adalberga, che è preposta alla Historia Miscella, Paolo celebra il genio della Principessa, dicendo: Ipsa quoque subtili ingenio sagacissimo studio prudentium arcana rimeris, ita ut philosophorum aurata eloquia poetarum gemmea tibi dicta in promptu sint: historiis etiam seu commentis tam divinis inhaerens, quam mundanis. — I sarcofaghi dei Principi di Benevento furono ornati con lunghe poesie. Di Arichi celebrava il Poeta:
Quod logos et physis, moderans quod ethica pangit,
Omnia condiderat mentis in arce suae.
Di Romualdo:
Grammatica pollens, mundana lege togatus.
Vedi questi epitaffi nel Pellegrini, l. c.
543. Nel tom. V. Classicor. Auctor. del Mai, p. 420 segg., tra i Carmina varia aevi Karolini trovansi parecchi epigrammi sulla grammatica, sulla rettorica, sulla dialettica, sull’aritmetica, sulla geometria, sulla musica, sull’astronomia, sulla medicina. Sono tolti da un codice del secolo decimo, che contiene poesie latine del secolo ottavo. Dappoichè in una di quelle (n. XXI) Boezio è appellato NOSTER, sembra quasi che derivino da iscrizioni poste sopra edificî di scuole di maestri romani. — Nella scuola di Tours, in una sala dove gli amanuensi attendevano a copiare, leggevansi dei versi di Alcuino, nei quali era raccomandata cura sollecita dell’arte loro: J. J. Ampère, Hist. littéraire de la France etc, III 74.
544. Tremulas vel vinnulas, sive collisibiles vel secabiles voces in cantu non poterant perfecte exprimere Franci, naturali voce barbarica frangentes in gutture voces, dicono gli Annales Lauriss., a. 787, Mon. Germ. I.
545. Angelo Mai, nel tom. III dei Classic. Auctor., publicò tre Mitografi vaticani. Ancor nel secolo sesto un Martino, vescovo di Braga in Portogallo, scriveva un libricciuolo intitolato: De origine idolorum, ibid., p. 379.
546. Benedetto (morto nel 725), da diacono scriveva in versi un libellus medicinae, ossia un epigramma sulla cura di parecchie malattie: Angelo Mai, V, 391.
547. Praecellentissimos atque nitidissimos Deo dicatae regalis praecelsae scientiae vestrae mellifluos suscepimus versus, quod reserantes atque sigillatim relegentes, eorum robur cum nimio amplectimur amore: Cod. Carol. LXXXI, nel Cenni LXXXIII, 473 (dell’anno 787).
548. Questa epistola poetica trovasi in Dom. Bouquet, V, 403, e nel Labbè Concil. VIII, 584, come prefazione al Cod. Canonum, che il Papa regalò in Roma a Carlo.
549. La questione tanto discussa sull’origine della lingua italiana, fu anche recentemente trattata da Cesare Cantù: Sull’origine della lingua Italiana, Dissertazione, Napoli 1865. Il Cantù vuol dimostrare che l’italiano è una conversione naturale del latino antico. Quest’opinione, cui interamente mi associo, sarebbe suffragata dalla teoria dei trasmutamenti insegnata dal Lyell (Vedi il suo celebre libro Dell’antichità del genere umano, massimamente al Cap. XXIII).
550. Mi riporto alla Dissertazione XXXII del Muratori.
551. Dai diplomi di Farfa e di Subiaco si ricava un ricco florilegio di barbarismi, dove, tratto tratto soltanto, si trovano effettivamente tracce di influenza longobarda (ad esempio gualdus, guadia, burda etc.). Il cambiamento del b e del v (bictoria, cavalli ecc.) è ancor più antico. Nomi di città hanno omai assunto suono italiano; in iscritture di quell’età trovo: ad Salerno; in Roma dicevasi già nel nominativo: Porta Majore; così: casale, quod dicitur castro majore; dopo il secolo ottavo adoperavansi di buon grado nel nominativo e nell’accusativo i casi che finivano in vocale; ad esempio: Leonem religioso et angelico abbate — per Saburrum vel germano suo — regno tendentes Francorum — faciens quotidiana missa. — In luogo di meo usasi diggià mio: spesso iri a vece di ire. — La più antica espressione volgare che io da documenti mi conosca, appartiene ad una iscrizione funeraria dell’anno 391: PITZINNINA IN PACE. Vedila nel De Rossi, Inscription. Christian. urbis Rom., I, n. 404.
552. Procopio, De Bello Goth. IV, 27, si esprime così: τῶν ἐπὶ τοῦ παλατίου φυλακῆς τεταγμένων λόχων, οὕσπερ σχολὰς ὀνομάζουσιν. Vedi la illustrazione del Valesio ad lib. XIV, c. 7. Ammian.; ed il Muratori, Diss. 75, p. 455, tom. VI Antitiquit. Med. Aevi.
553. Nella espressione: scholae cum patronis, che trovasi spesso in Anastasio, reputo doversi intendere i patroni della milizia, non come officiali della corporazione, nè come condottieri militari, ma quai socî di onore, nel senso spiegato nel testo. Può darsi che anche il vessillo della schola fosse affidato al patrono in segno di onoranza.
554. In alcuni documenti del convento di santo Erasmo, che appartengono al secolo nono e al decimo, publicus numerus seu bandus, nel significato di corporazione, è posto allato dei loca pia. La formula barbarica è così concepita: qui si filiis, aut nepotem minime fuerint, duobus etiam extraneis personis cui voluerint relinquendi habeant licentiam, excepto piis locis vel publicis numero militum seu bando: Galletti, del Primic., p. 137, 179, 189, 191. Il predicato publicus appartiene al numerus, come si pare dalla frase seguente: vel publico numero militum seu bando: Dipl. VI, 191; Registro di Subiaco, p. 140, e Marini, Pap. n. 136. Suppongo che questi beni di proprietà del publicus numerus militum oggi corrisponderebbero al concetto di beni comunali cittadini.
555. La Collezione Deusdedit chiama i cittadini romani col nome di Milites; e lo stesso Carlo magno era Miles della Chiesa.
556. Questo significato dei Numeri fu svolto egregiamente dal Bethmann-Hollweg: Origine delle libertà municipali in Lombardia, Bonna 1846, p. 182 sgg.
557. Da ciò che avveniva in altre città, presumo che anche in Roma esistessero di tali sodalizî. In quel tempo si fa espressa menzione soltanto di Scuole pontificie, com’erano, oltre a quella dei notai, le altre dei vestararii e cubicularii, e dei cantores col loro Priore (Ep. 35 Cod. Carol., nel Cenni 43). Le diciasette Scuole specificate nell’Ordo Roman. XII, nel Mabillon, Mus. Ital. II, 195, appartengono soltanto al secolo duodecimo. In Gregorio, Ep. X, 26, si trova un passo relativo ai saponai di Napoli che fanno a lui lamentanza, perocchè il ministro greco si trattenga il tributo pagato dai socî della corporazione al momento di loro ingresso, e molesti l’ars (oggidì «arte») con innovazioni: eglino protestano di non volersi discostare dai loro statuti: adjiciens quoque pactum inter se de quibusdam rationabilibus artis suae capitulus juxta priscam consuetudinem — atque id sacramento — firmatum etc. — Nella Ep. IX, 102. Ind. 2, è fatto cenno della ars pistoria in Hydruntum. — Nel Marini ecc. p. 179 e 343, si trovano i saponarii di Classe; al secolo decimo ed all’undecimo, nei documenti ravennati del Fantuzzi, trovansi Scuole dei piscatores e dei negotiatores: Carlo Hegel ecc., I, 256.
558. Il sistema delle corporazioni dei Romani è antico, e lo si attribuisce a Numa. Durante la Republica vi erano ammessi otto sodalizî, ed erano i collegia dei fabri aerarii, dei figuli, dei tibicines, degli aurifices, dei fabri tignarii, dei tinctores, dei sutores, dei fullones, ai quali più tardi si aggiunsero anche i pistores. Inoltre v’erano i collegia funeraria, confraternite dei morti. Vedi Teod. Mommsen nello scritto De Collegiis et sodaliciis Romanor., p. 31.
559. Per vero dire, gli è la prima volta nel secolo duodecimo che gli Israeliti sono formalmente riuniti in una Schola (Ordo Roman., XII, nel Mabillon, II, 195); ciò non esclude però che la loro sinagoga esistesse in ogni tempo. All’età degli Ottoni, gli Ebrei nelle solenni occasioni cantavano le laudi dell’Imperatore, come si rileva dal Rituale detto Graphia Aureae Romae: Dominator — hebraice, graece et latine fausta acclamantibus, Capitolium aureum conscendat.
560. Vita Leon. III, n. 372: Cunctae Scholae Peregrinorum, videlicet Francorum, Frisonum, Saxonum, atque Longobardorum. Non si contano tra essi i Greci e gli Israeliti.
561. Math. Westmonast. ad ann. 727 (p. 137 nell’edizione del 1601): Fecit in civitate domum, consensu, et voluntate Gregorii papae, quam scholam Anglorum appellari fecit — fecit — ecclesiam — in honorem b. virginis Mariae etc. Il Cronista narra all’anno 883, che Marino I, per preghiera di Alfredo, esentuò questa Schola dal tributo; lo stesso fece pure Giovanni XIX, nell’anno 1031.
562. Math. Westm. ad ann. 794: Dedit ibi — sigulos argenteos de familiis singulis. Egli stesso nella biografia di Willegod, abate di sant’Albano, narra della fondazione dello xenodochio di santo Spirito: Qua e schola propter peregrinorum confluxum ibidem solatia suscipientium, versa est in xenodochium, quod S. Spiritus dicitur. Ad quod exhibendum, Rex Offa — denarium, qui dicitur S. Petri — concessit. — Francesco Pagi, Brev., p. 330. — L’ordine del santo Spirito però appartiene soltanto al primo tempo del secolo decimoterzo. Il Severano, Le sette Chiese, p. 297, attribuisce erroneamente la chiesa di Santo Spirito ai Sassoni di Carlo, anzichè agli Anglosassoni.
563. Quae vocatur Schola Saxonum: Marini, Pap., n. XIII, dell’anno 854. Il Martyrol. Roman., in SS. Tryphone, Ruspicio et Nympha, dice: in Saxonia. Vedi il Baronio ad ann. 804. La chiesa di Ina era detta in origine: S. Dei Genetricis Mariae Schola Saxonum.
564. Il predicato deriva piuttosto dal quartiere degli Anglosassoni anzi che dai Sassoni tedeschi. Il Panciroli, Tesori ecc., p. 151, sostiene a torto differente opinione, dacchè egli faccia derivare quel nome dai Sassoni confinati a Roma da Carlo. Secondo gli Annal. Lauresham., ann. 799, Carlo avrebbe disperso i Sassoni per varie terre, ma non è fatto espresso cenno che una loro colonia si trapiantasse a Roma. Ad ogni modo prevalevano i Frisoni, dacchè la chiesa di san Michele, intorno all’anno 854, fu detta a causa di loro: Ecclesia S. Michaelis quae a schola Frisonorum; così nel Marini, Dipl. XIII.
565. Ivi esiste un’iscrizione che rimonta alla fine del secolo decimoterzo, la quale attribuisce la sua edificazione a Leone IV e a Carlo magno (che ivi erroneamente sono detti contemporanei). È più probabile che Leone IV, al tempo di Lodovico II, abbia edificato questa chiesa ad onore dei Frisoni, i quali trovarono la morte nell’anno 846, quando i Saraceni assalirono il Vaticano. Fu favoleggiato che sul Mons Palatiolus esistesse un palazzo di Nerone; ma questo Palatium Neronis senza dubbio non era altro che il circo Vaticano. Nella piccola chiesa mirabile, è sepolto il sassone Raffaele Mengs.
566. Ita est autem ipsa Eccla propter tradendi sepulturas pauperes et divites nobiles et innobiles quos de ultra montanis partibus venturi cernuntur. Così è detto in un diploma barbarico e apocrifo del secolo undecimo (nel Marini, n. LXXI). Il predicato in Macello, per certo erroneamente, vi fu dato a memoria dei Cristiani uccisi nei giardini di Nerone. Si vedono ancora avanzi di questa chiesa nella parte posteriore del palazzo dell’Inquisizione. Invece, in una bolla di Leone IX dell’anno 1053, ha nome di Ecclesia D. N. Salvatoris quae vocatur Francorum (Bullar. Vatican. I, 23 e 25).
567. Saxonum, Langobardorum domos ac porticum concremans: Anast., Vita Leonis IV, n. 505.
568. Il Severano, ecc., p. 294, dice che quella chiesa apparteneva ai Longobardi, e che in origine era detta di santo Giustino. Peraltro, secondo il Panvinio, De basil. Vatic., III, c. 14, una chiesa S. Justini in monte Saccorum, era stata destinata da Leone IV a sepoltura degli Italiani.
569. Cod. Carol. Ep. XXXVI, nel Cenni XV. La successiva lettera XVI, spiega il significato di omnis senatus: salutant vos et cunctus procerum senatus, atque diversi populi congregatio. Nella Ep. XXVI (nel Cenni XL), Paolo distingue: universi Episcopi: presbyteri etiam et cunctus — clericorum ordo, cui corrisponde: procerum optimatum et universi populi — congregatio. Di questi paralleli havvene molti. Adriano scrive (Ep. LIX, nel Cenni 354): Cum cuncto clero, senatu et universo nostro populo; ma anche (Ep. LXIII, 368): pro cunctis Episcopis, diversis sacerdotibus, senatu et universo — populo Francorum. Inoltre, p. 369: cum nostris episcopis, sacerdotibus, clero atque senatu, et universo nostro populo. Di qui può darsi la spiegazione di quel passo della Vita Adriani, n. 339, in cui è detto che il Papa consecrò Capracorum cum cuncto suo, senatuque Romano. Nel Chron. Moissiacen. Ann. 804 è detto: Seu senatu Francorum, necnon et Romanorum coronam — imposuit. Così di Senatori franchi si parla nella Vita Walae II, 561 (Mon. Germ. II,); nella Domus Carolingiae genealogia (Mon. Germ. II, 308). I poeti franchi usano spesso il titolo di Senato; così nel Carmen Frodoardi de Stephano II, (in Dom. Bouguet, V, 440): Tum Rex cum regni Satrapis claroque Senatu etc. — oppure in Ermoldus Nigellus III (Mon. Germ. II, 500): Regibus et Francis coram, cunctoque senatu.
570. Vedremo che in un’occasione importante, in cui per certo il Senato avrebbe fatto mostra di sè ove avesse esistito, e cioè nella elezione di Carlo a imperatore, non si fa cenno di esso. Dove nelle Croniche se ne fa parola, ha significazione identica del Senatus Francorum. Così la Cronica di Farfa (Muratori II, Script., p. 2, 641) dice: Carolum coronavit — et una cum omni Senatu Romano imperium illi per omnia confirmavit.
571. La incertezza a questo subbietto è grande. Il Savigny che sostiene aver continuato le Curie antiche a durare, trova probabile «che quei Consoli altro non fossero che Decurioni» (Dir. Rom. I, 369); in pari tempo egli li distingue anche dal Senato, ed afferma che questo era un collegio che volgeva sue cure alla sola amministrazione della Città, e dal grembo del quale uscivano i giudici della Città e del territorio; egli opina che il Senato si conservasse ancora, ombra dell’antico Senato dell’Impero, e pretendesse a dignità illustre (p. 378). — Similmente afferma il Leo (Storia d’Italia, I, 191) che i Decurioni adesso si appellassero Consoli e costituissero un collegio (Consulare), che attendeva al governo delle proprietà civiche e all’amministrazione della giustizia civile e criminale sui cittadini. Il Papencordt (p. 115) dice: «A capo del reggimento stava ognora il Senato, i cui presidî, nel grado del loro officio, avevano nome di Consoli. Senatus e Senator sono adesso espressioni che significano Curia e Decurioni.» Fu merito di Carlo Hegel di avere con grande chiarezza confutato tutte queste opinioni; peraltro anche questo profondo erudito non giunge che a risultamenti negativi, e lascia nell’indeterminatezza le forme dell’amministrazione cittadina. La incertezza nel Savigny si accresce per ciò che egli accoppia alla rinfusa i secoli, fino al duodecimo. Io escludo da queste considerazioni tutto ciò che esce fuori del secolo ottavo.
572. Vita Gregorii III, n. 192, al Sinodo del 732, dice: Cum cuncto clero, nobilibus etiam consulibus, et reliquis Christianis plebibus astantibus decrevit. Nella Vita Agathonis, n. 142, la nobiltà a Bisanzio si denota così: Patricii, hypati, omnesque inclyti. Se i Consoli avessero formato in Roma un collegio cittadino, sarebbero stati menzionati nella lettera di Stefano II a Pipino (nel Cenni VIII). — Al tempo di Gregorio II si nomina ancora in Roma perfino un Ex-console Stefano (Collect. Deusdedit, p. 12); e questo è una meravigliosa reliquia del Consolato onorario.
573. Per il secolo ottavo trovasi nella Vita Hadr., n. 333: Consul et dux Leoninus; Theodatus consul et dux, ibid., n. 291. Così: Theodorus dux et consul (Cod. Carol., nel Cenni, pag. 353, 356, 385). Nel secolo nono ne occorre spesso citazione nei diplomi di Farfa e di Subiaco.
574. Se intorno all’anno 828, compare un Johannes in Dei nomine consul et tabellio urbis (istromento di Subiaco nel Coppi, Discorso sul consiglio e Senato ecc., p. 12), non si può dubitare che, di già nel secolo ottavo, Consoli si chiamassero i tabellioni o notai. Per i secoli nono e decimo, haccene una lunga serie nel Galletti, Del Primicerio ecc.
575. Nella schola militiae, ossia nel florentissimus atque felicissimus Romanus exercitus, dopo il settimo secolo può espressamente cercarsi la base anche politica della costituzione municipale romana. In tempo assai posteriore ci si para innanzi una mirabile analogia. Dopo l’anno 1356 i Romani costituirono una società di difesa: felix societas balestrariorum et pavesatorum; e i suoi capi, i banderenses, sedettero nel supremo consiglio di governo della Città (vedi il vol. VI di questa Storia). — Se la città di Roma nel secolo ottavo non fosse ricoperta di una tenebra impenetrabile, ben potremmo scorgervi che i suoi Numeri, ossiano reggimenti della milizia, a somiglianza di quello che avveniva in Ravenna, erano ripartiti per regioni, e che l’ordinamento militare, al paro del municipale, si associava allo scompartimento territoriale della Città.
576. Ho già espressa l’ipotesi che i beni del publicus numerus seu bando in quest’età avessero la significazione di beni comunali. Che la Città ne possedesse si pare da un passo nella Vita Adriani (n. 326, 355), in cui il patrimonio civico è distinto da quello pontificio: Totas civitates Tusciae, quamque Campaniae congregans, unacum populo Romano, ejusque suburbanis, nec non et toto Ecclesiastico patrimonio (precisamente si tratta dell’opera imposta pella ricostruzione delle mura della Città).
577. Galletti, del Primicer., p. 179, 186, 190, 192, 198. Il primo Chartularius et magister censi urb. Rom., è dell’anno 822, giusta un istromento di Subiaco. — Il Bethmann-Hollwegg, che afferma la continuazione del Senato, vuol ravvisare in quell’officiale il preside della sua cancelleria. — Il Galletti opina che fosse un officiale del Comune, il quale teneva i conti dei pagamenti che facevano i Romani nello scrigno comunale, e lo dichiara Archivista della Città. Anche il titolo di exmemorialis gli spetta come a custode dell’Archivio: alcuni documenti di santa Maria in Trastevere dell’anno 879 (nel Galletti p. 192 e nel Marini, n. 136) sono sottoscritti da Stefanus Scriniarius Memoriali hujus Rome, ma nel testo ei si appella in Dei nomine consul ex Memorialis urbis Rome. — Un tabellione o notaio della Città si sottoscrive nel Marini, n. 93 (secolo sesto o settimo) coll’indicazione della sua residenza, ed è cosa meritevole di nota: Ego Theudosius vh. Tabell. urbis Rom. habens stationem in porticum de Subora reg. quarta.
578. In Anast., Vita Hadr. n. 302, si trova un Chartularius mandato a Ravenna dal Papa: Anualdi Chartularii tunc ibi existentis civis Romani; miglior lezione è: civitatis Romanae. I Chartularii, che in Oriente erano in grandissimo onore ed erano fregiati dell’anello d’oro, fungevano spesso anche in Roma le veci di giudici pontificî, sebbene di loro istituto fossero Chartophylaces, ossiano custodi degli istromenti publici. Vedi il Baronio, Annal. VIII, p. 26.
579. I Judices dativi, giudici eletti dall’alto, trovansi in Roma soltanto nel secolo decimo, ed è perciò che io non devo qui prenderli in riguardo.
580. Vedi il frammento: Judicum alii sunt Palatini etc., in una descrizione del Laterano, attribuita a Giovanni Diacono (nel secolo duodecimo), edita per la prima volta dal Mabillon, Mus. Ital., II, 570, indi più completamente dal Blume, Mus. Ren. di Giurispr., V, p. 129 (da un codice Vaticano), ed anche dal Giesebrecht sulla fine del vol. I della Storia dell’Impero tedesco. — Non v’ha alcun dubbio che anche questa notizia appartiene al tempo di Ottone III. — Del Primicerio tratta la nota opera del Galletti (Del Primicerio), dov’egli parla anche degli altri giudici del Palazzo, ordinandoli cronologicamente. Il primo dei Primicerî ivi citati per nome è Surgenzio in sul 544, il primo Secondicerio è Mena intorno all’anno 536. — Nel secolo duodecimo esisteva in Roma una chiesa di santa Maria del Secondicerio.
581. Così è detto di Teodato, Consul et Dux, nella iscrizione esistente in sant’Angelo in Pescaria, e di Eustazio duce, nella iscrizione in santa Maria in Cosmedin.
582. Tertius est Arcarius qui praeest tributis. Quartus Saccellarius qui stipendia erogat militibus, et Romae sabbato scrutiniorum dat eleemosynam etc. Dal frammento più sopra citato. — Saccus era appellato il Thesaurus fisci; Saccellarius il distributore del denaro che l’Arcarius conservava nell’Arca: Galletti, p. 124.
583. Quintus est Protoscriniarius, qui praeest scriniariis quos Tabelliones vocamus: ibid.
584. Sextus primus defensor, qui praeest defensoribus, quos advocatos nominamus.
585. Septimus adminiculator, intercedens pro pupillis et viduis, pro afflictis et captivis.
586. Il frammento contiene una importante notizia sulla giurisdizione dei Judices palatini e dei Judices consulares et pedanei: ad essa avrò occasione di riferirmi in appresso. — Suppone il Niebuhr che il numero sette dei Judices abbia servito di esemplare ai posteriori sette Cardinali vescovi ed ai Principi elettori tedeschi (Savigny, I, 381, e Descriz. della Città, I, 225).
587. In un diploma dell’anno 857, Pipino si sottoscrive Consul et Dux, atque Vestiarius, accumulazione di titoli degna di osservazione (Galletti, del Vestarario, p. 38 e Vendetini, ecc., p. 36). Di quest’officio trattano amplamente il Galletti (del Vestarario, Roma, 1758) e il Cancellieri (de Secretariis, t. I, part. 3, c. 5). Il titolo si attribuiva perfino alle mogli degli officiali; nel Galletti (p. 46) si parla di una Theodora vesterarissa. — L’officio si estinse nel secolo undecimo.
588. La bolla è contenuta nell’Exc. Chron. Farf., nel Muratori, II, p. 2, 346, e nel Galletti, del Vestarario, pag. 25 sgg.
589. Paulus Afiarta cubicularius et superista: Anast., n. 294 — e Gratianum eminentissimum magistrum militum, et Romani palatii egregium superistam ac Consiliarium: Anast. n. 554. Sembra che più tardi il Superista fosse considerato primo degli ottimati laicali. Vedi il Galletti, del Primic., p. 18, e per il secolo nono anche alcuni passi nel Papencordt, p. 147.
590. Il Giesebrecht, ecc., p. 805, ed altri reputano che soltanto i sette ministri fossero Judices de clero, ma, nella estensione di questo concetto e nella giurisdizione effettiva dei parecchi officiali, ad esempio, del Vestiarius, questa opinione è ad ogni modo erronea. Adriano una volta appella questi officiali di palazzo addirittura servitia nostra (così nella inquisizione dell’abate Potho, Cod. Carol., 72, nel Cenni 78).
591. In un istromento di Farfa è fatta menzione di un Numerus Centumcellarum dell’anno 769: Frangipani, Istoria dell’antichissima città di Civitavecchia, Roma, 1761, n. XII.
592. Su questo argomento è degno di nota quanto è detto nel Cod. Carol. LIV; nel Cenni LI: Nam praenominatas civitates — Emiliae — detinens, ibidem actores, quos voluit, constituit, et nostros, quos ibidem ordinavimus, projicere visus est. Inoltre: Noster praedecessor cunctas actiones ejusdem Exarchatus — distribuebat, et omnes actores ab hac Romana urbe praecepta earundem actionum accipiebat (cioè a dire i loro diplomi). — Ep. LXXXVII; nel Cenni p. 472: petimus ut per comites vestros (i Franchi), qui in Italia sunt actores etc.
593. Nella lettera medesima: Nam et judices ad faciendas justitias omnibus vim patientibus — direxit, Philippum videlicet illo in tempore presbyterum, simulque et Eustachium quondam ducem. — Il quondam si riferisce al tempo di lui che scriveva, non dell’officiale.
594. Carlo Hegel (I, 212, 213) ha confutato l’opinione del Savigny, che i Duces esercitassero soltanto giurisdizione militare; e lo fece riportando il passo di una lettera di Leone III, dell’anno 808 (Monum. del Cenni, II, ep. 5): Solebat dux, qui a nobis erat constitutus per distractionem causarum tollere et nobis more solito annue tribuere — unde ipsi Duces minime possunt suffragium nobis plenissime praesentare. Durava pertanto tuttavia il mercato degli officî, perocchè suffragium fosse il denaro occorrente per ingredire in carica.
595. A quest’argomento il Muratori dedica un’intiera dissertazione: Antiq. Med. Aevi, I, V, De ducibus atque principus antiquis Italiae. Egli non potè raccogliere tutto il grande numero dei Duces.
596. Negli Atti del Concilio dell’anno 769 si narra che, dopo l’usurpazione del pseudopapa Costantino, fu assassinato Gregorio duce. Lo si chiama habitator provinciae Campaniae, locchè è una formula consueta nei documenti del tempo posteriore; ad esempio: a. 1012: Roffredo Consul et Dux Campaniae, habitator civitatis Verulanae. — Credo di non errare, se affermo che quel Gregorio fosse Duce pontificio nella Campania. L’officio di Consul et Dux si trasmutò indi in quello di Comes Campaniae.
597. Nella Città sono nominati quai Duces: Teodato, Eustazio, Grazioso uccisore di Toto, Giovanni fratello di Stefano (Vita Hadr., n. 297), Teodoro nepote di Adriano, Crescenzio e Adriano delegati per Benevento (Cod. Carol., ep. 92; nel Cenni p. 496); finalmente Costantino e Paolo (Cod. Carol., ep. 94; nel Cenni, p. 501). Accusati innanzi a Carlo, questi ultimi sono a lui raccomandati dal Papa come duces nostri vestrique, e fideles erga B. Petri Apostolorum principis vestri, nostrique servitium.
598. Nei registri delle fittanze di Gregorio II trovansi parecchi Tribuni che sembrano appartenere alla Campania o alla Tuscia, e, una volta, si trova il titolo attribuito ad una femmina: Studiosae Tribunae seu Petro jugalibus (Collect. Deusd., p. 10). Nei documenti del secolo ottavo, non comparisce l’associazione di Consul et tribunus, come avviene più tardi. — Trovammo Gracilis tribuno in Alatri, e Leonato in Anagni: Vita Hadr., n. 297; Vita Stephani, n. 273. — Nel Cod. Carol., ep. LIV, nel Cenni p. 335, si nomina fra le città dell’Emilia un Tribunatus decimus, locchè dimostra che in alcuni distretti il governo era affidato a Tribuni.
599. Dominicum — comitem constituimus in quandam brevissimam civitatem Gabellensem, praeceptum ejus civitatis (ossia investitura dell’officio) illi tribuentes. Potrebbe pertanto paragonarsi ad un gastaldo. Cod. Carol. LI, nel Cenni LIV.
600. Anast. Vita Hadr., n. 333: alias sex uncias a Petro Comite etc. E nella Collect. Deusd., p. 11: Anastasius, Philicarius Comites, ai quali erano locati dei fundi.
601. In questo riassunto io seguo la Tabula Chorographica di Giov. Barretta, che è pur sempre il miglior lavoro in tale argomento. La Geographia Sacra di Carolo a san Paulo cum notis Lucae Holstenii, Amsteld. 1704, nel complesso chiarisce poco, e l’Italia Sacra dell’Ughelli, al paro dell’Italia Ant. del Cluver, giova assai più per notizia di singole città, di quello che per la determinazione dei confini dei paesi.
602. La via Aurelia, al di là di Centumcellae, fu diseppellita in quei secoli. Da essa l’Anonimo di Ravenna (circa nel secolo settimo) determina quasi tutta la Toscana; n. XXXVI: Item juxta Romam, Via Aurelia etc. — Per la prima volta trovo Via Flaminea quae vocatur Campana in un documento dell’archivio di santa Maria in Trastevere: è dell’anno 879, n. 136 nel Marini.
603. Il diploma di Lodovico il Pio enumera nelle Tusciae partibus: Portum, Centumcellae, Caere, Bleda, Marturanum, Sutrium, Nepe, Cast. Gallisem, Hortam, Polimartium; e vi aggiunge quattro città, poste al di là del Tevere, ch’erano Ameria, Todi, Narnia ed Otriculum: per ragione di territorio esse appartenevano all’Umbria ed alla Sabina. Inoltre il diploma specifica: Perusia cum tribus insulis suis, id est majorem et minorem Pulvensim.
604. Agli Atti del Concilio del 769 apponevano loro sottoscrizioni Pietro di Caere, Maurino di Poli Martium, Leone di Castellum (Civita Castellana, oppure Castellum Amerinum, ovverossia Gallesii?), Adone di Horta, il Vescovo di Centumcellae, Bono di Marturianum, Gregorio di Silva Candida, Potho di Nepi e Cidonato di Porto.
605. Così dichiara anche Paolo Diacono, De gest. Langob. II, c. 17. — Camillo Peregrino, Antiq. Capuae, p. 77, e, accedendo a lui, Domenico Georgio, De antiq. Italiae metropolibus (Roma 1722), c. VII, 88, opinano che, dopo il tempo di Gregorio I, la Campania fosse distinta in Romana e in Capuana: la prima, dalla Città si stendeva fino a Terracina, la seconda aveva Capua da città capitale. Certo è per lo meno, che nel secolo ottavo il Lazio antico teneva nome di Campania.
606. Il libro dei pellegrini, che è posto in fine delle Opere di Alcuino, dice: per la via Appia pervenitur ad Albanam civitatem.
607. Allorquando l’Anon. Ravenn. enumera: Circellis, Turres Albas, Clostris, Asturas, Antium, Lavinium, Ostia Tiberina, egli attinge ai Geografi antichi, ed è quanto concede quella sua età; parimenti quando egli nomina Stabium, Samum, Pompeji, Oplontis, Herculanum. Anzio tuttavia durava colla sua chiesa maggiore di santo Ermete; e della mirabile Astura trovasi discorso di bel nuovo in un diploma del secolo decimo, nel Nerini, app. 382.
608. Procopius, de Bell. Goth. I, 15; μεθ’ οὓς Καμπανοὶ ἄχρι ἵς ταρακήνην πόλιν οἰχοῦσιν, οὓς δὴ οἱ Ῥώμης ὅροι ἐκδέχονται.
609. Il silenzio mantenuto per quelle terre fece meravigliare anzi tutti il Borgia, Breve Istoria ecc. p. 288 sgg. Egli crede che il Ducato romano abbia compreso la Campagna odierna, non la Marittima; ed in ciò sembra che la sua opinione sia suffragata dal fatto della donazione di Norma e di Ninfa. Però il diploma di Lodovico non enumera neppure Ostia, che per fermo apparteneva al Ducato. Nel Concilio dell’anno 769 sono nominati Eustazio di Albano e Pino di Tres Tabernae, il cui vescovato Gregorio I in antico aveva riunito con quello di Velletri; inoltre v’entra Bonifacio vescovo di Privernum nelle montagne dei Volsci: tuttavolta non si parla nè di Cora, nè di Sulmo (Sermoneta), nè di Setia.
610. Laonde nel Dipl. Ludovici Pii: In partibus Campaniae Signiam, Anagniam, Ferentinum, Alatrum, Patricum, Frisilinam (Frosinone) cum omnibus finibus Campaniae.
611. Il testo originale, coll’esattezza richiesta dal tempo in cui era edito (anno 1869), qui aggiunge: «... dove attualmente, presso Ceperano, è il confine dello Stato della Chiesa...» Nella traduzione ommettiamo questo periodo, poichè avventuratamente al di d’oggi non vi sono più frontiere che scindano le terre italiane una dall’altra. (Nota del Trad.)
612. Nell’anno 769 apponevano loro sottoscrizioni i vescovi Sergio di Ferentinum, Giordano di Signia, Nirgozio di Anagnia, un innominato di Alatri.
613. Potrebbesi accogliere col Barretta che la frontiera fosse costituita dal fiume Melfi al di là del Liri; ma non è che un’ipotesi.
614. Il Fatteschi, Memorie ecc., p. 130, 131, afferma che la vera Sabina «non Romana, ma Longobardica» incominciava al fiume Allia. Di Cures, un tempo città capitale dei Sabini, è fatta ancor menzione da Gregorio, Ep. 20, lib. II (in Curium sabinorum territorio); già fin d’allora era decaduta così, che egli ne riuniva il vescovato con quello di Nomentum. Oggidì capoluogo della Sabina è Malliano (Manlianum); la Sabina che è la ricchissima delle diocesi, comprende cinquanta terre borgate che sono enumerate dall’Ughelli, I, 156.
615. Barretta, n. 110; Eschinardi, dell’Agro Romano, pagina 229; Ughelli, Ital. Sac. I, p. 154 segg. L’accurato Fatteschi, Memorie dei Duchi di Spoleto descrisse la Sabina p. 127, 159. La Sabina sacra dello Sperandio in complesso mi offerse poco aiuto.
616. Eginardo vide scorrere le lacrime di Carlo: sic flevit, ut filium aut si fratrem amisisset carissimum (Vita Karoli M., c. 19). — Gli Annal. Lauresham. ad ann. 795 dicono: Postquam a planctu cessavit — epitaffium aureis literis in marmore conscriptum jussit in Francia fieri, ut eum partibus Romae transmitteret ad sepulturam summi pontificis Adriani ornandam.
617. Annal. Laurissens. ad ann. 796: Leo mox, ut in locum ejus successit, misit legatos cum muneribus ad regem, claves etiam confessionis S. Petri, et vexillum Romanae urbis eidem direxit. Parimenti il Reginon. Chron. (ad ann. 796), che copiò da quegli Annali; così gli Annal. Einhardi ed il Poeta Saxo che li tradusse in verso. — Annal. Bertiniani; Tiliani ad ann. 796.
618. Rogavit ut aliquem de suis optimatibus Romam mitteret, qui populum Romanum ad suam fidem atque subjectionem per sacramenta firmaret: Annal. Einhardi.
619. Ep. ad Leonem Papam apud Alcuin. Ed. Froben II, pars. 2, App. 559: illique omnia injunximus, quae vel nobis voluntaria, vel vobis necessaria esse videbantur, ut ex collatione mutua conferatis, quidquid ad exaltationem S. Dei Ecclesiae, vel ad stabilitatem honoris vestri, vel Patriciatus nostri firmitatem necessarium intelligeretis... vestrum est, s. Pater, elevatis ad Deum cum Moyse manibus nostram adjuvare militiam. — Mi tolsi licenza di significare l’idea della Militia col concetto di «cavalleria» che venne in uso più tardi, ma che tuttavolta vi si acconcia ottimamente. Si noti che è discorso soltanto dell’honor del Pontefice; ma honor non ha qui un senso astratto, sibbene, come nella lingua feudale del posteriore medio evo, denota un diritto positivo.
620. Per verità gli Annal. Laurissens. ad ann. 800, dicono: qui benedictionis causa claves sepulcri dominici ac loci calvariae, claves etiam civitatis et montis cum vexillo detulerunt (oppure, secondo il Chronic. Moissiacense ad ann. 801: et montis Sion cum vexillo crucis); ma l’Einhardo, loro compilatore e continuatore, nulla dice delle chiavi «anche della Città,» e parla soltanto di quelle del sepolcro e del monte Calvario. — Nel secolo decimoquarto Mattia di Westminster (Flores Historiar. — de reb. Britann. ad ann. 801) narrava che il Patriarca di Gerusalemme aveva mandato a Carlo un vessillo d’argento e le chiavi dei luoghi santi (claves locorum sanctissimorum dominicae resurrectionis). Eginardo, Vita Carol. c. 16, dice di Harun soltanto, che egli Carolo sacrum illum et salutarem locum, ut illius potestati adscriberetur, concessit.
621. Io rifiuto l’opinione del Le Cointe (Annal. Eccl. Francor. ann. 796, n. 11), il quale crede che queste chiavi fossero gli amuleti costumati in antico; convengo invece coll’Alemanni (De Lateran. parietinis, c. 14, p. 95), il quale dice: Sed quibus templi Vaticani aptabantur fores, vel quibus Petri monumenti adyta et penetralia servabantur. Che questa fosse la mente di quel tempo ce ne ammoniscono i versi di Teodolfo di Orleans (Dom. Bouquet, V, 421): egli dice a re Carlo:
Coeli habet hic (sc. Petrus) claves, proprias te jussit habere,
Tu regis Ecclesiae, nam regit ille poli,
Tu regis ejus opes, clerum, populumque gubernas.
E i versi dei Poeta Saxo del nono secolo (vers. 4, 5, ann. 796), dicono:
Confestim claves, quibus est confessio sancti
Conservata Petri, vexillaque miserat urbis
Romuleae.
L’Alemanni avrebbe potuto giustificare splendidamente la sua idea con questi documenti. — I Vescovi franchi, già fin d’allora, senza più consideravano Carlo come capo e reggitore di tutta la Chiesa, e di lui il Papa era suddito.
622. Pagi, Critic. ann. 796, n. IV e ann. 740, n. XI.
623. Il Pagi appella la bandiera col nome di vexillum s. Petri oppure Ecclesiae, e l’Alemanni non dice soltanto vexillum urbis, ma anche patriciatus.
624. De Marca, De Concordia etc. I, c. XII, n. 4: Patricii nomen duo quaedam complectebantur, et jurisdictionem qua Reges in urbe ex consensu Pontificis et populi Romani potiebantur, et protectionem seu defensionem quam Romanae Ecclesiae polliciti erant: e lo segue il Pagi, anno 740, n. VIII. — Il Le Cointe s’industria di sostenere la sua opinione, che Roma fino al tempo di Leone III avesse ancora obbedito all’Imperatore greco, e pertanto nel patriziato di Carlo nulla vede fuor della protectio (Annal. Eccl. Francor., anno 754, n. 57; anno 796, n. 15). — L’Alemanni vuol ravvisare nel Patricius soltanto il Defensor e il filius adoptivus (De Lateran. parietin., p. 64).
625. Prima di adesso egli si sottoscriveva: Carolus gratia Dei Rex Francorum, vir inluster. Vedi il Mabillon, De re diplom., c. II, 3, p. 73, e i Diplomata Caroli Magni in Dom. Bouquet, V.
626. Eginhard. Vita, c. 23: Romae semel, Adriano pontifice petente, et iterum Leone successore ejus supplicante, longa tunica et clamide amictus, calceis quoque Romano more formatis utebatur. — Il Mabillon (Supplem. de re diplom. c. IX, III, 39) dà la dipintura di Carlo da patrizio, traendola da un codice antico di Paolo Petavio.
627. Quest’è anche opinione del De Marca ecc., III, c. XI, n. 8: Fides illa et subjectio populi Romani jure patriciatus debebatur Carolo; quam novis sacramentis adhibitis confirmari Leo cupiebat.
628. Il concetto di «Stato della Chiesa» nel suo senso fondamentale non si acconcia in verun modo alle condizioni di quella età. Il Papa teneva in Roma i diritti di Dux (Ducatus), parimente come altri Vescovi conseguivano i diritti di Comes (Comitatus).
629. I musaici della tribuna di santa Susanna furono distrutti intorno al 1600, ma se ne conserva una copia. Le figure di Leone e di Carlo possono vedersi nell’Alemanni, de Lateran. pariet., p. 7, e nel Ciampini, Veter. Mon., II, tab. XLII. Peraltro, laddove l’Alemanni ombreggia il volto di Carlo soltanto di mustacchi, il Ciampini lo dipinge con faccia tutta piena di barba, e gli pone in capo una benda che termina in giglio. L’Ugonio vide il musaico; senza alcun fondamento egli attribuisce all’anno 800 l’età della sua costruzione.
630. Il disegno dei musaici di Ravenna è nel Ciampini, Veter. Mon. II, tab. XXII.
631. Anast. in Leone III, n. 367: Triclinium majus super omnia triclinia nomine suae magnitudinis decoratum. Leone III costrusse ancora nel Laterano un’altra sala da mangiare con undici tribune, e l’Alemanni la appella triclinium minus. Questo custode della Vaticana, editore della Historia arcana di Procopio che egli trasse alla luce, dedicò a quel primo triclinio la sua opera De Lateranensibus parietinis restitutis (Roma, 1625), edito nuovamente a Roma nel 1756 con un’appendice. Egli fu invitato a comporla dal cardinale Francesco Barberini, nipote di Urbano VIII, che fece restaurare la tribuna di Leone. Il disegno del celebre musaico si vede oggidì nella nicchia isolata della cappella S. Sanctorum, perocchè, dopo la caduta della tribuna, Benedetto XIV intorno al 1743, ne facesse ivi collocare una copia fedele, ricavata col sussidio di disegni esistenti nella Vaticana.
632. Euntes docete omnes gentes baptizantes eos in nomine Patris, et Filii et Spiritus sancti ecc., e Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis. Nel mezzo della tribuna, il nome di Leone si avvolge intorno al monogramma di Cristo.
633. Oggidì non v’ha alcuna scritta che denoti la figura del Papa. In questa dichiarazione io seguo l’Alemanni, e respingo l’opinione del Muratori (ad. ann. 798), il quale reputa la figura del Papa essere quella di san Pietro, e quella di Costantino rappresentare Costantino V. Ancor meno sostenibile è la sentenza dell’Assemanni (Excerpta de sacr. Imag., appendice all’Alemanni) che quivi fossero raffigurati Adriano e Carlo. L’Alemanni dimostra che la prima figura era quella di Silvestro, e il parallelismo lo manifesta chiaramente. Chi poi può credere che in questa età il Papa allogasse in un musaico del palazzo Lateranense il ritratto di un Imperatore bizantino? Il quadrato che incornicia la testa di Costantino, si spiega dal contrasto colla aureola di gloria, che cinge il capo a Silvestro, a meno che qui ed altrove non si voglia accoglierlo coll’Alemanni per il simbolo allegorico delle quattro virtù cardinali. Il Pagi spiega la lettera R, che è sopra Costantino, per Rex; altri, poco acconciamente, per Roma. Ben è la traduzione del Basileus che significa autocrazia.
634. Una moneta di Leone III, dal Baronio falsamente attribuita di già a Leone I, tiene da un lato la scritta: D. N. Leoni Pape, e sul rovescio il busto di san Pietro, colla chiave che gli scende sulla spalla. Ma su di essa si elevano dei dubbi, e non le è dato accoglimento nella più recente opera di Angelo Cinagli intitolata: Le Monete dei Papi descritte ecc. Fermo 1848. Del tempo carolino non v’hanno monete pontificie, fuor delle apocrife di Gregorio III e di papa Zaccaria. Le prime monete dei Papi che sieno giunte fino a noi, appartengono ad Adriano I, una delle quali porta ancor la leggenda: Victoria Dnn. Conob. — Vedasi l’opera del Cinagli, che è più completa dei lavori del Vignolio e del Fioravanti.
635. Riunisco qui queste importanti sentenze: Pauli (Diaconi) Gesta Episcop. Metens. (Mon. Germ. II, 265): Romanos praeterea, ipsamque urbem Romuleam, jam pridem ejus praesentiam desiderantem, quae aliquando mundi totius domina fuerat, et tum a Langobardis depressa gemebat, duris angustiis eximens, suis addidit sceptris. — L’Epitaph. Hildegardis reginae di Paolo (ibid.) dice:
Cumque vir armipotens sceptris juxisset avitis
Cigniferumque Padum Romuleumque Tybrim.
Il Chron. Moissiac. (Mon. Germ., I, 305) dice: Quia ipsam Romam matrem imperii tenebat, e, copiando da esso, la Vita S. Willehadi (II, 381), Annal. Lauresham. ad ann. 801: ut ipsum Carolum — regem Francorum, imperatorem nominare debuissent, qui ipsam Romam tenebat.
636. L’Alemanni cerca di dimostrare che i musaici sieno di tempo posteriore all’anno 800, e monumento così della restaurazione di Leone, come della Translatio imperii. Peraltro, io convengo col Pagi (ann. 796, n. VI), il quale dice, Carlo essere appellato Dominus nella sua condizione di patrizio per cui esercitava in Roma la giurisdizione. — Il De Marca ecc., de Concor., III, c. XI, si esprime parimenti che i musaici fossero monumento del Patriziato, ma afferma erroneamente che il consortium dominii durasse fino all’800, e perciò accoglie perfino l’idea di un consortium imperii. Nat. Alexand. (Hist. Eccl., dissert. 24, tom. IV), segue servilmente quelle opinioni, ed anche il Giannone, VI, c. 5, si fonda sul De Marca. Peraltro non è certo necessario di prenderla così a rigore col concetto di Dominus; Paolo I, già nell’anno 756, era appellato Dominus dai Romani, e gli Atti del Concilio del 799 hanno queste parole ad introduzione: Praecipiente gloriosissimo ac piissimo domino nostro Carolo.
637. Teodoro era Dux et Consul, e parecchie volte fu ambasciatore di Adriano: Cod. Carol., nel Cenni p. 353, 356, 359: Theodorum eminentissimum nostrum nepotem (di tal guisa incomincia in Roma il nepotismo); p. 385: Theodorum eminentissimum Consulem et Ducem, nostrumque nepotem; p. 358: Paschalem nostrum nepotem.
638. Certo è che furono massimamente i nepoti di Adriano ad eccitare la ribellione. Lo dice anche Theophanes, Chronogr., p. 399: οἱ ἐν τῇ Ῥώμῃ συγγενεῖς τοῦ μακαρίου πάπα Ἀδριανοῦ συγκινήσαντες τὸν λαόν ecc. Campulo nell’anno 754 era notaio della Chiesa; il Cenni reputa che egli fosse fratello di Pasquale (Cod. Carol., Ep. 78, alias 72, e Nota 5, ivi, pag. 427).
639. Vita Leonis, n. 368: Scindendo expoliantes eum, crudeliter oculos ei evellere, et ipsum, penitus coecare conati sunt. Nam lingua ejus praecisa est. — Annal. Lauresham., ann. 799: Romani — absciderunt linguam ejus, et voluerunt eruere oculos ejus. — Annal. Einhardi: Erutis oculis, ut aliquibus visum est, lingua quoque amputata etc. — Il poeta Angilberto dice con barocca eleganza:
Carnifices geminas traxerunt fronte fenestras,
Et celerem abscindunt lacerato corpore linguam.
(Monum. Germ., II, 400).
640. Alcuino (Ep. XIII ad Regem) si contenta di dire: Deus compescuit manus impias — volentes — lumen ejus estinguere; e il poeta Teodolfo (in Domenico Bouquet V, 421) esclama:
Reddita sunt? mirum est. Mirum est auferre nequisse.
Est tamen in dubio: hinc mirer, an inde magis.
Giovanni Diacono, Chron. Episcop. S. Neap. Eccl. del secolo nono (Muratori, I, 2, 312), dice: cum vellent oculos eruere — unus ei oculus paululum est laesus. Il Papa affermò la credenza di un miracolo; egli consecrò in san Pietro un arazzo habentem historiam caeci illuminati, et resurrectionem (Vita Leon., n. 379). Ancora in tardi tempi si rammemorava questo prodigio, e Mattia di Westminster narra perfino che la Madonna restituisse a papa Leone la mano che egli si era fatto troncare, poichè la aveva baciata una femmina, colla quale un tempo egli aveva avuto commercio.
641. Anast., n. 370, nomina Mauro Nepesino come uno dei capi oltre a Pasquale e a Campulo. Gli Annales Einhardi ad ann. 801, dicono: Hujus factionis fuere principes Paschalis nomenculator, et Campulus saccellarius, et multi alii Romanae Urbis habitatores nobiles. Parimenti gli Annal. Bertinian.
642. I messaggeri videro Roma da monte Mario:
Culmina jam cernunt Urbis procul ardua, Romae
Optatique vident legati a monte theatrum.
Il frammento del poema di Angilberto è nel Canisio, II, 474, nel Duchesne, II, p. 188, in Dom. Bouquet, V, p. 388, e nel Pertz, II, p. 393. È una delle migliori poesie del tempo dei Carolingi; la vena poetica di Angilberto è vivace più di quella di Alcuino.
643. Exoritur clamor, vox ardua pulsat Olympum.
644.
Aurea namque tument per mensas vasa falerno.
Rex Carolus simul et summus Leo praesul in orbe
Vescitur, atque bibunt pateris spumantia vina.
Post laetas epulas et dulcia pocula Bacchi
Multa pius magno Carolus dat dona Leoni.
La miscela di idee pagane coi concetti cristiani si ripetè quasi in tutte le epoche. Alcuino scrive (Ep. IX): Mitis ab aetherio clementer Christus olympo; nei poemi di Angilberto e di Teodolfo, Iddio è spesso chiamato Tonans, come all’età di Aratore. I Poeti di Carlo si appellavano Mopsus, Damoetas, Candidus, Flaccus, Corydon, Homerus, come se eglino avessero appartenuto all’Arcadia di Roma. Carlo stesso prendeva nome di David. Non v’ha maggior contrasto di quello che corre tra il Carlo dei libri cavallereschi e il Carlo della storia, dal quale procedette questa prima età di rinascimento.
645. Falsa adversus sanctissimum Pontificem imponere crimina, et post eum ad praedictum mittere Regem: Vita Leon. III, n. 372.
646. Alcuin. Op., Ep. XI, ad domnum Regem: Componatur pax cum populo nefando, si fieri potest. Reliquantur aliquantulum minae, ne obdurati fugiant: sed in spe retineantur, donec salubri consilio ad pacem revocentur. Tenendum est quod habetur, ne propter adquisitionem minoris, quod majus est amittatur. Servetur ovile proprium, ne lupus rapax devastet illud. Ita in alienis sudetur, ut in propriis damnum non patiatur. — Per propria significansi certamente i diritti di Carlo su Roma, gli aliena sono le cose di Sassonia, e cioè il territorio straniero del popolo sassone non peranco soggiogato. Lo ha dimostrato il Döllinger nello scritto: L’Impero di Carlo Magno e dei suoi successori (Annali storici di Monaco del 1865).
647. Il luogo ove avvenne l’accoglimento del Papa, fu subito innanzi a ponte Molle. Anast., n. 372: Tam Proceres clericorum cum omnibus clericis, quamque Optimates et Senatus, cunctaque Militia, et universus Populus Romanus — connexi ad pontem Milvium — susceperunt.
648. Nella inquisizione, condotta contro Potho abate di san Vincenzo sul Vulturno, che era reo di maestà, sedevano nel tribunale, fra altri, Possessore legato franco e arcivescovo, quattro Abati, Ildebrando duce di Spoleto, Teodoro duce nipote di Adriano, e gli officiali pontificî di palazzo, che erano il Bibliotecario, il Saccellario, e Campulo notaio, quel desso che ora era citato a giudizio: Cod. Carol., Ep. LXXII, nel Cenni LXXVIII.
649. Me fumo sordentia Turonorum tecta auratis Romanorum arcibus praeponere etc. Alcuin. Ep. XIII.
650. Questi versi degni di nota, che pronosticavano l’Imperatore, sono nel Poema CCLXXI, Oper. Alcuin., ed. Parigi, 1617:
Roma caput mundi, primi quoque culmen honoris,
In qua gazarum munera sancta latent.
Quae modo dirupto plangent sua viscera foetu,
Per te sanet saucia membra cito...
Talia compescat tua, rex, veneranda potestas,
Rectorem regni te Deus instituit...
Ipsa caput mundi spectat te Roma patronum
Cum patre et populo pacis amore pio...
Rector et Ecclesiae per te rex rite regatur,
Et te magnipotens dextra regat Domini.
Ut felix vivas lato regnator in orbe,
Proficiens facias cuncta Deo placita.
651. Annal. Lauriss. ad ann. 800: Occurrit ei pridie Leo papa et Romani cum eo apud Nomentum, duodecimo ab urbe lapide. Nomentum però era situato a quattordici miglia e mezzo fuor della porta. Questa antichissima terra latina portava dunque tuttavia il nome antico che si legge in Virgilio (Eneide VI, 773). Più tardi, nel medio evo, ebbe nome di Castrum Nomentanae, da cui derivò l’odierna Lamentana ossia Mentana. La piccola terra fu resa illustre dalla famiglia dei Crescenzi, che combatterono in Roma, campioni della libertà, contro il Papato e l’Impero. Dopo lunga età in cui difettò di storia, Nomentum ridivenne chiara negli annali dei giorni nostri, per la pugna sanguinosa che Garibaldi ivi diede, addì 3 del Novembre 1867, contro i Pontificî e i Francesi collegati, continuatore dell’antichissima lotta che fu combattuta contro quel potere temporale dei Papi, che ebbe Carlo magno a fondatore. Sto scrivendo questa pagina, in Roma, tre giorni dopo la battaglia di Mentana. Sono pur meravigliosi i raffronti di epoche lontane della storia, come sono queste del 23 di Novembre 800 e del 3 di Novembre 1867[652]!
652. L’illustre Autore attendeva nel 1867 alla revisione di questo Volume, e ne preparava la seconda edizione, che fu publicata nell’anno 1869 (N. del T.).
653. Vita Leonis in Anastas., n. 374.
654. Qui universi dixerunt: nos sedem Apostolicam, quae est caput omnium Dei Ecclesiarum, judicare non audemus. Nam ab ipsa nos omnes, et vicario suo judicamur, ipsa autem a nemine judicatur, quemadmodum et antiquitus mos fuit. Sed sicut ipse summus pontifex censuerit, canonice obediemus. Venerabilis vero praesul inquit: praedecessorum meorum pontificum vestigia sequor etc. Anastas., n. 374.
655. Gli Annal. Lauresham., ad ann. 800 (oppure i Lambeciani nel Muratori, II, 2) dicono: Et venerunt in praesentia qui ipsum apostolicum condemnare voluerunt, et cum cognovisset rex, quia non propter justitiam, sed per invidiam eum condemnare volebant etc. Il Biografo di Leone tace con avvertita intenzione; gli Annal. Lauriss. e quelli dell’Einhardo dicono: Postquam nullus probator criminum esse voluit (meglio si legga: potuit) — se criminibus purgavit.
656. Questa formula universale, tratta dall’Ordo Romanus, è nel Rasponius, De Basilica et Patriarch. Lateran., lib. IV, appendice all’Alemanni, p. 120; nel Sigonio; nel Baronio; nel Labbé ecc. Il fatto poi è narrato in Anast., n. 375, negli Annal. Lauriss. e in quelli di Einhardo, ad ann. 800. Gli Annal. Lauriss. minor. pongono la purificazione di Leone al giorno terzo innanzi il dì di Natale.
657. Anast. n. 374. ha soltanto: Tunc illos comprehendentes praedicti missi magni Regis, emiserunt in Franciam. Gli Annal. Lauriss., e quelli di Einhardo, pongono il giudizio in tempo posteriore all’incoronazione di Carlo, e dicono: Ut majestatis rei, capitis damnati sunt — exilio deportati sunt. La sentenza fu pronunciata sullo spirare dell’anno 799. I condannati si appellarono, furono sostenuti in custodia, e, dopo che il Papa prestò il giuramento di purgazione, furono mandati in bando. La breve scrittura: De imperatoria Potestate in urbe Roma (nel Pertz, V, 719) narra per verità altre cose di Carlo: uno die in campo Lateranensi fecit trecentos decollari; ma tutti i Cronisti tacciono di questa fola.
658. Quia jam tunc cessabat a parte Graecorum nomen imperatoris, et femineum imperium apud se habebant, tunc visum est et ipso apostolico Leoni...: Annal. Lauresham. ad ann. 801.
659. Lo dice espressamente Giovanni Diacono, Vita s. Athanasii (Murat., I, n. 2, p. 312): Hic autem fugiens ad Carolum Regem, spopondit ei, si de suis illum defenderet inimicis, Augustali eum diademate coronaret.
660. Oltre alla lettera accennata, si aggiunga anche la Ep. 103, p. 153, colla quale Alcuino trasmetteva a Carlo un codice della Bibbia in presente natalizio, accompagnandolo colle parole: ad splendorem Imperialis potentiae. Vedasi Fr. Lorentz, Vita di Alcuino, p. 235 sgg. Gli altri argomenti addotti dal Lorentz non sono assai validi; io attribuisco maggiore importanza alla presenza del figliuolo di Carlo, di quello che al dono natalizio. Secondo due diplomi degli anni 780 e 781, sarebbesi diggià attribuito a Carlo il titolo di Imperator prima ch’ei fosse tale; ma della genuinità di quelli, dubita il Muratori. Vedasi la Diplomatica Pontif. di Marino Marini, p. 50.
661. Lo dice espressamente l’imperatore Lodovico, nell’anno 871, nella sua lettera indiritta all’Imperatore greco Basilio: Nisi Romanorum Imperator essemus, utique nec Francorum. A Romanis enim hoc nomen et dignitatem assumsimus: Anon. Salernit. c. 102. Sempre affermarono i Romani che Carlo magno ricevette la corona dal Senato e dal popolo. Nel secolo undecimo il Cronista di Farfa scriveva: Carolum coronavit — et una cum omni senatu Romano imperium illi per omnia confirmavit (Mur. II, 2, p. 641). Nell’anno 1328, il Parlamento dei Romani proclamava: suas esse partes Imperium conferre, Pontificis autem consecrare, iisdem auspiciis: Carolum enim magnum tunc demum coronatum esse, postquam Populus Romanus eum imperare jussisset (Nicol. Burgundus, ad a. 1328).
662. La Vita Villehadi (Mon. Germ. II, 381) dice: Per electionem Romani populi; ed electio non è acclamatio. Vedasi il Chron. Moissiacense (ibid. I, 305). La frase: Omnes majores natu Romanor., sembra qui significare tutti gli abitatori della Città, abili a dar il voto. Il Lib. Pontif. dice con brevità: Ab omnib. constitutus est imperator Romanorum.
663. Vedi Eginardo, c. 28, e l’invitus Papa cogente del Poeta Saxo.
664. Vedasi l’opinione del Waitz, Storia della costituzione germanica, III, 175, e quella del Döllinger nell’accennata Dissertazione sull’Impero di Carlo Magno.
665. Carolo piissimo Augusto, a Deo coronato, magno, pacifico Imperatori, Vita et Victoria. Anastas. ed i Cronisti Ann. Lauresham. e Moissiac. — La prima incoronazione di un monarca, che siasi compiuta per mano di un Vescovo, fu quella dell’imperatore Leone il Trace, che avvenne per opera del Patriarca di Bisanzio, nell’anno 457.
666. Theophanes (Chronogr. 399) dice con maligna esagerazione che Carlo fu unto dal capo alle piante: χρίσας ἐλαίῳ ἀπὸ κεφαλῆς ἕως ποιῶν καὶ περιβαλών βασιλικὴν ἐσθῆτα καὶ στέφον. La Chronica Synopsis di Costantino Manasse (Dom. Bouquet V, 397) segue quella narrazione in alcuni versi, nei quali il Greco scismatico sembra deridere lo spreco dell’olio, perocchè i Bizantini ungessero i loro Imperatori soltanto nel capo:
Ἐκ κεφαλῆς μέχρι ποδῶν ἐλαίῳ τούτον χρίει;
Οὐκ οἶδα τίσι λογίσμοις ἤ ποίαις ἐπινοίαις.
667. A Pontifice more antiquorum Principum adoratus est: Chron. Moissiac.
668. La questione della traslazione dell’Impero è assai dibattuta. Il Baronio e il Bellarmino (De translatione imperii Romani adversus Illyricum) ne hanno affermato l’avvenimento a beneficio dell’autorità pontificia, laddove, contrariamente alle massime dei Canonisti, sorsero oppositori il Conrigius (De imperio Romano-Germanico), lo Sponheim (De ficta translatione imperii), il Goldast (De translatione Imperii Romani a Graecis ad Francos), ed altri. Ancor di recente il Döllinger, nella sua Dissertazione sull’Impero di Carlo Magno, dimostrò ad eccellenza la falsità del concetto della traslazione. Sopra di queste teorie vedasi anche James Bryce, the Holy Roman Empire, p. 120 segg. — Il Pütter, Specimen juris pudici et gentium Medii aevi, Goetting., 1784, p. 34, molto esattamente afferma che il rapporto di Carlo coll’Impero derivò da unione personale. Dall’errore, dic’egli, onde si affermò che il romano Impero fosse trasferito ai Franchi ed alla Germania, discese l’altro errore della monarchia mondiale dell’Impero: De dominio mundi, p. 164.
669.
Οὔτω μητρὸς καὶ θυγατρὸς μέσον ἐπέπτη σπάθη,
Διχάζουσα καί τέμνουσα μετὰ θυμοῦ ῥομφαία
Νεάνιν τὴν εὐπρόσωπον τῆν νεωτέραν Ῥώμην,
Ἐκ τῆς ῤυότης καὶ παλαῖας καὶ τριπεμπέλου Ῥώμης.
Constant. Manasse.
670. Il rinnovellamento dell’Impero è rappresentato in una bolla di piombo, sulla quale da una parte è il ritratto di Carlo colla scritta: Dominus Noster Karlus Pius Felix Perpetuus Augustus; sul rovescio è figurata una porta di città, fra due torri, con sopra una croce inalberata; sotto è scritto: Roma, ed intorno alla cornice: Renovatio Romani Imp. Trovasi nel Vignoli, Anast. Vita Leonis III, p. 254.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a pag. 593 sono state riportate nel testo.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.